|
Giustizia: il carcere "paga" le mancate riforme dopo l’indulto di Gianfranco Spadaccia
Fuoriluogo, 30 giugno 2008
Il Rapporto 2008 sui diritti globali contiene una raccolta enorme di materiali di documentazione che, se parte dalla considerazione della situazione italiana (su cui si concentra quasi interamente l’introduzione di Sergio Segio), si allarga per cerchi concentrici all’intera situazione mondiale. Esso costituisce dunque un materiale prezioso per chiunque si batta per i diritti umani con una particolare attenzione a tutti coloro che, per ragioni di fatto o di diritto, ne sono esclusi e sono vittime di odiose forme di sfruttamento e di oppressione: i migranti, i senza tutela, i poveri, gli affamati del terzo mondo, i popoli non rappresentati e le minoranze etniche esposte al rischio di un genocidio innanzitutto culturale, le vittime del terrorismo, delle guerre e delle guerre civili Progettato e realizzato dalla Associazione SocietàINformazione e coordinato da Sergio Segio il rapporto si compone di ben 1.350 pagine, divise in quattro grandi sezioni di ricerca - diritti economico sindacali, diritti sociali, diritti umani civili e politici, diritti globali ed ecologico ambientali - e numerose sottosezioni, corredate da interviste, cronologie e statistiche ed è presentato da una prefazione di Guglielmo Epifani. Le questioni della giustizia e del carcere sono, al pari di quelle sulla sicurezza, nonostante le ovvie connessioni con il tema dei "diritti umani, civili e politici", giustamente trattate nella sezione "diritti sociali" poiché su tali questioni passa una delle nuove e più drammatiche frontiere della discriminazione di classe che colpisce i nuovi poveri, gli emarginati, i più deboli e indifesi. Qualcuno ha definito il carcere una "discarica sociale". Può apparire una definizione cinica o demagogica ed è invece filologicamente esatta se si riflette sul fatto che ormai da tempo e sempre di più la classe politica con l’appoggio di opinion leader che si dichiarano liberali, "scarica" letteralmente sul carcere i problemi e le emergenze sociali che non riesce a risolvere altrimenti. Il rapporto non fa in tempo naturalmente a prendere in considerazione i recenti provvedimenti del governo Berlusconi. Essi hanno avuto però la loro premessa nella rinuncia del governo e della maggioranza di centrosinistra a porre mano a quelle riforme (Codice penale, Bossi-Fini, Giovanardi-Fini, riforma della giustizia) che avrebbero dovuto - dopo l’indulto - costituire, anche in termini di sicurezza, una politica alternativa alle ricette della destra. È come se il centrosinistra, anche per la situazione pericolante della sua maggioranza al Senato, si fosse ritratto spaventato dal dovere di una profonda politica di riforme. Ma, così facendo, ha spianato la strada alle campagne mediatiche sulla criminalità e sull’insicurezza. E, nell’assenza di una politica democratica di riforme, lo stesso centrosinistra ha finito per subire gli effetti di quelle campagne omologandosi soprattutto nelle scelte degli amministratori di alcune grandi città alle scelte della destra. Perché se è vero che la domanda di sicurezza non è solo della destra, le risposte di una sinistra democratica non possono essere le stesse. I risultati di due anni di paralisi legislativa e politica in questo campo sono denunciati nel rapporto con una ricostruzione minuziosa e documentata. Una indagine non meno interessante è riservata al problema dell’immigrazione e a quello ormai esploso dei rom, divenuti in questi mesi il capro espiatorio di situazioni non governate. La destra ha la responsabilità di blandire una vera e propria ondata xenofoba e di non contrastarla. Il centrosinistra ha la responsabilità di non aver saputo mettere in atto misure rigorose ma tendenti all’inclusione anziché all’esclusione e all’emarginazione. Giustizia: la strana "cura berlusconiana" della democrazia… di Giuseppe D’Avanzo
La Repubblica, 30 giugno 2008
Ai livelli infimi, il tempo non passa. Lo sapevamo. Berlusconi ci aveva ricordato presto come fosse un’illusione ottica la metamorfosi in homme d’Etat. Insofferente delle regole (etica, legalità, grammatica politica, sintassi istituzionale), il magnate di Arcore vuole ieri come oggi ridisegnare lo Stato sulle sue misure e interessi liberando il proprio potere - "unto" dal consenso popolare - da ogni contrappeso. Il Corriere della Sera, pulpito liberale, ne dovrebbe essere raccapricciato o almeno impensierito. Accade quel che è già accaduto in passato: da quei pulpiti soi-disants liberali si odono argomenti che tolgono il fiato. La chiave è la consueta, è musica vecchia. Oltre ogni ragionevolezza, non si vede e nulla si dice del fatto più scomodo: l’interesse privatissimo del capo del governo, padrone di un Parlamento obbediente, a legiferare per proteggere se stesso a prezzo della distruzione del processo penale, dell’indebolimento della sicurezza nazionale, dell’incostituzionalità delle norme che gli garantiscono una impunità perpetua. Si chiudono gli occhi dinanzi allo "scandalo" berlusconiano: gli affari privati del presidente del Consiglio sono la sola voce nell’agenda di un governo alle prese con un Paese impoverito, stagnante, in declino, impaurito da una crisi di cui non avverte né la fine né le vie d’uscita. L’oratore non sembra interessato a capire che cosa avviene e che cosa può avvenire. Non gl’importa. Il suo bersaglio è concreto. Vuole indicare all’opinione pubblica dov’è "la patologia"; da chi e che cosa deve guardarsi il Paese; chi minaccia con passi eversivi la legittimità del potere politico. Non ci sono "i bolscevichi" oggi alle porte, come nel 1919/1924 quando Luigi Albertini, direttore e comproprietario del Corriere, applaudì l’"anticorpo fascista" salvando l’Italia da "gorghi del comunismo" (possono avere delle costanti le storie collettive). Oggi, per l’oratore pseudo-equanime, l’orda barbarica che minaccia il Paese e la democrazia, è nientedimeno che la magistratura. Sono quelle toghe nere che con "l’arbitrio dell’azione penale, con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità dei pubblici ministeri", imbrigliano Berlusconi "con un’immane mole di procedimenti giudiziari". Lasciamo perdere che all’oratore sfugge come la plastica dimostrazione della terzietà dei giudici italiani sia proprio la storia giudiziaria dell’uomo di Arcore, assolto e liberato dalla prescrizione, mai condannato. Dimentichiamo che, se di Berlusconi si sono dovuti occupare centinaia di giudici in migliaia di udienze, è per la scelta dell’imputato di fuggire dal processo e dai suoi "giudici naturali" verso altri giudici, verso altri tribunali e Corti in attesa di manipolare a suo beneficio codice penale (i reati), codice di procedura penale (i processi), Costituzione (i poteri, il loro equilibrio). Andiamo al sodo. L’idea che trapela dal sermone è che c’è una sola cura, e necessaria: fine dell’obbligatorietà dell’azione penale; separazione della funzione requirente da quella giudicante; ridimensionamento del Consiglio superiore della magistratura. Osserviamo il mostro che questa "terapia" partorisce. Carriere distinte, dunque. I pubblici ministeri diventano, come nel codice napoleonico, procureurs impériaux o avvocati dell’accusa scelti, istruiti, promossi, puniti dal ministro perché stanno al guardasigilli come il prefetto al ministro dell’Interno (soltanto per pudicizia, forse, l’oratore non lo spiega). L’azione penale non è più obbligatoria. Il pubblico ministero sceglie a mano libera i suoi oggetti, guidato e consigliato dal potere esecutivo. Difficile credere a qualche processo molesto che scuota l’alveare o affondi il bisturi nella diffusa corruzione nazionale. Più facile immaginare che i "non conformi", le teste storte, gli "erranti" rischino qualcosa, magari soltanto vivere con un bastone a poca distanza dalla testa. Naturalmente, in teoria, anche il modello che prevede il pubblico ministero diretto dall’esecutivo ha delle virtù (può bluffare il pubblico ministero indipendente come essere ineccepibile il requirente che risponde al ministro), ma ogni disegno normativo non nasce nel vuoto pneumatico. Quello che si augura l’oratore pseudo-neutrale dovrebbe prendere forma nell’Italia 2008 dove un uomo, che viene dal capitalismo d’avventura, governa una signoria populista: possiede direttamente - e direttamente controlla, come s’è visto nell’affare Saccà - l’intero sistema televisivo, un arsenale che gli permette di "creare" la realtà, inoculare affetti o fobie, insufflare o determinare la necessità di improrogabili decisioni. È l’uomo che, alla prima occasione (1994), propone come ministro di giustizia un suo avvocato e sodale (Cesare Previti), barattiere giudiziario, condannato poi per aver corrotto un giudice regalando la più grande impresa editoriale del Paese (la Mondadori) al suo Capo. È il presidente del consiglio che, nel suo quarto governo, sceglie come guardasigilli non Giustiniano o Tommaso Moro, ma un ragazzo che gli è stato segretario (Angelino Alfano). Ora, da quel pulpito liberale, si vorrebbe sapere se questo conflitto d’interessi, che scarnifica l’ordinata architettura dei quattro poteri (governo, Parlamento, magistratura, informazione), rende possibile mettere in discussione l’autonomia e indipendenza della magistratura liquidando tre norme costituzionali: 104 ("La magistratura", pubblico ministero incluso, "costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); 107 (inamovibilità dal grado e dalla sede); 112 (obbligo d’agire). Come è ovvio e legittimo, lo si può pensare. Lo si dovrebbe dire in trasparenza, però. Il Corriere della Sera, come il Luigi Albertini del discorso alla Corona, Palazzo Madama, 18 giugno 1921, dovrebbe dire ai suoi lettori: noi qui, in via Solferino, tempio della cultura liberale, crediamo che per migliorare la qualità della nostra democrazia, e "salvare l’Italia", i pubblici ministeri debbano essere diretti dall’esecutivo. Cioè, oggi, da Silvio Berlusconi. Sono le parole che non si ascoltano nel sermone finto neutrale. Con un paradosso guignolesco, l’oratore chiede che a dire questa affabile bestialità da mondo sublunare debba essere la "sinistra riformista": dovrebbe "mettere una buona volta fine alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario". Già incapace a tempo debito di risolvere il conflitto d’interessi, dovrebbe dunque essere la sinistra, il Partito democratico, a sacrificare all’Egoarca anche l’autonomia della magistratura perché la politica - questa politica, già monca del Parlamento ridotto a rifugio di statue di gesso - viene prima del feticcio legalistico. È proprio vero che "i maghi ingrassano dove esistono le anime fioche". Giustizia: sul tema della sicurezza fanno il gioco delle tre carte di Mario Pirani
La Repubblica, 30 giugno 2008
Qualche riflessione di contorno su sicurezza e giustizia a supporto di quanto ampiamente già scritto da Ezio Mauro e da Giuseppe D’Avanzo. In particolare sulla mutevolezza delle parole d’ordine della destra che in campagna elettorale e nel primissimo avvio del Berlusconi ter pareva tutta concentrata nel potenziamento della sicurezza, cosi che i cittadini potessero contare su un impegno super maggiorato dello Stato, non solo nel contrasto immediato alla delinquenza italiana e forestiera ma nel creare una atmosfera adatta a dissolvere il senso diffuso di una minaccia percepita anche se non direttamente subita. Poi, da un giorno all’altro (il giorno in cui gli avvocati avvertono che il processo Mills sta andando a sentenza) tutto cambia. A somiglianza del gioco delle tre carte - "carta vince, carta perde" - l’usato e bisunto mazzo "cangia di colore, come quando l’ulivo è sotto il vento" e l’asso di bastoni della sicurezza, finora esposto in cima, scivola destramente sotto, mentre affiora in superficie la Dama di picche della perfida Giustizia. Tutto è rimescolato, gli slogan d’accompagno, ieri confortanti per tante brave persone timorose, all’improvviso suonano falsi, quanto monete fuori corso. A che serve - ci si chiede - invocare la certezza della pena o inviare i soldati nelle piazze, se si sospendono per un anno e più centomila processi a rapinatori, ladri, assassini, stupratori, corrotti e corruttori della peggior specie? Ancor più stupefacente il disegno di legge per ridurre al minimo le intercettazioni. Tralascio qui le critiche, già mosse sul nostro giornale, alle lesioni inferte alla libertà di informazione e sottolineo, anche in questo caso, l’assurdità di azzoppare le potenzialità di contrasto alla peggiore malavita, in primo luogo quella organizzata. Vien difficile pensare che qualcuno abbia potuto formulare la limitazione delle intercettazioni a soli tre mesi nei confronti di mafia, ‘ndrangheta e camorra senza temere di prestarsi così all’accusa di indiretta collusione. Oppure a lasciar intendere che una vittoria totalizzante, come quella conseguita in Sicilia, meriti pur sempre uno scambio di favori. Fatto sta - quale che sia la spiegazione - che la castrazione delle intercettazioni "liquiderà l’azione antimafia", come mi ha detto un alto magistrato del tutto apolitico. Solo chi non conosce come si svolgono le indagini - ha aggiunto - può inventarsi quel termine. Sovente, per esempio, viene individuato un luogo, una masseria semi abbandonata, un garage, un appartamento apparentemente vuoto dove saltuariamente si svolgono incontri criminosi. Si predispongono intercettazioni e ascolti ambientali ma non si sa la data degli appuntamenti. Magari in tre mesi ne avviene uno o nessuno. Con la nuova legge dovremmo interrompere dopo 90 giorni, una assurdità. Un altro caso: un camorrista furbo cambia continuamente scheda telefonica. Cosa facciamo, ogni volta chiediamo una nuova autorizzazione? Un’altra considerazione. I più immaginavano che una destra che si presentava vantando la faccia feroce in tema di ordine pubblico si assumesse l’onere della riconquista delle regioni - Sicilia, Calabria e Campania dove l’esercizio della forza, che dovrebbe essere monopolio dello Stato, è invece esercitato dalla malavita. Bene la mano ferma con l’immigrazione clandestina, a meno che la severità e l’impegno delle forze dell’ordine non siano concentrate esclusivamente nella caccia allo zingaro. Una presa d’atto della situazione reale dell’ordine pubblico non farebbe male, magari dando un’occhiata all’ultimo Rapporto Eurispes sulla ‘Ndrangheta Holding 2008. Vi si possono leggere dati strabilianti (di segno negativo): "Il giro d’affari della ‘Ndrangheta nel 2007 ammonta a quasi 44 miliardi di euro, pari al 2,9 per cento del Pil di tutta Italia nell’anno in esame. Il settore più remunerativo si conferma quello del traffico di droga (27.240 milioni di euro), seguito dalle imprese e appalti pubblici (5.733 milioni), dalla prostituzione (2.867), dalla estorsione e usura (5.017) e dal traffico d’armi (2.938). I dati disponibili indicano inoltre che nel periodo compreso tra il 1999 e il 2008 in Calabria si sono verificati per motivi di ‘Ndrangheta 202 omicidi con un incremento nel periodo considerato del 677%. In Calabria sono 131 le cosche operanti nel territorio. La loro struttura famigliare, unita al mantenimento di patrimoni considerevoli, fa sì che qualunque azione preventiva e repressiva risulti fine a se stessa se non è seguita da un intervento che vada ad indebolire il potere finanziario dell’organizzazione criminale. So bene che i numeri annoiano, ma questi parlano da soli. Giustizia: rilanciare le speranze, invece d’alimentare le paure di Giuseppe De Rita
Corriere della Sera, 30 giugno 2008
Più paure che speranze, questo è il nodo di psicologia collettiva cui si va impiccando la nostra attuale società, sempre più pervasa da paure, inquietudini, preoccupazioni, ansie di ogni tipo; mentre le speranze sono poche, e la speranza (al singolare, cioè da tutti condivisa) resta una non praticata virtù teologale, estranea e lontana. Governare una società di tal fatta è impegno di maledetta difficoltà e pericolosa ambiguità. La gente si ingabbia nelle sue singole paure ed esprime delle emotive pretese di pronta e specifica risposta ad ognuna di esse: per la paura di aggressioni, scippi e rapine chiede più forze dell’ordine ed addirittura l’esercito; per le paure destate dagli immigrati, chiede controlli, espulsioni, galera; per l’ansia del precariato dei figli, chiede pubblico consolidamento dei rapporti di lavoro; per la paura di non aver casa e/o non poter pagare le rate del mutuo vuole un deciso intervento statale di social housing; per la paura della vecchiaia e del connesso declino psicofisico, chiede una politica di long-term-care; per l’ansia delle morti sulle strade chiede una forte repressione istituzionale contro droghe ed alcol; per l’inquietudine creata dai rifiuti non raccolti e non trattati pretende commissari straordinari, poliziotti ed esercito. E via via, senza allungar troppo l’elenco, si arriva a paure e domande più sofisticate: per paura della globalizzazione si esprime voglia di protezionismo; e per la paura dell’egoismo dei localismi si ritorna alla fiducia nello Stato centrale. Questo proliferante flusso di paure e di correlati interventi pubblici non è per ora bilanciato da un po’ di speranza collettiva, o almeno di egoistiche speranze individuali; e neppure da una interpretazione di sintesi di quel che si vuole e quel che si fa. n motto prevalente sembra il banale "io speriamo che me la cavo" degli impauriti studenti della maturità, motto del tutto regressivo in termini di impegni orientati al nuovo e al futuro. Dalle tante paure nascono allora altrettante domande di pura rassicurazione che facilmente, specialmente in periodi elettorali, si declinano al singolare; diventando "domanda di sicurezza", termine magico, in nome del quale si coltiva, si ottiene, si sfrutta il consenso. Ma siccome le pretese di sicurezza sono molteplici, finiscono per essere molteplici e senza grande ordine le dirette risposte; con una galleria di annunci e provvidenze che non fa una politica, mentre la loro somma non fa una risposta socialmente convincente, anzi talvolta induce ad una ulteriore sensazione di paura e di insicurezza. Ci vuole allora una cultura istituzionale complessa unificando le varie azioni in un’unica prospettiva politica: quella della "politica della sicurezza" sarebbe stata buona se non fosse stata usata troppo e in modo sconnesso rispetto alle nostre intime esigenze di coesione sociale e di qualità della vita. Lì intorno bisogna comunque restare, ma forse la vera novità di risposta sarebbe quella di rilanciare le speranze, anche se solo al plurale. Giustizia: il decreto sicurezza è alla Camera, Idv e Pd contrari di Liana Milella
La Repubblica, 30 giugno 2008
Per savoir faire nei confronti di Napolitano e della sua moral suasion, nessuno dal governo conferma che alla Camera finirà col voto di fiducia sul decreto sicurezza e sulla norma salva-premier. Troppo scorretto sarebbe, verso di lui, non far nemmeno finta di leggere quei "messaggi nella bottiglia" di cui il presidente parlava appena mercoledì. Al Colle che insiste "cambiate la sospensione dei processi, così non va, lo dice anche il Csm", sarebbe scorretto rispondere "noi abbiamo fretta, la sentenza Mills incombe, dobbiamo approvarla com’è". Sarebbe uno schiaffo gratuito. Tant’è: nella maggioranza tutti danno per certo il voto di fiducia, necessario contro il furibondo ostruzionismo che Di Pietro annuncia e che il Pd seguirà, per non essere scavalcato su un tema caro ai suoi elettori come l’opposizione alle leggi vergogna. Fiducia dunque, già la prossima o l’altra settimana, quando il Decreto sarà in aula (è in calendario dal 9 luglio). Il governo la annuncerà non appena sarà chiaro che, in un clima esasperato, le richieste d’intervento saranno tante e tali da mettere a rischio il voto finale. Che scade il 24 luglio. L’assaggio dello scontro, e dell’inevitabile fiducia, ci sarà mercoledì. In aula si votano le pregiudiziali di costituzionalità. Di Pietro già si frega le mani: "Ho preteso che il voto ci fosse subito. Sto preparando il testo in cui dimostro che la sospensione viola la carta costituzionale. Daremo battaglia, dentro e fuori il palazzo, in Commissione e in Aula. Dove i miei parlamentari parleranno tutti, 24 su 24. Il Pd non so come si comporterà, ma noi cercheremo di fermare l’ennesima legge per bloccare i processi del premier". Il tono dei Democratici è meno barricadero, ma non meno duro nella sostanza. A Lanfranco Tenaglia, ministro ombra della Giustizia, non piace la parola "ostruzionismo" e dice che "in Aula, per contrastare il voto su una norma che stravolge il sistema processuale penale, useremo tutti gli strumenti a nostra disposizione". Quindi ostruzionismo? "Non vogliamo fornire l’alibi per la fiducia, presenteremo emendamenti puntuali e chiederemo che se ne discuta nel merito. Già al Senato l’articolo è stato presentato in aula e votato subito. Alla Camera vogliamo avere tutto il tempo necessario". E a Montecitorio, per via dei tempi non contingentati per via del decreto, l’opposizione non potrà restare "senza voce". La prima prova scatta in commissione. Da oggi si riuniscono Affari costituzionali e Giustizia. Relatori i presidenti, il forzista Donato Bruno e l’aennina Giulia Bongiorno. Che non chiude pregiudizialmente la porta all’opposizione: "Siamo pronti ad ascoltare con attenzione ogni proposta di eventuali miglioramenti e, ove servisse, non esiteremmo a lavorare in orari notturni o il sabato e la domenica". Chi la conosce sa che non scherza, visto che compare in commissione ben prima delle nove e ad orari imprevedibili per gli altri deputati. Sull’ostruzionismo sfuma: "Fino a oggi, nelle due riunioni organizzative dei lavori, il clima è stato sereno". Quanto alla salva-premier la risposta è diplomatica: "È erroneo ridurre il pacchetto sicurezza a semplice contenitore della norma sulla sospensione dei processi, perché in esso ci sono molteplici disposizioni di grande efficacia per combattere l’illegalità diffusa". E proprio questo sarà un argomento forte per non far "saltare" il decreto. Sfruttando l’involontaria mano d’aiuto che arriva da Di Pietro e Pd. Diceva ieri un forzista attendibile: "La sospensione resta com’è perché ci sono troppe scadenze extraparlamentari (i processi del premier) e parlamentari per cambiarla. A Napolitano diremo: "Visto? Ti avremmo dato ascolto, ma il casino della sinistra ce lo ha impedito". Giustizia: e ora il Cavaliere sta preparando l’offensiva al Csm di Alessandro De Angelis
Il Riformista, 30 giugno 2008
Il Cavaliere prepara l’offensiva al Csm Di Pietro non si scusa, anzi, e il Pdl pensa a un’iniziativa istituzionale. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci prova ancora, ad abbassare i toni dello scontro tra politica e giustizia: "Auspico un clima più sereno e costruttivo nella politica italiana e nella vita istituzionale" ha detto ieri mentre era a Capri per il suo 83esimo compleanno. L’espressione è quasi distaccata ma, dicono i suoi collaboratori, Napolitano è sempre più preoccupato. Il presidente ha preso atto che i suoi continui appelli alla collaborazione e al rispetto tra i poli continuano a cadere nel vuoto. Proprio come era stato costretto ad ammettere pochi giorni fa, di fronte al Consiglio Forense: la moral suasion funziona se la si vuole accettare, altrimenti resta lettera morta, come un "messaggio in una bottiglia". Ieri, dopo la polemica scatenata dalle parole di Di Pietro, un intervento - anche se garbato e dal tono distaccato - era inevitabile. Ecco allora una frase - usata più volte nell’ultimo mese - per ricordare ad ognuno i propri doveri: "Auspico un clima più sereno e costruttivo nella politica italiana e nella vita istituzionale". Le stesse parole usate quando Berlusconi, un paio di giorni fa, ha definito i giudici "una metastasi" per la democrazia: "Debbo solo ripetermi",è la premessa che Napolitano ha fatto al nuovo, accorato invito. Ma anche questa volta la moral suasion di Napolitano sembra essere caduta nel vuoto. Di Pietro, dopo aver dato del "magnaccia" al premier, non ha mostrato ripensamenti. Ospite della trasmissione "In mezz’ora" di Lucia Annunziata, il leader dell’Idv ha spiegato: "Io non mi scuso con il premier, anzi credo che il premier si debba scusare con gli italiani perché usa il Parlamento per fare leggi per risolvere i suoi problemi giudiziari invece che risolvere i problemi del paese". E ancora: "Il mio sarà pure un linguaggio crudo - ha aggiunto l’ex pm - ma credo che l’insulto sia del premier che fa telefonate per dire "assumi quello, assumi quell’altro" nell’azienda pubblica". Il leader dell’Idv ieri, in vista dei girotondi dell’8 luglio, ha anche chiamato alla lotta il popolo dei "valla": "Se passano le leggi che continuamente vengono proposte dal nuovo governo - ha scritto Di Pietro a Grillo - vincerà il regime e perderà, per un tempo indefinito, la democrazia". Una posizione che ha approfondito il solco col Pd, che questi toni non li ha graditi affatto. Afferma il capogruppo del Pd alla Camera Soro: "Di Pietro esercita il suo ruolo, ma temo faccia il gioco di Berlusconi. Il rumore di una polemica tribunizia appanna proprio le ragioni che noi vogliamo far passare. Non ci facciamo dettare l’agenda da nessuno". Ma il Pd non ha alcuna intenzione di lasciare a Di Pietro il monopolio dell’opposizione: "Il dialogo è sepolto, ora sarà battaglia" ha annunciato ieri Veltroni in un’intervista a Repubblica. Oggi ci sarà la riunione del gruppo del Pd in vista della discussione del decreto sicurezza. Con ogni probabilità il Pd sceglierà la via dell’ostruzionismo; anche perché, alla Camera, non si possono contingentare i tempi, quindi ci sarebbero i margini per bloccare il decreto. Ma questo i Democratici lo decideranno oggi. Una cosa è certa, dice Soro: "Faremo un’opposizione dura". Si dicono pronti allo scontro nel Pdl. Berlusconi sta preparando la controffensiva. In primo luogo al Csm, che domani, con ogni probabilità, boccerà solennemente le norme blocca processi. Nell’immediato - le voci dentro Forza Italia sono contrastanti - starebbe pensando a una iniziativa "formale e istituzionale" contro il Csm: una lettera al Presidente della Repubblica dove si sottolinea che la legge non consente al Csm di dare pareri su valutazioni di costituzionalità. Ma il Cavaliere ha intenzione di agire anche sul lungo periodo: giuristi e costituzionalisti, coordinati dal Vicepresidente dei senatori del Pdl Quagliariello, sono al lavoro per varare la riforma del Csm: "L’obiettivo - spiega Quagliariello - è incidere sul meccanismo elettivo e sulla composizione del Csm. E chiarire meglio le funzioni dell’organo". All’opposizione che chiede il ritiro della "salva premier" per discutere il nuovo Lodo Schifani, Quagliarello risponde: "La questione non si può mettere in termini di baratto. C’è una parte della magistratura che vuole rigettare il paese nel clima del ‘94. Noi dobbiamo metterci nelle condizioni di poter governare. Per questo non facciamo sconti per ragioni estetiche". Fine del dialogo. Giustizia: morirono bruciati, l'azienda chiede i danni a famiglie di Giuseppe Caporale
La Repubblica, 30 giugno 2008
Oleificio umbro vuole 35 milioni dai parenti di 4 operai. "L’incidente è stato causato dalla loro imperizia". Il gravissimo incidente, due anni fa a Campello sul Clitunno. L’accusa: "Usarono il saldatore che era vietato per fare più in fretta" Spoleto - Quattro operai morti sul lavoro ed un’azienda che, a distanza di oltre due anni dal drammatico incidente, chiede ai parenti delle vittime, e all’unico superstite, trentacinque milioni di euro, come risarcimento danni. Tanto pretende la Umbria Olii dai familiari di Tullio Mocchini, Giuseppe Coletti, Wladimir Toder e Maurizio Manili. Trentacinque milioni richiesti a fratelli, figli e genitori. L’atto legale porta la firma dell’amministratore delegato della società, Giorgio Del Papa, indagato dal giorno seguente la tragedia. Le accuse per il manager sono di disastro colposo con l’aggravante "della colpa con previsione dell’evento", violazione delle norme sulla sicurezza (tra cui l’omissione dolosa dei mezzi di prevenzione) e omicidio colposo plurimo. Secondo la procura di Spoleto, Del Papa sapeva che c’era gas esplosivo (del tipo esano, molto pericoloso) nei silos saltati in aria. E proprio quel gas, per la procura, è la causa di tutto. Per Del Papa, invece, la colpa dell’incidente è da attribuire agli operai. I quattro, lavoravano per conto di una piccola ditta, che aveva l’appalto per lavori di manutenzione di questo colosso europeo della raffinazione dei prodotti vegetali. Secondo l’azienda, gli operai che quel giorno stavano lavorando all’installazione di una passerella per collegare due silos, avrebbero dovuto sapere che le fiamme ossidriche non potevano essere utilizzate in quell’intervento. E proprio l’uso di un saldatore sarebbe stata la causa, per la difesa, dello scoppio del silos. I quattro saltarono in aria. Dilaniati e carbonizzati. Una tragedia che nel novembre del 2006 scosse l’opinione pubblica, è poi divenuta un vicenda giudiziaria a colpi di perizie. Da un lato le 250 pagine dei periti della procura (alcuni dei quali gli stessi intervenuti per la vicenda della Thyssen), dove si sostiene la responsabilità della Umbria Olii e la causa scatenante del gas esano. Dall’altra una perizia richiesta dall’azienda al tribunale civile, e affidata ad un consulente locale che riscontra come causa dell’incidente l’uso del saldatore. In quest’ultima perizia si sostiene che pur in presenza del gas esplosivo, se non ci fosse stato l’innesco della fiamma, lo scoppio non si sarebbe mai prodotto. Un errore, scrive il perito, commesso dagli operai "per fretta e stanchezza". "Se la giustizia consente questo, cos’altro può succedere?" commenta sconsolato, Klaudio Demiri, unico superstite, che al momento dello scoppio era fortunatamente a bordo di una gru. Lui, ancora oggi, vive nell’incubo di quelle tremende sequenze di inferno e fuoco. Intanto, l’11 luglio il giudice penale deciderà se disporre o meno il processo per Del Papa. A gennaio è fissata l’udienza civile per discutere del risarcimento. Il professor Giovanni Cerquetti, docente di diritto penale generale alla facoltà di giurisprudenza di Perugia, e legale di uno dei familiari delle vittime, parla di "azione irrituale e comunque infondata. Un caso singolarissimo, con azioni civili che espongono chi le ha promosse a quella che il codice di procedura civile definisce come "responsabilità aggravata per lite temeraria"". Il legale non si riferisce solo alla maxi richiesta di risarcimento, ma anche alla precedente azione civile intentata contro i periti della procura. "Ci troviamo di fronte ad azioni di estrema gravità e sono assolutamente convinto che l’ordinamento possa garantire alle vittime di queste iniziative improvvide, tutte le tutele giuridiche idonee a ripararsi da questo attacco inaudito". Giustizia: Amapi; nota su "continuità assistenziale" in carcere
Comunicato stampa, 30 giugno 2008
Entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del Dpcm, sono definite le forme di collaborazione relative alle funzioni della sicurezza e sono regolati i rapporti di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e l’ordinamento penitenziario. In questo ambito ci sembra pertinente ed indispensabile ribadire il concetto di continuità assistenziale con particolare riferimento alla salvaguardia delle funzioni di sicurezza e dei rapporti di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e l’ordinamento penitenziario. La continuità assistenziale è un criterio, un valore cardine, intorno a cui si realizza il significato riformatore del passaggio della Medicina Penitenziaria al Ssn. Continuità assistenziale significa assicurare uno schema organizzativo di operatività medica ed infermieristica adeguata alle esigenze del singolo paziente. Continuità assistenziale significa soprattutto l’insieme dei servizi assistenziali assicurati da personale (medico, infermieristico, tecnico) di provata competenza e con un patrimonio importante ed ineguagliabile di specifiche esperienze nel settore penitenziario. Il personale sanitario che pur con pochi mezzi e difficoltà di ogni tipo è riuscito ad assicurare la tutela della salute in carcere va salvaguardato e deve essere messo nella condizione di poter continuare il proprio lavoro. Un eventuale turnover degli operatori sanitari comprometterebbe irrimediabilmente tutto. L’esperienza acquisita in tanti anni di attività è stata tale da favorire la selezione di chi ha ritenuto che fare il Medico Penitenziario rappresentasse un’occasione professionale vera. La Medicina Penitenziaria si differenzia profondamente dalle altre branche dell’arte sanitaria per le caratteristiche dell’ambiente in cui viene obbligatoriamente esercitata, caratteristiche che influiscono sui soggetti reclusi, determinando effetti abnormi a livello psichico e fisico e l’insorgenza di particolari quadri clinici,non riscontrabili altrove. Il Servizio Sanitario Penitenziario richiede non solo una competenza specifica in campo strettamente medico, ma una competenza altrettanto specifica nelle modalità del trattamento. Assistiamo soggetti che, privati della libertà fisica, fortemente limitati nella libertà affettiva,stressati dalle personali vicende processuali, presentano un vissuto fisiopatologico che è tutt’altra cosa rispetto a quello dei liberi cittadini che noi stessi visitiamo e curiamo fuori dal carcere. Tutto ciò per noi, Medici Penitenziari, è un dato scontato, come è scontato che sono diversi i bisogni, le richieste, i modi di insorgenza e di decorso dei sintomi, nonché l’esibizione al Medico delle malattie, vere e simulate che siano. La profonda conoscenza di questi problemi e le modalità con cui affrontarli fanno parte a pieno titolo del patrimonio di specificità di quella disciplina che chiamiamo Medicina Penitenziaria. Medici Penitenziari non si diventa nelle Aule Universitarie. Si diventa lavorando in carcere con serietà e professionalità, con l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze e di competenze specifiche. Con questi Operatori si delineano tutte le premesse per la riuscita della Riforma della Medicina Penitenziaria.
Il Presidente dell’Amapi, Francesco Ceraudo Brescia: 490 detenuti, Canton Mombello ai limiti di vivibilità di Thomas Bendinelli
Giornale di Brescia, 30 giugno 2008
Effetto indulto addio: quando era stato approvato due anni fa aveva provocato uno svuotamento delle carceri, oramai al limite della vivibilità. Ora, a due anni di distanza, le prigioni italiane sono tornate a riempirsi ben oltre la capienza prevista dalla legge. A Canton Mombello, il principale carcere cittadino, la scorsa settimana i detenuti hanno toccato quota 490, sfiorando di poco il record di 520 di pochi giorni prima il provvedimento legislativo di indulto, approvato due estati fa in modo trasversale da 705 parlamentari di buona parte del centrosinistra, di Forza Italia e dell’Udc. Poi, grazie a 180 indultati, il carcere era tornato a livelli quasi normali: la vivibilità all’interno della struttura viene considerata accettabile fino a 300, massimo 350 persone. Dei quasi 500 detenuti il 70 percento sono stranieri, un dato che non è direttamente proporzionale al numero di reati commessi. "Una delle cause di una percentuale così elevata - spiega Carlo Alberto Romano, Docente di Criminologia alla Statale di Brescia e Presidente dell’Associazione di volontariato Carcere e Territorio - è legata all’applicazione rigorosa della normativa vigente per cui fino all’udienza di convalida, per un paio di giorni, gli stranieri restano in carcere". La controprova di tale lettura sta nel fatto che quando si parla di detenuti con condanna definitiva, la percentuale di stranieri diminuisce in modo sensibile. Questo spiega anche l’andirivieni continuo da Canton Mombello che in queste settimane registra circa 20 ingressi al giorno. La maggior parte sono irregolari e se mai verrà applicata la nuova normativa sul reato di immigrazione clandestina, è facile immaginare che la capienza delle strutture carcerarie diventerà ben presto un tema all’ordine del giorno. "L’indulto era stato un provvedimento necessario ma completamente inutile - afferma Romano -: necessario per riportare le carceri in uno stato di legalità a causa del sovraffollamento, inutile perché chi è uscito è stato abbandonato a sé stesso". Romano ricorda le aperture straordinarie dell’associazione Carcere e Territorio nei giorni post indulto, i rapporti continui con la rete di volontariato. Qualcosa è stato fatto, ma è evidente che non si doveva arrivare a un provvedimento così delicato con un livello di improvvisazione del genere. Il docente cita ad esempio un bando nazionale per un progetto post indulto vinto dalla Provincia di Brescia come ente capofila insieme a Carcere e Territorio e al Mago di Oz: "È iniziato due mesi fa a causa di mille pratiche burocratiche, si rende conto? - spiega Romano -: il progetto parte e sarà serio ma è evidente che non si può operare in questo modo. Si doveva invertire il percorso: prima i progetti e poi l’indulto". Per il resto, il paventato ritorno sulle strade di migliaia di criminali non sembra ci sia stato: il numero di reati è rimasto invariato e la recidiva - usciti per l’indulto e riarrestati - si è fermata al 25 per cento. Il problema è che ora si è tornati alla situazione di due anni fa: di indulti all’orizzonte non ce ne sono e in più sono state introdotte alcune leggi che probabilmente faciliteranno più gli ingressi che le uscite dalle prigioni. Non solo: Romano pone anche una domanda sul decreto , già approvato in Senato, che blocca per un anno i processi per i reati meno gravi con meno di 10 anni di reclusione commessi entro il 30 giugno 2002: "Nel breve periodo può anche risolvere il problema dell’intasamento, ma fra un anno cosa succede?". Qualcuno ha osservato che forse sarebbe stato meglio sospendere i processi interessati dall’indulto, che saranno celebrati senza alcun esito, ma è rimasto inascoltato. Aversa: i ricoverati dell’Opg non possono assistere al concerto
Comunicato stampa, 30 giugno 2008
Annullato il concerto di Vasco Rossi (ma solo per gli ospiti dell’Opg di Aversa). La partecipazione degli internati dell’Opg al concerto di Vasco Rossi, che aveva personalmente invitato trenta ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa a partecipare come ospiti al concerto di Salerno del 28 giugno, non avverrà. Infatti, nonostante le rassicurazioni prodotte dalla Direzione Sanitaria della struttura aversana che aveva programmato la partecipazione all’evento, il Magistrato di Sorveglianza ha negato il permesso ai ricoverati ammessi, adducendo motivazioni che andavano dalla "distanza del luogo" ad un preoccupante "rigetto per la peculiarità dello spettacolo". Si tende con evidenza a utilizzare metodi carcerari a soggetti affetti da patologia mentale, innestando un processo che produrrà ancora stigma e internamenti, annullando la possibilità di recupero sociale che con difficoltà la maggior parte delle persone internate sta tentando di attuare.
Adolfo Ferraro, Direttore dell’Opg di Aversa Catania: "appalti interni"... e i detenuti ristrutturano il carcere
La Sicilia, 30 giugno 2008
Il bisogno aguzza l’ingegno. E, talvolta, apre possibilità insperate. È successo al carcere di piazza Lanza, vecchio, affollato, bisognoso di lavori di ristrutturazione per rendere più dignitosa la vita dei detenuti. Ma soldi ce ne sono pochi e allora il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Orazio Faramo ha trovato una strada per risparmiare: invece di affidare i lavori in appalto, come in passato, ha deciso di affidarli agli stessi detenuti. E i vantaggi sono tanti: si risparmia rispetto al giusto profitto dovuto all’imprenditore e questo rende possibile fare un maggior numero di interventi e, soprattutto, si dà ai detenuti un’occasione per impegnarsi, per contribuire a rendere più accogliente l’ambiente in cui vivono e per guadagnare un salario secondo le tariffe del contratto nazionale di lavoro, detratte le spese per il mantenimento in carcere. Un’impostazione rivoluzionaria che si sta sperimentando, con ottimi risultati, in tutta la Sicilia. Nella casa circondariale di piazza Lanza erano già stati ristrutturati, con appalti esterni, il reparto di massima sicurezza e quello per le donne. Adesso è la volta del reparto dei detenuti comuni, un padiglione per 170 persone articolato in tre piani. I lavori sono cominciati dal secondo e ultimo piano dove sono stati rifatti i bagni, realizzate le docce, piastrellate e ridipinte le pareti. Poi si passerà al primo piano e al piano terra. A lavorare è una squadra composta da 12 persone scelte in base alla data di presentazione della domanda di lavoro, alla predisposizione per il tipo di attività e allo stato di bisogno. Inoltre viene garantita una turnazione perché possa partecipare di questa esperienza il maggior numero di detenuti. L’amministrazione carceraria li considera lavoratori a tutti gli effetti: sono impegnati per 40 ore settimanali suddivise in 5 o 6 giorni e hanno diritto, oltre alla retribuzione prevista dal contratto secondo la qualifica, al riposo e alle ferie di cui, ovviamente, usufruiscono in carcere. Per i detenuti questa possibilità è di particolare importanza. Hanno realizzato le docce in ogni stanza e questo, soprattutto in un carcere sovraffollato, migliora di gran lunga la qualità della vita. Hanno ridipinto le pareti cancellando quel grigio opprimente che segna lo spazio delle prigioni. La direzione ha optato per colori pastello e, soprattutto, per il riposante verde acqua. Lavorare, poi, tanto più per chi è detenuto, è anche un modo per occupare bene il tempo, per non lasciarsi opprimere dai pensieri e dai problemi. Ed è parte fondamentale del trattamento e del reinserimento. Lo rileva il direttore della casa circondariale Rosario Tortorella. "Il detenuto che lavora invia parte di quanto guadagna alla propria famiglia e questo è importante per l’efficacia della percezione della cultura dell’impegno e della responsabilità. E questo è un valore per tutti perché prima o poi dal carcere si esce ed è importante che ad uscire sia un uomo migliore, altrimenti non abbiamo fatto un buon lavoro per lo sviluppo sociale". Immigrazione: il volto timoroso e inospitale di questa Europa di Mauro Palma (Presidente del Comitato per la prevenzione della tortura)
Fuoriluogo, 30 giugno 2008
La Direttiva sui rimpatri dei migranti irregolarmente presenti sul territorio dell’Unione. Il primo caso di co-decisione tra Parlamento europeo e Commissione si è realizzato su un atto di rilevanti conseguenze per la vita di un gran numero di persone socialmente deboli, marginali, oltre che di grave valore culturale: la nuova direttiva sulle espulsioni degli stranieri irregolarmente presenti nel territorio europeo e sulla loro lunga privazione della libertà. L’Europa riconferma con questa direttiva una linea già da tempo adottata e ribadisce in modo inequivocabile la propria vocazione a fortilizio in continua ricerca di maggiori difese dal presunto assedio di coloro che, spinti dalla povertà, di cui essa è storicamente corresponsabile, cercano una vita migliore abbandonando luoghi, cose e affetti per tentare di raggiungere il suo territorio. È un’Europa inospitale e timorosa che vive la contraddizione tra la ricerca di manodopera sottopagata a cui affidare lavori gravosi e scarsamente accettati dai propri cittadini e il pervicace rifiuto di riconoscere che questi suoi nuovi abitanti sono soggetti portatori di diritti. Un’Europa che chiede sicurezza e non comprende che la più efficace misura per garantirla è favorire accessi ordinati e legali e vite familiari dignitose e unite; al contrario affida al respingimento, alle difficoltà poste a una vita normale, l’esito delle proprie paure: un’ansia in cui la rappresentazione simbolica della durezza conta più della ricerca delle effettiva sicurezza. Questa è, da anni, l’Europa dell’Unione, quella costruita prima come accordo economico, commerciale, monetario e soltanto poi come accordo politico fondato sul riconoscimento di una carta di valori da tutelare: del resto, alla rapidità del processo di integrazione economica si contrappone ancora la lentezza dell’accordo politico e la Carta approvata a Nizza nel 2000, in cui si enunciano i diritti tutelati nell’Unione, stenta ancora a essere assunta come effettivo trattato e non mera enunciazione di buone volontà. Ai Paesi dell’Unione viene richiesto di tutelarne efficacemente i confini e contrastare presenze irregolari: da qui le pratiche messe in atto in questi anni da alcuni di essi, che sono andate ben al di là di quanto, già grave, accade nel nostro paese, circa la detenzione amministrativa di persone irregolari. Solo due anni fa, per esempio, si è posto un limite ad alcuni paesi che prevedevano una detenzione di durata indefinita e gran parte di essi hanno conseguentemente posto un termine indiscriminatamente e automaticamente alto: diciotto mesi o anche più. Proprio a limitare questa tendenza espansiva e imporre sia livelli di vivibilità nei centri di detenzione sia un controllo indipendente su di essi, era originariamente rivolta l’idea della direttiva. L’esito della lunga discussione e il mutato quadro politico in molti paesi europei hanno finito col capovolgere quest’ottica e quanto approvato viene oggi presentato da molti governi, incluso quello italiano, come apertura alla possibilità di estendere i limiti della detenzione verso i massimi previsti, realizzando una sorta di parallelo circuito carcerario, peraltro non fornito di quegli strumenti di garanzia che connotano i sistemi penitenziari. Il testo adottato del resto legittima tale interpretazione per almeno tre o quattro aspetti: l’estensione dei tempi di detenzione, la non indicazione di standard da rispettare, l’applicazione anche ai minori, il divieto di reingresso che non contempla la protezione di persone che possano trovarsi in necessità futura di asilo, il rinvio verso paesi terzi. Sono punti cruciali sulla cui attuazione si gioca il suo effetto sulle politiche nazionali. L’ordine del giorno approvato contestualmente alla sua adozione, infatti, impegna i governi nazionali a non interpretare la direttiva come possibilità di introdurre norme che peggiorino la situazione vigente nei loro rispettivi paesi. Una "dichiarazione d’intenti" che sarà però significativa solo se le realtà socialmente e politicamente più accorte ne imporranno l’attuazione ai propri governi. Il problema vero che emerge, infatti, da questa come da altre direttive è che esse possono essere viste con due sguardi diversi: come limite sopranazionale imposto alle decisioni locali oppure come legittimazione esterna di queste ultime. L’assenza di una capacità politica e culturale di agire a livello nazionale su problemi complessi, costruendo consenso sociale e imponendo scelte al governo, ha spesso indotto le forze democratiche e progressiste in Italia e altrove a sperare di trovare una sponda nelle "imposizioni" europee, quale freno a politiche nazionali altrimenti alla deriva sulla spinta di facile consenso popolare. Si è sperato nell’Europa come luogo dove porre un limite a richieste interne iper-securitarie e irrispettose dei diritti dei settori più deboli. In alcuni casi questo schema ancora funziona: è l’Europa a ricordarci che la minoranza Rom va accettata e protetta e a protestare sia per i provvedimenti che si stanno adottando, sia per i comportamenti che si sono messi in atto. Per il problema dei migranti invece lo schema non funziona: al contrario, è il governo a farsi scudo delle decisioni europee per dare copertura e legittimazione alle proprie scelte; sono i settori più chiusi e retrivi a invocare ora l’Europa, quale benestare alla proprie richieste di maggiore reclusione e di rifiuto. Non è allora possibile per la sinistra sottrarsi alla propria responsabilità politica e scaricare la responsabilità sull’Europa. Le direttive europee sono sempre mediatorie, spesso ambigue, ancor più spesso aperte a diverse possibili interpretazioni; è la realtà del nostro agire politico che non deve consentire la loro applicazione in negativo. Estendere a diciotto mesi la detenzione nei centri di permanenza italiani è una decisione politica la cui responsabilità è tutta nazionale, di chi l’assume e anche di chi non la contrasta. Del resto fino a ieri l’Europa non aveva posto alcun limite, eppure in Italia la permanenza non poteva eccedere i trenta giorni, prima, e i sessanta, dopo la Bossi-Fini. Una durata maggiore non era proibita da alcuna direttiva, eppure era non scelta sulla base di ragioni politiche, sociali, ordinamentali ed etiche. Il fatto che ora l’Europa ponga un limite massimo - soprattutto, come si è detto, per limitarne gli abusi in alcuni stati - non implica affatto che tale limite debba essere la nuova misura: se la si sceglie è per opposte ragioni politiche, sociali, ordinamentali ed etiche e soprattutto per il silenzio di un’effettiva opposizione. C’è del resto anche un’altra Europa a cui guardare: quella della Convenzione per i diritti umani che pone limiti invalicabili alle scelte politiche nazionali: il divieto tassativo di condizioni di privazione della libertà contrarie al senso di umanità, l’obbligo di supervisione non formale da parte dell’autorità giudiziaria, il divieto di rinviare una persona verso un paese ove questa sia a rischio di persecuzione o tortura. Punti fermi da cui è possibile ripartire. Immigrazione: famiglie aspettano la sanatoria per le badanti di Francesca Radula
Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2008
Quattrocentomila famiglie aspettano il verdetto sulla regolarizzazione di colf e badanti clandestine. La domanda che si fanno da mesi sta ora scritta nell’interrogazione al ministro dell’Interno presentata dalla prima straniera in Parlamento, Souad Sbai, deputata eletta tra le file del Popolo delle Libertà. Che cosa intende fare il Governo - chiede l’onorevole Sbai - per regolarizzare chi ha già un lavoro e una richiesta di assunzione presentata con il decreto flussi? Una richiesta che - forse non a caso - arriva da una donna di origini marocchine, cittadina italiana da quasi trent’anni, della maggioranza del Governo. La risposta (scritta) di Maroni è urgente e può sciogliere il dilemma delle famiglie che rischiano, ignorandone del tutto la gravità, maxi-sanzioni e addirittura il carcere per il fatto di dare lavoro a un immigrato clandestino. Basta avere in casa una colf a ore o una badante convivente senza permesso di soggiorno per incappare persino nel reato di "favoreggiamento della permanenza irregolare al fine di trarre ingiusto profitto": è l’ipotesi più grave a cui corrisponde la pena di reclusione fino a quattro anni e 15mila euro di multa. Infatti, mentre si discute di introdurre anche in Italia il reato di immigrazione clandestina, pochi sanno che per il datore di lavoro (non solo famiglie, ma anche imprese) dare impiego a un immigrato irregolare è già un reato. È vero che dal nuovo Governo sono arrivate subito rassicurazioni: il primo Consiglio dei ministri di Napoli aveva annunciato una sanatoria selettiva per le badanti e, illustrando le misure del pacchetto sicurezza contro i clandestini, aveva delineato una linea morbida nei confronti delle 400mila donne che "clandestinamente" si occupano di curare anziani e bambini. Ma agli annunci non sono seguiti - finora - provvedimenti concreti; sono arrivati nuovi interventi isolati (il Ministro Sacconi propone una sanatoria riservata a badanti di anziani ultra 70enni o invalidi) stoppati sul nascere dal responsabile dell’Interno, Roberto Maroni. Quanto sia diffusa l’occupazione domestica clandestina è ormai assodato. Con qualche avvertenza. Per le colf e le badanti irregolari non vengono versati i contributi previdenziali dai datori di famiglie e il loro compenso in nero (mediamente 700 euro al mese) non è tassato. Una loro emersione porterebbe nelle casse dello Stato tre miliardi di euro. Farne emergere solo una parte - 50mila nell’ipotesi delle sole assistenti di anziani non autosufficienti - potrebbe innescare un lungo contenzioso ingaggiato dai datori che hanno presentato domande "simili" a quelle premiate. E già si annuncia battaglia. Le famiglie con babysitter lamentano che anche i bambini non sono "autosufficienti". E gli anziani si domandano se sia possibile aggirare i paletti ingaggiando in qualche modo un "prestanome" di oltre 70 anni, non tanto in salute, da far figurare come datore di lavoro in caso di regolarizzazione. La cosa certa, comunque, è che la cernita delle domande potrebbe portare aggravi e ritardi a una macchina burocratica già "stressata". Intanto si muove anche il mondo del non profit. Secondo le Adi, ad esempio, "un intervento sanatorio è ormai improrogabile, ed è incomprensibile e inaccettabile l’esclusione delle colf e delle babysitter dalla proposta di regolarizzazione". Anche perché ogni provvedimento parziale avrebbe come effetto - e qui torniamo alle norme già in vigore - anche quello di continuare a mantenere nel Paese e nelle case un gran numero di irregolari. Escluse impossibili ipotesi di espulsioni di massa, va ricordato che gli esclusi dalla selezione senza documenti non possono neppure (almeno in teoria) uscire dall’Italia per poi rientrarvi. L’interrogazione dell’onorevole Sbai propone una soluzione semplice quanto drastica per tutte le domande del decreto flussi. "Occorre provvedere a regolarizzare tutti gli stranieri che hanno usufruito di tali disposizioni: esiste una massiccia presenza di immigrati irregolari presenti in Italia già alle dipendenze di datori di lavoro che hanno richiesto, per loro, l’autorizzazione al lavoro ai sensi del decreto flussi del 2007". Adesso tocca al ministro Maroni rispondere per iscritto. Immigrazione: legittimo discriminare i nomadi, se sono ladri di Concetto Vecchio
La Repubblica, 30 giugno 2008
Una sentenza della Cassazione "assolve" il sindaco leghista di Verona. Nel 2001 Tosi guidò una campagna anti-zingari. Lo slogan: dove arrivano loro, aumentano i furti. Sostenere che bisogna cacciare gli zingari perché rubano non si configura come un’istigazione all’odio razziale. La discriminazione - sentenzia la Cassazione - si deve fondare sulla qualità del soggetto (nero, zingaro, ebreo, eccetera) e non sui comportamenti. "La discriminazione per l’altrui diversità è cosa diversa da quella per l’altrui criminosità". Con questa motivazione i giudici hanno annullato con rinvio la condanna al sindaco di Verona, Flavio Tosi, che nel 2001 aveva guidato una campagna contro gli insediamenti rom in riva all’Adige affermando in una riunione che "gli zingari devono essere mandati via perché dove arrivano ci sono furti". Questa frase, unita ad altre condotte, gli era costato un processo istruito dal procuratore di Verona, Guido Papalia, culminato con una condanna in secondo grado a due mesi di reclusione. La Cassazione non condivide però: "Un soggetto può anche essere legittimamente discriminato per il suo comportamento, ma non per la qualità di essere diverso", scrivono gli ermellini di piazza Cavour. E quindi il processo d’appello andrà rifatto. Tosi ieri non ha nascosto la propria soddisfazione: "I giudici hanno riconosciuto che il mio fu un atto di democrazia. Avevamo avviato una raccolta di firme per ripristinare la legalità in città, denunciando un grave problema. Ora la Cassazione riconosce, anche implicitamente, una situazione comunemente nota a Verona e più volte accertata dall’autorità giudiziaria e cioè che all’interno dei campi rom vi sono anche molti dediti sistematicamente ad attività criminose che costringono i minori, anche con l’uso della violenza, a perpetuare quei comportamenti. Fino a poco tempo certe denunce erano considerate reati, ora sono ritenute un dovere civico anche da parte della magistratura". Tuttavia secondo il procuratore Papalia la Cassazione non ha sconfessato l’impostazione della pubblica accusa. Nelle motivazioni della condanna di primo grado Tosi, all’epoca dei fatti consigliere regionale della Lega, e altri cinque compagni di partito furono condannati per aver "diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato … un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato". Il 30 gennaio 2007 si tenne a Venezia il processo d’appello, la Corte ridusse le pene da sei a due mesi, assolvendo gli imputati dall’accusa di "istigazione all’odio razziale", perché il fatto non sussiste, pur confermando la condanna per aver organizzato una campagna razzista. Gli avvocati di Tosi appellarono la condanna e lo scorso 13 dicembre ecco la sentenza con rinvio della Suprema Corte, della quale ieri sono state rese le motivazioni. Quando, sei mesi fa, le agenzie batterono la notizia dell’annullamento l’avvocato del premier Niccolò Ghedini telefonò a Tosi, esprimendogli le congratulazioni anche a nome di Silvio Berlusconi. Ma nella Verona dello strapotere leghista Tosi in questi giorni è nel mirino per avere offerto il patrocinio del Comune ad un’iniziativa culturale che vede uniti preti lefebvriani, cattolici integralisti, Mario Borghezio e soprattutto Piero Puschiavo, fondatore del Veneto Front Skinhead. Droghe: Fuoriluogo; cari amici e amiche, siamo giunti al bivio di Grazia Zuffa (Presidente Forum Droghe)
Fuoriluogo, 30 giugno 2008
Fuoriluogo è a una svolta. O riesce a fare il salto e a diventare punto di riferimento per un network sociale più ampio, al di là di Forum droghe. Oppure cessa di esistere, senza mezzi termini. Un poco come accade al manifesto, fatte le differenze. D’altronde non potrebbe essere diversamente, considerati i dodici anni di convivenza. Fuoriluogo è cresciuto e maturato, grazie a e insieme con il manifesto: è parte della storia del giornale. Veniamo ai fatti. Il recente rilancio editoriale del quotidiano ci obbliga a ripensare la nostra collocazione all’interno. C’è anche un problema economico. Attualmente le spese di Fuoriluogo sono ripartite più o meno a metà. Forum droghe sostiene completamente i costi redazionali, di grafica e di impaginazione, quelli di carta e stampa sono a carico del manifesto. D’ora in poi, ci viene chiesto l’autofinanziamento completo. Non è solo una questione economica, comunque assai rilevante per noi; è innanzitutto una questione politica. Troppe cose sono accadute e stanno accadendo sui temi che ci stanno a cuore, è inevitabile che anche Fuoriluogo vada ridiscusso. Pensiamo alla mancata abrogazione della legge Fini Giovanardi, su cui aveva puntato il movimento di riforma della politica della droga; fino al crescendo pauroso della "sicurezza" declinata come paura/esecrazione/odio dei tanti "altri da sé". Certo, se Fuoriluogo chiudesse, verrebbe a mancare una delle poche voci che cercano di contrastare la deriva e che si sforzano di agganciare il discorso sulle droghe ai fatti, alle evidenze, alla ragione. Ma non possiamo nasconderci che una delle nostre idee forti - la sicurezza intesa come l’arte di "gettare i ponti" con l’altro/l’altra da sé, nocciolo vero della riduzione del danno - si è eclissata dalla scena politica ed è impallidita nelle coscienze dei cittadini. Così come una delle nostre sfide più ambiziose - saper parlare ai policy makers offrendo spunti e prospettive internazionali - è in larga parte caduta nel vuoto. È vero che anche la riflessione sulla sconfitta sarebbe più difficile senza uno strumento come il nostro, specie pensando alla preoccupante afasia dei soggetti che operano nel sociale. Sulle droghe la frantumazione si avverte ancora di più: il movimento della canapa quale "non-droga" tende a separarsi da quello per la riduzione del danno (buono solo per le droghe-droghe, si dice); nel mezzo l’allarme cocaina (un tempo droga a metà, oggi la droga per eccellenza), che conquista un po’ tutti. Così, da qualsiasi parte ti giri è sempre la Sostanza (buona o maledetta) al centro: che il rischio (ma anche il piacere) dipendano solo in parte dalla chimica è verità troppo complicata per i nostri giorni, parrebbe. Una impasse di questa portata necessita di una risposta all’altezza. C’è bisogno di un nuovo strumento che, ben oltre le droghe, sappia creare collegamenti stretti con altri settori del sociale, oggi in sofferenza. Abbiamo sempre cercato di mantenere una panoramica ampia, fra penale e sociale: ne è riprova questo stesso numero in gran parte dedicato all’immigrazione e all’integrazione degli stranieri, in Europa e in Italia. Non sempre ci siamo riusciti però. In ogni modo, ci aspetta una verifica. Se ci saranno altri soggetti, gruppi, associazioni disposti a lavorare con noi (con idee, con uomini e donne nuovi e qualche fondo), allora Fuoriluogo potrà ripartire in autunno da un nuovo progetto editoriale. Altrimenti, non c’è spazio per lo "speriamo che me la cavo". Il giornale è uscito per tanti anni grazie all’impegno volontario di una redazione compatta e di collaboratrici e collaboratori generosi. Per parte nostra, vogliamo lavorare ancora. Ma non dipende solo da noi. Droghe: Serpelloni; "intercettare" problema tra i minorenni
Redattore Sociale, 30 giugno 2008
Parla il nuovo direttore del Dnpa. "Ho collaborato con tutti i governi". "Pubblico o privato? Gli operatori si preoccupino degli aspetti tecnici e spostino la politica su altri tavoli: su tante cose si è più vicini di quanto si pensi" "Una struttura che è stata pensata per agire precocemente, per un’intesa su come attuare le politiche antidroga (la cui definizione spetta comunque al governo), per razionalizzare e per promuovere politiche di intervento". Questo il nuovo Dnpa secondo Giovanni Serpelloni, responsabile dell’Osservatorio regionale sulle dipendenze della Regione Veneto, chiamato a dirigere la struttura. Il Dnpa, giova ricordarlo, era stato istituito sotto la Presidenza del Consiglio dei ministri, dove aveva operato per circa tre anni. Nel 2006 fu soppresso, a favore della nuova Direzione tossicodipendenze presso il Ministero della Solidarietà sociale, Oggi, col nuovo cambio di governo, si torna alle origini. Abbiamo posto qualche domanda al nuovo direttore, cercando di capirne strategie e ipotesi di lavoro.
Dott. Serpelloni, quali sono le urgenze su cui concentrarsi? Importante il fatto che si riparta da subito con una struttura funzionale, che deve essere al servizio di tutti. Le urgenze? Sto lavorando per elaborare un piano di strategie con il sottosegretario di riferimento, vale a dire l’on. Giovanardi; per individuare una sede adeguata, funzionale, che permetta di lavorare a stretto contatto con gli interlocutori politici; un’attenta selezione del personale, che sarà scelto sulla base della motivazione a lavorare contro le droghe; e poi individuare formule migliori per creare una rete di interlocutori, capace di far interagire tutti coloro che hanno voglia di fare.
E di cose da fare ce ne sono tante… Nei giorni scorsi ho incontrato rappresentanti della Fict, del Cnca… Insomma, operatori impegnati quotidianamente sul campo. Come struttura dobbiamo capire e far capire per esempio chi sono gli interlocutori. Si pensi al problema dei referenti: al Governo si possono chiedere alcune cose, ma tanto va chiesto alle regioni. Tutti si devono rendere conto che la programmazione, la destinazione delle risorse, i controlli e altro ancora sono in mano alle regioni. Dunque, quando si fa qualcosa o si vantano diritti il problema di non sbagliare interlocutore è fondamentale. Le comunità accreditate non vengono pagate? Ci sono regioni che non pagano da anni, ma è a loro che bisogna rivolgersi.
Pubblico e privato. Anche in questo campo non sono mancati gli attriti. Questioni di metodo prima ancora che di merito… C’è e ci dovrà sempre essere un’integrazione dei servizi. Non è corretto non tenerne conto. Forse gli operatori devono cominciare a preoccuparsi degli aspetti tecnici, e spostare i discorsi politici su altri tavoli. Io ho collaborato con tutti i governi. Le risposte devono essere comuni: o ci mettiamo in questa mentalità o continueremo con tante parole che non porteranno a nulla. Ma, in realtà, penso che su tante cose si sia molto più vicini di quanto si pensi.
Può darsi, ma le differenze rimangono. Il ministro Amato aveva proposto test nelle scuole, ma è stato criticato. A Milano ha fatto discutere il kit per i test in famiglia… Il problema in Italia è che si parte dalle soluzioni e non dall’analisi dei fenomeni. Proviamo a pensare: ci stiamo giocando tutto sul lato dell’assistenza. Non ho mai sentito nessuno fare un discorso della diagnosi precoce. Da quando comincio ad assumere sostanze a quando vengo a contatto con le strutture, possono passare 8, 10 anni. Con danni spesso irreparabili. Nel frattempo un giovane si è devastato anche il cervello. Il problema è quello di fare sforzi per prevenire e, al limite, per intercettare precocemente il giovane che entra a contatto con le sostanze. Al di là del fatto che si tratti di droghe pesanti, leggere, etc. Io ho quattro figli, si fanno screening per tutto, controlli periodici per posture e altro. Perché non si può pensare a diagnosi in tema di tossicodipendenze? Con la diagnosi precoce stiamo battendo il cancro. E le droghe? Attenzione: non sono d’accordo sugli screening a scuola, sui test coercitivi, etc. Ma perché non si può parlare di test volontari sui minorenni? Ripeto: stiamo parlando di minorenni. Dobbiamo intercettare il disagio e il problema quando sono agli inizi.
A proposito di intercettare i problemi: per molti i Sert non sarebbero in grado di intercettare i nuovi fenomeni legati alle dipendenze… Quando una persona sta male e arriva a suonare un campanello, trova una comunità, un Sert, un ospedale, etc. C’è un coordinamento a livello territoriale come risposta. Il resto è fatto di piccole questioni di potere, che possono e devono essere superate. Estero: Bologna; la Garante su italiani nelle carceri straniere
Il Domani, 30 giugno 2008
Negli scorsi mesi, sull’onda emotiva delle sfortunate vicende che hanno interessato nostri connazionali detenuti oltre confine, si è costituita a Bologna l’associazione "Prigionieri del Silenzio", nata per offrire un supporto alle famiglie di cittadini italiani detenuti all’estero che si trovano troppo spesso a non avere i necessari strumenti informativi utili a salvaguardare i diritti dei propri cari. Diversi i casi drammatici che hanno raggiunto la ribalta delle cronache: da Carlo Parlanti e Simone Righi, il primo condannato sulla base di un quadro probatorio assai dubbio a 9 anni di reclusione negli Stati Uniti e ora in condizioni di salute seriamente compromesse; il secondo, attualmente libero su cauzione, non può allontanarsi dal suolo spagnolo sino alla definizione del processo nel quale rischia sino a sei anni di reclusione; ad Angelo Falcone e Simone Nobili, detenuti in India, i quali rischiano 35 anni di reclusione. In questi delicati frangenti le famiglie hanno denunciato di aver percepito la distanza delle autorità italiane dal loro dramma e la sgradevole sensazione di essere stati come dimenticati. L’italiano detenuto all’estero è titolare di tutta une serie di diritti, che vanno dal diritto alla salute fino all’equo processo, alla stessa maniera in cui sono garantiti dalla Costituzione e che non possono non seguirlo oltre confine, così come la famiglia ha il diritto di avere tutte le informazioni sulla condizione del proprio caro in un carcere straniero. Secondo l’ultimo censimento del dipartimento del Ministero degli Affari Esteri che si occupa degli italiani detenuti all’estero i nostri connazionali attualmente rinchiusi in prigioni straniere ammonterebbero a 2.820 unità di cui un’importante percentuale, quasi la metà, sono in attesa di giudizio. Gli Stati a maggiore densità risultano essere Germania (1.140), Spagna (429), Belgio (238), Francia (208). Il dato che riguarda le Americhe si attesta sull’ordine di grandezza di quello spagnolo, con gli Stati Uniti che nell’area presentano la maggiore concentrazione di detenuti italiani. Ampiamente sotto il centinaio risulta essere il numero di reclusi nell’area australe e asiatica. Quello che le famiglie dei detenuti oltre confine denunciano è lo stato di isolamento in cui vengono a trovarsi in uno scenario in cui Uffici Consolari (che spesso sono posti a grande distanza dai luoghi di detenzione) e Ambasciate italiane all’estero non sono dotati della congrua disponibilità di fondi al fine di fornire una esauriente ed effettiva assistenza per i nostri connazionali detenuti in terra straniera. Le difficoltà maggiori che le famiglie si trovano ad affrontare sono di carattere economico in quanto i costi delle procedure legali sono corrispondenti ad un ordine di grandezza superiore rispetto alle proprie reali possibilità considerando inoltre che nel caso di detenuti italiani all’estero non si applica l’istituto del gratuito patrocinio. A ciò va aggiunta la necessità di provvedere alle spese dei beni primari della persona in carcere e del suo mantenimento. Al contrario di quanto stabilito dall’articolo 24 della Costituzione, che prevede per qualsiasi cittadino, italiano o straniero, nell’ipotesi del soddisfacimento di condizioni predeterminate per legge, la possibilità di usufruire del patrocinio a spese dello Stato, per i cittadini italiani in pari condizioni all’estero non esiste tale strumento non avendo ancora lo Stato messo a punto un piano preciso per la salvaguardia economica degli italiani arrestati o detenuti all’estero. Inoltre ci sono difficoltà di comunicazione tra i detenuti e i propri legali nonché con le stesse famiglie; difficoltà linguistiche con la documentazione riguardante arresto, accuse, eventuali confessioni che è redatta nella lingua locale. Risulta precaria l’effettività del diritto alla salute nei luoghi di detenzione a causa della sovrappopolazione carceraria con tutte le tematiche ad essa collegate come la promiscuità, l’alto tasso di violenza tra i prigionieri, le scarse condizioni igienico-sanitarie, il rischio di contrarre patologie, non essendo sempre garantita adeguata assistenza medica che varia a seconda della regolamentazione e della amministrazione carceraria. Altra criticità, che va ad aggiungersi alle summenzionate, è quella della discriminazione. Essa è intimamente connessa alla natura del reato e al Paese nel quale viene eseguita la detenzione. I cittadini italiani possono soffrire degli stereotipi che nei tempi si sono radicati nella mentalità del Paese in cui si trovano ad espiare la pena, venendosi a tradurre in comportamenti che incidono in maniera sensibile sulla vita carceraria.
Desi Bruno, Garante dei diritti dei detenuti di Bologna Usa: sperimentazione nuova procedura per le iniezioni letali
Ansa, 30 giugno 2008
Lo stato della Florida è pronto a riprendere le esecuzioni, dopo lo stop imposto dal 2006 in seguito a una drammatica iniezione letale. Nel dicembre di quell’anno, l’allora governatore, Jeb Bush, sospese tutte le esecuzioni dopo che un errore causò un’agonia di 34 minuti con atroci dolori per un detenuto. Ora, una nuova procedura per le iniezioni sarà sperimentata martedì con l’esecuzione di Mark Dean Schwab, condannato 16 anni fa per il rapimento e l’uccisione di un bambino di 11 anni. Israele: sì allo scambio di prigionieri palestinesi con Hezbollah
Ansa, 30 giugno 2008
Dopo alcuni giorni di chiusura totale, Israele ha riaperto i valichi con Gaza. Le zone riaperte sono quelle di Sufa (commerciale) e di Nahal Oz, importante per il trasporto di combustibile. In forma ridotta, vi è attività anche nei valichi di Karni (grano e mangime) e di Erez (transito di casi umanitari). Hamas, inoltre, ha annunciato che non tollererà ulteriori infrazioni della tregua (mediata dall’Egitto) da parte degli svariati gruppi armati palestinesi attivi a Gaza. La notizia dell’atteggiamento del partito palestinese è stata riportata anche dalla radio militare israeliana, secondo cui Hamas si starebbe prodigando per determinare un clima di tranquillità. Israele, da parte sua, si è prefisso l’obiettivo prioritario di raggiungere con Hamas un accordo per lo scambio di prigionieri che consenta il ritorno in patria del caporale Ghilad Shalit, da due anni prigioniero a Gaza. Israele rilascia i prigionieri libanesi. Intanto il movimento sciita libanese Hezbollah ha salutato come "un’altra vittoria" il via libera concesso dal governo israeliano per il rilascio di prigionieri libanesi in cambio della restituzione delle salme dei due soldati israeliani catturati alla vigilia della guerra dell’estate 2006. Lo ha riferito al-Akhbar, quotidiano di Beirut vicino al movimento Hezbollah, che ha scritto: "Ogni libanese e arabo può deliziarsi di questa nuova vittoria che la resistenza (di Hezbollah) ha ottenuto da Israele" La decisione favorevole di Israele, raggiunta domenica tramite il voto, con la mediazione dei servizi di sicurezza tedeschi, per il ritorno in patria dei resti dei due soldati che i miliziani sciiti avevano catturato il 12 luglio 2006, quando si riaccese il conflitto lungo la linea di separazione tra Libano e Israele durato ben 34 giorni. Alla fine del conflitto il "Partito di Dio" dichiarò di aver ottenuto "una vittoria divina". Secondo al-Akhbar, la gioia sentita da Hezbollah è "tanta quanto l’umiliazione provata da Israele" per un accordo che prevede il rilascio di cinque libanesi prigionieri nelle carceri israeliane, tra cui Samir Qantar, dietro le sbarre dal 1979 perché responsabile di un attacco nel nord di Israele, oltre a un non precisato numero di detenuti palestinesi. "L’accordo è un’altra sconfitta per Israele", scrive sempre stamani al-Safir, l’altro quotidiano di Beirut vicino al Partito di Dio. La minaccia libanese. Nonostante l’accordo il clima non accenna a svelenire. Sempre secondo quanto riportato dal giornale libanese Al-Akbar, infatti Hezbollah sarebbe intenzionato a colpire militari e civili israeliani pur di ottenere le mappe dei campi minati e delle aree bombardate con le cluster bombs (ordigni a grappolo) durante la guerra in Libano di due estati fa. A farsi portavoce della minaccia è stato il giornalista libanese Ibrahim al-Amin, che su Al-Akbar ha scritto: "Questa sarà una ragione sufficiente per la resistenza (Hezbollah) per condurre un migliaio di operazioni e per uccidere i soldati nemici o forse i civili, fintanto che continuerà la macchina da guerra israeliana".
|