Rassegna stampa 31 maggio

 

Giustizia: sicurezza per chi? e chi minaccia la sicurezza di chi?

di Mercedes Frias

 

Liberazione, 31 maggio 2008

 

Un’ondata xenofoba senza precedenti. Il razzismo esploso nelle sue manifestazioni più violente. Flebili reazioni. Provano a reagire i soliti, ancora frastornati dalla frana culturale resa evidente dalle urne. E la potenziale opposizione parlamentare sembra anestetizzata. Incapace di dire, di fare, di muoversi in direzione diversa e contraria di quella della maggioranza. Evidentemente tutto marcia come dovrebbe secondo il loro disegno, secondo le loro prospettive di società.

Balbettano ancora che la sinistra ha perso perché non ha capito il Paese, perché ha detto cose sbagliate sulla sicurezza. Colpisce però la miopia, la perseveranza nell’inseguire proclami sicuritari, che individuano nell’escluso il nemico, che fa diventare i dati un’opinione e la percezione pilotata l’unica certezza sulla quale costruire proposte rassicuranti delle fobie collettive costruite in mancanza di risposte ai bisogni della gente, all’impoverimento dilagante.

Duecento prostitute di origine africana uccise nel pressoché totale silenzio negli ultimi tre anni in Italia sono un bell’esempio del razzismo e la violenza contro le donne, nella totale omertà dei media e l’inerzia della polizia. Donne, ragazzini, uomini che mettono in atto un vero e proprio pogrom contro altre donne, ragazzine, bambini, vecchi, uomini, colpevoli di appartenere all’etnia maledetta.

Una donna ridotta in schiavitù, ma era "solo una rumena". Rumena anonima, come anonima rimane l’italica aguzzina. Sì perché gli aggressori, anche se presunti, hanno nome, cognome e volto da sbattere in prima pagina, soltanto quando sono "altri"; un’altra anonima rumena violentata dal branco a Roma. Un barista asiatico aggredito da un branco di giovani neonazisti. Negozi di cittadini stranieri devastati dal solito branco. E poi, fermi e intimidazione di polizia a Firenze contro due giovani egiziane che passeggiavano in città, coperte con il velo integrale.

Estremisti di destra e cittadini qualunque che si sentono autorizzati a usare qualsiasi mezzo per colpire, punire, il nemico, la minaccia alla loro quiete, al "decoro" delle loro città. Autorizzati da una violenza politica che dà in pasto quotidianamente il capro espiatorio, sia ai razzisti di destra, sia agli esclusi nativi.

La destra xenofoba ha costruito il suo consenso in questi anni con l’esaltazione dell’individualismo, dell’identità costruita per differenza, attraverso una proposta politica etnocentrica, che costruisce e sottolinea i pregi "innati", naturali e superiori degli autoctoni, specie se del nord. A questa visione di sé, si rende indispensabile la costruzione del suo opposto, della minaccia a tanto benessere faticosamente guadagnato: il bersaglio naturalmente viene da oltre frontiera.

L’altro, altro da incarnare la radice di tutti i mali, perché non soltanto fa "concorrenza sleale" nelle mansione più squalificate perché costretto ad accettare condizioni più precarie, ma può anche trovare buona collocazione nelle graduatorie per le case popolari e negli asili nido; ma soprattutto, delinque, rende insicure le città, intimorisce le anziane signore.

Nulla importa quanto ci dicano i dati sull’andamento della criminalità e sulla reale partecipazione dei migranti come aggressori; loro ci rendono insicuri, loro. Complice il sistema dei media formidabili strumenti di amplificazione dei fatti di cronaca che vedono come autori gli stranieri. Non importa che in campi come le aggressioni sulle donne, gli stranieri siano il 3% degli autori, occupano l’80% dell’informazione.

In materia di politiche sull’immigrazione la destra ha sempre dettato l’agenda, imponendo un’idea, più o meno esplicita, che inchioda, fissa l’immagine dello straniero proveniente dai paesi impoveriti, a quello del delinquente. Il centrosinistra, spesso colpito dalla stessa cultura dell’idolatria campanilista della proprietà e del consumo, ha risposto "difendendo", separando, e via distinguendo fra migranti "buoni", regolari da integrare o meglio assimilare; e quelli cattivi, i cosiddetti clandestini.

Così facendo ha dato un notevole contributo a creare l’equazione clandestino = delinquente. Incurante dal fatto che la maggior parte dei migranti oggi regolari, sono stati clandestini o irregolari, sanati con l’unico strumento di regolarizzazione esistente in paese in cui è pressoché impossibile entrare legalmente.

La criminalizzazione dei migranti, specialmente se clandestini, paga dal punto di vista del consenso elettorale. Costruzione politica di nuovi criminali, individuati come causa di ogni male, induzione del senso di insicurezza, di paura; Il risultato è scontato. Alla luce degli ultimi episodio di aggressione di cui sono stati oggetti i migranti, occorre domandarsi, sicurezza per chi? Chi minaccia la sicurezza di chi?

La spedizione punitiva di un gruppo di giovani romani in un supermercato contro alcuni immigrati, alla vigilia dell’omicidio Reggiani, era l’avvisaglia di quanto può produrre l’uso politico di fatti di cronaca pur orrendi e condannabilissimi. Allora, il leader del Pd ha preteso e ottenuto una riunione del consiglio dei ministri di urgenza con derivante decreto legge, ma, dov’è oggi, dove sono i tanto zelanti custodi della sicurezza con il moltiplicarsi di atti di violenza, non soltanto da ascrivere alla delinquenza privata, ma di chiara matrice razzista e xenofoba? Tali episodi nella loro gravità sono una conseguenza logica del discorso razzista esasperato maggiormente durante la campagna elettorale e ulteriormente istituzionalizzato con le prime, prioritarie e urgentissime misure del governo: il pacchetto sicurezza.

Oltre le aggressioni fisiche, assistiamo ad un allentamento dei "freni" che circoscrivono certe pulsioni, insulti e aggressioni verbali di ogni tipo nei confronti di persone di aspetto esteriore diverso da quello della maggioranza, è la conseguenza della banalizzazione del razzismo, sia quello individuale, sia quello istituzionale.

Il governo di destra dal canto suo, coerente con il suo disegno, parte velocità all’attacco dei più elementari squarci di dignità degli esclusi. Far diventare reato un illecito amministrativo quale la presenza sul territorio nazionale senza titolo di soggiorno e la reclusione fino a 18 mesi per tale condizione nei luoghi di totale sospensione di ogni diritto sono, atti di vero e proprio razzismo di stato, a danni di chi la propria condizione ha reso fragile e indifeso. È il governo di destra, agendo fedele a quanto promesso, le timide dichiarazioni

Appare altresì evidente, che la discussione anche in ambito dell’Unione Europea sull’allungamento dei tempi di permanenza nei Cpt sia non soltanto espressione di disumanità colpevole, di eccesso di repressione e/o di incapacità di governare gli eventi, ma anche di una di una scelta "economica" data dall’indotto delle carceri?

In questo scenario, urge reagire, uscire dallo stordimento, fare opposizione, decostruire paradigmi; non sono certo le diatribe di potere ai vari livelli o i tentativi di aggregazione per sigle, ora che siamo attoniti e spappolati ad aiutarci a uscire dalla palude culturale, sociale e politica in cui ci troviamo. Siamo minuscole sacche di resistenza, il lavoro è di lunga durata, reagire è un imperativo non più rimandabile.

Giustizia: direttori carceri preoccupati per scelte del governo

 

Dire, 31 maggio 2008

 

"I dirigenti penitenziari esprimono forte preoccupazione per le scelte che il governo sta assumendo sul tema della sicurezza e dell’immigrazione clandestina". Questo è quanto affermano i direttori degli istituti penitenziari, degli Uffici di esecuzione penale esterna, degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che oggi si sono riuniti a Roma in una assemblea nazionale organizzata dalla Fp Cgil. Durante l’incontro hanno denunciato la grave situazione di sovraffollamento che già si riscontra in alcune fra le più significative realtà penitenziarie del Paese. "L’inarrestabile trend di nuovi ingressi nel sistema carcerario (circa mille unità al mese) - si legge nella nota - l’ampliamento del ricorso alla pena detentiva che l’esecutivo ha deciso nei suoi primi atti di governo, i devastanti effetti che il ddl sull’immigrazione clandestina avrà sul sistema penitenziario prefigurano un percorso molto pericoloso per la tenuta dell’intero sistema carcerario e per il Paese stesso".

"Fra qualche mese - si legge ancora nella nota - le carceri scoppieranno letteralmente e sarà impossibile governarle nel rispetto delle finalità che la Costituzione affida alla pena". A nulla serviranno allora le ripetute dichiarazioni di esponenti del Governo che offrono come soluzione a questo scenario ormai scontato la costruzione di nuove carceri (tutte ancora da finanziarie, da progettare). "Il governo, quindi, rifletta attentamente sugli effetti che avranno le scelte che si stanno assumendo e provi a orientare diversamente la propria azione - conclude la nota - a cominciare dalla riforma del codice penale ormai non più rinviabile.

Giustizia: Cei; Parlamento contemperi sicurezza e accoglienza

 

Dire, 31 maggio 2008

 

"Tutti noi speriamo che qualunque provvedimento il Parlamento prenderà faccia salvo il duplice orientamento della giusta sicurezza dei cittadini e di quella tradizione di accoglienza che caratterizza non solo la comunità cristiana, ma la storia del nostro popolo". Lo auspica, come riferisce il Sir, Angelo Bagnasco, a conclusione della 58a Assemblea generale dei vescovi italiani. Il presidente della Cei, inoltre, ribadisce l’appello lanciato in apertura dei lavori dell’assemblea: "Ciò che deve essere temporaneo - afferma riguardo agli Cpt ora Cie - non diventi troppo prolungato, e tantomeno permanente".

Giustizia: Ardita (Dap); in Italia tendenzialmente escono tutti

 

Il Giornale, 31 maggio 2008

 

Sebastiano Ardita è un osservatore istituzionale, suo malgrado, sul fronte dell’incertezza della pena. Ardita è infatti il direttore dell’area detenuti del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E conosce molto bene tutti i guasti della macchina. E mette subito in chiaro il suo pensiero: "In Italia tendenzialmente escono tutti".

 

Dottor Ardita, che significa tendenzialmente?

"La realtà è sotto gli occhi di tutti: tolta la grande criminalità organizzata, trattata con la necessaria durezza, gli altri, tutti gli altri, prima o poi escono".

 

Prima di aver scontato la pena?

"Prima, prima. Anzi, il più delle volte per il malfunzionamento del nostro sistema processuale, non arrivano nemmeno a scontare quella pena".

 

Da dove cominciano i guai?

"Dal nostro processo. Che unisce, anzi somma, le garanzie del vecchio sistema inquisitorio con quelle del processo accusatorio".

 

Risultato?

"La paralisi. O meglio, chi va in carcere viene letteralmente buttato fuori. Tre detenuti su quattro escono entro dieci giorni. E non per responsabilità dei giudici che si limitano ad applicare la legge. Ci sono infiniti strumenti di verifica, di analisi, di messa in discussione dell’operato dei magistrati".

 

Scusi, ma non c’è la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva?

"Sì, ma se la polizia raccoglie elementi contro qualcuno, questi elementi, difficilmente, molto difficilmente, tengono nella fase della custodia cautelare. Il sistema, frenato da numerosi sbarramenti, rimette quasi automaticamente in libertà il detenuto. Però non lo processa".

 

E che fa?

"A fronte di un numero sterminato di procedimenti, le sentenze arrivano, quando arrivano, a scoppio ritardato. Anni e anni dopo. La giustizia non colpisce in modo selettivo. Moltissimi faldoni finiscono in archivio, ogni tanto qualcuno viene pescato e condannato. Magari quando è una persona cambiata".

 

Comunque, a quel punto, dovrebbe stare in prigione.

"Sì, ma a quel punto entrano in gioco i benefici della legge Gozzini. E poi c’è l’indulto: di fatto, così com’è stato varato, senza le necessarie riforme di accompagnamento, è un regalo di tre anni".

 

Può fare un esempio?

"Semplice. Solo sommando l’indulto e la liberazione anticipata, che viene concessa quasi sempre, una pena di dieci anni si dimezza. Anzi, per essere fiscali, scende a 4 anni e mezzo".

 

Tutti fuori?

"Le misure previste dalla Gozzini sono un correttivo".

E che cosa dovrebbero correggere?

 

"Questo sistema che colpisce in modo random".

 

L’opinione pubblica è sconcertata…

"Purtroppo in Italia la pena è una formalità".

 

Liberi tutti?

"C’è il doppio binario: i mafiosi restano dentro, in linea generale, anche nella fase cautelare, li si processa in fretta".

 

E quando entrano in cella?

"C’è il 41 bis. Un regime particolarmente duro".

 

Gli altri?

"Il caso Franzoni insegna qualcosa sul piano generale".

 

Che cosa?

"La signora è entrata in carcere quasi sei anni e mezzo dopo i fatti. E subito sono cominciati i calcoli per stabilire quando uscirà. Le pare normale?"

 

Come rimediare?

"La Gozzini ha avuto anche effetti positivi: dà speranza ai detenuti virtuosi che non sono pochi; e poi è stata utilizzata in un sistema sovraffollato e arcaico come strumento "politico".

 

Per scongiurare le rivolte?

"Esatto. In ogni caso il cambiamento deve iniziare dal processo. Tre gradi di giudizio col rito accusatorio sono una follia. Il dibattimento deve arrivare subito. In questo senso, il decreto legge del governo che potenzia le direttissime, è un buon segnale. Ma, sia chiaro, da solo non basta".

Giustizia: Sidipe; un "uomo nuovo" per governare le carceri

 

Comunicato Sidipe, 31 maggio 2008

 

L’attuale grave situazione delle carceri italiane richiede forti ed urgenti segnali di cambiamento. Occorre riportare al centro dell’attenzione il tema della sicurezza penitenziaria che può realizzarsi, in primo luogo, rivalutando l’importanza della funzione di sorveglianza da parte della polizia penitenziaria, condizione indispensabile per poter avviare seri progetti di recupero delle persone detenute.

Siamo stanchi di registrare, invece, perfettamente il contrario e di constatare come si assecondino, con superficialità, proposte finalizzate a consentire il progressivo abbandono della funzione della sorveglianza all’interno delle carceri, così favorendo le organizzazioni criminali nel ricostruire le proprie fila. Soprattutto adesso, con l’estate che si avvicina, e che richiederebbe tante altre risorse umane, ben assiepate altrove.

Chiediamo perciò un urgente cambio di rotta, attraverso la designazione di un nuovo capo del Dipartimento e di un nuovo management, che sappiano riscrivere le priorità, riportando al centro dell’attenzione il carcere e tutto ciò che consenta di renderlo effettivamente sicuro, nonché presidio di legalità e recupero.

Il rispetto istituzionale, infatti, non può impedirci l’ovvia considerazione che l’attuale Capo del Dap, insieme pure agli attuali vertici dipartimentali di cui si avvale, costituiscono espressione di una sensibilità politica oggi minoranza nel Paese, divenuta tale proprio in ragione del modo diverso e non condiviso di approcciarsi ai problemi della sicurezza, così come risultano avvertiti dai cittadini.

L’auspicabile urgente cambio di gestione in questo delicato settore dello Stato, lungi dal costituire un potenziale rischio per la tenuta dell’ordinato svolgimento della vita all’interno delle strutture carcerarie, verrà, al contrario, percepito, dai Dirigenti Penitenziari di questa sigla, come un concreto segnale di reale attenzione del Ministro e dell’Esecutivo nei confronti del mondo penitenziario, e favorirà la buona politica al fine di rimodellarne il sistema, liberandolo da una criticità che non è di oggi.

 

Sindacato Dirigenti Penitenziari

Il Segretario Nazionale, dott. Enrico Sbriglia

Sardegna: Poretti (RI); 3 detenuti morti per botte in un mese

 

Ansa, 31 maggio 2008

 

Nelle carceri della Sardegna si registra un dato davvero inquietante: nel solo mese di maggio tre persone detenute, due italiani e una nigeriana, sono morte dopo essere state coinvolte in zuffe con altri detenuti. La responsabilità di tali pestaggi, due avvenuti nel carcere Buoncammino di Cagliari, uno in quello di Oristano, per il momento sarebbe attribuita a detenuti immigrati. Poco altro è stato diffuso a proposito delle inchieste aperte dalla magistratura che ancora attendono i risultati di autopsie e perizie necroscopiche per accertare le reali cause dei decessi.

Non si capisce come, in strutture con elevati livelli di sorveglianza come gli ambienti di detenzione, simili accadimenti possano verificarsi. Ci sembra urgente e necessario chiedere che le istituzioni facciano luce subito su una tale escalation di violenza in pochi giorni all’interno delle carceri. È un dato che, con l’aumento della popolazione detenuta, nuovamente in gran parte sovraffollate, si registra più in generale nell’intero territorio nazionale, ma che in Sardegna, dove anni fa scoppiò lo scandalo dei pestaggi nel carcere di San Sebastiano, assume un carattere ancora più sinistro. Col Sen. Marco Perduca nei prossimi giorni presenteremo un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia per chiedere l’avvio di un’indagine ministeriale sui casi avvenuti in Sardegna. Stiamo inoltre valutando di eseguire a breve delle visite nelle carceri della regione.

 

Donatella Poretti, Radicali Italiani

Sardegna: Caligaris (Psi); cure sanitarie per tossicodipendenti

 

Ansa, 31 maggio 2008

 

"Il passaggio alle aziende sanitarie locali della medicina penitenziaria comporta una serie di problemi relativi all’assistenza dei detenuti. In particolare rischia di determinare una sperequazione di trattamento per gli ammalati, specialmente per quelli che potrebbero accedere alle pene alternative in quanto tossicodipendenti con doppia diagnosi.

Bisogna infatti quantificare l’investimento che la Regione intende fare per garantire la collaborazione con le Comunità terapeutiche evitando logiche ragionieristiche improntate al risparmio". Lo sostiene la consigliera regionale socialista Maria Grazia Caligaris (Partito Socialista) con riferimento al definitivo passaggio avvenuto oggi con la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale del decreto.

"Le continue denunce - ha aggiunto Caligaris - sulle condizioni di salute dei detenuti richiedono quindi di porre mano immediatamente alle norme attuative del decreto con specifico riferimento al personale sanitario convenzionato e alle comunità terapeutiche ma impone di rendere al più presto fruibile il reparto per detenuti nell’ospedale "Santissima Trinità" a 15 anni di distanza dalla legge che ne ha sancito l’istituzione alleggerendo così anche il carico di lavoro degli agenti per le traduzioni e i piantonamenti".

"Occorre affrontare subito le criticità - ha sottolineato Caligaris - sollecitando inoltre il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a limitare i flussi di detenuti nelle carceri sarde e in particolare a Buoncammino dove si registra una presenza di 442 ristretti e un grave problema di insufficienza di Agenti di Polizia Penitenziaria. Il sovraffollamento della sezione femminile, dove ci sono prevalentemente immigrate con problemi di compatibilità ambientale, contrasta fortemente con l’inadeguato numero di agenti donne".

"Non si può infine ritenere che sia sufficiente trasferire la medicina penitenziaria alle Asl per renderla automaticamente vicina ai bisogni se non ci sono strumenti idonei per affrontare le questioni problematiche. Se il carcere non funziona - ha concluso l’esponente socialista - l’intera società rischia di andare il tilt perché il recupero di chi ha sbagliato non può avvenire esclusivamente con la punizione".

Campania: bufera su nomina Garante regionale dei detenuti

 

Il Mattino, 31 maggio 2008

 

Perplessità da parte delle associazioni "Antigone Campania", "Città invisibile" e dalla Federazione Città Sociale "per la scelta di Adriana Tocco come garante regionale delle carceri. Una nota congiunta di Samuele Ciambriello, presidente di Città invisibile, Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce di Antigone e Peppe Battaglia del dipartimento carceri della federazione Città sociale, avanza dubbi sulla scelta. Adriana Tocco, si dice, è stata scelta senza discussione in consiglio, grazie al potere sostitutivo esercitato dal presidente Lonardo e, secondo gli autori della nota, non avrebbe le caratteristiche richieste per il ruolo specifico.

Cosenza: si è impiccata in cella poliziotta arrestata per droga

 

Adnkronos, 31 maggio 2008

 

Si è suicidata in carcere Fabrizia Germanese, l’agente della polizia penitenziaria di 44 anni arrestata l’altro ieri sera dai colleghi della squadra mobile della Questura di Cosenza perché trovata in possesso di nove chilogrammi di eroina. La donna è stata trovata senza vita questa mattina dalle colleghe dell’istituto penitenziario femminile di Castrovillari. Già nei primi minuti dopo l’arresto Genovese aveva mostrato segni di fragilità, durante l’interrogatorio era scoppiata in un pianto a dirotto tentando di discolparsi. Proprio in virtù di ciò era stato predisposto un servizio di sorveglianza speciale ma è riuscita ad eludere i controlli e ad impiccarsi nella sua cella. Del caso si occupa il sostituto procuratore di Castrovillari Baldo Pisani.

 

Agente penitenziario in manette (Giornale di Calabria, 30 maggio 2008)

 

È una donna di 44 anni, Fabrizia Germanese, di Malito, nubile, appartenente alla Polizia penitenziaria, la persona arrestata dagli investigatori della Squadra Mobile di Cosenza che hanno sequestrato 9 kg di eroina. Da alcuni giorni gli agenti osservavano a distanza la donna, insospettiti dai suoi movimenti a bordo dell’auto con cui percorreva le strade provinciali a tutte le ore, anche in piena notte.

Giovedì, nei pressi della sua abitazione, quando l’hanno vista salire a bordo della sua auto, i poliziotti hanno deciso di fermarla. Durante il controllo un forte odore di benzina ha allarmato gli investigatori della Squadra Mobile che hanno deciso di portare la donna in Questura. I tecnici della polizia scientifica hanno perquisito attentamente l’auto trovando conferma ai loro sospetti. Il serbatoio dell’Audi scura era infatti interessato da una modifica effettuata per ricavare un secondo vano dove sono state riscontrate tracce di droga.

Si è deciso di raggiungere l’abitazione della donna dove, in una pertinenza, occultati in un borsone da viaggio c’erano 17 panetti di eroina purissima da 500 grammi ciascuno per un peso complessivo di poco meno di 9 kg. La donna in lacrime non è stata in grado di giustificare il rinvenimento né tanto meno la modifica all’auto, posta sotto sequestro.

La droga sequestrata è stata analizzata confermando una purezza in percentuali assai elevate. Proseguono ulteriori accertamenti anche attraverso la documentazione bancaria sequestrata durante la perquisizione, al fine di definire il canale di rifornimento dello stupefacente nonché il mercato di destinazione molto probabilmente esteso a Cosenza ed alla sua provincia. La donna attualmente si trova rinchiusa nel Carcere di Castrovillari a disposizione della Autorità giudiziaria.

Roma: detenuto di 40 anni si uccide col gas della bomboletta

 

Adnkronos, 31 maggio 2008

 

Un detenuto di 40 anni si è ucciso a Rebibbia respirando il gas di una bomboletta da campeggio. Lo rende noto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni spiegando che l’uomo, Massimo, era tossicodipendente ed era detenuto in una cella al reparto G 11 del carcere. È intervenuto il personale dell’infermeria, ma non c’è stato nulla da fare.

Firenze: dopo 20 anni, trascorsi in 54 carceri, cerca il riscatto

 

Corriere Fiorentino, 31 maggio 2008

 

Roberto Guadagnuolo, 46 anni, fiorentino, in attesa di un’udienza per la discussione di una misura alternativa alla detenzione dopo un anno di domiciliari, chiede una chance di vita, un lavoro e l’accoglienza della città.

Quasi vent’anni trascorsi dietro le sbarre, alcuni passati in isolamento, tra violenze subite e fatte, 54 spostamenti nelle carceri toscane e non, invalido all’80 per cento. Ora Roberto Guadagnuolo, 46 anni, fiorentino, in attesa di un’udienza per la discussione di una misura alternativa alla detenzione dopo un anno di domiciliari, chiede una chance di vita, un lavoro e l’accoglienza della città. Del suo caso si sono interessati il garante dei detenuti di Firenze Franco Corleone, il presidente dell’Associazione Michelucci Alessandro Margara, il presidente del consiglio comunale Eros Cruccolini e il vicepresidente Massimo Pieri.

Il primo arresto. Guadagnuolo è stato arrestato per la prima volta nel 1989, a 27 anni. Calciante del calcio storico fiorentino, ha accumulato negli anni alcune condanne per reati di resistenza a pubblico ufficiale, lesione, danneggiamenti di cose pubbliche, anche tentato omicidio (pena in questo caso espiata dal 2002).

Detenuto a Pisa dopo una condanna con provvedimento di cumulo nel 2006 con fine pena prevista nel 2011, nel maggio 2007 gli furono concessi i domiciliari per un anno per motivi di salute. Al momento, la misura è stata prorogata fino all’udienza di discussione della misura alternativa alla detenzione fissata il 24 luglio prossimo al Tribunale di Sorveglianza di Firenze. Tra l’altro, a maggio scorso, per un disguido burocratico, fu anche nuovamente arrestato per qualche ora, dato che le forze dell’ordine non erano a conoscenza della proroga, fatto per il quale il suo legale, l’avvocato Luca Cianferoni del foro di Firenze, ha presentato una denuncia-querela.

In cerca di riscatto. In attesa delle decisione del Tribunale di Sorveglianza, Guadagnuolo cerca un riscatto. Durante i domiciliari è stato seguito dai servizi sociali e dal Sert, si è sposato con Veronica e aveva anche trovato un lavoro, poi perso perché non aveva più la patente. "Offriamo una chance di vita - ha detto Corleone - anche a chi si pensava sarebbe stato per sempre sepolto in carcere. Ci auguriamo che a luglio il tribunale possa stabilire una misura alternativa alla detenzione, come l’affidamento ai servizi sociali, oppure il prolungamento dei domiciliari".

Genova: Sappe in protesta contro il Provveditore della Liguria

 

Il Velino, 31 maggio 2008

 

"Si acuisce lo scontro tra il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Sappe e il provveditore della Liguria Giovanni Salamone sulla gestione dei sette penitenziari della Regione. E mentre il Sappe preannuncia una nuova manifestazione di protesta, questa volta a Roma davanti al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, per denunciare i discutibili metodi gestionali del provveditore, questi dispone d’autorità un trasferimento di sede ai danni del segretario generale aggiunto del Sappe Roberto Martinelli, in servizio presso gli uffici del Provveditorato di Genova". Lo comunica una nota del Sappe.

Un trasferimento che il segretario generale Sappe Donato Capece definisce "intimidatorio, gravissimo ed illegittimo", rispetto al quale hanno tra l’altro già preannunciato la presentazione di una interrogazione parlamentare urgente, al ministro della Giustizia Angelino Alfano, il senatore Giorgio Bornacin (del Popolo della libertà) e il deputato ligure Giovanni Paladini dell’Italia dei valori. Bornacin sottolinea che parlerà della questione anche direttamente col Guardasigilli "perché non è accettabile trattare in questo modo una persona seria, per altro ufficiale di polizia giudiziaria, sempre meritoriamente in prima linea nel difendere una categoria spesso bistrattata come la Polizia penitenziaria" e Paladini, che proviene dal sindacalismo di polizia e che è componente della commissione Lavoro della Camera dei deputati, giudica "grave, intollerabile e inaccettabile la palese violazione del sistema delle relazioni sindacali da parte del responsabile carcerario ligure".

"Il fatto - aggiunge Capece - è gravissimo perché avviene, casualmente, il giorno dopo un’affollata riunione che abbiamo avuto con il personale di Polizia penitenziaria che lavora nel carcere genovese di Marassi, nel corso della quale sono stati denunciati ancora una volta i discutibili metodi gestionali del provveditore Salamone rispetto ai quali andremo, a fine mese, a manifestare a Roma davanti al dipartimento centrale penitenziario.

Ed è illegittimo, il trasferimento d’ufficio di Martinelli, perché palesemente in violazione delle norme contrattuali delle Forze di polizia a tutela dei poliziotti sindacalisti, che hanno il diritto di mantenere la sede di servizio per tutta la durata del mandato sindacale e che necessitano preventivamente ed obbligatoriamente del nulla-osta della segreteria generale del Sindacato per ogni eventuale movimento dalla sede di servizio. Ai dirigenti sindacali della Polizia penitenziaria viene garantita un’opportuna tutela attraverso una serie di strumenti giuridici previsti dall’articolo 36 del Contratto di lavoro n. 164/02 e dall’articolo 6 dell’Accordo quadro nazionale di categoria del 2004. Sconcerta che non conosca queste fondamentali norme un dirigente generale dello Stato".

"Oltre a denunciare il provveditore Salamone - annuncia il segretario del Sappe - alla magistratura del lavoro per il palese comportamento anti-sindacale, incontrerò martedì mattina a Roma il capo dell’Amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara per rappresentargli questa inaccettabile intimidazione e per rinnovare la nostra richiesta di destinare ad altro incarico, e in altra sede, il signor Salamone".

Capece rileva infatti che anche nel corso della riunione di Marassi è emerso evidente "il senso di sfiducia dei poliziotti verso il responsabile regionale delle carceri Salamone, più propenso a emanare disposizioni contro i poliziotti (come il tentar di far pagare l’alloggiamento in caserma o i pasti nella mensa di servizio - smentito in entrambi i casi dall’Amministrazione centrale - o addirittura il razionamento dell’erogazione dell’acqua calda nelle caserme degli agenti e nelle sezioni detentive per incomprensibili ragioni di economicità) piuttosto che prendere seri e concreti provvedimenti sulla grave situazione penitenziaria regionale, dove le celle sono sovraffollate di circa 1.400 detenuti a fronte di circa mille posti letto e gli organici della Polizia penitenziaria sono carenti di più di 350 agenti".

Vicenza: Cgil-Penitenziari; siamo pochi e il carcere scoppia…

 

Giornale di Vicenza, 31 maggio 2008

 

Fp-Cgil di Vicenza ha indetto lo stato di agitazione del personale di polizia penitenziaria del carcere di Vicenza, "al quale il Provveditore regionale dell’amministrazione centrale non ha mai convocato le organizzazioni sindacali per il problema relativi al carcere di Vicenza".

Fp-Cgil denuncia che "a quasi due anni dall’indulto è nuovamente vicino il rischio di implosione degli istituti penitenziari, dovuto all’aumento esponenziale delle persone incarcerate. A fine aprile nel carcere di Vicenza erano presenti 305 detenuti (ben 234 in attesa di giudizio, e solo 71 condannati definitivamente) a fronte di una capienza tollerabile di 288. Tra questi 305 vi erano ben 234 imputabili (in attesa di giudizio) e 71 condannati definitivamente. Questa situazione aggrava anche i carichi di lavoro dei poliziotti penitenziari, 149 uomini e 14 donne, con 18 agenti distaccati. Il personale è costretto a turni di lavoro stressanti pur di mantenere la sicurezza". Fp-Cgil ricorda l’ostacolo rappresentato da un vecchio decreto che prevede che l’assunzione di personale nella polizia penitenziaria avvenga per bando di concorso pubblico non aperto a tutti, ma solo a chi proviene da altri corpi di polizia o forze armate.

Altri punti indicato dal sindacato sono "il bisogno di una riforma completa e dei codici, maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione e investimenti economici in grado di rendere vivibili, sicuri e funzionali gli istituti di pena". Fp-Cgil chiede a istituzioni e politici che sulla drammatica situazione di Vicenza si apra urgentemente un confronto.

Roma: "Poesie a Rebibbia", sono uno strumento terapeutico

 

Roma One, 31 maggio 2008

 

Si è appena conclusa la V edizione del corso "Poesie a Rebibbia" che anche quest’anno si è tenuta presso la Casa Circondariale romana di Rebibbia. Il corso, organizzato dalla Casa Editrice Pagine diretta da Luciano Lucarini, è stato curato dai poeti Plinio Perilli e Nina Maroccolo ed ha raccolto la partecipazione di oltre 50 detenuti. L’iniziativa è partita a gennaio e si è conclusa mercoledì scorso. Si è partiti con 10 detenuti, ma ogni settimana c’è stata qualche adesione in più fino a superare il tetto delle 50 presenze. La voce, infatti, si è sparsa subito e, nel giro di poche settimane, i partecipanti al laboratorio di scrittura creativa si sono moltiplicati.

Coloro che hanno partecipato al corso sono stati protagonisti di un vero e proprio laboratorio di scrittura creativa studiato per far emergere il poeta che è in "ognuno di noi". "Il corso dalla parte dei "nuovi" poeti, si presenta come occasione unica, attraverso la scrittura, per avviare il detenuto verso un cammino di riscatto sociale e di recupero individuale - ha sottolineato l’editore Lucarini - Le lezioni mirano ad incoraggiare lo sviluppo della persona umana e dei suoi valori profondi al di là delle vicende giudiziarie. L’ambizioso obiettivo è quello di far "poetare" i detenuti di ogni età ed estrazione, invitandoli ad esprimersi sui problemi epocali della nostra società, tentando di coinvolgerli in una realtà che sono costretti a vivere dal di fuori".

Tra le rivelazioni del corso degli anni passati, da segnalare le composizioni di Ruggero Botto, ormai uscito dal carcere. "Ho un ricordo molto positivo di quell’esperienza perché è stata molto stimolante ed interessante - racconta Botto - In carcere ogni novità, ogni stimolo a fare qualcosa di nuovo è ben accetto. Inoltre avevo instaurato un ottimo rapporto con Plinio Perilli".

Dopo la bella antologia Da questa giusta parte del torto, uscita nel 2006, a cura di Plinio Perilli ed Italo Evangelisti, che raccoglieva il meglio della produzione di tre anni di corsi, uscirà ora una edizione aggiornata del volume, arricchito da un’appendice 2008 e da una postfazione di Nina Maroccolo. E sono altri nomi, altri destini che trovano proprio sulla pagina quella spalancata finestra d’aria e quella luce d’orizzonte che ad essi è aspramente preclusa. "Questo vento tormenta questa vela" - scrive Giorgio De Gianni - "che quando si vuol fermare non cerca altro / che la spinta per poter continuare".

Volterra: Slow Food e la terza edizione de "Le Cene Galotte"

 

In Toscana, 31 maggio 2008

 

Si tratta di un’attività iniziata nel 2006 in collaborazione con l’Associazione Slow Food, grazie ad un’idea del direttore Maria Grazia Giampiccolo e che, nei due anni successivi, si è particolarmente sviluppata ed ha suscitato l’interesse di tantissime persone e dei mass media, sia italiani che stranieri. L’attività è organizzata interamente all’interno della Casa di Reclusione dove, una volta al mese, i detenuti cucinano, supervisionati da chef professionisti, per circa cento persone che si prenotano con un certo anticipo. Tutto il ricavato delle cene (per partecipare occorrono 35 euro), è devoluto interamente in beneficienza, più precisamente in adozioni internazionali di bambini del sud del mondo in collaborazione con la campagna "Il cuore si scioglie" dell’Unicoop di Firenze.

Reggio Emilia: "Wunderkammerett", mostra di foto sull'Opg

 

Redattore Sociale, 31 maggio 2008

 

Le storie dei pazienti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia raccontate attraverso gli oggetti personali, i poster o i disegni che arredano e decorano le celle. È il progetto "Wunderkammerett".

Una caffettiera, un cappellino, una tv con sopra dei pupazzetti, dei libri. Le storie dei pazienti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia raccontate attraverso gli oggetti personali, i poster o i disegni che arredano e decorano le celle. E "Wunderkammerett - La stanza delle meraviglie", un progetto che si è addentrato in Opg alla scoperta dei segreti dei ricoverati. L’unico modo per entrare all’interno di queste istituzioni, dove gli "ospiti" non possono essere fotografati e dove l’obiettivo non può ritrarre volti, è attraverso l’immagine degli oggetti personali, "che diventa così l’unico specchio della realtà che sta dietro le sbarre", dice Monica Franzoni, del Teatro dei e nei Quartieri, che ha curato il progetto. Ecco allora che è nato "Wunderkammerett", realizzato in collaborazione con la direzione carceraria, l’area educativa e la polizia penitenziaria dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio e reso possibile grazie al contributo della Fondazione Mondadori.

Le Wunderkammer erano "stanze delle meraviglie", spazi di collezionismo personale pieni di oggetti simbolici. All’interno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario "non c’è un unico mondo, ma tanti universi quanti sono le persone ricoverate. E anche la malattia psichica non è unica, e si presenta con sintomi diversi - scrive Monica Franzoni nella presentazione del progetto -.

Le foto mettono allora in evidenza tanti vissuti estremi, fatti tutti di emarginazione: solo attraverso le piccole cose e i pochi oggetti che i pazienti possono tenere con sé dentro le celle possono essere rivelati all’esterno la sofferenza e un mondo personale interiore". Gli scatti, che sono stati raccolti in un pieghevole che viene distribuito tutte le volte che va in scena "Vita di dentro, vita di fuori" (lo spettacolo itinerante realizzato dal laboratorio teatrale dell’Ospedale psichiatrico giudiziario), ora sono anche on-line. Alcune immagini del progetto "Wunderkammerett" in Opg le si trovano infatti sul sito Internet

Libro: "Olocausto bianco", ampio reportage sulla pedofilia

 

L’Arena di Verona, 31 maggio 2008

 

Un ampio, coraggioso reportage su un dramma del nostro tempo: la pedofilia. È questo il tema del libro-inchiesta "Olocausto Bianco" (Rizzoli-Bur, collana Futuro Passato, euro 12.50) in questi giorni in libreria, scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista del nostro quotidiano, insieme a Carlotta Zavattiero, collaboratrice della testata. Pinotti è autore di libri su temi "scomodi" come l’Opus Dei, la massoneria e il caso Calvi. Argomenti, tutti, su cui aleggia solitamente il silenzio. Questo libro avrebbe dovuto intitolarsi "Italia Pedofila": i dati e le testimonianze raccolte da Pinotti e Zavattiero rivelano l’esistenza di un’Italia che pratica la violenza sui bambini o ne fa addirittura un business.

I numeri sono eclatanti: 41.000 i nuovi casi di violenza sui minori ogni anno. Almeno un ragazzo su sei, in Italia, sarebbe stato vittima di episodi di violenza nella sua infanzia. Per ogni fatto denunciato, secondo le statistiche riportate nel libro, ve ne sarebbero mediamente 100 non denunciati. Cifre che evidenziano la drammaticità del problema. Pinotti non ha esitato a sviscerarlo, senza lasciare zone d’ombra su questa piaga troppo spesso taciuta e negata. Lo stile, il suo, è secco, immediato. Da colleghi, non si può che restarne ammirati.

Ecco la piaga della pedofilia familiare, illustrata dalla testimonianza di una ragazza torinese abusata per sette anni dal nonno materno senza che la famiglia avesse trovato il coraggio di sporgere denuncia. Ma anche la testimonianza di Maria Rosa Giolito, perito della procura di Torino, ginecologa, dipendente pubblica di un Asl di Torino dall’84. "Non esiste un’età in cui i bambini siano immuni dalla pedofilia. Ricordo il caso di una bambina di Bologna stuprata dal suo papà. Era in condizioni atroci. E il caso di un bambino che era stato venduto dai genitori e che era "gestito" da un fratello di 15 anni più grande. Il fratello aveva un giro di amici che pagava per abusare del bambino. Quando lo abbiamo visitato, aveva nove anni: ci ha fatto vedere tutte le ferite sul suo corpicino. Diceva che i pedofili lo minacciavano e ferivano con il coltello, se non faceva quello che gli dicevano. Abbiamo contato 148 cicatrici sul corpo".

C’è poi la storia di Marco Marchese, che ha subìto per anni abusi in un seminario siciliano. Ma anche la testimonianza del noto attore, regista e parlamentare Luca Barbareschi, vittima di un sacerdote pedofilo che ha turbato gravemente la sua adolescenza, fino a costringerlo a frequentare, da adulto, cliniche specializzate. Barbareschi ha creato una Onlus che lotta contro la pedofilia, chiamata "Dalla parte dei bambini". Stimolante la disamina di Franco Grillini sul delicato tema del rapporto tra omosessualità e pedofilia, un tema su cui permangono molti luoghi comuni.

Pinotti e Zavattiero scandagliano anche negli atti giudiziari, analizzando il caso relativo alla prima condanna, l’8 marzo 2007, comminata per abusi sessuali commessi all’estero. Una possibilità consentita da una recente legge in materia. La vicenda di Giorgio Sampech, condannato a 14 anni in primo e secondo grado, diventa emblematica della complessità dei processi di pedofilia, nei quali spesso i pedofili ricchi riescono a cavarsela molto meglio di quelli "poveri".

Il viaggio tra le Procure impegnate nella lotta alla pedofilia ha portato i due giornalisti a illustrare una complessa operazione contro la pedofilia on line, un problema sottostimato in quanto - affermano studi del governo americano - l’85% dei pedofili on line si macchia prima o poi di reati contro le persone.

Importante la testimonianza del procuratore aggiunto del tribunale di Torino, Pietro Forno, che ha dato vita prima a Milano e poi a Torino a un vero e proprio pool antipedofilia, che opera con metodi moderni pur in un quadro di leggi insufficienti.

Di grande spessore anche le analisi del pm Maria Monteleone, sostituto procuratore a Roma, che ha condotto importanti operazioni di lotta alla pedofilia. I due giornalisti hanno intervistato anche il procuratore capo della Repubblica di Verona, Mario Giulio Schinaia, così come magistrati di sorveglianza del carcere di Padova, alle prese con il problema dei detenuti pedofili. Pinotti e la Zavattiero ne hanno incontrati alcuni nel carcere di Bollate (Milano) dove è attivo l’unico programma di recupero per gli autori.

Il quadro che emerge dall’inchiesta è desolante: i reati di pedofilia sono in aumento, le leggi in materia sono insufficienti, il coordinamento tra i tribunali dei minori e la magistratura ordinaria è scadente, la nascita di una super Procura anti-pedofilia è un traguardo lontano. A questo scenario si aggiunga l’emergere di una cultura "negazionista", illustrata dall’analisi del pm Pietro Forno: "Che cosa hanno in comune Mani Pulite e la nostra materia, la pedofilia? Che si rivolgono a persone che non fanno parte di ambiti criminali ordinari e nei quali c’è una certa, chiara divaricazione tra il mondo degli accusatori e il mondo degli accusati; entrambi i fenomeni si rivolgono a persone per lo più incensurate e che vengono toccate nella loro dignità, perché l’accusa di ruberie pubbliche, così come quella di abusare i bambini, sono infamanti. La caratteristica delle accuse infamanti è però che l’accusatore può risultare anch’esso in qualche modo infamato, se la sua accusa non viene provata. O io riesco a provare che lei ha abusato di un bambino, oppure lei potrà dire che io sono responsabile di qualcosa di molto grave. Non c’è una posizione laica su questi temi. Mentre il nostro compito è accertare la verità, se un reato è stato commesso in danno di chi e per colpa di chi. Se non siamo in grado di affermarlo noi chiederemo l’assoluzione o l’archiviazione, a seconda dei casi; senza voler attribuire né medaglie a chicchessia e neanche macchie ingiustificate e infamanti. Ecco, in questa materia è difficile mantenere questo atteggiamento laico".

Immigrazione: Frattini; reato clandestinità, espulsioni veloci

 

Asca, 31 maggio 2008

 

Il ministro degli Esteri, Franco Frattini è favorevole all’adozione del reato di clandestinità degli immigrati, ma a condizione che il procedimento giudiziario si concluda rapidamente con l’espulsione del detenuto condannato. "Credo che l’espulsione sia la prima cosa - rileva Frattini - il reato nei paesi dove è previsto come la Germania funziona abbastanza bene perché il magistrato, dopo il primo grado di giudizio, può espellere senza aspettare la Cassazione e esiste una continuità di detenzione tra l’arresto e l’accompagnamento alla frontiera, senza uscire dal carcere".

Immigrazione: Colmegna; sbagliato punire i senza permesso

di Paolo Foschini

 

Corriere della Sera, 31 maggio 2008

 

"Ok, ci mancherebbe che chi ruba non fosse arrestato: vorrei vedere". Ladri clandestini: ora è più grave. "Ecco, su questo invece io non avrei tante certezze". La nuova legge le ha. "Ed è un peccato: essere "clandestini" è una faccenda complessa, trattarla come un’aggravante in sé potrebbe anche essere non solo anticostituzionale ma addirittura controproducente".

Don Virginio Colmegna, presidente di quella Casa della Carità che a Milano accoglie 70 mila disperati l’anno, ormai da molto tempo ha una sua linea assai precisa sul problema dell’immigrazione: "Basta con le polemiche, chi mi conosce lo sa. Di parole se ne sono dette anche troppe, ora bisogna lavorare per affrontare il problema".

 

Il tribunale sta facendo la sua parte, pare…

"Il tribunale applica la legge e svolge il suo lavoro. E il problema della legalità è talmente sentito che nessuno, oggi, può pensare di prenderlo sottogamba invocando buonismi insensati".

 

Allora è giusto arrestarli, i clandestini…

"Calma. È giusto arrestare i ladri. Il punto è vedere qual è l’obiettivo finale. L’ha detto lei: legalità. Perfetto. Ma se l’obiettivo è questo allora bisogna essere chiari: se si arrestano i ladri solo per sbatterli dentro e buttar la chiave, come una specie di condanna a morte mascherata, l’obiettivo legalità non si raggiungerà mai completamente".

 

E perché?

"Perché il passo fondamentale, proprio nell’interesse della società e delle vittime, incomincia dopo il carcere. Senza percorsi di recupero la società non conquista alcuna sicurezza: né per sé né per le vittime dei reati. Tra le quali, in fondo, spesso ci sono anche coloro che i reati li commettono".

 

Oggi, per chi legge, il tribunale di Milano dovrà decidere sull’aggravante di clandestinità per i quattro arrestati di ieri…

"Non entro nel merito del fatto singolo, i giudici appunto decideranno. Quanto alla legge, mi risulta che qualcuno abbia già chiesto alla Consulta di pronunciarsi sulla sua costituzionalità: vedremo. Certi fatti però parlano da soli".

 

E cioè?

"Cioè è un dato di fatto che dietro la parola "clandestino" ci siano tante realtà non omologabili. Ce chi commette reati, ma anche chi è costretto a lavorare in nero, chi lo diventa perché non gli rinnovano il permesso. E non si possono trattare tutti come "delinquenti a prescindere".

 

La sua proposta qual è?

"Di considerare sempre le persone, non le categorie. Non possiamo rispondere al crimine con lo stesso metro del crimine, n ladro ruba perché non ha il culto della dignità della persona. Se vogliamo la legalità, e la vogliamo, non possiamo agire allo stesso modo".

Immigrazione: ho comprato un clandestino, bastano 30 euro

di Fabrizio Gatti

 

L’Espresso, 31 maggio 2008

 

Bastano 30 euro al giorno. Così, dall’industria all’agricoltura, Da nord a sud, lo sfruttamento dei lavoratori in nero una piaga nazionale. In crescita. Intanto il pugno di ferro del governo lascia impuniti imprenditori e aziende.

Ho appena comprato un clandestino. Roy, 31 anni, arrivato cinque anni fa come turista dal Bangladesh, costa meno di un pieno di benzina. Chiede 30 euro a giornata per lavorare come muratore. Anche quattordici ore al giorno, dall’alba a sera tardi. Fanno due euro e 14 centesimi di paga l’ora. Una stretta di mano conclude l’accordo. Senza che lui sappia molto di me né io di lui. Ogni mattina presto Roy appare in piazzale Roma, l’ultimo brandello di strada davanti alla laguna di Venezia. E se nessuno lo chiama nella città d’arte, torna ad aspettare alla stazione di Mestre. Alla fine dei lavori potrei anche non pagarlo. Potrei prenderlo a schiaffi: se lui fosse così pazzo da chiamare la polizia e beccarsi l’espulsione, rischierei al massimo sei mesi di reclusione. Potrei rubargli il portafoglio: ammesso che mi voglia denunciare, il furto è punito da sei mesi a tre anni. Potrei fargli credere che gli procurerò un permesso di soggiorno in cambio dei suoi risparmi e truffarlo: non rischierei più di tre anni. Potrei essere lo sgherro di un’associazione a delinquere e sfruttarlo: la mia condanna partirebbe comunque da un anno. Sempre meno di quanto rischierà Roy quando verrà approvato il disegno di legge sul reato di immigrazione clandestina: fino a quattro anni di carcere, per essere semplicemente un muratore.

Perfino una parte autorevole dei vertici di carabinieri e polizia sostiene che è anche colpa della legge firmata nel 2002 da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, se in Italia ci sono tanti clandestini: perché restringe all’infinito le possibilità di ingresso, punisce i lavoratori stranieri non in regola e garantisce sempre una via d’uscita indolore ai datori di lavoro che li sfruttano. È tutto scritto in un rapporto riservato, consegnato al ministero dell’Interno nell’ottobre 2006, all’indomani dell’inchiesta de "L’Espresso" sulla schiavitù e il caporalato in Puglia. L’analisi riguarda le condizioni degli stranieri in tutta Italia. "Sono gli imprenditori, che si avvalgono dell’intermediazione abusiva, i soggetti principali che avviano questo sistema di illegalità", denuncia il rapporto, "incentivati sia dai maggiori profitti derivanti dal lavoro nero, e dunque dalla mancata regolarizzazione delle posizioni lavorative, sia dalla celerità e dalla flessibilità con le quali possono essere soddisfatte le richieste di manodopera".

Lo studio suggerisce di introdurre sanzioni per i datori di lavoro, oltre che per intermediari e caporali. È firmato dall’allora vicecapo della polizia, Alessandro Pansa, diventato poi prefetto a Napoli, che presiedeva la commissione formata anche dal generale di brigata dei carabinieri, Salvatore Scoppa, e dal colonnello Luciano Annichiarico, responsabile del comando carabinieri per la tutela del lavoro. Il dossier è puntualmente scomparso in un cassetto. Prima per l’instabilità del governo di Romano Prodi. Ora per le decisioni diametralmente opposte annunciate da Silvio Berlusconi e dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Altro che badanti da salvare. La visione coloniale, secondo cui l’immigrazione da regolarizzare è soltanto la servitù di casa, esclude dalla legalità una parte importante dell’economia italiana. Lavoratori che, pur non essendo in regola con i documenti, partecipano attivamente al nostro prodotto interno lordo. Dati di Unioncamere: il 9,2 per cento del Pil italiano deriva dal lavoro degli stranieri, regolari e irregolari. L’agricoltura che riempie le nostre tavole di frutta e verdura ne è un esempio: il 95 per cento dei braccianti stranieri in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Lazio è ingaggiato senza contratto di lavoro e più dell’80 per cento è senza permesso di soggiorno.

Lo denuncia il dossier "Una stagione all’inferno", presentato a metà maggio dalla missione in Italia di Medici senza frontiere. È l’aggiornamento di un’inchiesta pubblicata nel 2005 sull’agricoltura al Sud. "Dopo tre anni", spiega Loris De Filippi, responsabile delle operazioni di Msf, "abbiamo constatato che nulla è cambiato". Pochi giorni fa l’Istituto nazionale di economia agraria, ente di ricerca del ministero per le Politiche agricole, ha quantificato il numero di lavoratori stranieri nel settore: 150 mila, di cui 70 mila al Nord.

Nel 1995 erano 30 mila in tutta Italia. Non esistono censimenti sui clandestini e solo queste cifre permettono di stimare il numero di lavoratori non in regola sfruttati nell’agricoltura. Secondo i dati consegnati dai carabinieri al ministero, sui 22 mila 295 stranieri occupati nelle aziende agricole controllate in Italia nel primo semestre 2006, il 24,21 per cento era senza permesso di soggiorno: significa che dalla Sicilia al Friuli i clandestini ingaggiati come braccianti sono più di 36 mila.

Così se un giorno il governo volesse eliminare il lavoro irregolare in agricoltura attraverso il reato di immigrazione clandestina, dovrebbe far arrestare 36 mila lavoratori. E trovar loro posto nelle carceri già affollate da 48.600 persone. Senza contare il costo della detenzione e delle espulsioni: servirebbero almeno 103 voli a pieno carico di Boeing 747 per riportare tutti ai Paesi d’origine. Dovremmo poi dire addio più o meno al 24 per cento della produzione agricola italiana. Pomodori e uva marcirebbero sulle piante, i prezzi di vino, formaggi e verdure correrebbero più del petrolio. La carta e l’inchiostro per stampare i permessi di soggiorno costerebbero sicuramente molto meno.

"Ma gli imprenditori non rinunceranno alle braccia a basso costo", spiega l’avvocato di Milano, Domenico Tambasco, esperto di diritto dell’immigrazione: "L’economia sostituirebbe gli espulsi con altri lavoratori irregolari. Altri migranti passerebbero le frontiere lungo le rotte più pericolose. E poiché è impensabile l’espulsione di decine di migliaia di persone, la nuova legge spingerebbe i lavoratori a vivere da latitanti, a nascondersi. A essere ancora più schiavi.

Ci vorrebbe uno sciopero di tutti gli immigrati: solo così emergerebbe il vero peso dell’immigrazione nel sistema economico nazionale". Il carcere non è comunque una novità: la legge già prevede la detenzione fino a quattro anni per i clandestini sorpresi una seconda volta. "Prima dell’indulto", ricorda l’avvocato di Padova, Marco Paggi, "il 25 per cento della popolazione penitenziaria era composto da stranieri detenuti unicamente per non aver rispettato il decreto di espulsione".

L’edilizia è un altro settore di grande sfruttamento. Il rapporto di polizia e carabinieri consegnato al ministero dell’Interno rivela che su 2.943 imprese controllate in Italia nel 2006, ben 2004 avevano violato le norme di assunzione del personale straniero e 45 erano completamente sommerse. Perfino nel Nord-Est, modello dell’economia rampante e xenofoba che piace alla destra nazionale, i clandestini hanno ormai una funzione insostituibile. "La presenza di lavoratori irregolari", spiega Stefania Bragato, del Consorzio per la ricerca e la formazione, "varia dal 24 per cento della provincia di Rovigo, al 22 della provincia di Venezia, al 20 di Verona, scendendo al 15 di Treviso. Una media intorno al 18 per cento".

Certo, colpire i datori di lavoro vorrebbe dire essere disposti ad arrestare decine di industriali nel Veneto leghista dove, secondo dati raccolti anche dalla Cgil, l’impiego di clandestini nella filiera produttiva del tessile sale al 27 per cento. Oppure ammanettare le migliaia di casalinghe anziane che, alla ricerca di una badante, una colf o un muratore per piccoli lavori, non ne vogliono sapere di pagare uno straniero a posto con documenti, assicurazione e bollettini. "Il paradosso è che un clandestino trova lavoro più facilmente di un regolare. Vengono perfino qui a chiedere come fare", dice Leonardo Menegotto, responsabile immigrazione della Cgil di Mestre: "Rifiutano i regolari perché, dicono, vogliono essere messi a contratto. Io rispondo che queste informazioni non le diamo".

La denuncia nel rapporto riservato di polizia e carabinieri è un’accusa senza alibi: "Il lavoro nero e l’economia irregolare, per dimensioni e pervasività, hanno assunto la configurazione di una componente strutturale del sistema produttivo nazionale... Le sanzioni previste dalla legge Biagi sono inadeguate a fronteggiare il fenomeno nel suo complesso... Il ricorso diffuso al lavoro nero rende scarsamente efficaci anche i meccanismi sanciti dalla normativa prevista per i flussi di ingresso di stranieri". Da sempre le quote non rispondono alle esigenze dell’economia. Ma nessun governo, nemmeno di centrosinistra, si è adeguato. Così quest’anno si è toccato un altro record: 758 mila dichiarazioni di assunzione per appena 170 mila permessi stabiliti dal decreto flussi.

Il risultato è catastrofico. Soprattutto al Sud dove la paura e l’insicurezza sono sentimenti quotidiani per migliaia di braccianti. Il 64 per cento vive in case abbandonate senza acqua. Il 62 senza servizi igienici. Il 92 per cento senza riscaldamento. Ad Alcamo, in Sicilia, il Comune ha allestito un dormitorio per i lavoratori stagionali stranieri. Ma la legge impedisce di accogliere clandestini. Mentre gli agricoltori del posto vogliono soprattutto clandestini. "Lo scenario è dei più impressionanti", è scritto nel rapporto di Medici senza frontiere, "il 39 per cento dei lavoratori dorme per le strade cittadine, il 27 in case abbandonate, il resto arrangiato in tende nei campi limitrofi".

Una sera di ottobre a Gioia Tauro, in Calabria, viene investito Mamadou, 18 anni, bracciante emigrato dal Mali: dopo un mese con una ferita infetta alla coscia sinistra "al pronto soccorso gli operatori sanitari dichiarano di curarlo a titolo di favore. L’ortopedico non è presente, la gamba è dolorante e gonfia. Il paziente viene dimesso senza aver consultato lo specialista, senza bendatura di supporto e senza terapia".

L’Italia è spietata e cinica anche con chi è in regola. Abdou, 32 anni, laurea in lettere presa in Senegal, parla italiano, francese, inglese e capisce lo spagnolo. Lavora come assistente del direttore commerciale in un ditta a Pordenone. Potrebbe girare il mondo e fare carriera. Nell’aprile 2007 ha chiesto il rinnovo del suo permesso di soggiorno. Data dell’appuntamento in questura, per la foto segnaletica come fosse un delinquente: febbraio 2009. Il permesso lo riceverà dopo altri quattro mesi di attesa: "Spero", sorride, "intanto non posso uscire dall’Italia. Questa è una discriminazione". Abdou chiede di non rivelare il suo cognome. Per paura.

Ogni settimana 22 mila stranieri presentano alle poste la richiesta di rinnovo del soggiorno. E aspettano la convocazione in questura: "Qui a Treviso non rispondono nemmeno perché il sistema informatico non è tarato per fissare appuntamenti nel 2010", avvertono agli sportelli immigrazione in città. Proprio in questi mesi stanno entrando in Italia gli stranieri del decreto flussi 2006. Dopo due anni molti trovano che i loro datori di lavoro sono nel frattempo falliti, si sono trasferiti o sono morti. A loro le prefetture concedono permessi provvisori di sei mesi: verranno convocati tra un anno e mezzo, per ritirare un documento già scaduto da un anno.

Roy, il muratore bengalese, confessa che adesso ha paura di essere buttato fuori di casa. Ha saputo del decreto che da lunedì prevede la confisca degli appartamenti affittati agli stranieri senza permesso di soggiorno: "Dormo con quattro connazionali in regola. Mi hanno detto che devo trovarmi un altro posto". Può essere l’inizio di un assalto che porterà gli squali immobiliari a riappropriarsi a prezzi stracciati di interi quartieri storici. Il decreto non sembra così innocente: negli uffici dei broker di Milano si parla di appartamenti di cinesi, egiziani e peruviani che saranno confiscati e messi all’asta. Mentre migliaia di lavoratori clandestini già si chiedono dove andranno a dormire il prossimo inverno.

La brutalità del ‘sistema Italià non risparmia nemmeno gli immigrati regolari che lavorano nelle fabbriche. È il risultato di un’indagine su quasi 100 mila operai presentata pochi giorni fa dalla Fiom-Cgil che dedica una sezione ai lavoratori stranieri (www.fiom.cgil.it/ inchiesta/default.htm). Il 20 per cento dei dipendenti con permesso di soggiorno ha subito intimidazioni sul posto di lavoro, il 5,3 violenze fisiche da parte dei colleghi, il 27,6 discriminazioni legate alla nazionalità. Il 7,8 per cento delle donne ha sopportato attenzioni sessuali indesiderate e il 4,7 ha subito violenze fisiche.

Il 35 per cento degli intervistati lavora in Italia da più di dieci anni. Solo il 20 da meno di cinque anni. Il 44 svolge il suo lavoro da almeno sei anni e il 36,8 lavora sempre nella stessa azienda. Il 64 per cento vive con la propria famiglia e nella metà dei casi ha figli piccoli.

Il 10,7 per cento degli operai immigrati ha una laurea, contro lo 0,4 degli italiani. Il 37,9 ha un diploma di scuola superiore (contro il 25,1). Le donne hanno il livello più alto di istruzione: il 21,2 per cento delle immigrate ha una laurea. Ma nella gerarchia del lavoro gli stranieri occupano i livelli di inquadramento più bassi: il 52,1 per cento è al terzo livello, il 14,6 sotto il terzo. In media un immigrato guadagna 1.186 euro al mese.

Ma nella metà dei casi si tratta di famiglie monoreddito: il 22 per cento degli stranieri vive con più di cinque persone. Solo il 29,3 per cento ha redditi familiari superiori a 1.900 euro contro il 55,1 degli italiani. Nonostante gli immigrati lavorino più ore degli italiani, più spesso la notte e nel 73 per cento dei casi facciano anche il turno del sabato. Quanto agli incidenti sul lavoro, il 18,2 per cento degli stranieri non ha ricevuto una adeguata informazione sui rischi dovuti agli strumenti o ai prodotti che usa.

Immigrazione: Associazioni; no clima di caccia allo straniero

 

Dire, 31 maggio 2008

 

La reazione dopo i controlli contro i clandestini a Milano. Don Colmegna (Casa Carità): "Interventi senza strategia". Codini (Ismu): "Da 10 anni non si trova il modo per farli entrare regolarmente".

"Lo dico da tempo: abbassiamo i toni e non aumentiamo il clima di caccia allo straniero", è la richiesta di don Virginio Colmegna, presidente della fondazione Casa della Carità, alla notizia dei controlli svolti nei giorni scorsi sugli autobus della linea 90/91 dell’Atm, che hanno portato al fermo di 33 immigrati senza permesso di soggiorno.

"Si è trattato di interventi senza strategia e che hanno come obiettivo quello di attirare l’attenzione dei media e far crescere la tensione - aggiunge don Virginio Colmegna - . La politica faccia la sua parte, ad ogni intervento repressivo seguano risposte costruttive".

Critico anche il giudizio di Ennio Codini, responsabile area diritto della fondazione Ismu: "Questa situazione è la conseguenza di un problema che a monte. Da dieci anni a questa parte non si è ancora trovato un modo per far entrare regolarmente i lavoratori stranieri in Italia. Di conseguenza gli immigrati si arrangiano: arrivano con un visto turistico o come stagionali, sperando poi in una sanatoria o nel decreto flussi".

Di eccesso di zelo parla Francesca Corso, assessore della Provincia di Milano ai diritti dei cittadini: "Il vicesindaco De Corato dà una libera interpretazione delle norme che il governo, peraltro, non ha ancora approvato - commenta -. Non si possono confondere la difesa della legalità e della sicurezza con la caccia all’immigrato".

Una proposta viene invece da Mario Furlan, fondatore dei City Angels, che vuole rilanciare una proposta di legge avanzata nel 2002 per regolarizzare clandestini che hanno casa, lavoro e che non hanno mai commesso reati. "Ci vuole rigore contro chi delinque, italiano o straniero - commenta Furlan -. Ma questo clima di ostilità nei confronti dei clandestini non aiuta, al contrario li spinge a nascondersi ancora di più, con il rischio che finisca nelle reti di organizzazioni criminali".

Droghe: la "crociata" dell’Udc contro la Fiera della canapa

 

Notiziario Aduc, 31 maggio 2008

 

Vedere, toccare e parlare di tutto quello che ruota all’universo della canapa. È questo l’obiettivo che si sono posti gli organizzatori di "Cannabis tipo forte", la mostra-convegno sulla canapa in programma da ieri a domenica al Palanord di Bologna.

Un’iniziativa al centro delle polemiche, alla quale ha già dichiarato guerra il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega alla droga, Carlo Giovanardi, che ha proposto di vietare questo tipo di iniziative, e al centro di interpellanze parlamentari e di consiglieri regionali presentate dall’Udc. Gli organizzatori hanno respinto le polemiche, sottolineando che tutto si svolge nella massima legalità, presentando una serie di obiettivi e invitando a parlare nei loro convegni gli esponenti politici che li criticano.

"Noi parliamo soprattutto di uso medico della canapa - ha spiegato il vicepresidente dell’associazione, Michele Dagres - e dei suoi usi nella terapia del dolore. In Italia sono riconosciuti e autorizzati, ma è vietata la coltivazione. Noi siamo contrari alla cultura dello sballo e non siamo certo quelli che dicono che drogarsi fa bene. Anzi combattiamo, anche all’interno della fiera, quelli che lucrano sul proibizionismo, bloccando gli spacciatori in accordo con la polizia e i carabinieri, che qui a Bologna stanno facendo un lavoro splendido, con controlli discreti, tesi a individuare ed arrestare gli spacciatori. Insomma, in qualche modo, con la nostra attività, anche noi combattiamo la mafia".

In mostra, fra i padiglioni della fiera bolognese, ci sono articoli per fumatori, le più importanti banche dei semi europee e tutto quello che serve per la coltivazione domestica. Ma ci sono anche esempi dell’uso industriale della canapa, soprattutto in ambito tessile ed energetico. Grande curiosità, da quest’anno, per alcune aziende che producono generi alimentari con la farina di canapa: dai biscotti alla birra, dal pesto al basilico, fino alla cioccolata. "Cannabis tipo forte" ha poi lanciato quest’anno l’idea della costituzione di Medical cannabis social club, per far ottenere la licenza adeguata a gruppi di malati, per le piantagioni collettive, sul modello di quanto avviene in Spagna e in Olanda.

La mostra "Cannabis tipo forte" in corso a Bologna è "apparentemente border line ma, opportunamente verificata, potrebbe essere oltre i limiti della legalità". A denunciarlo il capogruppo dell’Udc in Regione Emilia Romagna e consigliere comunale, Silvia Noè, che fa sapere di essere stata anche quest’anno a visitare la manifestazione "per verificarne il reale svolgimento rispetto allo scopo scientifico e terapeutico che si ripropone".

"La mia percezione - fa sapere Noè - è che c’è poco di terapeutico e molto invece di commerciale e di cultura dello sballo. Sono presenti espositori italiani ed internazionali che vendono bevande eccitanti, semi di piante illegali, attrezzature sofisticate per coltivare in casa piante e funghi, kit completi per sniffare cocaina e su richiesta anche qualcosa d’altro". "Per questa ragione martedì porterò il caso in consiglio comunale, sempreché non venga ulteriormente censurata, ma nel frattempo invito Cofferati che ha autorizzato questa mostra di cui oggi si dichiara preoccupato, a visitarla e a rendersi conto di persona".

Secondo il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini non è nient’altro che un appuntamento per "favorire la cultura dello sballo e veicolare l’idea che drogarsi non solo non fa male, ma è bello". Casini, insieme al deputato dell’Udc Gian Luca Galletti, si è, infatti, rivolto con un’interpellanza urgente al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro del’Interno per sottolineare "l’inopportunità di ospitare una fiera come questa in uno spazio pubblico".

I due parlamentari ricordano poi come l’ideatore dell’evento Fabrizio Cinquini sia "agli arresti domiciliari per la seconda volta" con l’accusa di "coltivazione e detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti". L’ufficio stampa del Comune di Bologna fa sapere, comunque, di non essere a conoscenza di questa protesta dell’Udc e di non aver ricevuto lamentele da parte di cittadini o istituzioni per lo svolgimento dell’evento dedicato alla cannabis.

Cina: pena di morte e campi di concentramento, un business

di Valerio Venturi

 

Liberazione, 31 maggio 2008

 

La pena capitale e i campi di concentramento possono rappresentare un business? La nuova frontiera del miracolo economico cinese sta qui; secondo la Ong "Loagai", che ha presentato a Milano il libro-inchiesta "Cina - Traffici di morte" di Harry Wu: il governo di Pechino guadagna dunque speculando sui condannati nazionali.

La pena capitale e i campi di concentramento possono rappresentare un business? La nuova frontiera del miracolo economico cinese sta qui; secondo la Ong "Loagai", che ha presentato a Milano il libro-inchiesta "Cina - Traffici di morte" di Harry Wu: il governo di Pechino guadagna dunque speculando sui condannati nazionali.

Quelli destinati ai campi di rieducazione, che in Cina si chiamano Loagai, sono circa 1100, lavorano in fabbriche-gulag a costo zero producendo scarpe, pen-disk e altri prodotti che usualmente si utilizzano nel mercato occidentale. Tra i clienti dei campi di lavoro orwelliani, dove si lavora, si fa autocritica e si viene indottrinati, ci sono veri colossi internazionali, come Wall Mart, la joint-venture franco-cinese che ha creato il vino con gli occhi a mandorla "Dinasty" e le ditte che comprano il tè orientale - il 30% di quello prodotto nel Paese viene da qui.

Ma questo è solo l’aspetto meno inquietante del business. La Cina, denuncia Harry Wu, vende anche gli organi dei suoi condannati a morte, espiantati prima delle esecuzioni senza consenso. Gli ospedali specializzati nella pratica si sono sestuplicati, dal 1994. Le "officine" che estraggono "pezzi" da umani sono ora 600.

Quanti i condannati a morte disponibili per le operazioni? Si pensa che le esecuzioni siano circa da 8 a 10mila, ma sul numero c’è il segreto di stato dal ‘49 e quindi si può solo ipotizzare: documenti dell’84 parlano di 24mila persone uccise in 11 mesi.

Di certo, la pratica da espianto su condannati è reale. L’ha confermata il viceministro della Salute; l’ha dimostrato l’inchiesta di Wu, ripresa dalla Abc, ed alcuni arresti eccellenti compiuti in Usa, dove ora è vietato l’ingresso di specialisti in trapianti: il dottor Wang Cheng Yong sconta una condanna nelle carceri federali proprio per questo, mentre il medico Chen Miao, da Amsterdam, ammette di aver espiantato due reni da un condannato senza conoscere i retroscena dell’operazione. D’altronde, la Cina è il secondo paese al mondo per trapianti.

È preceduto dagli Usa, che però usa organi donati coscientemente; i cinesi, al 95% utilizzano quelli di condannati. Almeno dagli anni ‘80. Parte di questi vengono venduti agli stranieri: soprattutto europei ed asiatici, visto il blocco recentemente imposto dalla legislazione Usa - dal ‘98. Basta pagare e non fare domande su chi ha donato, come conferma Harry Wu, che ha fatto finta di cercare informazioni per uno zio. "Non possiamo parlarne assolutamente, ma lavoriamo qualitativamente".

Wu, presidente della sezione americana della Laogai, racconta di essere stato arrestato varie volte nel suo Paese d’origine: negli anni ‘50 è finito nei campi di concentramento, bollato come controrivoluzionario; quindi nelle patrie galere proprio a causa delle sue inchieste. Eppure, dice, il governo di Pechino nel ‘92 ha pubblicato una carta sulla riforma del sistema criminale in cui si sostiene che i campi di lavoro sono quasi "il migliore dei mondi possibili", dove si può studiare, mangiare bene, fare sport.

Perché arrestare chi si informa su cose che dovrebbero essere ben fatte, si chiede Wu? In effetti la situazione non è chiara. Di fatto, in Cina si può comprare e vendere di tutto: basta pagare. Se servono pezzi di uomo, perché non ricorrere cinicamente a chi comunque dovrà morire? Anche per questo il regime usa sempre più le iniezioni e meno le fucilazioni, che rovinano i corpi. Certi fatti, dice Wu, sono provati: eppure in Europa non se ne parla; soprattutto, non si agisce dal punto di vista legislativo per frenare l’immissione di organi dal mercato cinese. I media tacciono.

Qualche parola si è spesa quando si è scoperto che i corpi plastificati esposti in mezza Europa da un sedicente artista erano stati comprati spesso da Pechino al prezzo di 200 dollari l’uno. Ma l’informazione, dice Wu, in generale manca. Secondo la responsabile Asia di Amnesty International, presente all’incontro, questo è solo uno degli aspetti inquietanti, taciuti, della Cina. "Speravamo nel cambiamento per le Olimpiadi, che certe promesse venissero mantenute; ma purtroppo pochissimo è cambiato": i laogai proliferano, si continua a uccidere per ragioni di Stato e si censura.

Il vicepresidente di Reporter Sans Frontieres in Italia conferma: il 23% dei giornalisti incarcerati, nel mondo, sono cinesi. Le agenzie di stampa sono filtrate, il 76% dei cyber dissidenti imprigionati hanno gli occhi a mandorla. Rimane comunque spazio per la speranza. Le cose potrebbero cambiare presto: gli utenti del web sono ormai 220 milioni, i 50 mila poliziotti della censura fanno sempre più fatica a controllare informazioni e contenuti scomodi. E di recente ci sono state ben 90.000 rivolte popolari. Si iniziano a reclamare i diritti. Tra questi, quello arcaico del rispetto della persona e del suo corpo.

 

 

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