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Giustizia: la "certezza della pena" e il collasso delle regole civili di Sandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)
Fuoriluogo, 25 maggio 2008
Da Beccaria a Rudolph Giuliani, il tramonto della giustizia e il trionfo del mito securitario. Un capitolo di Punire i poveri di Loïc Wacquant è dedicato ai "Miti culturali del pensiero unico securitario". Sono pagine divertenti, di quel divertimento tragico che è il nostro pane quotidiano, che dimostrano la inconsistenza di quei miti e, quindi, di quella cultura e, quindi, di quel pensiero. Tra quei miti la "tolleranza zero", che si è incarnata come luogo di rivelazione, nella New York di Rudolph Giuliani, che, secondo la vulgata, avrebbe debellato la criminalità in poco tempo. È falso: la diminuzione della criminalità era cominciata prima che arrivasse Giuliani, si è attuata anche là dove sono state praticate politiche opposte, dieci anni prima a New York era stata fatta la stessa politica e l’alta criminalità di quegli anni non era affatto diminuita. Altre erano state le cause della diminuzione della criminalità degli anni ‘90 e Wacquant le espone nel dettaglio. La politica di Giuliani aveva solo prodotto, a costi elevatissimi, più polizia, più discriminazione e conflitto (per le aree della povertà ovviamente). Il mito culturale della "tolleranza zero" si inserisce in un altro: quello della "finestra rotta", secondo cui sono i piccoli gesti di disordine, come una finestra rotta in una casa, che portano al manifestarsi della criminalità più grave: e allora perseguire come reati, con "tolleranza zero", la miriade di condotte disordinate conseguenti al degrado degli ambienti di vita, serve ad evitare il peggio. Nessuna ricerca empirica ha mai dimostrato questo: si tratta di una favola costruita da un politologo ultraconservatore e da un poliziotto, entrambi con il pallino sociologico, raccontata in una rivista a grande tiratura e non in uno studio scientifico. Il risultato è che la favola è divenuta l’incubo di barboni, mendicanti, lavavetri e simili di tutto il mondo. Il richiamo alla certezza della pena è nato, sempre in ambiente Usa, nella dottrina giuridica, ma, via via che produceva danni e galera, è diventato anch’esso un mito culturale del pensiero unico securitario. Beccarla parlava di "pena certa", ma lo faceva in un tempo in cui mancavano le regole per definire le pene, la loro durata e le modalità di esecuzione e aggiungeva che come dovevano essere certe, le pene dovevano anche essere miti. Negli ultimi decenni del ‘900, si è imposta, in vari sistemi penali, una severa critica alla larga discrezionalità dei giudici nella determinazione e durata concreta delle pene. Negli Stati Uniti, in precedenza, era stato lo stesso giudice della condanna che dava una pena indicativa (da un minimo a un massimo), che i responsabili delle carceri definivano, poi, in concreto secondo la risposta dei detenuti agli interventi riabilitativi. Per le nuove teorie, il giudice doveva condannare, invece, ad una pena determinata, osservando un rigoroso prontuario corrispondente ai reati commessi. Dentro la nicchia del discorso degli esperti, poteva prosperare, così, il discorso securitario e, a rimorchio, le scelte politiche, ormai in auge nel corso degli anni ‘70: si considerava l’intervento riabilitativo in carcere come privo di efficacia e produttore soltanto di un deprecabile lassismo e si rilegittimava in pieno il carcere. Se ne era detto tutto il male possibile e, invece, ora il carcere diventava la pena affidabile, l’unica che metteva fuori corso il nemico sociale. La pena doveva essere certa: e così i detenuti da 204.000 nel 1973 sono arrivati a 2.300.000 nel 2005, più di dieci volte tanto, e crescono ancora. Strada facendo, si è arrivati ad enunciare la regola che, al terzo reato, anche se poco grave, la carcerazione diventa perpetua: tre sbagli e sei fuori, ovvero dentro, in carcere. Pena certa, dunque, ma, dimenticando Beccaria, anche sproporzionata e sempre più estesa inoltre a condotte piuttosto indicative di precarietà di vita, che criminali. Da noi, la pesantezza delle pene del codice Rocco, ha determinato una serie di interventi del periodo democratico, che ha portato una forte discrezionalità del giudice della condanna. Inoltre l’Ordinamento penitenziario ha previsto modifiche della pena inflitta e delle modalità esecutive della stessa: alla rigidità della pena inflitta in sentenza è stata sostituita la flessibilità, coperta costituzionalmente dalla sentenza 204/74 della Corte Costituzionale, riconfermata poi da varie sentenze successive. Ad ogni tentativo di nuovo Codice penale, si cerca di ridurre la discrezionalità dei giudici, sia di quelli del processo, che di quelli di sorveglianza durante l’esecuzione, convinti che debbano recuperarsi criteri più certi nella determinazione della pena e della sua durata. Con una notevole indifferenza alla proporzionalità della pena rispetto ai fatti, volendo avere più certezza della pena, si pensa a previsioni penali sempre più numerose, sempre più detentive, sempre più severe: come negli Usa, questo è successo ovunque. La promozione a mito culturale della certezza della pena fa sì che questa venga invocata in modo frequente e approssimativo, imponendola anche come obbligo per la custodia cautelare dei giudicabili, contro il principio costituzionale secondo cui nessuno può essere considerato colpevole prima della condanna definitiva. È contestata anche la flessibilità della pena durante la esecuzione e invocata, contro le affermazioni della Corte Costituzionale, la riduzione delle misure alternative, necessarie in relazione alla finalità rieducativa/riabilitativa/risocializzante che la pena deve avere ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. E si ricordi che ripetute ricerche confermano che le misure alternative alla detenzione riducono la recidiva tre/quattro volte più efficacemente della pena eseguita in carcere (dopo sette anni dalla conclusione della misura alternativa, la recidiva è inferiore al 20%; dopo lo stesso tempo dalla conclusione della pena in carcere, la recidiva è quasi al 70%). Dobbiamo sottostare ai miti culturali del pensiero unico securitario, tolleranza zero, finestre rotte e certezza della pena? Intanto, chiariamo che quei miti nascondono l’inconsistenza delle ragioni o, meglio, la presenza di cattive ragioni. Mettiamo in fila i punti salienti della situazione. Primo: le politiche securitarie e carcerarie sono diventate, come dimostrato nelle recenti elezioni, la questione centrale della politica generale, che pure di cose a cui pensare ne avrebbe tante altre. Secondo: il carcere cresce a dismisura e si riempie di stranieri, di tossici, di soggetti psichiatrici e socialmente abbandonati, non della criminalità più grave che gode di notevole disattenzione politica. Terzo: a un carcere pesante corrisponde uno stato leggero, anche per la necessità di spostare risorse sui sempre più estesi e costosi interventi polizieschi e carcerari: ci perdono gli interventi sociali, sostituiti dal carcere come "non risposta" ai problemi che si pongono. Quarto: se è la percezione dell’insicurezza che conta, notiamo, intanto, che essa subisce continui rilanci: fra i media e le grida politiche e legislative, quella percezione è entrata in una spirale di crescita inarrestabile, che è inevitabilmente arrivata anche ai pogrom. Quinto: ma se si continua a guardare solo alla percezione, i problemi reali non verranno mai affrontati e così puntualmente accade: repressione, carcere, espulsioni rilanciano le pulsioni antisociali e trasudano razzismo da ogni parte, ma peggiorano soltanto la situazione rendendo più gravi ed acuti i conflitti. Sesto: gli allontanamenti, gli sgomberi e le ruspe che sono l’immagine brutale ed efficace di questa politica, non suscitano reazioni, ma, invece, sempre più spesso, applausi: come dicevano le vecchie canzoni, pietà l’è morta e dietro la morte della pietà c’è il considerare l’altro come non-persona, c’è la disumanizzazione, che si coglie come "cifra" del tutto. Tento una sintesi, che non credo molto azzardata: dalla convinzione tatcheriana che non esistesse una cosa che si chiama società siamo arrivati alla fine del sociale, con i principi che lo hanno accompagnato: non è la fine della storia, ma il collasso delle regole che ci siamo dati. In questa fase, le comunità si ritrovano per fare fuori il diverso, ma superato questo momento, gli appartenenti a quelle comunità guarderanno negli occhi dei compagni e non ci troveranno alcuna buona intenzione. Nel nostro mondo, accanto all’inquinamento ambientale, esiste un inquinamento sociale, entrambi letali. Giustizia: la clandestinità diventa reato, cosa sarà delle carceri? di Davide Madeddu
L’Unità, 25 maggio 2008
Le carceri? Sono di nuovo affollate, e in prospettiva, andando in porto il disegno sulla sicurezza, rischia di bloccarsi anche il sistema giudiziario. È lo scenario che le associazioni che si occupano di carceri e diritti civili tracciano dopo la presentazione del disegno di legge presentato dal centro destra sulla clandestinità. Ossia la parte di pacchetto sulla sicurezza che dovrebbe prevedere il processo per direttissima per i clandestini che arrivano in Italia. Un progetto che, a sentire gli esperti, rischia di "bloccare in maniera devastante il sistema giudiziario". Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia e presidente dell’associazione A Buon Diritto non usa giri di parole: "La situazione è già preoccupante e, in prospettiva, rischia di degenerare". Motivo? "L’indulto è stato un provvedimento straordinario per una situazione straordinaria cui sarebbero dovute seguire riforme". Cosa che però non è avvenuta. "La prospettiva delineata dal disegno di legge è che l’intero sistema giudiziario possa bloccarsi". A spiegare il modo è Michele Schirò, avvocato penalista che per fare un esempio molto rapido parte dagli ultimi sbarchi di clandestini avvenuti sia nelle coste sud occidentali della Sardegna sia a Lampedusa in Sicilia. "Supponiamo che a Capo Teulada sbarchino tra sabato e domenica cento clandestini, è chiaro che queste persone, applicando il disegno di legge, dovrebbero essere processate per direttissima". Che tradotto vuol dire schedatura e trasporto dei clandestini ad esempio al Tribunale di Cagliari per il processo penale giacché il foro di Cagliari è quello competente per i processi per direttissima. "Nella condizione attuale ogni lunedì ci sono una media di dieci processi per direttissima - spiega - un numero non elevato che però rallenta l’attività giudiziaria. È chiaro che se all’improvviso arrivassero cento persone da processare l’intero sistema non sarebbe in grado di sopportare un carico così elevato. Non si riuscirebbe di certo a gestirlo". Se poi i clandestini, invece che cento fossero, come avviene a Lampedusa, 300 la situazione sarebbe ancora più preoccupante. "È chiaro che al tribunale di competenza ci sarebbero serie difficoltà a gestire una situazione di questo tipo". Naturalmente i problemi non sarebbero solamente per le aule di tribunale, ma anche per le strutture che dovrebbero ospitare i clandestini. Ossia dalle caserme alle carceri continuando poi con i centri di permanenza temporanea. "L’insieme delle misure presenti nel pacchetto sicurezza produrrà l’esplosione delle galere e dei centri di permanenza temporanea e assistenza - dice Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone - . Oggi se si somma la capienza di carceri e Cpt arriviamo a meno di 46 mila posti. Per contenere mezzo milione di persone bisognerà requisire ostelli, caserme, alberghi, ospedali. Se così non fosse sarà stata solo propaganda". Parte dalle 53mila persone presenti nelle carceri italiane per parlare di "un problema che cresce ogni giorno", Riccardo Arena, avvocato e conduttore e ideatore di Radio Carcere, la trasmissione in onda ogni martedì su Radio Radicale non usa giri di parole: "A oggi nelle carceri d’Italia ci sono 53 mila persone, 10mila in più della capienza regolamentare. Con l’indulto c’è stato l’ingresso di 1000 al mese. Oggi senza nessuno intervento sull’edilizia e sulle pene siamo a 53mila persone". Parte dalle riforme "mancate" e punta il dito contro il sistema dell’edilizia penitenziaria Arena, "vecchio di trent’anni". In Italia abbiamo il più alto numero di carceri d’Europa - dice - ma il minor numero di posti. Tra le varie cose da modernizzare sono le carceri 205, vecchie fortezze, carceri costruite male pensate all’antica perché il detenuto rimanga tutto il giorno in cella". Per Arena la soluzione al problema deve passare per un cambiamento del modo di agire. "È necessario fare carceri sicure per i delinquenti veri, ma utili per gli altri dove si lavora. Carceri pensate in base allo scopo che si vuole ottenere. Prima il carcere poi ci si inventa la fabbrica". Quanto al fattore clandestini Arena non ha dubbi: "Ci si preoccupa dove mettere i clandestini, ma ci si dovrebbe preoccupare anche di costruire i Tribunali, perché altrimenti dove si processano? In questo modo si blocca la giustizia". Giustizia: D’Antona; ho attraversato il dolore… ma senza odio di Federica Cappellato
Il Gazzettino, 24 maggio 2008
"Nel mio modo di sentire, perdono non è la parola giusta, ci si può guardare negli occhi, tentando di capirsi reciprocamente, acquisire consapevolezza di quello che è stato e delle ragioni che lo hanno determinato: io ho attraversato il dolore ma ho avuto la fortuna di non essere avvelenata dall’odio". Olga D’Antona, vedova del giurista Massimo D’Antona ucciso nel 1999 dalle Brigate Rosse, ha partecipato a quella grande giornata dell’ascolto e del confronto, che talvolta si nutre di umiltà e silenzio, offerto da "Sto imparando a non odiare", il convegno organizzato nella casa di reclusione Due Palazzi dalla redazione del periodico "Ristretti Orizzonti". Vittime da una parte, carnefici dall’altra, hanno tentato di spezzare il circolo vizioso del rancore ascoltando le coraggiose parole di Andrea Casalegno, figlio del giornalista Carlo, assassinato dai terroristi durante gli anni di piombo e Giuseppe Soffiantini, industriale bresciano vittima di un sequestro dell’anonima sarda durato oltre 200 giorni. Attenta la platea, formata da cinquecento tra operatori del privato sociale, giudici, avvocati, studenti e una quarantina di detenuti del carcere padovano. Tra questi anche Marino Occhipinti, componente della banda della Uno bianca. "Questo convegno nasce da un incontro fondamentale avvenuto il 4 gennaio dello scorso anno - ha ricordato quest’ultimo parlando a nome dei detenuti - quando Olga D’Antona venne qui a parlarci per la prima volta, facendoci capire che c’è un’altra prospettiva nell’atto criminoso: quella della vittima del reato. Siamo dunque qui per ascoltarci". Tra le testimonianze che hanno emotivamente segnato la giornata quella di Silvia Giralucci, figlia di Graziano esponente dell’Msi assassinato assieme a Giuseppe Mazzola nella sede del partito il 17 giugno 1974. "Quando mio padre fu ucciso - ha detto Silvia - avevo tre anni. Quando i suoi assassini vennero condannati ne erano passati sedici, io mi stavo preparando agli esami di maturità. In ogni caso giustizia è stata fatta, ma non è sufficiente una valutazione monetaristica della pena, per cui quando una persona ha pagato gli anni di reclusione ritorna tutto come prima. Ci sono gli ex terroristi, certo, ma non si può diventare ex assassini: credo che chi ha ucciso una persona come quelli che hanno ucciso mio padre, ogni mattina dovrebbe chiedersi per prima cosa cos’ha fatto, e camminare con il capo chino perché ogni giorno in più che vive è un giorno regalato mentre mio padre nessuno potrà ridarlo indietro alla mia famiglia". Sulla riabilitazione degli ex terroristi Silvia Giralucci ha aggiunto: "Tempo fa l’allora Ministro alla Solidarietà Sociale Paolo Ferrero aveva conferito un incarico a Susanna Ronconi. Ne nacque un dibattito che mi ha ferito moltissimo: non c’è attenzione per il dolore dei famigliari delle vittime e non c’è uguaglianza tra diritti dei colpevoli dei reati gravi, specie se politici e chi di questi delitti è vittima". A spiegare il senso dell’intensa giornata, che ha richiesto un anno e mezzo di organizzazione e ha goduto dell’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica e con il patrocinio di diversi enti, tra cui il Comune e la Provincia di Padova, Ornella Favero direttore di "Ristretti": "L’odio è spesso la ragione che spinge a commettere azioni violente e illecite; odio che poi aumenta in carcere poiché gli autori di reato diventano a loro volta vittime di una carcerazione, che non di rado lede la loro la dignità. Le vittime, a causa dei danni subiti, si trovano poi a portare rancore e odio verso i loro carnefici e questi sentimenti condizionano tutta la loro vita". Scrive Dritan Iberisha, omicida, nel periodico di informazione del Due Palazzi: "Il perdono del padre del ragazzo che avevo ucciso è stato come respirare un’aria che non mi spettava: quando mi ha detto che non mi odiava più mi sono sentito perduto, mi è mancata la terra sotto i piedi e sono stato assalito da una sofferenza che prima nemmeno immaginavo". Genova: progetto "bibliobus"… se l’evasione arriva con un libro di Debora Badinelli
Secolo XIX, 24 maggio 2008
Evadere... con un libro. È l’obiettivo del progetto sperimentale che il bibliobus della Provincia porta nel carcere di Chiavari. Presentato ieri mattina dagli assessori Milò Bertolotto (delegata alle Carceri) e Giorgio Devoto (Cultura) e dal direttore della Casa Circondariale, Maria Milano, il bibliobus va a integrarsi con una serie di interventi finalizzati a migliorare le condizioni dei carcerati. Tra i progetti pronti al via c’è anche quello dell’area verde, ormai quasi ultimata. "Siamo ai ritocchi finali - conferma il direttore - L’inaugurazione potrebbe avvenire la prossima settimana". L’area verde, finanziata dalla Provincia con uno stanziamento di cinquemila euro, sarà uno spazio con alberi, aiuole, giochi, panchine e un gazebo per il picnic. Un’area nella quale i detenuti potranno incontrare le famiglie e stare con i loro figli (il 50 per cento dei reclusi è padre) in un ambiente meno asettico e formale del parlatorio. Nell’area verde i carcerati potranno anche ritirarsi a leggere un libro preso in prestito nella biblioteca. La struttura interna, con un patrimonio di 500 volumi, sarà arricchita con nuovi libri in arrivo dalla Provincia (ieri sono stati consegnati i primi) e da alcune donazioni private: il 4 giugno Paolo Lombardi, presidente della Fiera di Genova, consegnerà alla struttura di via Brizzolara una cassa di volumi. "Il carcere di Chiavari - spiega Maurizio Pane del centro sistema bibliotecario genovese - è il primo della provincia a entrare nella rete di bibliobus, lo fa con un progetto sperimentale che prevede il rifornimento ogni 15 giorni dei libri richiesti dai reclusi". Le ordinazioni dei titoli saranno raccolte da Giuseppe Del Vecchio, detenuto di origini livornesi, appassionato di letteratura al punto che, a 42 anni, si è iscritto alla facoltà di Lettere di Genova e punta alla laurea. A lui andrà una borsa lavoro di 2.500 euro. "Sarà il bibliotecario interno - spiega l’assessore provinciale Giorgio Devoto - e gestirà il patrimonio librario del carcere così come gli è stato insegnato durante il corso di formazione organizzato dal nostro sistema bibliotecario". Per riqualificare il locale biblioteca, la direzione, con un progetto dell’architetto Francesca Balossi (insegnante all’Istituto Caboto, scuola che in carcere organizza corsi per i reclusi), partecipa a un bando e confida nel finanziamento della Fondazione Carige. L’intervento costa 18 mila euro. "La rilevanza di questo progetto - spiega l’assessore provinciale Milò Bertolotto - è accentuata dal clima negativo che si respira attorno al tema della giustizia. La lettura è occasione di confronto con gli altri, di crescita interiore. Lo sarà anche per gli stranieri, grazie all’invio di testi nelle loro lingue". La popolazione carceraria di Chiavari è composta da 74 uomini, di cui il 60 per cento italiano e il 40 straniero, in prevalenza marocchino. L’età media dei detenuti è 30 anni e i reati più comuni sono lo spaccio di droga e il furto. Per gli stranieri il sistema bibliotecario provinciale sta pensando all’invio di un catalogo di libri in lingua araba. "Le biblioteche sono l’ospedale dell’anima - spiega il direttore, Maria Milano, citando "Le memorie di Adriano" di Marguerite Yourcenar - In carcere i libri consentono di evadere, virtualmente, e di riscattarsi". La prima ricerca tra gli ospiti del penitenziario ha evidenziato una preferenza per i classici del Novecento. L’amore per la lettura e per la scrittura ha portato uno degli ospiti, Mario Calderoni, a vincere il concorso di poesia bandito dai Corsi di cultura per la terza età di Chiavari. La premiazione ci sarà sabato prossimo, alle 16, all’auditorium San Francesco. Ancona: bambini e detenuti, tutti insieme a pulire la spiaggia
Corriere Adriatico, 24 maggio 2008
Le attrezzature (sacchi, rastrelli, guanti, pale) le ha messe a disposizione Anconambiente; il resto, cioè l’entusiasmo, la buona volontà e qualche ora di fatica sotto il sole, ce l’hanno messo i volontari che ieri mattina si sono dati appuntamento per ripulire la spiaggia di Torrette. All’iniziativa, promossa dalla V Circoscrizione e dall’istituto comprensivo "Ancona Nord", in collaborazione con il parroco don Giovanni Varagona, con Legambiente e con il circolo "Arti e Mestieri" (che a fine mattinata ha offerto a tutti la merenda) hanno risposto hanno risposto oltre 150 persone, fra cui una sessantina di ragazzi delle scuole della zona ed un gruppo di "ospiti" del carcere di Barcaglione, felici per questo inatteso momento di libertà, sempre sotto stretto controllo dei responsabili dell’istituto di pena, che è stato qualcosa più della solita ora d’aria. Una storia bella da raccontare e anche da vivere: perchè lo spirito di Ancona è sempre stato questo. Impegno, partecipazione, condivisione. "L’esperienza è riuscita benissimo - assicura Bruno Bilò, presidente della circoscrizione - perché tutti si sono messi a disposizione con grande buona volontà ed anche i carcerati hanno lavorato con buona lena, insieme a noi, per raggiungere l’obiettivo che era quello di rendere finalmente pulita e tranquillamente fruibile per l’estate la nostra bella spiaggia". In poco più di due ore i volontari hanno raccolto una decina di sacchi di spazzatura (rigorosamente divisa secondo i diversi materiali da portare al riciclo) ed formato circa quaranta cataste di legna che Anconambiente smaltirà nei prossimi giorni. I 1.200 metri di litorale fra Collemarino e la stazione di Torrette sono uno dei pochi tratti rimasti senza concessioni e gli abitanti del quartiere si stanno dando da fare affinché la situazione rimanga inalterata. "La spiaggia di Torrette - prosegue Bilò - deve restare libera e la variante e il piano particolareggiato, che sono in via di approvazione, rispecchiamo questo nostro desiderio, quindi noi residenti nel quartiere ci stiamo dando da fare per curare questo nostro pezzetto di litorale". L’arenile comincia ad essere molto frequentato da chi ama il mare in totale libertà e a quanto pare non solo dagli abitanti di Torrette, ai quali basta superare strada e ferrovia, ma anche, come fa notare Bilò "dagli anconetani di vari quartieri ed in particolare da un bel gruppo del Piano". E questo litorale assolutamente gratuito, tranquillo, a due passi dalla città e ben collegato con i mezzi pubblici, pare sia anche notevolmente interessante dal punto di vista naturalistico. "Ci sono le dune naturali - osserva il presidente della circoscrizione - coperte da una bella vegetazione che gli studenti dell’Itis stanno studiando e noi vorremmo arrivare a tutelare". Unico problema, adesso che è stata risolta anche la questione degli scarichi a mare, è quello degli scogli lungo la massicciata della ferrovia, un tempo necessari per proteggere i binari dal rigore del mare. "Comune e Regione - chiarisce ancora Bilò - hanno cominciato a ragionare sul da farsi perché la scogliera raccoglie sporco e detriti, i massi quindi potrebbero essere tolti ed utilizzati per rinforzare le barriere in mare". Larino: gli studenti-detenuti vincono il trofeo nazionale "E.I.P"
Comunicato stampa, 24 maggio 2008
Il 21 maggio presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II di Roma, l’Itis "E. Majorana" Sede Carceraria di Larino (CB) per il XXXVII Concorso Nazionale, ha vinto il Trofeo Nazionale "E.I.P. Guido Graziani" intitolata al fondatore dell’E.I.P Italia. L’Associazione non governativa Scuola Strumento di Pace, Sezione dell’E.I.P. Ecole Instrument de Paix, riconosciuta dall’Unesco, che le ha attribuito le Prix Comenius, dal Consiglio d’Europa che l’ha accreditata tra le quattro associazioni esperte nella pedagogia dei diritti umani, gode di statuto consultivo presso l’ONU dal 1967. L’Associazione che ha meritato per il 2006 le Prix International "Maitre pour la Paix" a Bruxelles. Il XXXVII Concorso ha proposto alle scuole tematiche e piste di lavoro relative alle celebrazioni significative sul piano della cultura dei Diritti Umani dell’anno in corso: valorizzare esperienze educative e didattiche fondate sul miglioramento delle relazioni interpersonali e interculturali; promuovere la conoscenza, l’approfondimento e l’interpretazione educativo - didattica della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dei Diritti del Fanciullo e delle Convenzioni Europee, al fine di stimolare la cooperazione tra Comunità Scolastiche in una dimensione sopranazionale. Apprezzamenti per il lavoro svolto sono stati formulati dal Presidente Internazionale Monsieur Edouard Mancinì e dal Presidente della sezione Italia E.I.P. Prof.ssa Anna Paola Tantucci. Gli alunni hanno dato vita ad un triplice dvd "Creazione galeotte" il cui file rouge è rappresentato dall’educazione alla legalità: "Vivere memento"; "Speranze in penombra"; "Esci dalla nebbia… del fumo!" Vivi apprezzamenti per il lavoro svolto sono stati formulati dal Presidente Internazionale Monsieur Edouard Mancinì e dal Presidente della sezione Italia E.I.P. Prof.ssa Anna Paola Tantucci. Intanto Luigi D.M., uno degli autori del lavoro, ha espresso grande soddisfazione per l’ambito riconoscimento, sottolineando ancora una volta l’importanza della scuola in un ambito carcerario. "Una struttura scolastica all’interno di queste mura rappresenta per tutti noi un’ancora di salvezza e una ipoteca positiva sul nostro futuro". Molto soddisfatta la coordinatrice del lavoro Prof.ssa Italia Martusciello. Il Direttore della Casa Circondariale di Larino ha rivolto parole di lode agli alunni e si è complimentata per l’ennesimo riconoscimento, ricordando che l’anno scorso gli studenti avevano ottenuto l’ambitissimo Premio Internazionale "E.I.P. Jacques Muhlethaler" intitolato al fondatore dell’E.I.P. Internazionale per un’azione di pace volta ad unire le persone e i popoli. Immigrazione: dall’Assoc. "Un ponte per…" critiche e proposte
Comunicato stampa, 24 maggio 2008
Il Comitato Nazionale di "Un ponte per…" esprime una giudizio fortemente negativo sulle misure prese dal Governo in merito alle politiche verso la immigrazione e il popolo rom, nel merito e sul loro significato complessivo. Il razzismo istituzionale che esprimono intrecciato con la xenofobia dilagante può mettere a rischio la stessa natura democratica del nostro paese. Il Comitato Nazionale di "Un ponte per…" esprime un forte allarme per la crescente xenofobia che si sta sviluppando nel nostro paese e di cui anche il risultato elettorale è specchio. Il nostro allarme nasce dalla convinzione che la storia può ripetersi e che la banalizzazione del razzismo, o il suo sfruttamento politico, sia già parte di questa ripetizione. Siamo allarmati perché il razzismo si accompagna sempre con la guerra, anzi la giustifica e la sostiene. Siamo allarmati perché vediamo la possibilità, nella competizione globale per le risorse in corso, che la guerra nella sua forma più devastante conosciuta già due volte nel secolo passato possa tornare ad essere elemento determinante della vita quotidiana di ognuno di noi. Chiediamo a noi stessi ed a tutti di non sottovalutare i fenomeni a cui stiamo assistendo, dagli assalti ai campi zingari, alle ronde, dalla nomina di commissari straordinari anti rom, al divieto di pulizia dei vetri ai semafori. Particolare allarme desta la criminalizzazione dell’intera popolazione zingara. È un fenomeno ed una politica che si è già vista in Europa e che a portato a tragedie ancora troppo misconosciute. L’Italia, per aver partecipato con il fascismo alla loro persecuzione, ha un debito nei confronti delle popolazioni zingare. Le leggi razziali, i campi di concentramento, il tentativo di sterminio ha riguardato, oltre agli ebrei, anche gli zingari ed anche l’Italia ne è stata coinvolta. Ricordiamo che le popolazioni zingare hanno tributato centinaia di migliaia di vittime alla follia nazista. Riteniamo utile esprimere alcune considerazioni di fondo sul fenomeno xenofobo: La incertezza del futuro determinata dalla competizione selvaggia tra economie, sistemi paese, imprese, lavoratori, che caratterizza la presente fase di globalizzazione iperliberista sta innescando in tutto il mondo reazioni identitarie e di "ricerca del nemico" o del capro espiatorio. Il fenomeno xenofobo a cui assistiamo in Italia fa il paio infatti con il diffondersi di fondamentalismi religiosi, nazionalismi e comunitarismi settari in tutto il mondo. Questo processo favorisce la formazione di contesti culturali utili alla guerra. Anche la mancanza di alternative politiche ed economiche, percepite come realistiche, all’attuale dominio del mercato è responsabile di questo processo. Nella percepita impossibilità di contrastare i processi che sono alla radice dell’impoverimento e del furto di futuro di masse crescenti di popolazione anche in occidente si sviluppa la guerra tra poveri. Occorre quindi che, oltre che sul piano culturale ed educativo, il fenomeno sia contrastato alla radice innanzi tutto ridando il primato alla politica, intesa come ricerca del bene comune, difesa delle parti più deboli della società, mediazione tra interessi legittimi, il primato sul mercato, sul profitto, sui centri di potere economico e finanziari. Occorre una proposta politica in grado di individuare nel mercato, nel comportamento antisociale delle imprese, nello strapotere dei centri di potere finanziari, nel trasferimento di reddito dal lavoro dipendente, nella evasione fiscale, le cause reali della minaccia alla sicurezza dei cittadini. Sul piano culturale non è più sufficiente lavorare sui concetti di convivenza e di rispetto e accettazione dell’altro, ma occorre contrastare con forza il sistema di valori insediatisi come corollario dalla globalizzazione neoliberale, a cominciare dal negare valore positivo alla competizione per riscoprire la collaborazione e la solidarietà soprattutto tra lavoratori, tra poveri, tra classi sociali, e ridare valore alla persona umana, non vista solo come lavoratore o consumatore, ma alla sua complessità e ai suoi bisogni culturali e spirituali, alle suo sistema di relazioni sociali, familiari, comunitarie, proporre modelli di convivenza in cui le relazioni e non il possesso ed il consumo di beni definiscano il benessere delle persone. Occorre invece promuovere politiche per garantire i diritti umani di tutti i residenti in Italia e il riconoscimento dell’apporto che i lavoratori immigrati danno alla nostra economia e il contributo culturale che possono dare alla elaborazione di una cultura adeguata alla nuova composizione etnica che il nostro paese è destinato ad assumere nei prossimi decenni. Il riconoscimento dei diritto di voto è parte dovuta al riconoscimento di questi contributi. Una politica dei diritti per tutti, quindi, alla casa, al giusto reddito, alla sicurezza del lavoro e sul lavoro, che unisca su questo piano le masse popolari del nostro paese e contrasti la guerra tra poveri. Riteniamo gravissime le responsabilità della classe dirigente italiana, sia di destra che di sinistra, che invece di contrastare il fenomeno sia sul piano culturale che sul piano del modello socio economico che lo produce, corre dietro ai sondaggi e alle cosiddette percezioni contribuendo a sviluppare un circolo vizioso che alimenta la violenza. Riteniamo gravissime le responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa che, nel correre dietro all’audience e alle vendite, amplifica il fenomeno contribuendo all’innalzamento della percezione di pericolo, all’allarme sociale e alla diffusione della paura. La mancata integrazione nel sistema socioeconomico dei cittadini europei di origine nomade è essa stessa una fallimento delle istituzioni nazionali e comunitarie che non sono state in grado, dopo lo sterminio a cui gli zingari sono stati sottoposti dal nazismo e dal fascismo di proporre modelli di convivenza che, nel rispetto delle tradizioni, permettessero di ridare valore e funzione a tali popoli , proponendo solo ghetti o assimilazione. Chiede a tutti i propri volontari e ai propri comitati locali di attivarsi nei modi e nei tempi in cui sono in grado, insieme alla società civile responsabile dei loro territori per contrastare il fenomeno, lanciare l’allarme, partecipare alle iniziative e promuovere, laddove possibile, la costruzione di coordinamenti di associazioni, gruppi, istituzioni per contrapporsi, attraverso una presenza attiva nei territori, alle logiche della paura, dell’insicurezza, del pericolo. Si propone di verificare la fattibilità di due iniziative: la costituzione di una banca dati degli episodi di razzismo finalizzata a studiare il fenomeno e ad attivare azioni volte al rispetto delle legge contro l’istigazione all’odio razziale; promuovere iniziative volte a ricordare la strage di rom perpetrata dal nazismo. Messico: carneficina in guerra a droga, 34 morti in un giorno di Matteo Buffolo
Associated Press, 24 maggio 2008
Ciudad Juarez - In Messico, tutti parlano di guerra "de los cuernos de chivos". La guerra delle corna di vacca, un nome che potrebbe far pensare ai toreri e alle corride. Non è così. La guerra delle corna di vacca prende il nome dall’arma preferita dai narcotrafficanti messicani, il Kalashnikov, che col suo caricatore ricurvo da 70 colpi ricorda le corna dei bovini. Ma che è decisamente meno mansueto, visto che dal 2001 a oggi i morti di questa guerra fra i signori della droga e il governo di Città del Messico sono stati più di 12.000, di cui 3.600 nell’ultimo anno e mezzo. Oggi, l’epicentro del conflitto è la città di Ciudad Juarez, la più popolosa dello stato di Chihuaha, la provincia più grande di tutto il Messico. A pochi chilometri dalla frontiera con gli Usa, è lo snodo principale della droga che dal Sud America arriva negli Stati Uniti. Di fronte a Ciudad Juarez, in Texas, c’è El Paso: in pratica, una sola grande area metropolitana divisa in due dal confine. Con la differenza che da una parte, regna l’ordine, mentre nella metà messicana sparatorie, morti e ritrovamenti raccapriccianti sono all’ordine del giorno. I numeri sono impressionanti. Dall’inizio di maggio più di 70 morti, di cui 34 domenica scorsa, un record. Dall’inizio dell’anno, oltre 300. In marzo, gli agenti della polizia messicana hanno ritrovato una fossa comune con 36 cadaveri nel giardino di una villetta, dove hanno anche sequestrato ingenti quantitativi di marijuana. Una situazione che sembra sempre più senza soluzione se anche il capo della Polizia di Ciudad Juarez si è dimesso, dopo reiterate minacce di morte. Guillermo Prieto era finito in una lista di 22 agenti da eliminare stilata dai boss della droga: morti i primi sette, ha deciso di lasciare il comando della città, per non rischiare di fare la fine di tanti colleghi. Colleghi anche di alto rango, come il capo ad interim della PF (la polizia federale), Edgar Millan Gomez, ucciso a inizio mese in una sparatoria proprio sulla porta di casa sua. Prima di lui era toccato al direttore operativo della polizia dello stato di Morelos, Victor Enrique Payan Anaya, rinvenuto nel bagagliaio di un auto di servizio assieme a un altro agente, Ferry Melendez Diaz. I due poliziotti sarebbero stati intercettati mentre si recavano da Cuernavaca, capitale di Morelos, a Città del Messico e subito freddati coi Kalashnikov. Il governo del presidente Felipe Calderon ha deciso di reagire all’escalation di violenza in maniera quanto più determinata e dura possibile, mobilitando oltre 36.000 uomini fra polizia ed esercito. Uno spiegamento di forze ingente, che è riuscito a raggiungere molti risultati, pur subendo perdite considerevoli: nell’ultimo anno e mezzo, infatti, sono stati uccisi oltre 300 poliziotti, fra cui almeno 25 erano ufficiali d’alto rango. Alcuni sono morti in sparatorie, altri in modi molto più cruenti. Dal dicembre 2006 i killer dei narcotrafficanti, fra cui i "Los Zetas" e "Los Pelones y La Familia" sono i due gruppi più noti e più pericolosi, hanno deciso di utilizzare un nuovo metodo per inviare messaggi al governo e alle bande rivali: decapitare i poliziotti catturati e i traditori. Anche la scorsa settimana, nel distretto di Città del Messico, è stato rinvenuto nel bagagliaio di automobile un corpo decapitato con la testa in una borsetta di plastica e un biglietto che diceva "Per aver voluto metterti contro di noi". Ma dopo gli ultimi successi, con l’arresto di personaggi di spicco dei vari gruppi e il sequestro di ingenti quantità di droga, la situazione per gli uomini della Pf e dell’esercito si è fatta più dura: vedendosi colpiti, infatti, i Los Negros, influenti nel cartello di Sinaloa, si sono avvicinati agli uomini del cartello del Golfo per resistere in maniera più efficace alle pressioni governative. Assieme a loro agiscono, come braccio armato, anche i "Los Zetas": molti sono ex militari corrotti, abili nell’uso delle armi e degli esplosivi più sofisticati, che si sono dimostrati capaci di resistere anche all’esercito regolare. Un aiuto al governo messicano potrebbe arrivare da Washington, dove il Congresso ha votato un piano da 350 milioni di dollari. I disordini sulla frontiera, infatti, si ripercuotono anche negli Usa: molti ufficiali di polizia chiedono asilo politico e talvolta le scorribande dei boss messicani li portano oltre confine. È proprio durante una di queste che è stato arrestato Osiel Cárdenas, ex capo del cartello del Golfo, ancora detenuto negli Stati Uniti. La cooperazione fra i due Paesi si è fatta più intensa dopo l’11 settembre 2001: fino ad allora la frontiera fra Messico e Usa era porosa, mentre dopo l’attentato alle Torri Gemelle i controlli sono molto aumentati. Questo ha portato a scontri fra i vari clan, che prima occupavano un pezzo di frontiera ciascuno e che hanno iniziato ad affrontarsi per il controllo totale di un mercato da 20 miliardi di dollari l’anno fatto di marijuana, cocaina, eroina e metanfetamine da smerciare negli Usa. La prospettiva, anche per gli Stati Uniti, non è piacevole. Se la guerra alla droga del presidente Calderon dovesse fallire, Washington si troverebbe come vicino meridionale un narco-stato da 110 milioni di abitanti. Non esattamente il vicino che ci si può augurare.
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