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Giustizia: la parrucca del Re Sole che governa il Bel Paese… di Eugenio Scalfari
La Repubblica, 16 giugno 2008
"Berlusconi vuole dimostrare che per governare la crisi italiana è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore: sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie". Così ha scritto ieri Giuseppe D’Avanzo su questo giornale. Purtroppo questo suo giudizio fotografa esattamente la realtà. Non sarà fascismo, ma certamente è un allarmante "incipit" verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle opposizioni. Questa sempre più evidente deriva democratica, che si è profilata fin dai primi giorni della nuova legislatura ed è ormai completamente dispiegata davanti ai nostri occhi, ha trovato finora il solo argine del capo dello Stato. Giorgio Napolitano sta impersonando al meglio il suo ruolo di custode della Costituzione. L’ha fatto con saggezza e fermezza, dando il suo consenso alle iniziative del governo quando sono state dettate da necessità reali come nella crisi dei rifiuti a Napoli, ma lo ha negato nei casi in cui le emergenze erano fittizie e potevano insidiare la correttezza dei meccanismi costituzionali. Sarebbe tuttavia sbagliato addossare al presidente della Repubblica il peso esclusivo di arginare quella deriva: se la dialettica si riducesse soltanto al rapporto tra il Quirinale e Palazzo Chigi la partita non avrebbe più storia e si chiuderebbe in brevissimo tempo. Bisognerà dunque che altre forze e altri poteri entrino in campo. Bisogna denunciare e fermare la militarizzazione della vita pubblica italiana della quale l’esempio più clamoroso si è avuto con i provvedimenti decisi dal Consiglio dei ministri di venerdì sulla sicurezza e sulle intercettazioni: due supposte emergenze gonfiate artificiosamente per distrarre l’attenzione dalle urgenze vere che angustiano gran parte delle famiglie italiane. È la prima volta che l’Esercito viene impegnato con funzioni di pubblica sicurezza. Quando fu assassinato Falcone e poi, a breve distanza di tempo, Borsellino, contingenti militari furono inviati in Sicilia per presidiare edifici pubblici alleviando da quelle mansioni la Polizia e i Carabinieri affinché potessero dedicarsi interamente alla lotta contro una mafia scatenata. Ma ora il ruolo che si vuole attribuire alle Forze Armate è del tutto diverso: pattugliamento delle città con compiti di pubblica sicurezza e quindi con poteri di repressione, arresto, contrasti a fuoco con la delinquenza. Che senso ha un provvedimento di questo genere? Quale utilità ne può derivare alle azioni di contrasto contro la malavita? La Polizia conta ben oltre centomila effettivi, altrettanti ne conta l’Arma dei carabinieri e altrettanti ancora la Guardia di finanza. Affiancare a queste forze imponenti un contingente di 2.500 soldati è privo di qualunque utilità. Se il governo si è indotto ad una mossa tanto inutile quanto clamorosa ciò è avvenuto appunto per il clamore che avrebbe suscitato. Tanto grave è l’insicurezza delle nostre città da render necessario il coinvolgimento dell’Esercito: questo è il messaggio lanciato dal governo. E insieme ad esso l’eccezionalità fatta regola: si adotta con una legge ordinaria una misura che presupporrebbe la dichiarazione di una sorta di stato d’assedio, di pericolo nazionale. Un provvedimento analogo fu preso dal governo Badoglio nei tre giorni successivi al 25 luglio del ‘43 e un’altra volta nel ‘47 subito dopo l’attentato a Togliatti. Da allora non era più avvenuto nulla di simile: la Pubblica sicurezza nelle strade, le Forze Armate nelle caserme, questa è la normalità democratica che si vuole modificare con intenti assai più vasti d’un semplice quanto inutile supporto alla Pubblica sicurezza. Il disegno di legge sulle intercettazioni parte dalla ragionevole intenzione di tutelare con maggiore efficacia la privatezza delle persone senza però diminuire la capacità investigativa della magistratura inquirente. Analoghe intenzioni avevano ispirato il ministro della Giustizia Flick e dopo di lui il ministro Clemente Mastella, senza però che quei provvedimenti riuscissero a diventare leggi per la fine anticipata delle rispettive legislature. Adesso presumibilmente ci si riuscirà ma anche in questo caso, come per la sicurezza, il senso politico è un altro rispetto alla "ragionevole intenzione" cui abbiamo prima accennato. Il senso politico, anche qui, è un’altra militarizzazione, delle Procure e dei giornalisti. Le Procure. Anzitutto un elenco dei reati perseguibili con intercettazioni. Solo quelli, non altri. È già stato scritto che lo scandalo di Calciopoli non sarebbe mai venuto a galla senza le intercettazioni. Così pure le scalate bancarie dei "furbetti". Ma moltissimi altri. Per chiudere sul peggiore di tutti: la clinica milanese di Santa Rita, giustamente ribattezzata la clinica degli orrori. Le intercettazioni poi non possono durare più di tre mesi. Non c’è scritto se rinnovabili e dunque se ne deduce che rinnovabili non saranno. Cosa Nostra, tanto per fare un esempio, è stata intercettata per anni e forse lo è ancora. Tre mesi passano in un "fiat", lo sappiamo tutti. I giornalisti e i giornali. C’è divieto assoluto alla pubblicazione di notizie fin all’inizio del dibattimento. Il deposito degli atti in cancelleria non attenua il divieto. Perché? Se le parti in causa o alcune di esse vogliono pubblicizzare gli atti in loro possesso ne sono impedite. Perché? Non si invochi la presunzione di innocenza poiché se questa fosse la motivazione del divieto bisognerebbe aspettare la sentenza definitiva della Cassazione. Dunque il motivo della secretazione è un altro, ma quale? In realtà il divieto non è soltanto contro giornali e giornalisti ma contro il formarsi della pubblica opinione, cioè contro un elemento basilare della democrazia. Il caso del Santa Rita ha acceso un dibattito sull’organizzazione della Sanità, sul ruolo delle cliniche convenzionate rispetto al Servizio sanitario nazionale. Dibattito di grande rilievo che potrebbe aver luogo soltanto all’inizio del dibattimento e cioè con il rinvio a giudizio degli imputati. L’eventuale archiviazione dell’istruttoria resterebbe ignota e così mancherebbe ogni controllo di opinione sul motivo dell’archiviazione e su una possibile critica della medesima. Così pure su possibili differenze di opinione tra i magistrati inquirenti e l’ufficio del Procuratore capo, sulle avocazioni della Procura generale, su mutamenti dei sostituti assegnatari dell’inchiesta. Su tutti questi passaggi fondamentali la pubblica opinione non potrebbe dire nulla perché sarebbe tenuta all’oscuro di tutto. Sarà bene ricordare che il maxi-processo contro "Cosa Nostra" fu confermato in Cassazione perché fu cambiato il criterio di assegnazione dei processi su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, allertato dalla pressione dei giornali in allarme per le pronunce reiterate dell’allora Presidente di sezione, Carnevale. Tutte queste vicende avvennero sotto il costante controllo della stampa e della pubblica opinione allertata fin dalla fase inquirente. Falcone e Borsellino non erano giudici giudicanti ma magistrati inquirenti. Mi domando se avrebbero potuto operare con l’efficacia con cui operarono senza il sostegno di una pubblica opinione esaurientemente informata. Le gravi penalità previste da questa legge nei confronti degli editori costituiscono un gravame del quale si dovrebbero attentamente valutare gli effetti sulla libertà di stampa. Esso infatti conferisce all’editore un potere enorme sul direttore del giornale: in vista di sanzioni così gravose l’editore chiederà a giusto titolo di essere preventivamente informato delle decisioni che il direttore prenderà in ordine ai processi. Di fatto si tratta di una vera e propria confisca dei poteri del direttore perché la responsabilità si sposta in testa al proprietario del giornale. Si militarizza dunque il giudice, il giornalista ed anche la pubblica opinione. Ha ragione il collega D’Avanzo nel dire che questi provvedimenti stravolgono la Costituzione. Identificano di fatto lo Stato con il governo e il governo con il "premier". Se poi si aggiunge ad essi il famigerato lodo Schifani, cioè il congelamento di tutti i processi nei confronti delle alte cariche dello Stato, l’identificazione diventa totale. Qui il nostro discorso arriva ad un punto particolarmente delicato e cioè al tema dell’opposizione parlamentare. Parlo di tutte le opposizioni politiche. Ma in particolare parlo del Partito democratico. Negli ultimi giorni il Pd e Veltroni quale leader di quel partito hanno assunto su alcune questioni di merito atteggiamenti di energica critica nei confronti del governo. La luna di miele di Berlusconi è ancora in pieno corso con l’opinione pubblica e con la maggior parte dei giornali ma è già svanita in larga misura con il Partito democratico. Salvo un punto fondamentale, più volte ribadito da Veltroni: il dialogo deve invece continuare sulle riforme istituzionali e costituzionali. È evidente che questa "riserva di dialogo" condiziona inevitabilmente il tono complessivo dell’opposizione. Le riforme istituzionali e costituzionali sono di tale importanza da trasformare in "minimalia" i contrasti di merito su singoli provvedimenti. Tanto più che Tremonti chiede all’opposizione di procedere "sottobraccio" per quanto attiene alla strategia economica; ecco dunque un’ulteriore "riserva di dialogo". Sembrerebbe, questa, una novità a tutto vantaggio dell’opposizione ma non è così. La politica economica italiana dovrà svolgersi nei prossimi anni sotto l’occhio vigile delle Autorità europee. Che ci piaccia o no, noi siamo di fatto commissariati da Bruxelles. Tremonti dovrà assumere responsabilità impopolari. Necessarie, ma impopolari e vuole condividere con l’opposizione quell’impopolarità. Intanto, nel merito delle riforme, Berlusconi procede come si è detto e visto, alla militarizzazione del sistema. "L’Etat c’est moi" diceva il Re Sole e continuarono a dire i suoi successori fin quando scoppiò la rivoluzione dell’Ottantanove. Voglio qui ricordare che uno dei modi, anzi il più rilevante, con il quale l’identificazione dello Stato con la persona fisica del Re si realizzò fu l’asservimento dei Parlamenti al volere della Corona. Gli editti del Re per entrare in vigore avevano bisogno della registrazione dei Parlamenti e soprattutto di quello di Parigi. Questa era all’epoca la sola separazione di poteri concepita e concepibile. Ma il re aveva uno strumento a sua disposizione: poteva ordinare ai Parlamenti la registrazione dell’editto. Di fronte all’ordine scritto del Sovrano il Parlamento registrava "con riserva" e l’editto entrava in funzione. Di solito quest’ordine veniva dato molto di rado ma col Re Sole e con i suoi successori diventò abituale. Quando i Parlamenti si ribellarono ostinandosi a non obbedire il Re li sciolse. Il corpo del Re prevalse sulla labile democrazia del Gran Secolo. Il Re Sole. Ma qui il sole non c’è. C’è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale. Corteggiamento dell’opposizione. Montaggio di paure e di pulsioni. Picconamento quotidiano della Costituzione. Quale dialogo si può fare nel momento in cui viene militarizzato il Paese nei settori più sensibili della democrazia? Il Partito democratico ha un solo strumento per impedire questa deriva: decidere che non c’è più possibilità di dialogo sulle riforme per mancanza dell’oggetto. Se lo Stato viene smantellato giorno per giorno e identificato con il corpo del Re, su che cosa deve dialogare il Pd? È qui ed ora che il dialogo va fatto, la militarizzazione va bloccata. Le urgenze e le emergenze vanno trasferite sui problemi della società e dell’economia. "In questo nuovo buon clima si può fare molto e molto bene" declama la Confindustria di Emma Marcegaglia. Qual è il buon clima, gentile Emma? Quello dei pattuglioni dei granatieri che arrestano gli scippatori e possono sparare sullo zingaro di turno? Quello dell’editore promosso a direttore responsabile? Quello del magistrato isolato da ogni realtà sociale e privato di "libero giudizio"? Quello dei contratti di lavoro individuali? È questo il buon clima? Ricordo che quando furono pubblicati "on-line" gli elenchi dei contribuenti ne nacque un putiferio. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, autore di tanto misfatto, fu incriminato e si dimise. Ma ora il ministro Brunetta pubblica i contratti di tutti i dirigenti pubblici e le retribuzioni di tutti i consulenti e viene intensamente applaudito e incoraggiato. Anch’io lo applaudo e lo incoraggio come ho applaudito allora Visco e Romano. Ma perché invece due pesi e due misure? La risposta è semplice: per i pubblici impiegati si può. È questo il buon clima? Attenti al risveglio, può essere durissimo. Può essere il risveglio d’un paese senza democrazia. Dominato dall’antipolitica. Dall’anti-Europa. Dall’anarchia degli indifferenti e dalla dittatura dei furboni. Io trovo che sia un pessimo clima. Giustizia: sospensione processi; passa la norma salva-premier di Donatella Stasio
Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2008
Sospensione secca di un anno per tutti i processi in corso che non riguardano criminalità organizzata e reati di grave allarme sociale. Ergo: sospensione di un anno - immediata e automatica - anche per il processo Mills di Milano, in cui Silvio Berlusconi è imputato di corruzione. Uscita dalla porta, dunque, la sospensione rientra dalla finestra. E in una versione ben più radicale di quella tentata con il varo del decreto sicurezza. A proporla sono i presidenti delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, Carlo Vizzini e Filippo Berselli, con un emendamento a doppia firma - depositato oggi - al Ddl di conversione in legge del decreto sicurezza. La sospensione riguarderà tutti i procedimenti riguardanti fatti commessi fino al 30 giugno 2002, "che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado. E scatterà dalla data di entra in vigore della nuova legge, per la durata di un anno, durante il quale resta sospesa anche la prescrizione. La ragione di questo forzato stop sta nel fatto che "i Tribunali sono ingolfati da migliaia di procedimenti e la maggioranza - spiega Berselli - vuole garantire una corsia preferenziale a quelli che riguardano reati gravi e gravissimi": mafia, terrorismo e tutti quelli per i quali è previsto che si proceda con rito direttissimo e immediato, che il decreto sicurezza ha esteso a un’area più ampia di reati (ma che hanno la precedenza per il fatto stesso che sono direttissimi o immediati).
Arriva l’emendamento salva-premier, è scontro
Sospensione per un anno dei processi penali per fatti commessi fino al 30 giugno 2002 e riguardanti delitti di non rilevante gravità, cioè con pene detentive inferiori ai 10 anni in svolgimento e compresi tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado È quanto prevede uno dei due emendamenti presentati stamani dai relatori Carlo Vizzini e Filippo Berselli al decreto sicurezza. La sospensione dei processi per reati non gravi, e cioè con pena massima inferiore ai 10 anni di reclusione, compiuti fino al 30 giugno 2002, comporterà lo slittamento di un anno dei termini di prescrizione. L’emendamento presentato da Carlo Vizzini e Filippo Berselli riguardano l’articolo 132 bis del codice penale. L’emendamento cosiddetto salva-premier contempla che i procedimenti in atto, tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado e con imputati detenuti, abbiano la precedenza così come tutti i processi per reati di particolare gravità e cioè con più di 10 anni di reclusione, come omicidio, reati di mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti, contrabbando, devastazioni, stragi, rapine ed estorsioni aggravate. La sospensione per i reati che prevedono meno di 10 anni di reclusione come pena sarà immediata. Lo stop al processo non impedisce tuttavia la possibilità del patteggiamento che potrà essere chiesto dall’imputato entro 3 giorni dalla notifica della sospensione o alla prima udienza. La sospensione non graverà sull’attività urgente del tribunale, quale l’incidente probatorio per il quale il giudice può procedere comunque anche in caso di sospensione. La sospensione del processo non inciderà comunque sulla prescrizione che verrà maggiorata dell’anno di sospensione. Ovviamente la parte civile potrà sempre procedere in sede civile.
Bricolo: con la salva-premier limitiamo i danni dell’indulto
"In fase di approvazione dell’indulto, noi avevamo avvertito anche riguardo alle ricadute negative che ci sarebbero state sui processi in corso che rischiavano di intasare l’intero sistema giudiziario", visto che con quel provvedimento "non si scarceravano solo i delinquenti, ma si bloccavano anche i processi portando alla prescrizione molti reati". Così Federico Bricolo spiega il senso dell’emendamento al decreto legge sulla sicurezza e accusa l’opposizione di "inutili polemiche". Il capogruppo della Lega al Senato ricorda che l’indulto "fu approvato poco dopo l’insediamento del governo Prodi. Ora - continua il leghista - per limitare quei danni, siamo costretti ad intervenire e con la proposta Vizzini-Berselli" che è "richiesta da molti magistrati" e con cui "sarà possibile affrontare con priorità i processi che riguardano i reati di grave allarme sociale, condannando e impedendo la scarcerazione di molti delinquenti". Dunque, sottolinea il presidente dei senatori del Carroccio, "tutte le polemiche strumentali, fatte solo per attaccare il premier e il governo nella sua collegialità vanno contro l’interesse stesso della giustizia". Giustizia: Simspe; da oggi la Sanità Penitenziaria passa al Ssn
"Dobbiamo essere protagonisti della riforma!", dice Andrea Franceschini, direttore sanitario del Regina Coeli e presidente della S.I.M.S.PE. Entra in vigore domani il Dpcm che trasferisce al Servizio Sanitario Nazionale la Sanità penitenziaria. Pubblicato in G.U. il 30 maggio, il Dpcm segna per l’aspetto legislativo la conclusione, e per l’aspetto operativo l’inizio, del lungo cammino di riforma iniziato nel 1999 con il D.L. 230. "Una riforma di cui dobbiamo essere parte attiva!" ha detto Andrea Franceschini, direttore sanitario dell’Istituto Penitenziario Regina Coeli e presidente della S.I.M.S.PE. - Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria Onlus. Da domani vengono trasferite al Servizio Sanitario Nazionale tutte le competenze sanitarie della medicina generale e specialistica, i rapporti di lavoro e le risorse economiche e strumentali sinora in capo al Ministero della Giustizia. "La medicina penitenziaria è materia delicatissima - afferma Franceschini - basti pensare che sono circa 2.000 in Italia gli operatori dedicati, tra Medici ed Infermieri, rispetto ad una popolazione detenuta che ha superato abbondantemente le 50.000 presenze. Lavorare in carcere richiede un impegno straordinario, maggiori conoscenze e competenze. Fornire un farmaco, effettuare una diagnosi, disporre un ricovero, esprimere una valutazione clinica possono influire in maniera significativa non solo sulla salute ma sull’intera storia processuale di una persona detenuta. Occorrono fortissimo senso di responsabilità e passione. S.I.M.S.Pe fu fondata proprio per lo studio scientifico dei problemi del penitenziario e per la promozione di attività nel settore della formazione ed assistenza sanitaria e socio-sanitaria nei confronti delle persone detenute ed internate". "Ora è per noi giunto il momento di essere protagonisti della riforma!" prosegue Franceschini che evidenzia ancora "Affinché la riforma diventi effettiva e non rimanga incompleta, noi che da anni operiamo in carcere crediamo essenziale un processo di osmosi, di reciproca conoscenza e integrazione, di formulazione di adeguati modelli operativi che ci consentano di esprimere la professionalità con un’ assistenza di qualità. Non si può infatti ritenere che sia sufficiente trasferire l’ assistenza sanitaria penitenziaria alle Asl per renderla automaticamente in grado di rispondere alle necessità". In particolare il Dpcm prevede la realizzazione di un Tavolo dedicato presso la Conferenza Stato-Regioni per il coordinamento e l’armonizzazione delle linee guida generali con i servizi sanitari realizzati da ciascuna Regione. "Il nostro invito ai Ministri Sacconi ed Alfano, ai Sottosegretari Martini e Fazio, al Presidente della Conferenza Stato-Regioni - conclude Andrea Franceschini - è: non disperdete il patrimonio prezioso che S.I.M.S.Pe. rappresenta. Lavoriamo insieme!".
Medici carceri: passaggio a Ssn ci veda coinvolti
"Una riforma attesa e voluta" quella dell’assistenza sanitaria ai detenuti perché "il vecchio modello era obsoleto. Ma le nuove norme devono vedere coinvolti i medici penitenziari in prima persona per definire i modelli organizzativi più adatti ad un’assistenza integrata con il servizio sanitario nazionale". Così Andrea Franceschini, presidente della società italiana di medicina e sanità penitenziaria, spiega il percorso che da domani si apre per il passaggio dell’assistenza sanitaria ai detenuti al Ssn. "Non solo personale e finanziamenti dovranno essere gestiti dalle Regioni e Asl - sottolinea Franceschini - ma si dovranno definire correttamente ruoli professionali e modelli organizzativi appropriati per dare tutte le forme di assistenza e prestazioni adeguate ad un’ampia popolazione di persone ospitata in circa 240 istituti". "La medicina penitenziaria è materia delicatissima - afferma Franceschini - basti pensare che sono circa 2.000 in Italia gli operatori dedicati, tra medici ed infermieri, rispetto ad una popolazione detenuta che ha superato abbondantemente le 50.000 presenze. Lavorare in carcere richiede un impegno straordinario, maggiori conoscenze e competenze. Fornire un farmaco, effettuare una diagnosi, disporre un ricovero, esprimere una valutazione clinica possono influire in maniera significativa non solo sulla salute ma sull’intera storia processuale di una persona detenuta". "Non vorrei che in questo passaggio delicato - spiega Franceschini che è anche direttore sanitario dell’istituto penitenziario di Regina Coeli - possa pesare anche la situazione di crisi finanziaria per alcune Regioni e si desse a quest’area dell’assistenza un ruolo residuale. Il Ssn in questo percorso dovrà integrarsi con una cultura e una mentalità che per ora sono poco sconosciuti. Per questo nel processo di riforma che prende il via domani dobbiamo essere parte attiva. Il nostro invito ai Ministri Maurizio Sacconi e Angiolino Alfano, ai Sottosegretari Francesca Martini e Ferruccio Fazio, al Presidente della Conferenza Stato-Regioni - conclude Franceschini - è di non disperdere il patrimonio prezioso che la società di medicina penitenziaria rappresenta". Giustizia: Uil penitenziari; 47 gli agenti aggrediti in soli 3 mesi
Agi, 16 giugno 2008
Quarantasette agenti aggrediti in 10 diverse carceri italiane, durante il turno di servizio, da marzo ad oggi. Ad aggiornare il bilancio è Eugenio Sarno, segretario generale della Uil PA penitenziari, che dopo aver lanciato l’allarme sul fenomeno, alcuni giorni fa, registra "con soddisfazione" la notizia della convocazione delle rappresentanze sindacali per il 24 di questo mese da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "Diamo atto al presidente Ferrara della convocazione, dimostrando ancora una volta grande tempismo e sensibilità - premette Sarno -. Purtroppo le ripetute aggressioni hanno scosso il personale che ora, a maggior ragione, chiede condizioni di maggior sicurezza. Sarà pure esagerato parlare di guerra ma le cifre sono davvero impressionanti: come si può giustificare il silenzio del ministro Alfano che pure è stato informato di quanto accade? Vogliamo sperare che abbia tempo e voglia prima o poi di intercettare anche i problemi della polizia penitenziaria. Corpo di polizia posto alle dipendenze del ministro della Giustizia". "Vedremo cosa si potrà fare il 24 - conclude il segretario generale della Uil PA penitenziari - ma credo che sarà necessario anche un impegno politico del ministro. Un conto è monitorare la situazione, altro è prevedere l’impiego di mezzi coercitivi e di difesa per il personale in servizio di custodia nelle sezioni. Quando un agente da solo deve sorvegliarne 70/80 senza alcuna assistenza e supporto tecnologico è, di fatto. ostaggio dei reclusi. Per questo chiediamo che il personale in servizio di sorveglianza alle sezioni venga dotato di opportuni mezzi di difesa. Non dimentichiamo il gran numero di detenuti sieropositivi, rispetto ai quali il personale è sprovvisto persino delle mascherine e dei guanti protettivi".
Utile convocazione Dap su aggressioni personale
La Uil Pa Penitenziari giudica con favore la convocazione da parte del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, delle rappresentanze sindacali per il prossimo 24 giugno relativamente al tema delle aggressioni al personale carcerario. "Diamo atto al presidente del Dap Ettore Ferrara della convocazione - afferma in una nota il segretario generale della Uil Pa Penitenziari Eugenio Sarno - dimostrando ancora una volta grande tempismo e sensibilità. Purtroppo le ripetute aggressioni hanno scosso il personale che, ora, a maggior ragione, chiede condizioni di maggior sicurezza. Vedremo cosa potremo fare il 24, ma credo che sarà necessario anche un impegno politico del ministro della Giustizia An Angelino Alfano". Un conto, afferma Sarno, "è monitorare la situazione, altro è prevedere l’impiego di mezzi coercitivi e di difesa per il personale in servizio di custodia nelle sezioni. Per questo - conclude - chiediamo che il personale in servizio di sorveglianza alle sezioni venga dotato di opportuni mezzi di difesa". Giustizia: funzionari Polizia Penitenziaria… niente carriera
Comunicato stampa, 16 giugno 2008
L’Associazione nazionale dei funzionari di polizia penitenziaria annuncia per il 3 luglio un sit-in davanti al ministero della Giustizia per mettere fine alle disparità con le altre forze di polizia. L’Anfu - Associazione nazionale dei funzionari di polizia penitenziaria - annuncia un sit-in di protesta davanti al ministero della Giustizia programmato per il 3 luglio. Queste le motivazioni: innanzitutto "l’inerzia degli organi amministrativi e politici - si legge in una nota - circa il mancato riconoscimento al personale direttivo della polizia penitenziaria, delle medesime prerogative di carriera delle altre forze di polizia a ordinamento civile, nonché l’attribuzione di adeguate posizioni nella scala gerarchica dell’amministrazione penitenziaria in virtù degli impegni e delle responsabilità gestionali cui il personale è sottoposto. Siamo stanchi di essere considerati alla stregua di lavoratori di "quarta serie", non solo tra le forze di polizia, ma addirittura fra l’intero organico del personale dirigente e direttivo della pubblica amministrazione". La risoluzione del problema delle carceri passa anche attraverso una modernizzazione dell’amministrazione che tenda ad armonizzare le attribuzioni spalmandole adeguatamente fra le diverse professionalità di cui l’amministrazione penitenziaria si avvale e non già, monopolizzandole fra i soli dirigenti penitenziari, molti dei quali, fra l’altro, promossi tali con una legge dello Stato che ha sentito la necessità di intervenire a tutela esclusiva di questi, come se gli altri operatori, quelli della polizia penitenziaria, fossero cittadini di altro rango". Giustizia: la storia di Angela, "rapita" da Servizi Minorili…
Panorama, 16 giugno 2008
Angela ha 19 anni e due genitori che adora. Ricambiata. Vivono sotto lo stesso tetto, in una bella villetta gialla alle porte di Milano. Angela vuole aprire un negozio di abbigliamento, guarda i programmi di Maria De Filippi e non le dispiacerebbe sedersi nel suo salotto televisivo. I genitori, Salvatore, piccolo imprenditore edile calabrese, e Raffaella la coccolano con gli occhi e le hanno fatto fare un calendario (castissimo) che è appeso in sala. Ma questa famiglia nasconde un segreto. Quando aprono le loro carte di identità scopri che i tre hanno cognomi diversi. È la cicatrice lasciata da un’odissea durata oltre 12 anni, dal maggio 1994 al dicembre 2006. Perché la burocrazia in Italia va più lenta della ragione e, persino, del buon senso. "Lo Stato mi ha rubato l’infanzia e l’adolescenza. E ora non mi vuole restituire neppure il mio vecchio cognome" si lamenta Angela. Nel 1995 è stata "rapita" da un magistrato zelante che ha ritenuto di salvarla dagli abusi del padre. Peccato che 6 anni dopo la Cassazione abbia sentenziato che quelle violenze non sono mai avvenute. Ma ormai la vita della famiglia L. era distrutta. Centoventisei mesi dopo Angela è tornata a casa. E ora, dopo essersi goduta un po’ di serenità, ha accettato di raccontare la sua storia. L’inferno inizia quando una ragazza di 14 anni, Antonella M., denuncia per abusi il fratello. La famiglia è scettica e allora lei, particolarmente fragile (finirà in un ospedale psichiatrico), chiama in causa altri parenti, persino uno zio d’America che nei giorni dei presunti incontri risulterà oltreoceano. Racconta di orchi e di orge. Il pubblico ministero Pietro Forno annota e aggiunge nomi sul registro degli indagati. Tra le persone che dubitano della versione di Antonella c’è suo cugino, Salvatore L., che finisce sul banco degli imputati. Avrebbe violentato sia Antonella sia sua figlia Angela. L’accusa crede alla giovane, anche se è ancora vergine. E così, il 24 novembre 1995, due carabinieri, come nella favola di Pinocchio, insieme con un’assistente sociale, prelevano Angela a scuola. "Devi venire con noi" le dicono. Quindi la portano via dal padre, ma anche dalla madre. Cominciano a questo punto le vite parallele di Angela e della sua famiglia, che non si incroceranno più, sino al 2005. Dei primi giorni di separazione la ragazza, oggi, ricorda la vetrata nel centro di assistenza familiare, un parente dall’altra parte, lei che cerca di raggiungerlo. E poi tante persone, forse dieci, che la placcano, la riportano dentro. Ricorda le notti passate a piangere, le punizioni, le serate con la faccia rivolta all’angolo della camerata. "Non dimentico gli schiaffoni della signora Virgilia. Per castigarci ci faceva fare 100 piegamenti sulle gambe". A bambini di 6-7 anni… "Là dentro mi dicevano che la mia famiglia mi aveva abbandonata, che mi dovevo rassegnare". Un giorno Angela con cinque compagne organizza un’evasione, ma sei bambine che girano da sole per la città non passano inosservate. E rifiniscono dentro. Durante le indagini la bambina può vedere solo la cugina Antonella, testimone come lei. "Gli operatori del centro mi assicuravano che era l’unica che mi voleva bene". I giudici d’appello, 4 anni dopo, annotano che Angela potrebbe essere stata "influenzata" da quegli incontri. La ragazzina, nelle stesse settimane, subisce molte altre pressioni. "Ero piccola, ma ricordo che l’assistente sociale mi diceva che se confermavo certe cose sul papà avrei rivisto la mamma. Una volta sbottai: "Così non vale"". La verità è che Angela non conosce il significato della parola abuso, si limita a ripetere che il padre l’ha trattata male, per poter tornare tra le braccia materne. Secondo l’accusa, le prove sarebbero almeno due: una testimonianza videoregistrata che, durante il processo, va perduta e i fantasmi disegnati dalla bambina. Per gli strizzacervelli, un simbolo fallico. I periti del giudice nel processo d’appello sono durissimi: gli schizzi fatti dopo gli incontri con la psicologa non "rappresentano in alcun modo una spontanea e libera espressione figurativa". Una poliziotta appunta: "La bambina vuole disegnare tante bambole e la verbalizzante la invita a smettere. La verbalizzante le chiede di disegnare i letti… le bambole non mi interessano, mi interessano i letti e i fantasmi". Nel 1997 la corte d’appello infine assolve Salvatore, sottolineando gli errori di consulenti e inquirenti. Sbagli che hanno trasformato in un incubo la vita di una famiglia unita. Salvatore è quello a cui è toccata l’esperienza peggiore: 2 anni e 4 mesi in carcere, nel girone degli infami, accusato di incesto e pedofilia. "Stavo in una cella con tre albanesi, un marocchino e moltissimi scarafaggi" ricorda. Un giorno prende carta e penna e scrive all’avvocato Guido Bomparola: "Oltre all’accusa, io ho il pensiero quotidiano di mia figlia piccola allontanata dalla mamma (…), di un ragazzo che si trova tutti i giorni a convivere con l’idea di un padre che sta a San Vittore. (…) Non sai quante volte ho la tentazione di farla finita. Sembra assurdo, ma se ti uccidi ti ascoltano. (…) Allora a tutti quanti viene il dubbio che il mostro poteva essere innocente". Ma Salvatore resiste. Organizza una piccola cooperativa per fare lo spesino per i detenuti più poveri e, da bravo muratore, ristruttura tutte le celle del piano e nella sua costruisce una nicchia in cui mette una madonnina luminosa. La moglie non sta meglio: "Il momento più brutto della mia vita è stato quando sono andata alla fermata dello scuolabus e non ho trovato mia figlia". I primi mesi, per la vergogna e l’assurdità della vicenda, non esce di casa, quindi tira fuori la rabbia che ha dentro e reagisce: "Avevo un figlio da crescere, ho iniziato a lavorare nella tintoria di mia sorella". Non sono facili neppure le 40 udienze dei processi, con il marito che arriva in manette: "Lo potevo incontrare solo lì. In aula ho portato anche Francesco, che voleva vedere suo padre". Nel 2001 c’è l’assoluzione definitiva, ma il tribunale per i minorenni, sordo a tutto, conferma l’adottabilità di Angela, "per incapacità genitoriale" di Raffaella e Salvatore. La ragazza, nel frattempo, è stata affidata a una famiglia di ricchi imprenditori dell’hinterland milanese. Hanno altri tre figli, due adottivi e una naturale, la più piccola. Angela non conserva un buon ricordo di quegli anni, forse per la severità dei nuovi genitori: "Litigavamo spesso. Non gli assomigliavo e mi imponevano regole ferree: potevo uscire solo la domenica pomeriggio dalle 14.30 alle 17.30, gli altri giorni sbrigavo spesso le faccende domestiche, stiravo per ore". Ad Angela manca l’infanzia rubata e, quando può, gioca di nascosto con le bambole della sorella più piccola ("A me regalavano solo gioielli che finivano in cassaforte"). In famiglia le fanno pesare il confronto con quella che il padre chiama "figlia figlia". A scuola va male, anche se tra i banchi è l’unico momento in cui si sente libera: "Ci andavo con il sorriso e quando tornavo a casa mi deprimevo". Angela passa ore a scrivere sul diario pensieri sulla vecchia famiglia: "I miei genitori adottivi mi dicevano che quelli naturali mi avevano abbandonato, poi che mia madre era morta di parto. Però io mi ricordavo perfettamente i suoi riccioli". Alle medie impara il significato della parola abuso e si convince di non averlo mai subito: "Con i grandi non parlavo di queste cose per non finire di nuovo all’orfanotrofio". Tace, sino a quando, dopo anni di ricerche, Salvatore e Raffaella la ritrovano su una spiaggia di Alassio, dove è in vacanza: "Era il 31 luglio 2005 e la riconobbi subito" si illumina Salvatore. Con la moglie Raffaella per 8 mesi si accontenta di seguirla da lontano, di vederla uscire dalla messa. Poi, nel marzo 2006, il fratello Francesco le consegna una lettera in cui le racconta la verità: che loro non l’avevano mai abbandonata e che anzi la cercavano da anni. Angela decide di tornare dai suoi. Quando bussa la prima volta, dopo oltre 10 anni, è sera. Raffaella spalanca la porta e quasi sviene. Madre e figlia parlano tutta la notte, piangono, ridono. A questo punto lo Stato mostra, per l’ultima volta, il volto più duro. "Poco prima di tornare a casa definitivamente, un pm ci ha provato ancora. Mi ha detto che se fuggivo di nuovo dalla mia famiglia adottiva mi avrebbero rispedito in un istituto" ricorda Angela. "Io gli ho risposto che potevano mandarmi dove volevano, ma che mio padre non aveva mai abusato di me e che, alla fine, sarei tornata dai miei genitori naturali". I giudici si arrendono. Angela torna a casa, per sempre. Il 24 dicembre 2006 festeggia il diciottesimo compleanno in un ristorante con 115 invitati. In paese sparano i fuochi d’artificio, i regali si accumulano all’ingresso come un bottino di guerra. Una cameriera guarda stupita e papà Salvatore le sussurra: "Questo non è un compleanno, è un miracolo". Ora manca l’ultimo prodigio. "Rivoglio il mio cognome" reclama la fu Angela L., che un giudice ha battezzato Angela C. Giustizia: la mafia uccise Rostagno, la verità in un bossolo…
Liberazione, 16 giugno 2008
La notizia, attesa da vent’anni, è di quelle che ti fanno riappacificare con la giustizia: "Gli assassini di Mauro Rostagno saranno chiamati a difendersi nei prossimi mesi di fronte alla Corte di Assise di Trapani". A rivelarlo è Enrico Deaglio con un’ampia inchiesta pubblicata sull’ultimo numero di Diario, numero da oggi in edicola. Il merito va ad Antonio Igroia, il magistrato palermitano che non ha mai mollato la presa e, dopo dodici anni di inchiesta, ha chiesto il rinvio a giudizio per Vincenzo Virga organizzatore dell’agguato al giornalista torinese che, pare, fu commissionato da Totò Riina in persona. Sembra proprio che questa volta il Pm Ingroia, abbia una prova definitiva, "una prova decisiva" grazie alla quale si farà finalmente luce su una vicenda caratterizzata da depistaggi, veleni e manovre oscure. Una vicenda simbolo di quella fitta rete di misteri che caratterizza il nostro Paese. Ma andiamo con ordine, partiamo da quel 26 settembre del 1988, la notte in cui Mauro Rostagno fu assassinato con quattro colpi di fucile calibro 12 e due colpi di pistola calibro 38 special. Da quel giorno in poi l’indagine si mosse in tutte le direzione tranne che in quella del delitto di mafia. Tranne che nel sentiero oscuro e insanguinato di Cosa nostra. Del resto Rostagno era diventato un vero "rompicoglioni". Si era messo in testa di fare il giornalista e lo fece come una missione: "Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania - scriveva al suo vecchio compagno Renato Curcio - ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono". E fu quel suo vizio, il vizio di spulciare tra le pieghe di quella Sicilia martoriata dalla mafia, la sua condanna a morte. La storia di Rostagno è nota, e nel suo lungo articolo Enrico Deaglio la ripercorre tutta. Mauro Rostagno, finito il suo tormentato pellegrinaggio intellettuale e spirituale - dalla facoltà di Sociologia di Trento al viaggio in India - nel 1987 approda in Sicilia dove fonda la comunità Saman per tossicodipendenti e alcolisti. Insieme a lui Chicca Roveri, sua moglie, e quel Francesco Cardella che aveva conosciuto in India. "In quello stesso anno - racconta ancora Deaglio - Mauro entra per la prima volta negli studi televisivi di Rtc, una piccola emittente privata". Nel giro di un anno diventa il personaggio televisivo più noto in città. Questa la giornata tipo del Rostagno giornalista: "Otto di mattina, lettura dei giornali; poi primo giro con le telecamere: si fa il giro per raccontare i cumuli dei rifiuti che non vengono raccolti. Si da notizia delle denunce dei cittadini e delle inchieste: dalla scoperta delle logge massoniche, alle malversazioni amministrative. Infine si intervistano i magistrati più impegnati, per esempio Paolo Borsellino, procuratore di Marsala". Una presa diretta su Trapani che infastidiva, faceva schiumare rabbia a tutti coloro che agivano nell’ombra e che non avevano certo bisogno di una telecamera sguinzagliata tra le procure e tra i vicoli più bui della città. "Quarchi vota ch’attapanu ‘u musu", prima o poi gli tappano la bocca, ripetevano consapevoli i più avvertiti. Nel 1988 arriva il giorno dello scoop: con una piccola telecamera si piazza dietro le piste di decollo e atterraggio di Kinisia (ex aeroporto militare poco lontano da Marsala). "Alla luce del tramonto - racconta Deaglio - filma un C130 dell’Aeronautica italiana che scarica casse di medicinali e carica casse di armi dirette in Somalia. E’ convinto di aver raggiunto un grande tassello all’ipotesi che da Trapani mafia e servizi segreti gestiscano un traffico di armi e droga". Va a Palermo per informare Giovanni Falcone e cerca contatti anche con il Pci. Sa bene che quella che ha in mano è roba che scotta. In quei giorni Angelo Siino, fiduciario di Cosa Nostra, sa già che contro Rostagno c’è una condanna a morte. E allora va dal proprietario della Tv consigliandogli di farlo smettere: "Ho cercato di non farlo uccidere", confiderà in seguito a un magistrato. "Alla fine cosa nostra - continua Deaglio nel suo lungo articolo inchiesta - commissiona l’omicidio di Rostagno al capomafia di Trapani Vincenzo Virga. La data prescelta è il 26 settembre. Alle 21 è già buio e ancora più buio è il tratto di strada sterrata che Rostagno deve percorrere alla guida della sua Fiat Duna. Accanto a lui c’è Monica Serra una ragazza della comunità che lavora con lui a Rtc. Nel frattempo un tecnico Enel, Vincenzo Mastrantonio, che di secondo lavoro svolge l’attività di autista del capomafia Virga, ha provveduto a spegnere l’illuminazione della zona". E’ il momento dell’agguato: una Fiat Uno tampona l’automobile di Rostagno. I killer iniziano a sparare. Rostagno è colpito da otto colpi in testa e alla schiena. All’obitorio di Trapani, dove giace il cadavere martoriato, i carabinieri diffondono la notizia che in macchina Mauro aveva un rotolo di dollari e due siringhe di eroina. Di certo c’è solo che qualche tempo dopo Vincenzo Mastrantonio viene trovato cadavere nelle campagne di Lenzi. "Parlava troppo". Nel 1996 accade quello che nessuno si aspettava: "Il procuratore di Trapani Gianfranco Garofalo convoca, gioisco e spavaldo una conferenza stampa per annunciare la soluzione del "caso Rostagno". Il delitto, secondo la sua inchiesta, è maturato dentro la comunità Saman per gelosie, adulteri, traffico di droga e ammanchi finanziari". Quindi manda in galera la moglie Chicca Roveri, accusata di essere l’organizzatrice del delitto, e Monica Serra, la ragazza scampata all’agguato sarebbe infatti una complice. Poi l’annuncio finale: "Bisognava capirlo dall’inizio - dichiara il procuratore Garofalo - Si doveva poter escludere il coinvolgimento di Cosa nostra che del delitto non voleva e soprattutto non doveva essere gratuitamente incolpata". Le ipotesi del Pm crollano però in breve tempo. Nel frattempo pentiti affidabili e di primo piano, tra questi un "certo" Giovanni Brusca, attribuiscono alla mafia l’organizzazione del delitto. Le carte arrivano infine ad Antonio Ingroia. Dopo dieci anni di indagini il Pm siciliano riesce a trovare la prova definitiva. La traccia è in un bossolo esploso la notte del 26 settembre del 1988. Un segno inequivocabile: quel colpo è stato esploso da una pistola di mafia. Venezia: e Cacciari applica per primo il "decreto sicurezza"
La Repubblica, 16 giugno 2008
É il primo Comune in Italia ad applicare il decreto sulla sicurezza per combattere il fenomeno del commercio ambulante abusivo: da domani nel centro storico di Venezia sarà vietato il trasporto, senza giustificato motivo, di mercanzia in grandi sacchi di plastica o borsoni e la sosta prolungata in un luogo sarà considerata come un atto finalizzato alla vendita, quindi sanzionabile con contravvenzione e sequestro. II sindaco Massimo Cacciari ha firmato l’ordinanza che permetterà un ulteriore giro di vite contro il commercio abusivo itinerante, insomma contro i "vu cumprà". E in linea con il governo, non si scandalizza nemmeno di fronte alla decisione di impiegare i soldati nelle città metropolitane per il pattugliamento: "Ben venga l’esercito, ben venga chiunque, basta che abbia intenzione di darci una mano", ha commentato il sindaco. Per Cacciari non è il caso di drammatizzare, e pragmaticamente osserva che "se il governo valuta di non avere altri mezzi, ci mandi pure i soldati". Nessuno scandalo nemmeno per il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati: "Non credo ci sia una volontà di militarizzare la città - spiega -. Tanto più che sarà una soluzione provvisoria, ma soprattutto poco producente. Quando i soldati se ne andranno, lasceranno soli i cittadini con i problemi di sicurezza. Insomma, è più una trovata propagandistica e nemmeno molto efficace: Milano ha chiesto almeno 300 soldati ma non è un bel segnale in vista dell’Expo - conclude -perché all’estero non sembrerà una città ospitale e tranquilla". Anche il sindaco di Padova Flavio Zanonato, tra i firmatari della Carta di Parma sulla sicurezza siglata da un gruppo di primi cittadini bipartisan, non grida allo scandalo (il suo territorio però non è incluso nella lista dei 15 centri interessati): "Se in alcune zone c’è un’emergenza, non sono contrario all’uso dell’esercito, ma questa del governo mi sembra una deriva un po’ propagandistica. Affronta il problema dalla coda. Noi avevamo chiesto altri strumenti e più risorse da investire in prevenzione e integrazione". Insomma, i sindaci di centrosinistra si dividono. Un secco no all’impiego dei militari arriva, oltre che da Torino, anche da Genova e Bari, il sindaco Marta Vincenzi chiederà nei prossimi giorni al ministro Maroni più risorse da investire in polizia e carabinieri, perché "l’esercito non è la soluzione adatta". E il primo cittadino Michele Emiliano parla di "parodia: chi alimenta la paura risponde con misure sempre più gravi, ma è una soluzione da Paese sudamericano". Critici anche i sindaci di centrosinistra di città più piccole, che avevano aderito alla Carta di Parma. Massimo Federici (La Spezia) parla di "iniziativa inutile": "Nelle città europee e civili queste cose non vengono nemmeno pensate". E per il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, "siamo di fronte a un segnale di drammatizzazione poco utile". Como: An; i detenuti stranieri nelle carceri dei loro Paesi…
Corriere di Como, 16 giugno 2008
Due ore di visita all’interno del carcere del Bassone. Per toccare con mano le problematiche della casa circondariale lariana e rendersi conto di persona delle soluzioni al sovraffollamento delle carceri che dopo i benefici effimeri dell’indulto sono tornate a scoppiare. E questo nel breve volgere di un paio di anni. Il senatore comasco di Alleanza Nazionale Alessio Butti ha varcato il cancello di Albate intorno alle 10.30 del mattino, per uscire dopo mezzogiorno. "Perché questa visita" - è stato il commento dell’onorevole - Mi interessava verificare i risultati dell’indulto sulla popolazione carceraria, e posso dire con tutta tranquillità che ha fallito senza raggiungere gli obiettivi fissati. Siamo già tornati al livello del 2006, anno dell’indulto. Non è in questo modo che si possono risolvere i problemi delle carceri". An, al riguardo, ha nel cassetto due tesi da sposare e da tramutare al più presto in legge. "Alleanza Nazionale proporrà una legge che imponga agli stranieri condannati di scontare la propria pena nel Paese di provenienza. Ovviamente, tutto questo con le debite eccezioni, ad esempio per chi è un rifugiato politico oppure per chi dovrebbe essere rimpatriato in uno Stato dove potrebbe rischiare l’incolumità". "Un’altra proposta - prosegue Butti - è aumentare il lavoro dei detenuti dentro e fuori dal carcere. Bisogna incentivare queste esperienze di recupero, per fare in modo che, una volta scontata la pena, il detenuto non commetta di nuovo gli stessi errori. Questo, inoltre, porterebbe sgravi ai costi di gestione del carcere. Oggi i detenuti che lavorano all’interno e all’esterno del Bassone sono solo 60. Lavorare in carcere significherebbe pesare meno, economicamente, sulla collettività". Ecco comunque, per voce del senatore Butti, la mappa dettagliata della popolazione del Bassone. "I detenuti oggi erano 531, ma la capienza, quando il carcere di Como fu costruito, era di 250. La tolleranza ammette il 50% in più, ma siamo oltre questo limite. Il 10% è di sesso femminile e tra le donne il 70% è composto da straniere. La media per cella è di 4 persone, mentre in altre carceri ci troviamo di fronte anche a 6, 7 unità. Al Bassone, dunque, la situazione è un po’ più vivibile se confrontata con altre realtà. I detenuti di alta sicurezza sono 50, mentre il 25% del totale si trova qui per problemi legati al mondo della droga. Infine il dato che riguarda gli stranieri: abbiamo superato anche qui il 50% (siamo al 51%, ndr)". Ecco invece la provenienza dei reclusi nella casa circondariale di Albate. "Gli stranieri provenienti da Paesi dell’Unione Europea sono 35, più 11 donne. Gli extra comunitari europei sono 70, 115 i maghrebini, 26 i detenuti dall’Africa sub sahariana, 5 gli asiatici e 20 in arrivo dall’America". Inevitabile anche una domanda sui due detenuti italianissimi più conosciuti del Bassone: Rosa Bazzi e Olindo Romano, imputati per la strage di Erba. "Voglio chiarire una cosa: non ho chiesto di incontrare Rosa e Olindo, questo processo e la vicenda della strage hanno già dato troppo spettacolo. Posso dire però di avere incrociato la Bazzi nella sezione femminile. Francamente mi sembrava in buone condizioni". "Il carcere è ben diretto - prosegue ancora Butti - Si presta molta attenzione ai momenti di ricreazione, al volontariato, e ho trovato una grande sensibilità da parte della polizia penitenziaria. Eppure sono solo 234 uomini, sotto organico, anche se quotidianamente cercano di fare del loro meglio. Dovrebbero essere uno ogni detenuto e mezzo". Tenendo buono questo rapporto, al Bassone gli agenti della polizia penitenziaria dovrebbero dunque essere 354, ovvero 120 in più dell’attuale numero. E proprio su questo punto Butti lancia l’ultima promessa: "Faremo il possibile per aumentare gli organici". Campobasso: parte un laboratorio di scrittura per i detenuti
Il Tempo, 16 giugno 2008
Avrà inizio oggi dalle ore 14 alle 18, presso l’istituto carcerario di Campobasso, il laboratorio di scrittura "Ridiamoci Sopra" condotto da Emiliano Amato. Il progetto è realizzato dall’Unione lettori Italiani e la direzione della casa di reclusione di Campobasso, in collaborazione con Scuola Golden, ed è finanziato interamente dalla Regione Molise, assessorato alla Cultura. Gli incontri avranno luogo anche nelle giornate di domani e del 18, 19, 20 giugno - 4, 5 luglio e 17 e 18 luglio. Durante la serata del 18 luglio si svolgerà il Reading finale. Il corso vuole fornire ai partecipanti una lista di tutti gli strumenti più utili per costruire una situazione narrativa forte ma allo stesso tempo leggera. Attraverso racconti e romanzi, ma anche film, fumetti, sit-com, programmi televisivi si mostrerà ai partecipanti come scrittori, sceneggiatori, cabarettisti sono stati capaci di utilizzare e re-inventare in chiave comica il proprio vissuto. Saper mettere la giusta distanza dai propri problemi per imparare a riderne migliorando la qualità della vita, per costruirsi momenti di serenità anche nelle situazioni più avverse, è l’obiettivo principale del corso. I detenuti, inoltre, con l’aiuto del docente, verranno coinvolti nell’organizzazione di un Reading finale che li vedrà protagonisti e autori allo stesso tempo. Il docente sceglierà insieme ai partecipanti un tema che costituirà il filo conduttore dello spettacolo finale in cui ai testi dei partecipanti, si alterneranno brani letterari di taglio umoristico, materiali audiovisivi e musica. "Su certe cose non si scherza": quante volte lo abbiamo sentito ripetere, eppure ogni giorno c’è qualcuno che disattende questo monito e si fa una bella risata nonostante tutto. La maggioranza delle persone tende però a ridere delle disgrazie altrui e raramente delle proprie. Quello che succede a noi è sempre troppo importante per poterne ridere. Ma ne siamo davvero sicuri? Questo corso serve a imparare a ridere di noi stessi, anche in situazioni avverse, facendoci soccorrere dalla scrittura. Mettere su carta le nostre esperienze, anche quelle negative, per esplorare diversi aspetti della coscienza di sé e della relazione con gli altri, senza mai smettere di sorridere. Immigrazione: detenuti stranieri, l’espulsione che non c’è… di Lionello Mancini
Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2008
"L’espulsione per chi commette reati? Si può fare da subito". Ettore Ferrara, capo del Dipartimento penitenziario, sa bene che l’espulsione è uno dei temi sensibili del pacchetto sicurezza. "Perché non iniziare - dice - dagli oltre 5 mila detenuti stranieri con condanne fino a tre anni? La legge già lo prevede". Ma tutto dipende dai Magistrati di Sorveglianza. Una mossa sola sulla scacchiera della sicurezza per dare un po’ di respiro al pianeta carceri (di nuovo in crisi da sovraffollamento) e un segnale concreto all’immigrazione clandestina che delinque: segnale chiesto a gran voce dai cittadini di ogni regione, idea e colore politico. La mossa è suggerita dal capo del Dipartimento Penitenziario (Dap) Ettore Ferrara; "Espellere i detenuti stranieri condannati definitivamente a pene inferiori ai tre anni. Si può fare, anche da domani". Un suggerimento tecnico, senza sfumature politiche, lungamente ponderato e fondato sulle analisi della struttura che ogni anno si sobbarca la gestione delle circa 100mila persone che entrano ed escono dai 205 penitenziari del Paese, fino a sedimentare (dato al 9 giugno) 54.128 detenuti, di cui 20.238 stranieri (quasi il 39% del totale Questi dati per misurare la gravita del sovraffollamento: i posti oggi realmente fruibili in carcere sono 37.742; nell’agosto 2006, al varo dell’indulto, i detenuti erano circa 61.000. Spiega il magistrato napoletano a capo del Dap che "ogni mese la popolazione penitenziaria aumentato media di 800 unità con un turn-over infernale. Nel 2007 abbiamo registrato circa 94mila ingressi e 84mila uscite, cittadini stranieri per oltre il 50%. Un andirivieni costosissimo in denaro, logistica, sforzo del personale. Ed è notorio trattarsi per lo più di custodie cautelari cioè, dicono le statistiche, di permanenze inferiori agli 8 giorni". Una manciata di giorni tra ingresso e uscita, che complicano la vita a molti: ad agenti penitenziari e personale in primis, chiamati a districarsi tra decine di lingue e culture diverse, stress e disorientamento degli arrestati, il tutto in assenza di mediatori culturali, in scarsità di spazi, in un mix insensato di marginalità, piccola delinquenza, autentica pericolosità sociale. "Sempre per spiegare - prosegue Ferrara - dal 1° gennaio al 5 giugno 2008 sono entrati nel circuito carcerario 6.398 cittadini stranieri. Bene: 5.163 di questi sono usciti dopo meno di sette giorni". Arresti in flagranza, attesa di direttissime, reati minimi coi quali poco c’entra il carcere, ma la legge è legge e così "quel 38-39% di stranieri che oggi forma la nostra popolazione è matematicamente destinato a crescere". Fin qui il carcere, i suoi trend e le sue prospettive difficili, vista anche l’imminenza dell’estate e del caldo nelle celle strapiene. Se spostiamo ora l’attenzione sul versante espulsioni degli immigrati clandestini, vediamo che le leggi prevedono diverse possibilità praticabili: dai provvedimenti amministrativi a quelli collegati al processo penale; dalla pena alternativa alla misura di sicurezza che segue l’espiazione della pena. "La gestione degli stranieri - dice ancora Ferrara - è un elemento centrale del problema carcerario". La proposta Ferrara l’ha formulata qualche giorno fa in sede parlamentare: "Se il problema delle espulsioni è quello di identificare con certezza i clandestini, di capire da che Paesi provengono per poterceli rimandare, oltre che selezionare attentamente tra chi nuoce alla società e chi lavora anche senza avere i documenti, converrebbe considerare i 5.222 detenuti stranieri che stanno scontando pene definitive inferiori ai tre anni e ai quali per legge può essere applicata la pena alternativa dell’espulsione". Si tratta di persone certamente colpevoli, già processate e condannate, dunque identificate con certezza. "E ce ne sono altri 2.500 che, se il pacchetto sicurezza non cambierà potranno essere espulsi a pena scontata, cosa al momento possibile solo per condanne molto gravi, superiori ai dieci anni". Inutile chiedere al capo del Dap perché i detenuti stranieri non siano destinatari di misure alternative alla reclusione: "Va chiesto alla Magistratura di Sorveglianza - si limita a dire - . Ma le nostre statistiche dicono che se un detenuto non italiano sconterà in carcere la condanna senza accedere ad alcun tipo di misura alternativa". E aggiunge: "Otto mila persone in meno da gestire e da mantenere (200-220 euro al giorno, ndr): sarebbe un gran passo avanti per il sistema carcerario. Immigrazione: barcone si spezza, strage di migranti a Malta
La Repubblica, 16 giugno 2008
L’ultimo barcone della speranza è finito contro le gabbie dei tonni, a 56 miglia a sud di Malta. Si è spezzato fra le onde alte e sei somali, fra cui alcuni bambini, sono stati risucchiati dentro la trappola dei pescatori. In 28 sono riusciti a salvarsi, aggrappandosi alle gabbie e ai due gommoni calati in mare dall’equipaggio del peschereccio italiano "Gambero", che trainava le pesanti reti. Dopo circa un’ora, i naufraghi sono stati trasferiti su una motovedetta della marina maltese. Per i dispersi, non c’è stato nulla da fare. Le ricerche sono state sospese in serata. La marina militare maltese ha poi soccorso altri 56 clandestini che si trovavano su due barconi (28 persone in ciascun natante) a circa 55 miglia a sud dell’isola. Si è conclusa così un’altra drammatica giornata nel Canale di Sicilia, dopo 72 ore di tregua. Ma era solo una tregua apparente. Nell’ultima settimana, già tre volte i barconi della speranza erano finiti contro le gabbie dei tonni. La tragedia era stata sfiorata, gli immigrati erano sempre riusciti ad aggrapparsi alle reti. Ma ieri pomeriggio è accaduto l’irreparabile. "Probabilmente, i bambini sono stati i primi ad avere la peggio - ipotizzano alla Capitaneria di porto - qualcuno avrà cercato di salvarli, ma senza successo, restando intrappolato a sua volta". Intanto, il governo maltese continua a fare appello a quello libico per un "vertice di dialogo" sull’emergenza immigrazione, a cui dovrebbe partecipare anche l’Italia. A Lampedusa, la giornata dei soccorritori è stata intensa. Imbarcazioni ne sono arrivate sette, con un carico di 404 persone. Il primo allarme è scattato all’alba, quando un velivolo della Guardia di finanza ha avvistato tre barche a circa 26 miglia dall’isola. Due motovedette hanno raggiunto in poco tempo i naufraghi al largo. Fra i 141 immigrati soccorsi c’erano 25 donne, di cui due incinta: all’arrivo in porto sono state accolte da un’ambulanza del 118 e trasferite in ospedale. I mezzi di soccorso sono stati allertati nuovamente in tarda mattinata. Ancora tre imbarcazioni venivano segnalate al largo, questa volta a 20 miglia da Lampedusa. C’erano 77 persone a bordo, fra cui 19 donne. Neanche un’ora dopo è arrivata l’ennesima allerta dagli aerei in ricognizione sul Canale di Sicilia. Le motovedette hanno trovato poco distante un gommone di 11 metri, sul quale erano stipate 107 persone, tra cui 15 donne. È bastata una sola giornata per mandare in affanno il centro di accoglienza di Lampedusa. Nell’isola è già polemica per la nuova ripresa degli sbarchi. Portavoce della protesta è il vice sindaco e senatore della Lega Angela Maraventano, ieri vestita "all’araba", con lo chador in testa: "Voglio trovare un passaggio per Tripoli", dice sulla banchina del porto, mentre si susseguono gli sbarchi. "Ho chiesto ai comandanti delle motovedette della Capitaneria e della Guardia di Finanza di accompagnarmi in Libia, ma si sono rifiutati - dice - adesso mi sto rivolgendo ai pescatori, sono sicura che qualcuno di loro mi aiuterà". Angela Maraventano, ormai una veterana delle iniziative anti-immigrazione, ribadisce che dietro il suo velo "non c’è alcuna polemica, solo rispetto nei confronti di quella cultura". Immigrazione: Maroni; non saranno tollerate "zone franche"
Dire, 16 giugno 2008
Dal vertice milanese il ministro annuncia: "Dopo il censimento, per gli italiani villaggi con servizi, per gli irregolari espulsione". E sui nuovi Cpt: "Li apriremo nelle 10 regioni in cui ancora non esistono". Il censimento dei rom che vivono nei campi è stato al centro del vertice che si è svolto questa mattina in Prefettura, al quale hanno partecipato il ministro degli Interni Roberto Maroni, il sindaco Letizia Moratti, il presidente della Provincia Filippo Penati e il governatore della Lombardia Roberto Formigoni. "Non saranno più tollerate zone franche, usando se serve anche la forza perché é un diritto dello Stato - ha detto Maroni al termine del vertice-. Il nostro obiettivo è censire tutti coloro che abitano nei campi, compresi i bambini". Dopo il censimento, per i rom italiani "ci saranno villaggi con servizi adeguati", ha sottolineato il ministro, mentre per gli stranieri irregolari l’unico provvedimento sarà quello "dell’espulsione". Il ministro degli Interni Roberto Maroni è intervenuto anche sui nuovi Cie (Centri di identificazione e espulsione), che sostituiranno i vecchi Cpt (Centri di permanenza temporanea). "Li apriremo nelle 10 regioni in cui ancora non esistono - ha detto il Ministro - Non è vero che sono già tutti pieni quelli esistenti, il problema è che sono male dislocati". E ha garantito che i 500 agenti, promessi dal governo Prodi per la sicurezza a Milano, arriveranno, come chiesto dal presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Droghe: Bologna; pensionato uccide figlio tossicodipendente
La Repubblica, 16 giugno 2008
Esasperato e terrorizzato dal figlio tossicodipendente che da tempo lo picchiava e chiedeva sempre soldi, non ce l’ha fatta più e al culmine dell’ennesima lite lo ha ucciso a colpi di pistola. È successo a Pianoro, vicino a Bologna, ieri notte: l’uomo, che ha 75 anni, ha scaricato cinque colpi d’arma da fuoco contro il figlio ventitreenne che lo aveva aggredito in camera da letto: il ragazzo è morto sul colpo. Ora Giancarlo Venturi, camionista in pensione, è stato portato in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Da tempo l’uomo subiva le percosse del figlio, Giacomo, operaio saltuario e tossicodipendente da alcuni anni. L’ultima volta era stata circa una settimana fa, e l’anziano ne portava ancora i segni sul volto. Non ha mai voluto denunciare il figlio, ma ne aveva paura, tanto che teneva sotto il cuscino in camera da letto una Smith & Wesson 38 special che aveva regolarmente denunciato. "Questa notte ho sentito un gran rumore e piangere, poi basta", ha raccontato una vicina, aggiungendo che "anche la settimana scorsa avevano avuto un litigio molto pesante". Ma nessuno sapeva perché, o immaginava che la situazione fosse degenerata in quel modo, fino alla scorsa notte. Giacomo - che viveva in famiglia insieme al fratello maggiore, studente universitario - è arrivato a casa dopo una serata con gli amici poco prima delle 3 ed è andato subito in camera da letto dove dormivano i genitori. Li ha svegliati e ha cominciato a chiedere denaro al padre, prima gentilmente poi in modo sempre più insistente fino ad aggredirlo in modo violento. Il padre allora ha afferrato la pistola da sotto il cuscino e ha sparato al figlio al petto. Poi ha chiamato i carabinieri, arrivati con i medici del 118, che non hanno potuto fare altro che constatare il decesso del ragazzo. Giancarlo Venturi è stato portato in caserma e interrogato dal pm della Procura bolognese Giuseppe Di Giorgio. L’anziano ha raccontato i fatti, le violenze, la paura; poi è stato portato nel carcere bolognese della Dozza. Il cadavere del figlio invece è stato trasportato all’istituto di Medicina legale di Bologna, dove domani o martedì verrà fatta l’autopsia.
Bocciardo (Pdl): Tso per i tossicodipendenti cronici
"Il recente dramma di Bologna, dove un padre esasperato ha ucciso il figlio tossicodipendente a causa delle continue aggressioni, evidenzia come di fronte al problema droga le istituzioni siano ancora bloccate da scelte culturali e politiche inadeguate". È quanto afferma Mariella Bocciardo (Pdl), membro della commissione Affari Sociali della Camera. "È venuto il momento, ormai inderogabile - sottolinea la parlamentare -, di far scattare il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) nei confronti dei tossicodipendenti cronici. Quando un drogato reagisce in modo tale da evidenziare disturbi comportamentali è necessaria una maggiore tutela, soprattutto per chi, vive a stretto contatto con queste persone". L’augurio, conclude Bocciardo, "è che il Parlamento si faccia portavoce di una proposta di legge che preveda per questi casi, oltre all’introduzione del Tso, anche, una riorganizzazione dei Sert, che, a mio parere, non rispondono alle esigenze per cui sono nati". Droghe: confisca dell’auto a chi guida sotto l’effetto sostanze
Notiziario Aduc, 16 giugno 2008
Se una persona viene trovata alla guida in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’uso di stupefacenti è prevista la confisca del veicolo anche senza che questi abbia provocato un incidente. È quanto prevede un emendamento presentato dal governo al decreto sicurezza, introdotto per chiarire il contrasto normativo e chiarire "definitivamente l’applicabilità della confisca anche in caso di incidente stradale cagionato da soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti".
Sul sito della Polizia le nuove regole sulla guida in stato di ebbrezza
Torna ad essere reato il rifiuto a sottoporsi al test di alcool e droga e aumentano le pene per chi guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Prevista la revoca della patente, la confisca del veicolo e l’arresto fino a un anno. È la Polizia di Stato a ricordare, sul proprio sito ufficiale www.poliziadistato.it, le modifiche al codice della strada contenute nel decreto legge che fa parte del pacchetto sicurezza approvato dal Governo. "Nell’attesa di essere convertite in legge dal Parlamento (ci sono 60 giorni di tempo) le nuove norme sono comunque in vigore dal 27 maggio. Nello specifico: per chi guida con un tasso alcolico tra 0,8 e 1,5 grammi per litro si prevede l’arresto fino a 6 mesi, la sospensione della patente per un periodo di tempo compreso fra 6 mesi e 1 anno e un’ammenda da 800 a 3.200 euro. Chi supera anche il limite di 1,5 g/l -rileva la Polizia- può stare in carcere pure per un anno, pagare una multa fino a 6.000 euro e in più gli viene confiscata l’auto". Rifiutare di sottoporsi al test "comporta la multa da 1.500 a 6.000 euro e l’arresto da 3 mesi a 1 anno. Il pacchetto sicurezza inserisce anche alcune modifiche al codice penale in tema di omicidio colposo e lesioni colpose, elevando da 5 a 6 anni il massimo della pena detentiva, nel caso di omicidi commessi violando le norme sulla circolazione stradale (da 12 a 15 anni se muoiono più persone). Viene innalzata la pena per chi, dopo aver provocato un incidente, non si ferma o non presta soccorso: da 6 mesi a 3 anni di reclusione per chi non si ferma, da 1 a 3 anni per chi non presta soccorso". Se una persona provoca un incidente stradale sotto effetto di alcool o droga "le sanzioni previste dal codice della strada (articoli 186 e 187 ) sono raddoppiate. Inoltre - continua la Polizia sul suo sito ufficiale - se lo stato di alterazione è provocato da un tasso alcolemico superiore a 1,5 gr/l o per l’uso di sostanze stupefacenti, sono in vigore specifiche sanzioni per i reati di omicidio colposo (reclusione da 3 a 10 anni) lesioni colpose gravi (è prevista la reclusione da 6 mesi a 2 anni) lesioni colpose gravissime (reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 4 anni). In più, con la sentenza di condanna, il giudice dispone il fermo amministrativo del veicolo per 90 giorni". Sono stati 10.942 i controlli effettuati sulle strade italiane nei due weekend seguiti all’entrata in vigore delle misure contenute nel decreto legge che compone il pacchetto sicurezza. Le cifre relative alle verifiche delle forze dell’ordine fanno registrare una percentuale dell’8,58% di automobilisti trovati positivi ai test per verificare i casi di guida in stato di ebbrezza. Nel corso dei servizi di prevenzione e contrasto delle "stragi del sabato sera" effettuati dalla Polizia stradale e dai Carabinieri nei due fine settimana seguiti all’approvazione del decreto, altri 33 automobilisti sono stati scoperti alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Sono stati in tutto 162 i veicoli sequestrati ai fini della confisca dalle forze dell’ordine. In tema di sicurezza stradale, "Non ti bere la vita. Esci con Bob" è una delle iniziative di maggior successo della Polizia Stradale. All’ingresso delle discoteche viene consegnato un braccialetto di gomma blu. Il ragazzo è scelto dal proprio gruppo come la persona che non berrà alcolici per tutta la serata. Il Bob di turno, mantenendo il suo impegno, potrà guidare l’auto in modo sicuro, riaccompagnare gli amici a casa e ricevere in premio una maglietta. "Non berti la vita": questo lo slogan dell’iniziativa realizzata dalla Polizia di Stato insieme alla Fondazione Ania per la sicurezza stradale e al Silb (associazione degli imprenditori dei locali da ballo) che ha l’obiettivo di combattere la guida in stato di ebbrezza. Lo scopo è soprattutto quello di prevenire gli incidenti causati dall’alcol che secondo le stime dell’istituto superiore di Sanità costituiscono il 30 per cento degli incidenti gravi. Favorire comportamenti più corretti alla guida da parte dei giovani consente di lavorare sul futuro, cercando di far capire ai giovani che è possibile divertirsi senza rischiare. Al termine della campagna 2006 ai ragazzi risultati negativi alla prova dell’etilometro sono stati consegnati oltre 3600 ingressi omaggio per le discoteche. "In generale dopo aver bevuto qualcosa di alcolico le persone tendono a sentirsi comunque perfettamente in grado di guidare, ma non è così. I sintomi che esprime chi ha nel sangue 0,5 grammi/litro sono sicuramente poco evidenti rispetto a chi ne ha 0,8 ma in entrambi i casi comunque il sistema centrale nervoso risulta compromesso o alterato. Studi scientifici - si legge sulle pagine web istituzionali della Polizia - dimostrano infatti che una percentuale anche piccola di alcol nel sangue rallenta i riflessi e dunque i tempi di reazione". "Si riduce il campo visivo; diminuisce anche del 30/40 per cento la capacità di percezione degli stimoli sonori e luminosi e quindi la capacità di reazione così come la percezione del rischio. Peso, sesso ed età -fa notare la Polizia- influenzano il metabolismo dell’alcol e possono quindi anche essere determinanti nel raggiungimento o meno del limite previsto dalla legge". È comunque provato che 12 grammi di alcool, che comportano una concentrazione di 0,2 grammi di alcol nel sangue in una persona di circa 60 chili di peso a stomaco pieno, corrispondono in linea di massima a: 1 bicchiere da 125 ml di vino; 1 lattina da 330 ml di birra; 1 bicchierino da 40 ml di superalcolico; 1 bicchiere da 80 ml di aperitivo. "Per superare i limiti massimi - viene rilevato - dunque basta poco. Ancora meno per le donne, la cui costituzione fisica le rende più vulnerabili all’alcool". Stati Uniti: viaggio ad Huntsville, capitale della pena di morte
La Stampa, 16 giugno 2008
Ad Huntsville ci sono 20mila abitanti e 15mila detenuti. La cittadina del Texas vive di esecuzioni: un’industria in pieno boom. Evento mediatico Per otto mesi le esecuzioni negli Stati Uniti sono state sospese mentre la Corte Suprema esaminava la costituzionalità dell’iniezione letale. Il 14 aprile i giudici si sono espressi in senso positivo. La prima esecuzione è stata effettuata in Georgia il 6 maggio. Huntsville l’ha seguita mercoledì 11 giugno.Proteste sparute Gli attivisti contro la pena di morte si radunano davanti alla prigione The Walls. Di solito una mezza dozzina. L’80% dei texani è favorevole alla pena capitale. A Huntsville ci sono più di 5000 guardie e il sistema penitenziario dà lavoro a una famiglia su due, praticamente tutti. Alla fine la morte si è ripresa il suo spazio. Mercoledì 11 giugno le esecuzioni sono riprese a Huntsville, in Texas. Le famiglie del condannato e della sua vittima lasciano il complesso penitenziario e si dirigono verso le macchine, a parcheggio. Un pugno di attivisti contro la pena di morte spegne le candele. Sono le 18 passate da qualche minuto e Karl Chamberlain, arrestato una decina di anni fa per lo stupro e l’omicidio di una giovane donna, è stato appena giustiziato. La cittadina di questo Sud profondo degli Stati Uniti ha ritrovato le sue abitudini. Per otto mesi, la camera della morte del Texas, al cuore di questa città di villette, aveva sospeso la sua attività. Otto lunghi mesi durante i quali la Corte Suprema aveva imposto una moratoria e aveva esaminato a fondo la costituzionalità del metodo di esecuzione per iniezione letale. Il 14 aprile, il responso: il metodo è conforme alla Costituzione. La Georgia è stata la prima a prendere atto della decisione e ha ripreso le esecuzioni il 6 maggio. Il Mississippi l’ha seguita il 21, poi la Virginia il 27. E ora il Texas, a Huntsville, epicentro delle esecuzioni dello Stato più attivo per quanto riguarda la pena di morte. È qui, in questa prigione enorme, in mattoni rossi, chiama The Walls, piantata davanti alla sede dell’amministrazione penitenziaria dello Stato, che i condannati alla pena capitale dalle corti del Texas sono giustiziati. Qui, in un rituale immutabile, il giorno dell’esecuzione, sono trasferiti con una camionetta, verso mezzogiorno, dalla prigione di Livingstone, a una trentina di chilometri. Ventisei sono stati messi a morte nel 2007, 406 dal ripristino della pena capitale negli Usa, nel 1976. Col tempo, la piccola Huntsville è diventata la capitale dell’industria carceraria: 22 mila abitanti e 15 mila prigionieri. Sette case circondariali. Altre due in costruzione. A Prison City, come è chiamata, una famiglia su due ha almeno una persona che lavora per il sistema penitenziario. Ci sono 5 mila guardie carcerarie in attività. Nonostante il caldo, gli abitanti di Huntsville non indossano mai abiti bianchi, per non essere confusi con i detenuti. Li si incrocia dappertutto, agli angoli delle strade, sui prati, nei giardini, vestiti di bianco dalla testa ai piedi; piccoli gruppi, in pieno giorno, riparano, puliscono, potano, falciano. Alle 11, una colonna di prigionieri viene liberata. Tutti passano da The Walls, nel centro della città. Un balletto quotidiano. Grappoli di ex detenuti, un sacchetto di plastica come unico bagaglio, si dirigono meccanicamente verso la stazione degli autobus, accompagnati da un parente, un amico, dei bambini. L’amministrazione di Huntsville gestisce 100 mila persone in libertà condizionale, più del triplo in libertà sorvegliata. Con il 60 per cento di esecuzioni americane effettuate in questo edificio nel 2007, Huntsville è la città dove si concentra il più grande numero di condannati di tutto l’Occidente. Un’ora prima dell’esecuzione, verso le 17, un piccolo gruppo di attivisti si piazza una davanti alla porta d’ingresso di The Walls. Saranno una mezza dozzina. Quasi sempre gli stessi. Un paio di signore anziane. Un paio di studenti, a volte un giornalista. E Tennis Longmire. È lui che i media vengono a intervistare prima delle esecuzioni importanti. Questo professore di criminologia è la memoria dei luoghi e la cattiva coscienza del sistema. Cattolico fervente, trova il tempo, da qualche anno, di venire qui con il suo rosario e la sua candela. Una volta una donna gli ha sputato addosso. Di solito gli tocca qualche insulto. "La gente vuol credere che la pena di morte ha un effetto dissuasivo - dice - Qui dà lavoro e fa andare il sistema". Secondo i sondaggio il numero di persone a favore della pena di morte è diminuito leggermente negli Stati Uniti, ma resta all’80 per cento in Texas. E ancor più a Huntsville. Carroll Pickett, cappellano per quindici anni a Huntsville, si è trasferito da poco a Lake Conroe, a una cinquantina di chilometri. L’uomo è cambiato. Dice di aver assistito 95 condannati. Tutte le volte ha pregato con loro, ascoltato le loro ultime parole, osservato come il liquido letale entrava nelle loro vene. Una volte era convinto che la pena di morte era giusta, credeva che "ogni uomo avesse diritto a morire con un amico". Con la sua voce bassa e dolce, alla fine ammette che la pena di morte non serve "né alla giustizia né alla morale. Il sistema non funziona. Le esecuzioni non fanno diminuire la criminalità e le sentenze sono applicate in modo ingiusto". Alle sette di sera le macchine dei parenti della vittima e del condannato giustiziato lasciano la prigione. Le guardie sembrano immobili nelle loro altane. Le strade di Huntsville sono deserte. La prossima esecuzione è prevista per domani, martedì 17 giugno. Alla stessa ora.
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