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Giustizia: 55mila detenuti, verso una "emergenza nazionale"
Prima, 13 giugno 2008
"La mancata adozione di provvedimenti strutturali da parte di Governo e Parlamento per modificare il sistema penitenziario contestualmente all’approvazione dell’indulto ha riportato le carceri italiane a livelli di sovraffollamento insostenibili, arrivando oggi ad avere un numero di detenuti pressoché uguale a quello per il quale l’80% dei parlamentari italiani decise di approvare il provvedimento di clemenza. Oggi abbiamo infatti nei nostri penitenziari (il 20% dei quali risalgono ad un’epoca compresa tra il 1.200 e il 1.500, mentre il 60% risale comunque a oltre un secolo fa) quasi 55mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore a 43mila posti. Governo e Parlamento non posso però tralasciare la grave situazione penitenziaria che si registra oggi nei nostri penitenziari e devono porre l’emergenza carceraria tra le priorità di intervento. Se con il reato di immigrazione clandestina si sancirà - oltre all’arresto - anche una pena detentiva, i nostri penitenziari scoppieranno". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, organizzazione più rappresentativa della Categoria con 12mila iscritti, commentando gli attuali dati penitenziari che vedono una popolazione detenuta di 55mila unità circa. È la Lombardia la regione italiana con il più alto numero di detenuti (circa 8.100), seguita da Campania (quasi 7mila), Sicilia (5.900) e Lazio (quasi 5mila). È per questo conclude Capece che da diverso tempo sollecitiamo di conoscere gli intendimenti del Ministro della Giustizia Angelino Alfano in materia penitenziaria. Per ora le nostre richieste di incontrarlo non hanno trovato esito positivo, ma non credo che il Ministro Guardasigilli possa sottrarsi ulteriormente al confronto con il Sindacato della Polizia Penitenziaria su una emergenza nazionale quale è quella carceraria. Per altro, auspichiamo che per quanto concerne il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il Ministro della Giustizia Alfano sia orientato a confermare quale Capo Dipartimento Ettore Ferrara, con il quale sono state messe in cantiere diverse importanti e strutturali riforme che riguardano il Corpo di Polizia Penitenziaria e che, provenendo dalla Magistratura, garantisce certamente il principio della terzietà rispetto alle aspettative dei dirigenti provenienti dai ruoli della nostra amministrazione. Giustizia: ddl intercettazioni; in elenco c’è anche la corruzione
Il Corriere della Sera, 13 giugno 2008
"L’accordo è stato abbastanza perfezionato", ha commentato Umberto Bossi dopo il pranzo che Silvio Berlusconi ha offerto ai ministri della Lega. Così, oggi, al consiglio dei ministri arriva il ddl di 17 articoli sulle intercettazioni. Tuttavia a Palazzo Chigi ci sarà un lungo dibattito perché rimane un nodo da sciogliere: l’introduzione del carcere (da 1 a 3 anni, in alternativa l’ammenda fino a 200mila euro) per i giornalisti che pubblicano arbitrariamente i verbali coperti da segreto. Nel Pdl, invece, sembra pacifico per tutti il tetto delle pene edittali superiori a io anni, sotto il quale non si potranno disporre le intercettazioni, perché su pressione della Lega e di An è prevista una lunga lista di eccezioni: prima fra tutte la corruzione, sulla quale l’estensione del divieto "non sarebbe stata capita dal Paese", avrebbe commentato Berlusconi. Ma tra le esclusioni dal divieto ci sono anche associazione per delinquere aggravata, usura, pedofilia, peculato, malversazione e altri reati come le molestie reiterate (si potrà intercettare solo se lo chiede la vittima). Il giro di vite ha fin qui suscitato la reazione: "Ma è davvero questa la vera emergenza del Paese?", ha chiesto Walter Veltroni mentre il ministro ombra dell’Ambiente, Ermete Realacci, ha parlato di regalo fatto alle ecomafie. L’ex pm Antonio Di Pietro (Idv), poi, si è fatto due conti: "Il governo prende per i fondelli gli italiani perché sotto i 10 anni ci sono reati come la corruzione per un atto d’ufficio, la frode nelle pubbliche forniture, il sequestro di persona, la truffa". Il testo del ddl Berlusconi-Alfano entra in consiglio dei ministri con 17 articoli ma è probabile che nel corso della discussione si renda necessaria qualche variazione. Il gip, per esempio, non potrà più inserire nelle ordinanze di custodia cautelare le intercettazioni che, invece, dovranno confluire in un apposito fascicolo consultabile (a domanda) dall’avvocato dell’indagato. Inoltre, le intercettazioni usate in un processo non potranno confluire in un altro dibattimento a meno che il reato non sia di quelli di competenza delle Dda (mafia e terrorismo). Confermate la norma transitoria che salva i processi in corso e l’ipotesi di un archivio riservato per i nastri e i brogliacci. Ultima novità il collegio (3 giudici) che dovrà autorizzare le intercettazioni estendibili fino a 3 mesi (eccetto i reati gravissimi). Tuttavia il nodo più spinoso rimane quello dei 3 anni di carcere per i giornalisti (oggi la reclusione è di 30 giorni aggirabile con un’ammenda da 258 euro). che viaggia con i 5 anni di carcere per i pubblici ufficiali che divulghino le intercettazioni. "Nessuno vuole mettere in carcere i giornalisti ma neanche la libera stampa può commettere reati...", ha osservato Niccolò Ghedini, deputato e avvocato del premier. E così la Federazione nazionale della stampa non esclude lo sciopero contro il ddl del governo. Le cui linee guida vengono decisamente criticate anche dalla Federazione italiana degli editori che sarebbero penalizzati con forti multe basate sul sistema delle quote già ipotizzato dal ddl Mastella. Giustizia: un referendum per la disciplina della prostituzione di Daniela Santanchè
Libero, 13 giugno 2008
Non è la prima delle emergenze, d’accordo, e qualche riflessione supplementare va anche bene. Però, la decisione di ripulire le strade dalla prostituzione dirottando la questione dal decreto sicurezza al disegno di legge collegato rischia già di iscriversi a quella che Raffaele La Capria chiama - giustamente - la "storia lenta" del nostro Paese. Problemi cruciali della società annegano nei dibattiti, si perdono nelle ideologie di bandiera e alla fine, bene che vada, si finisce per perdere di vista l’obiettivo che si vuole raggiungere e tra un aggiustamento e l’altro tutto o quasi resta come prima. Ed è per questo che assieme a undici donne ho presentato i quesiti referendari per l’abrogazione di alcuni articoli della legge Merlin, che oggi ha 50 anni, e che di fatto sono serviti finalmente ad aprire un dibattito nuovo nel Paese e nel Parlamento. Reato e non peccato. Proviamo allora a rimettere un po’ d’ordine nel prét à porter negli interventi di queste ultime ore. C’è un solo modo per togliere le prostitute dalle strade: sanzionare chi esercita questa attività. E non c’è bisogno per questo di richiamare motivi di particolare "pericolosità morale" che si prestano solo a qualche inevitabile strumentalizzazione. Si stabilisce che è un comportamento illegale e si agisce di conseguenza. Le prostitute vengono identificate una per una, multate (nessuno pensa di affollare carceri o Cpt) e per le immigrate clandestine scatta la procedura di espulsione col foglio di via. Un eventuale processo penale entra in gioco solo in caso di recidiva. A qualcuno, anche nel centro destra, la misura di espulsione non piace: bisogna colpire soprattutto i clienti, si dice, precisazione condivisibile ma che non abolisce da sola il mercato del sesso né tantomeno le ragioni alla base di un provvedimento di espulsione. Che dovrebbe riguardare, nelle intenzioni del governo, tutti gli immigrati clandestini e non può fare certo distinzioni tra uomini e donne tanto più quando le donne dell’immigrazione esercitano un’attività dichiarata illegittima. Aggiungo che il foglio di via è spesso perle schiave del racket un passaporto per la libertà: la possibilità di affrancarsi dai ricatti e dalle violenze dei loro aguzzini. Capitolo a parte per le prostitute minorenni: per loro ci saranno i centri di accoglienza e processi di assistenza e riabilitazione al termine dei quali potranno decidere se provare a reinserirsi nella nostra società o tornarsene al Paese d’origine. Si può aggiungere o togliere qualcosa, ma la sostanza di un provvedimento contro la prostituzione da strada non può discostarsi troppo da un’impostazione di questo tipo. Tutto questo non dovrebbe avvenire da un giorno all’altro: diamo a chi esercitala prostituzione all’aperto un periodo di tempo limitato per prendere conoscenza della nuova normativa, facciamo informazione sui giornali e in televisione, mobilitiamo le organizzazioni di volontariato perché la nuova legge sia accompagnata da tutte le iniziative di solidarietà indispensabili e vedrete che i bordelli a cielo aperto si svuoteranno come per incanto e che il fenomeno residuo potrà essere affrontato senza ingolfare oltremisura né i tribunali né il lavoro delle forze di polizia Si parla tanto di mettere in ginocchio gli sfruttatori del sesso a pagamento: tra mille proclami roboanti mi pare questo, nei fatti, il percorso più efficace. Realismo contro le utopie. A questo punto, resta però aperto l’altro aspetto del problema: dove si rifugeranno le prostitute italiane e non italiane che vogliono continuare nel loro mestiere, una volta allontanate dalle strade? Ovviamente in qualche abitazione e qui, come vado ripetendo da tempo ed è questo il motivo all’origine della mia iniziativa referendaria (www.stradeprotette.com) inutile nascondersi dietro un dito. Occorre abrogare alcuni articoli della vecchia normativa della legge Merlin che punisce l’esercizio della prostituzione in luogo chiuso, adeguandoci a quanto succede in molti Paesi europei. Con misure di semplice buon senso che incoraggino la libera autodeterminazione delle prostitute a scegliere il modo più adatto per svolgere la loro attività. Senza creare allarme sociale e a determinate condizioni di sicurezza e di igiene sanitaria. Quindi, niente "case chiuse" - perché è inaccettabile istituzionalizzare l’esercizio della prostituzione - o quartieri a luci rosse che immancabilmente finirebbe per riprodurre molti dei guasti della prostituzione da strada: dal degrado delle nostre città al racket delle schiave del sesso. Allo Stato spetterà solo il compito di vigilare e controllare che limiti e condizioni siano rispettati e intervenire ove non lo fossero. Le leggi per farlo ci sono già disseminate qua e là nei nostri codici, basta applicarle. Sento dire che così non eliminiamo la prostituzione, la spostiamo solo di posto. Ma il punto è proprio questo: se è vero che è un’utopia pensare di cancellarla come ci insegnano secoli di storia, abbiamo almeno il dovere di darle una dimensione più umana, più rispettosa di quel patto sociale che occorre ripristinare tra lo Stato e tutti i suoi cittadini, prostitute incluse. Alla resa dei conti, i migliori amici dei trafficanti del sesso sono quelli che scelgono di non fare nulla, così come i peggiori nemici dei tanti immigrati onesti che vivono in Italia sono proprio quelli che si stracciano le vesti non appena qualcuno pensa di mettere fuori legge l’assalto dell’immigrazione clandestina. Noi continueremo a raccogliere le firme che stanno arrivando a valanghe pronti a fare un passo indietro appena governo e Parlamento faranno davvero la loro parte. E non solo parole. Lombardia: gli amministratori Pd e le "ronde democratiche" di Rodolfo Sala
La Repubblica, 13 giugno 2008
Ronde democratiche in Lombardia. È una della proposte contenute nel dodecalogo per la sicurezza presentate ieri a Milano da sindaci, presidenti di Provincia e amministratori del Pd. Un pacchetto di "misure concrete e praticabili contro l’avanzare di una logica fai-da-te, in un quadro di sicurezza partecipata che coinvolge i cittadini", spiega il giovane segretario regionale Maurizio Martina. È tutto nero su bianco, al punto 7 del pacchetto, dove si parla di istituire un corpo di "volontari della Polizia municipale", composto da privati cittadini che, dopo un’adeguata formazione e "come già avviene per i Vigili del fuoco e la Protezione civile", possono svolgere insieme ai vigili servizi di pattugliamento del territorio. Tutto in condizioni di sicurezza, anche per loro stessi. Naturalmente nessuno parla di ronde, anzi i lombardi del Pd insistono parecchio sulla profonda differenza tra questi "volontari" e i rondisti della Lega, "dei pazzi che vogliono fare gli sceriffi al fuori di ogni regola e controllo", sottolinea Carmela Rozza, consigliere comunale a Milano. Il documento è firmato tra gli altri dai presidenti di Provincia Filippo Penati (Milano), Virginio Brivio (Lecco), Lino Felissari (Mantova); dal sindaco di Pavia Piera Capitelli e dai suoi colleghi Lorenzo Guerini (Lodi), Fiorenza Broni (Mantova), Roberto Bruni (Bergamo). Il modello da cui si è attinto per lanciare la proposta è Londra, dove dal 2001 si sta sperimentando qualcosa di simile. Sta di fatto che la legalizzazione delle ronde è già stata decisa a Monza, dove dall’anno scorso c’è un sindaco leghista, Marco Mariani. Lì l’hanno chiamato "Progetto comunale per la sicurezza partecipata", e l’assonanza almeno nominale con la proposta del Pd è evidente. E c’è un’altra proposta, tra quelle presentate ieri, a certificare che sul terreno della sicurezza il Pd lombardo non ci sta a subire l’offensiva del centrodestra rintanandosi in un buonismo che nel Nord assillato dal problema della sicurezza rischia di ampliare il divario tra le due coalizioni. Riguarda la presenza dei bambini stranieri nelle scuole dell’obbligo, che in realtà come quella di Milano arriva in qualche caso a sfiorare percentuali elevatissime: una presenza che per il Pd lombardo deve avere un tetto (attorno al 20 per cento), altrimenti non è possibile garantire percorsi autentici di integrazione scolastica. Poi una richiesta al governo: le spese che gli enti locali dedicano agli interventi per la sicurezza non devono essere comprese nei limiti imposti dal patto di stabilità. "Il Pd della Lombardia - si legge nel documento - comprende appieno le paure e le ansie che emergono dal territorio, confermate anche dai dati del Viminale per il 2007: nelle prime 15 posizioni della classifica nazionale dei crimini compiuti si segnalano città come Milano, Brescia e Bergamo, con incrementi tra il 5 e l’8 per cento rispetto al 2006". Insomma, bisogna cambiare rotta Catania: detenuto domiciliare muore in circostanze misteriose
Catania Notizie, 13 giugno 2008
È morto in circostanze che i familiari hanno definito misteriose e sulla vicenda la Procura della Repubblica di Caltagirone ha aperto un fascicolo. Francesco Russo 30anni, che si trovava agli arresti domiciliari nella Comunità Terapeutica Santo Pietro per una serie di reati contro il patrimonio secondo il legale della famiglia sarebbe giunto all’ospedale Gravina in gravissime condizioni senza che i medici abbiano potuto fare nulla per salvargli la vita. Il giovane era affetto da disturbi psichici oltre a soffrire di una grave forma di diabete. La Comunità Santo Pietro sulla vicenda non ha voluto far alcun commento. Genova: droghe in carcere, arrestati 13 famigliari di detenuti
Agi, 13 giugno 2008
Un traffico di droga per rifornire i detenuti nel carcere genovese di Marassi, gestito da un altro detenuto attraverso i colloqui dei familiari, è stato scoperto dai carabinieri, che hanno arrestato sette persone in flagranza di reato e altre sei su ordine di custodia cautelare. La droga (eroina e cocaina) entrava nel carcere in piccole quantità durante i colloqui - tre a settimana - che ciascun detenuto può avere con i familiari; il capo dell’organizzazione era riuscito a creare una rete di corrieri-familiari che portavano 20-25 grammi di droga per volta superando i controlli all’ingresso. Tra i parenti sorpresi a spacciare anche una mamma, oltre ad alcune fidanzate e sorelle dei carcerati.
Il Direttore del carcere: non abbiamo i mezzi
"Non abbiamo strumenti adeguati per combattere questo fenomeno: il personale è ridotto all’osso, non possiamo effettuare intercettazioni telefoniche, gli strumenti radiologici per analizzare i pacchi viveri che i familiari portano ai detenuti non distinguono la droga dal bicarbonato, la legge non ci consente di perquisire i familiari se non a fronte di una notizia di reato a loro carico". Il direttore del carcere genovese di Marassi, Salvatore Mazzeo, spiega le ragioni per cui "con i mezzi a nostra disposizione era oggettivamente impossibile accorgersi di questo traffico di droga scoperto dai carabinieri". I militari del reparto operativo del comando provinciale di Genova, prendendo le mosse da un’intercettazione telefonica, hanno scoperto che una serie di familiari dei detenuti portava droga all’interno della casa circondariale maschile genovese durante le visite, che si svolgono tre volte a settimana. In quelle occasioni è consentito portare un pacco pieno di viveri ai propri congiunti. Tredici persone sono state arrestate, sette in flagrante e sei in esecuzione di ordini di custodia cautelare. "I colloqui si svolgono in diverse sale e sono centinaia - prosegue Mazzeo - Abbiamo personale di controllo, ma i nostri mezzi sono limitati dalla carenza di personale. Non si possono controllare tutti contemporaneamente". Mazzeo spiega inoltre che "La legge ci vieta di denudare i parenti dei carcerati anche se abbiamo il sospetto che possano commettere un reato. Non solo: noi non abbiamo la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche così come fanno i carabinieri. Se potessi farlo, sarei l’uomo più contento del mondo". Mazzeo spiega inoltre che ciclicamente il carcere viene perquisito. È stato fatto con l’ausilio delle unità cinofile antidroga del corpo giunte dal Piemonte durante l’indagine dei carabinieri: "Abbiamo trovato soltanto qualche grammo di hashish?". Salvatore Mazzeo conclude con una nota polemica: "I carabinieri del Comando Provinciale credo dovrebbero agire in sinergia con la direzione della polizia penitenziaria quando effettuano un’indagine di questo tipo. Cosa che non hanno fatto". Matera: detenuto aggredisce agenti con una lametta, 7 feriti
www.materaweb.it, 13 giugno 2008
Uil: queste continue aggressioni hanno un dato in comune, avvengono in strutture in cui mancano i dirigenti titolari o dove le gestioni sono discutibili e contestate. Sette agenti penitenziari (contando anche quello che soltanto oggi ha fatto ricorso alle cure dei sanitari per il riacutizzarsi dei dolori) sono stati feriti ieri da un detenuto nel carcere di Matera. A rendere noto l’episodio è la Uil penitenziari, che aveva già denunciato l’aumento delle aggressioni nei penitenziari ai danni di baschi blu. "Ieri sera a Matera - comunica il segretario della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno - un detenuto extracomunitario ha aggredito personale di polizia in servizio, ferendo sei agenti (saliti poi a sette; ndr). Uno dei quali ha riportato ferite da taglio alla gola procurate con una lametta ed un altro trauma cranico per le botte subite alla testa. È uno stillicidio, oramai la pazienza del personale è al limite. Queste continue aggressioni hanno un dato in comune: avvengono in strutture in cui mancano i dirigenti titolari(Matera, Frosinone) o dove le gestioni sono discutibili e contestate (Lecce, Bologna, Genova, Orvieto)". La Uil già ieri aveva chiesto un incontro al Capo del Dap, Ettore Ferrara, per un esame approfondito della situazione "Non abbiamo avuto ancora riscontro, ma immagino che a breve il Dap ci convocherà", sostiene Sarno, secondo il quale "il vero problema consiste nel dare risposte concrete e certe. Su questo un qualche appunto critico va mosso all’Amministrazione. Negli ultimi due mesi sono circa trenta gli agenti aggrediti in vari penitenziari. Non credo che il ministro Alfano - conclude il sindacalista - vorrà essere insensibile al problema. Aggredire un agente penitenziario equivale aggredire lo Stato che rappresenta in quel momento. Noi ci aspettiamo che lo Stato dia risposte idonee". In serata, Eugenio Sarno della Uil-Pa Penitenziari ha annunciato che il numero degli agenti feriti "è salito a sette", perché "nel pomeriggio odierno un altro agente è dovuto ricorrere alla cura dei sanitari dopo che ieri insieme ad alcuni suoi colleghi ha cercato di riportare alla calma un detenuto extracomunitario che, munito di lametta, minacciava di aggredire il personale e di autolesionarsi". "L’agente - ha concluso Sarno - è stato giudicato guaribile in sette giorni per trauma contusivo all’avambraccio destro dai medici del pronto soccorso dell’ospedale di Matera dove si è recato per l’acutizzarsi dei dolori al braccio".
Sappe: un’aggressione annunciata
"Questa è un’aggressione annunciata, l’ennesima: lo ha detto, in un comunicato, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), riferendosi all’aggressione subita ieri, a Matera, da alcuni agenti di Polizia penitenziaria. "Il grave fatto - ha proseguito Capece - avviene a poche ore da altre aggressioni avvenute a Lecce e ripropone drammaticamente all’ordine del giorno la questione della sicurezza individuale dei Baschi Azzurri in servizio nelle carceri del Paese, penitenziari sovraffollati e caratterizzati da una grave carenza di poliziotti pari ad oltre quattromila unità. Servono risposte certe e urgenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria". "Confidiamo - ha aggiunto il sindacalista - nella sensibilità del Capo del Dap, Ettore Ferrara, perché convochi al più presto i sindacati del Corpo per un esame di questa grave ed ennesima criticità penitenziaria. Per ora - ha concluso Capece - esprimo ai colleghi aggrediti e a tutto il personale del carcere di Matera la nostra solidarietà e vicinanza". Bologna: il teatro dietro le sbarre… vola (almeno) il pensiero di Massimo Marino
Il Domani, 13 giugno 2008
Non c’è niente di peggio di un uomo. La sentirete echeggiare, questa frase, tra le mura di uno dei luoghi di dannazione della nostra società, il carcere, il sito della pena, sovraffollato, pieno di storie di violenza, di dolore, di esclusione. Oggi alle 15 il portone della Dozza si apre per accogliere gli spettatori di un lavoro teatrale prodotto tra le sbarre. Non si entrerà per spiare con malsana curiosità i colpevoli, i reietti, ma per incontrare persone e per lasciarsi sedurre dalle sirene del teatro. Bisognerà essere prenotati, perché l’ingresso alla Casa circondariale è subordinato all’approvazione dell’autorità giudiziaria. Si assisterà al "Cantico degli Yahoo", un oratorio per voci e pianoforte con le musiche composte ed eseguite da Daniele Furiati e la regia di Paolo Billi. Billi lavora dal 1999 nel carcere minorile del Pratello: questa è la sua prima volta con i detenuti adulti Abbiamo assistito a una prova, dopo aver varcato parecchi cancelli e attraversato corridoi tra pareti di cemento, fino alla sala teatro, n lavoro è ispirato a uno degli episodi dei settecenteschi Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, un’opera che in veste di fantastiche peregrinazioni satireggiava la società contemporanea. In un’isola lontana, dove il protagonista arriva in seguito a un naufragio, gli Yahoo (sì, si chiamano proprio come il motore di ricerca!) sono esseri simili agli uomini, matti, selvaggi, bestiali, capaci delle peggiori nefandezze, tanto che i saggi cavalli Houyhnhnm li tengono giustamente prigionieri. Il protagonista si schiererà con i quadrupedi contro i suoi disgustosi simili, uguali nei difetti ai rappresentanti della razza umana di ogni tempo. L’azione è semplice, basata su un testo arricchito di brani satirici presi da altre opere dell’autore. La musica evoca le onde del mare, paesaggi lontani, mentre le parole vengono scandite con precisione a volte emozionata dai neoattori, tutti molto calati nelle parti, italiani e strameri, rappresentanti della variegata popolazione delle nostre carceri. Non mancano bianche parrucche, gilet orientaleggianti e una testa di cavallo dai grandi occhi stupiti.... Nel teatro della Dozza si apre uno spiraglio per una riflessione acuminata sulle nostre miserie, viltà, corruzioni, speranze, splendori. Un momento di incontro importante che grazie a un video proseguirà entrando in un più vasto spettacolo dedicato all’opera di Swift: sarà realizzato nel tardo autunno nel carcere minorile. Ci sarà anche una tappa intermedia con i ragazzi di tre comunità, il 23 giugno nell’ambito di tre serate nel cortile del Centro giustizia minorile di via del Pratello. Il portone del carcere della Dozza si aprirà ancora per il teatro il 20 giugno alle 15. Un altro regista, Massimiliano Cossati, presenterà con detenuti del reparto di alta sicurezza 6 cartoni ammari per Anfitrione, da Kleist, una storia di tradimento e di fedeltà realizzata con sagome di cartone mosse su una terra piatta fatta di sabbia, sotto un sottile cielo verticale simile a un fondale di presepe. Libro: "La casa degli incontri", ovvero il gulag come romanzo di Emanuele Trevi
Galileo, 13 giugno 2008
"La casa degli incontri", di Martin Amis. Lo scrittore inglese sfida il rischio di raccontare le inaudite crudeltà del Novecento attraverso un plot incentrato su un triangolo amoroso in un campo siberiano. Mentre leggevo "La casa degli incontri" di Martin Amis (trad. di Giovanna Granato, Einaudi "Supercoralli", pp. 214, € 17,00), una specie di interferenza, ostinata come un sintomo ossessivo, mi impediva di godere di quel sereno abbandono notturno, con tanto di "sospensione dell’incredulità", che è alla base del piacere di leggere un romanzo avvincente e ben scritto. La colpa non è del talentuoso, cinico, penetrante Amis, ma di uno dei nostri migliori prosatori, Antonio Pascale. Cercherò di spiegarmi brevemente. Qualche mese fa Pascale ha pubblicato un saggio di riflessione sulla scrittura, che è una specie, per così dire, di autobiografia morale. Vi si agitano ambiziosamente grandi temi, fino a toccare il possibile rapporto tra ciò che si scrive e la realtà, la verità. È un bel saggio, ma il motivo della mia ossessione è un altro. A un certo punto Pascale rispolvera un vecchio e celebre articolo di Jacques Rivette apparso sui "Cahiers du Cinéma" nel 1961, e pomposamente intitolato "De l’abjection". I fatti sono noti: a un certo punto di "Kapò" Gillo Pontecorvo mostra la morte di una prigioniera di un campo nazista che si suicida scagliandosi sul filo spinato ad alta tensione. Dovendo in qualche modo concepire la scena e il modo di girarla, poiché le cose non si fanno mai da sole, il povero Pontecorvo incorre in quello che, a parere di Rivette, è un delitto imperdonabile: fa una carrellata, o qualcosa del genere, sul corpo esanime di Emmanuelle Riva. Ecco l’abiezione promessa agli avidi lettori fin dal titolo: né traffico d’organi umani, né furto di testate atomiche: una semplice carrellata e quest’uomo, conclude il critico e regista francese, "ha diritto soltanto al più profondo disprezzo". Poco ci manca che Pontecorvo non sia dichiarato nazista tout court. Come se, allora, si potesse dare il caso di un movimento di macchina "non abietto", come se, per incanto, lo stesso fatto di rappresentare qualcosa fosse esente dalla sua necessaria dose di astrazione e manipolazione: ma azzeccato l’insulto, e guadagnatosi il suo quarto d’ora di celebrità, raramente il moralista contemporaneo, il Custode dei Valori, si cura delle conseguenze logiche dei suoi anatemi. L’agghiacciante stupidità del giudizio di Rivette, comunque, può essere parzialmente giustificata dalla sua data. Non altrettanto si può dire delle polemiche dei suoi tanti, occhiuti nipotini, che prosperano un po’ dovunque, sempre pronti a indicare col ditino nuovi casi di abjection. Non in un campo nazista, ma in un gulag siberiano tra il 1948 e il ‘57 si svolgono quasi due terzi de "La casa degli incontri di Amis", tra fame da delirio e temperature sotto i cinquanta gradi, inaudite crudeltà, cimici e pidocchi, e, per i più consapevoli, il senso lancinante di un futuro comunque azzerato, anche nella remota eventualità di sopravvivere e tornare liberi. La casa degli incontri del titolo è una villetta nei pressi del campo, dove i detenuti possono spendere una notte con le mogli, stremate anche loro dopo intere settimane di viaggio alla volta della Siberia, allo scopo di passare qualche ora con uomini spesso irriconoscibili, irreparabilmente distrutti. È questo il crocevia fondamentale della storia di due fratellastri, l’anonimo narratore e il più giovane Lev, entrambi deportati "politici" (nei campi li si chiama "fascisti", perennemente sottoposti alle angherie non solo degli aguzzini, ma anche e soprattutto dei delinquenti comuni, gli urka), divisi e uniti fino alla morte dall’amore per la stessa donna, la prorompente e sensuale Zoya. Il mélo prosegue per decenni anche dopo la liberazione dei fratelli-rivali, con ostinazione tutta russa. La storia è raccontata in un memoriale destinato dal narratore, che ormai ha superato gli ottant’anni e a un certo punto è scappato in America, a una sua figliastra di Chicago. Al momento di stendere le sue confessioni, siamo ormai nell’estate del 2004. In Siberia, nei luoghi dei gulag, ormai ci si può andare pagando il biglietto di una specie di tour turistico, poco popolare perché scomodo e noioso. Per il protagonista, il ritorno in Russia è tutto meno che una riconciliazione in extremis con il passato. Né il triangolo amoroso nel quale si è incagliata la sua vita, né le immani tragedie storiche di cui è stato testimone sembrano capaci di assoggettarsi a quella ricerca di senso che pure è implicita nel gesto stesso di stendere un memoriale, di confessarsi senza reticenze. La lucidità dell’eroe di Amis, insomma, non coincide con una qualche forma di saggezza: e proprio qui, a mio parere, risiede la forza poetica del romanzo. Quanto al suo sfondo storico, devo ammettere che, durante la lettura, mi ha sfiorato il sospetto di una certa gratuità. Ed è proprio questa gratuità che potrebbe far giungere alle narici fini del moralista un lieve odorino di abjection. Per dirla nella maniera più chiara possibile: la vicenda fondamentale del romanzo sarebbe stata ugualmente efficace e credibile se ambientata, per esempio, nella Londra alto borghese di cui Amis, in altri libri, si è dimostrato un così bravo ritrattista. Personalmente, non credo che la scelta di Amis di raccontare una storia in costume, per così dire, sia riprovevole - ma non se ne capisce bene la necessità. Tutto ciò che lo scrittore ha da dire sulla Siberia, o sulla storia dell’Unione Sovietica, proviene da letture storiche (elencate in appendice) di qualità così alta da finire, si direbbe, per inibirlo anziché ispirarlo. Figurano nella lista Solzenycin, Grossman (giustamente definito "il Tolstoj dell’Unione Sovietica"), il monumentale Gulag di Anne Applebaum. Invece di incanaglirsi in giudizi morali insensati, e ammettendo che fin dall’Iliade il dolore degli altri può fungere da alimento a ogni tipo di elaborazione estetica, senza necessariamente meritarsi il "disprezzo" riservato da Rivette a Pontecorvo, bisognerebbe riflettere sul senso, sempre mutevole, del rapporto tra invenzione romanzesca e fonti storiche. Cosa può fare un narratore contemporaneo di fronte a una documentazione così ingente e drammatica come quella affrontata da Amis? Prende appunti, si lascia colpire da questo o quel particolare, sacrifica quanto più può al pathos dell’autentico. Nei casi più fortunati, intrattiene rapporti epistolari con qualche testimone. E poi, come se si fosse impegnato in una specie di fioretto o penitenza, eccolo davanti alla tastiera, con i libri sottolineati, le fotocopie, i quadernetti fitti di appunti. Singolare ibridazione postmoderna dello studente fuoricorso e dell’Angelus Novus di Benjamin, si guarda indietro mentre il vento del plot lo trascina spietatamente avanti. Amis è troppo intelligente (e dunque troppo perverso) per non sospettare in tutto ciò una specie di follia - tutt’altro che abietta, ma pur sempre follia. E genialmente, insinua il più terribile dei sospetti, trasformando il suo protagonista da testimone in romanziere di se stesso. "Dopo aver radunato i fatti", confessa proprio all’inizio del suo memoriale, "mi sono ritrovato davanti a un informe mucchietto di degradazione e di orrore. Così ho cercato di dargli una sia pur minima configurazione. Fintanto che individuavo una parvenza di forma e di struttura, mi sentivo meno isolato, avvertivo il sostegno di forze impersonali". Non si potrebbe dire meglio: al romanziere che fruga nel dolore degli altri, si accompagna, scomodo gemello, il testimone che, per rompere il suo isolamento, ricorre alle grandi "forze impersonali" del romanzo. Invece di condannare questa imbarazzante confusione, sarebbe ora di iniziare a spremerne il senso fino in fondo. Immigrazione: Maroni; reato clandestinità, il paese lo chiede
Apcom, 13 giugno 2008
Il reato di immigrazione clandestina resta nel "pacchetto sicurezza", nonostante le critiche del Vaticano, dell’Ue e dell’opposizione. Lo assicura il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, precisando che la linea della fermezza "non vacilla": "La Chiesa - spiega - ha tutto il diritto di criticare e di fare proposte. Io ho il dovere di rispettare ciò che i cittadini italiani ci chiedono". "Quando arrivai al ministero - confessa Maroni - non temevo le critiche dell’opposizione, di qualche commissario europeo, della Chiesa, dei magistrati; no, quelle le avevo messe abbondantemente nel conto. Io temevo che i cittadini ci contestassero il fatto di non tenere duro sul punto tra i più importanti, cioè la sicurezza. Oggi sono tranquillo: quella tolleranza zero promessa in campagna elettorale resta tolleranza zero verso tutti i delinquenti". Sul reato di clandestinità, aggiunge poi, è d’accordo anche Berlusconi: "era preoccupato di vanificare le espulsioni, su cui non ha dubbi. Ora ha chiara la situazione generale". E, "dopo l’approvazione della direttiva europea", anche il Cavaliere "si è convinto della necessità di un reato penale di immigrazione clandestina". Quanto al nodo colf e badanti, Maroni spiega che queste categorie resteranno fuori dal reato di clandestinità ma, precisa, "non ci saranno sanatorie, questo ministero farà di tutto perché venga rispettata la Bossi-Fini". Maroni liquida poi come una "scemenza giuridica" il fatto, sostenuto da alcuni, che tutti gli immigrati clandestini andranno a riempire le carceri italiane: "chiunque si oppone, lo fa senza avere dietro una forza popolare". Falso anche che non ci siano le risorse per rispedire a casa i clandestini: "I soldi ci sono e ce ne sono pure dall’Europa". Infine, i poteri ai primi cittadini, "la sicurezza non può prescindere dal pieno coinvolgimento dei sindaci", e i campi rom: "così come li abbiamo visti nelle desolanti immagini dei Tg non ce ne possono più essere". "Questo governo - conclude il titolare dell’Interno - dà garanzie di affidabilità perché sa prendere decisioni. Non c’è alcuna deriva di razzismo: c’è solo una gran voglia di legalità. È un momento magico, faremo tante cose. Cambieremo il Paese". Immigrazione: la mappa dei nuovi Cpt, subito in sei regioni di Marco Ludovico
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2008
Si parte da settembre in Toscana, Liguria, Marche, Veneto, Umbria e Campania. Si definisce la mappa dei nuovi Cie (ex Cpt). Con una riunione ieri al ministero dell’Interno, scatta la fase operativa dopo le indicazioni del ministro Roberto Maroni: un centro in ogni regione, dove mancano. Cioè Liguria, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata, Campania. Restano fuori, per ora, le regioni a statuto speciale (ma la Sicilia ne ha già due). Da settembre dando per scontato l’ok al pacchetto sicurezza - dovrebbe cominciare l’allestimento dei centri. Si dovrebbe cominciare da Toscana, Liguria, Marche, Veneto, Umbria e Campania, vista la disponibilità delle strutture indicate da Elisabetta Spìtz, capo del Demanio. Stabiliti i criteri per la dislocazione: lontano dai centri abitati, vicini agli aeroporti e ai reparti mobili delle forze di polizia. Resta da vedere quale sarà la reazione delle regioni "rosse", come la Toscana. Ieri in Senato si è chiusa la discussione generale sul decreto legge sulla sicurezza. Da martedì l’assemblea vota ed entro lunedì è possibile presentare emendamenti. Non è escluso che arrivino altre proposte del Governo: la norma sulla confisca degli appartamenti affittati ai clandestini continua a destare perplessità. Tra le ultime novità, l’ok all’emendamento di Giampiero D’Alia (Udc) che prevede la segnalazione, da parte del sindaco, all’autorità giudiziaria o di pubblica sicurezza, degli stranieri irregolari. "Se per esempio, nel corso di un’azione di polizia amministrativa, il primo cittadino accerta la presenza di clandestini - spiega il senatore - informa il magistrato o le forze dell’ordine". L’obiettivo, indicato dalla stessa norma, è la "eventuale adozione di provvedimenti di espulsione o di allontanamento dal territorio dello Stato". In sostanza, il sindaco non decide l’espulsione ma diventa autorità con il potere di segnalazione per un provvedimento. Passa poi l’abolizione della sospensione della pena per i reati di furto, atti osceni, sfruttamento dei minori a fini sessuali, violenza sessuale, produzione, traffico e detenzione di stupefacenti. Ok all’inasprimento delle pene per chi dichiara false generalità: la pena sale, secondo l’emendamento del Pd accolto in commissione, da uno a sei anni, mentre prima era fino a tre anni. Mentre è punito con il carcere da uno a sei anni chi altera parti del corpo di sé o di altri, come nel caso della bruciatura dei polpastrelli per evitare il rilievo delle impronte. Tra le norme già applicate del decreto legge, quella sulla confisca dell’auto per chi guida sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti: le vetture già confiscate negli ultimi due week end sono state 162. Immigrazione: Caritas; solo dall’integrazione la vera sicurezza
Dire, 13 giugno 2008
Il direttore di Caritas Italiana commenta i dati del dossier sulla comunità romena: "Qualcosa non ha funzionato. Molti hanno voluto imputare le responsabilità di frange limitate a un’intera collettività". "Qualcosa non ha funzionato nel caso dei romeni, perché molti hanno ritenuto opportuno imputare le responsabilità penali di frange limitate di connazionali all’intera collettività immigrata, che invece ha assicurato alla società un apporto positivo". Il direttore di Caritas Italiana, Vittorio Nozza, commenta così il quadro sulla situazione della comunità romena in Italia nel suo intervento alla presentazione, a Roma, del dossier "Romania. Immigrazione e lavoro in Italia". "I cittadini romeni - ha dichiarato Nozza - sono attualmente gli ultimi nella considerazione degli italiani, avvolti da una coltre di ostilità se non addirittura di disprezzo. In questo modo si sta facendo pagare a un"intera collettività i misfatti di frange di delinquenti. Anche se alcuni casi hanno molto colpito l’opinione pubblica è scorretto arrivare a un processo di criminalizzazione di un’intera popolazione. Andando al di là dei fatti di cronaca, veri e preoccupanti ma circoscritti, i romeni, diventati nel frattempo la prima collettività, sono stati presi come simbolo del fenomeno migratorio che aumenta e che genera timore". Senza tener conto dei dati di realtà. Per questo il direttore di Caritas ritiene che "vada tentato un rinnovato accreditamento dei romeni nell’opinione pubblica", anche ipotizzando "un patto tra i nuovi venuti e il paese Italia, che comporta per entrambe le parti diritti e doveri", con un forte impegno degli immigrati ma anche con degli italiani "punto su cui - aggiunge Nozza - non sempre si insiste adeguatamente". Un impegno che a livello istituzionale deve tradursi, per il presidente di Caritas italiana, nel passaggio dal "pacchetto sicurezza" al "pacchetto integrazione". Ribadendo le riserve sui provvedimenti contenuti nel pacchetto sicurezza presentato dal governo (dall’irregolarità come aggravante di pena al prolungamento fino a 18 mesi della permanenza nel Cpt), Nozza ha sottolineato la necessità di investimenti in interventi di integrazione. "Giova ricordare che la politica migratoria è una sorta di partita doppia, nella quale è lecito chiedere ma è anche doveroso dare. Sappiamo che il paese versa in una fase difficile - ha dichiarato - ma queste risorse devono essere assolutamente trovate. Molti immigrati così sono tenuti a pagare 72 euro al momento dell’ingresso per avere il permesso di soggiorno, vedrebbero con favore l’ipotesi che i rispettivi datori di lavoro mettessero a disposizione un uguale importo per le politiche di integrazione: questi milioni di euro aggiuntivi non consentirebbero di fare tutto, ma comunque aiuterebbero a fare molto di ciò che gli immigrati si attendono da noi". A questo proposito, Nozza ha espresso perplessità per "l’aver appreso che quasi tutti i 50 milioni di euro previsti dal fondo per l’inclusione sociale degli immigrati, istituito con la Finanziaria del 2007, sono stati diversamente destinati". Immigrazione: provate a immaginare... l'altro punto di vista di Giorgio Barberis
Peace Reporter, 13 giugno 2008
Una persona del vostro quartiere è sorpresa dentro un appartamento: forse voleva rubare, forse voleva portar via una neonata. Viene arrestata. Provate ad immaginare… Il giorno dopo e poi quelli successivi ragazzi in motorino lanciano una molotov contro la casa di un vostro vicino. L’incendio brucia in parte l’appartamento ma per fortuna l’uomo, la donna e i due bambini che ci vivono se la cavano. Spaventati ma incolumi. Poi è la volta di un intero quartiere: arrivano a centinaia con i bastoni e le bottiglie incendiarie. La gente scappa si rifugia da parenti. Provate ad immaginare… Un bambino che vive ad un paio di isolati da casa vostra viene circondato da gente ostile che, sapendo che è del vostro paese, lo insulta, lo schiaffeggia, lo spinge a forza dentro una fontana. Il bambino è piccolo, forse piange, forse stringe i denti perché la violenza degli altri è un pane duro che ha imparato a masticare sin da quando è nato. Provate ad immaginare... La furia non si placa: anche i quartieri vicini sono sotto assedio. Raccolte in fretta poche povere cose intere famiglie si allontanano. La polizia non ferma nessuno degli incendiari ma "scorta" voi e i vostri compaesani. Andate via. Non sapete dove. Lontano dalle molotov, lontano dalla rabbia, lontano dalla ferocia di quelli che sino al giorno prima vivevano a poche centinaia di metri da voi. Andate in cerca di un buco nascosto, dove, forse potrete resistere per un po’. Fino alla prossima molotov. Provate ad immaginare… Vostri compaesani e parenti che vivono lontano, in altre città, vengono assaliti, le loro case bruciate. Anche loro sono in strada. Provate ad immaginare… Il governo del vostro paese vara misure straordinarie per far fronte all’emergenza. Leggi per fermare la violenza e l’illegalità. Leggi contro di voi ed i vostri parenti, contro i vostri vicini di casa, contro quelli del vostro quartiere e contro tutti quelli del vostro stesso paese. Provate ad immaginare di essere in Italia, in questo maggio del 2008. Non vi pare possibile? Eppure è cronaca di tutti i giorni. La cronaca di un pogrom. Un pogrom che sta incendiando l’Italia. Brucia le baracche dei rom e corrode la coscienza civile di tanti di noi. Qualcuno agisce, i più plaudono silenti e rancorosi, convinti che da oggi saranno più sicuri. Al riparo dalla povertà degli ultimi, di quelli che non si lavano perché non hanno acqua neppure per bere, di quelli che di rado lavorano, perché nessuno li vuole, di quelli che vanno a scuola pochi mesi, tra uno sgombero di polizia ed un rogo razzista. Forse pensate che questo non vi riguarda. Forse pensate che questo a voi non capiterà mai. Siete cittadini d’Europa, voi. Siete gente che lavora, che paga il mutuo, che manda i figli a scuola. Forse avete ragione. Forse no. Nella roulette russa della guerra sociale c’è chi affonda e chi resta a galla. Il lavoro non c’è, e se c’è è precario, pericoloso, malpagato. Il mutuo vi strangola, non ce la fate ad arrivare alla fine del mese, a pagare tutte le spese, ma forse, tirando a campare, con la paura che vi stringe la gola, ce la farete. Gli altri, quelli che restano fuori, che crepino pure. Nemici, anche i bambini. O li caccia il governo (o la camorra) o ci penserete voi stessi, di notte con i bastoni e le molotov. A fare pulizia. Etnica. Intanto, giorno dopo giorno, i nemici, quelli veri, vi portano via la vita, rendono nero il vostro futuro. Il nemico marcia sempre alla nostra testa: è il padrone che sfrutta, è il politico che pretende di decidere per noi, che vuole che i penultimi combattano gli ultimi, perché la guerra tra poveri cancella il conflitto sociale. Provate ad immaginare… Provate ad immaginare che un giorno il padrone vi licenzi, che la banca si prenda la casa, che la strada inghiotta voi e i vostri figli. Sarà il vostro turno. Ma allora non ci sarà più nessuno capace di indignazione, capace di rivolta. Provate ad immaginare… Un giorno qualcuno potrebbe chiedervi "dove eravate mentre bruciavano le case, deportavano la gente, colpivano i bambini?". Non dite che non sapevate, non dite che non avevate capito, non dite che voi non c’entrate. Chi non ferma la barbarie ne è complice. Provate ad immaginare un futuro come questo presente da incubo. Immigrazione: ai cattolici che vedono in stranieri la minaccia
www.gennarocarotenuto.it, 13 giugno 2008
Ai cattolici che difendono la vita e si sentono minacciati dagli immigrati. Il fatto è avvenuto la notte di venerdì 6 giugno 2008. Quanto vale la vita di un immigrato? Poco, ben poco, quasi nulla. Si può buttare in un fosso, massacrare di botte, far cadere da un’impalcatura, oppure ammazzare per pochi spiccioli e nessuno ne sa più niente. A migliaia ne muoiono nel canale di Sicilia. Un irregolare rumeno vale un po’ di più, ma poco di più… a meno che… potrebbe valere molto, moltissimo, anche un milione di euro. A meno che… devono essersi detti Valerio Volpe e Cristina Nervo, una coppia di trentenni di Verona con un bimbo di dieci mesi, questo rumeno non si fidi di noi. E Adrian Cosmin, 28 anni, camionista rumeno, si fidava di loro. Anzi si considerava quasi socio di Valerio e Cristina nella ditta di trasporti della quale la coppia veronese era titolare. Adrian aveva bisogno di lavorare e, un po’ perché si fidava e lo avevano convinto, un po’ perché era latente il ricatto e temeva di perdere il posto di lavoro, aveva accettato di sottoscrivere una polizza sulla propria vita. All’inizio aveva rifiutato, poi messo alle strette, aveva ceduto, fatto le visite mediche e firmato, quella che si sarebbe rivelata la sua condanna a morte. È normale, si fa sempre così, lo avevano convinto, e si era dovuto convincere anche che fosse normale che la polizza sulla sua vita fosse a favore della donna del suo datore di lavoro. Il resto è cronaca marginale di questi giorni. Marginale anche perché non trova spazio in cronaca che limitatamente, brevemente, distrattamente, nonostante si tratti forse del più efferato delitto dell’anno in Italia. Adrian era andato a casa dei veronesi suoi datori di lavoro. Questi lo hanno drogato, caricato nella macchina intestata ad Adrian e in una zona isolata, ma vicina al posto di lavoro del ragazzo, gli hanno dato fuoco, tentando poi di simulare un incidente. Contavano poi di incassare la polizza di quasi un milione di Euro. Lo hanno premeditato per più di un anno l’omicidio di Adriana. Lo hanno fatto per i soldi e solo per i soldi. Su quel corpo carbonizzato gli inquirenti non hanno impiegato più di tanto per capire cosa fosse successo e, quando è saltata fuori la polizza, Cristina Nervo, messa di fronte all’evidenza, ha fatto presto a confessare. Non preoccupatevi, l’hanno già messa agli arresti domiciliari, facendosi scudo di un figlio di dieci mesi. Ma in un paese dove la certezza della pena fosse garantita, difficilmente eviterebbe l’ergastolo. In Italia chissà, in Padania chissà. Come vedremo è già successo, potrebbe ripetersi. Di fronte ad uno squallido fatto di cronaca nera come questo, una piccola storia ignobile indice innanzitutto di miseria umana, ma anche evidentemente del pensare che la vita di un romeno valesse meno di quella di un italiano, diviene pleonastico perfino dire che se una coppia di romeni avessero ucciso in quel modo un ragazzo italiano, saremmo letteralmente sepolti dalla notizia. Verrebbero oscurati perfino gli europei di calcio e Bruno Vespa e Giuliano Ferrara si abbandonerebbero a lunghe edizioni speciali dei loro format televisivi. Giornalisticamente avrebbero perfino ragione perché poche volte si assiste ad un omicidio volontario premeditato di tale efferatezza. Ammesso e non concesso (anzi rifiutato) che sia in corso una faida tra italiani e rumeni a chi ne ammazza di più, neanche nel caso terribile della povera Giovanna Reggiani possiamo individuare una tale lucidità criminale data solo dalla premeditazione. Per il caso di Vanessa Russo poi si trattò di violenza di strada finita casualmente (e preterintenzionalmente) in tragedia. Nonostante ciò servì a creare un contesto di odio antirumeno. Non sarebbe giusto quindi concludere che non solo gli italiani uccidono i romeni, ma che lo fanno perfino in maniera più aberrante, sia pur creando infinitamente meno allarme sociale. Eppure non può non venire in mente il caso di Jon Cazacu, il lavoratore rumeno che chiese di essere messo in regola al suo datore di lavoro. La risposta del datore di lavoro fu cospargerlo di benzina, dargli fuoco e lasciarlo morire carbonizzato. Accadde in provincia di Varese nell’anno 2000. All’assassino di Jon non mancò mai la solidarietà della Lega Nord, che organizzò fiaccolate e gli fornì copertura politica e assistenza legale. Così tanta fu la solidarietà che in primo grado l’imprenditore assassino evitò un ergastolo scontato e fu condannato a trent’anni. Poi, sempre con la complicità della Lega Nord, riuscì ad avere la pena prima dimezzata e quindi ulteriormente ridotta, oltre a beneficiare dell’indulto che a parole la Lega Nord aborre. Sarà fuori nel 2009. Per chi uccide un romeno in Padania, dobbiamo concludere, non vale la certezza della pena. Vedrete, troveranno attenuanti anche per Volpe e Nervo, la coppietta veronese. Del resto c’è un bambino innocente di mezzo e la vita di Adrian Cosmin, lavoratore rumeno, bruciato vivo per un milione di Euro, tornerà a non valere nulla.
Paolo Farinella, prete - Genova, 11 giugno 2008 Droghe: dopo "decreto sicurezza" già 160 le auto sequestrate
Notiziario Aduc, 13 giugno 2008
Sono 162 i veicoli sequestrati ai fini della confisca ad automobilisti che guidavano sotto effetto di alcol o droga nelle ore notturne ultimi due weekend. Sono i primi risultati dell’applicazione del decreto sicurezza che consente appunto il sequestro del mezzo in caso di guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droga. I dati - emersi dai servizi di contrasto alle cosiddette stragi del sabato sera predisposti da Polizia Stradale e Carabinieri - sono stati illustrati dal sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, alle associazioni familiari vittime della strada. Mantovano ha esposto alle associazioni le misure contenute nel decreto legge e nel disegno di legge che compongono il "pacchetto sicurezza", relative alla prevenzione e al contrasto delle cause degli incidenti stradali. Tra queste, l’inasprimento delle sanzioni per chi ometta di prestare soccorso, guidi in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze stupefacenti, si rifiuti di sottoporsi agli accertamenti alcolemici. L’occasione, ha spiegato il sottosegretario, è stata utile per raccogliere proposte e suggerimenti delle associazioni. I maggiori sequestri di auto si sono avuti in Lombardia (25), Emilia Romagna (20), Toscana e Marche (13). La più alta quota di guidatori positivi sul totale dei controllati (10.942) si è registrata in Liguria (16,34%), Lombardia (15,07%), Sardegna (14,69%) e Veneto (14,86%). Questi dati "dimostrano che una robusta politica di prevenzione e di repressione è in grado di far diminuire al di là di ogni ottimistica previsione, il numero dei morti e feriti negli incidenti stradali". È il commento del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi. Aggiunge il sottosegretario: "Ai soliti noti che sembrano più interessati a somministrare alcol a go-go sino all’alba piuttosto che salvare vite umane in nome del profitto di qualche operatore economico, ricordiamo che in termini monetari il calo del numero dei morti e dei feriti ha prodotto un risparmio per la collettività pari a circa 400 milioni di euro, senza contare il valore incalcolabile delle vite salvate". Usa: Corte Suprema riconosce diritti di detenuti Guantanamo
Ansa, 13 giugno 2008
Le modalità con cui Casa Bianca e Pentagono hanno deciso di custodire e processare i detenuti a Guantanamo vanno contro la Costituzione e i valori stessi su cui sono fondati gli Stati Uniti. È la bocciatura senza appello con cui la Corte Suprema si è pronunciata su uno dei dilemmi che hanno spaccato gli Usa dopo l’11 settembre: come bilanciare l’esigenza di sicurezza e la lotta al terrorismo islamico con i diritti fondamentali della persona. Con un voto di 5 a 4, che testimonia quanto l’argomento divida gli stessi giudici di Washington, il massimo organo giudiziario per la terza volta in quattro anni ha detto all’ amministrazione Bush che la realtà della prigione più contestata al mondo è inaccettabile. In passato il governo aveva reagito facendo passare una legge dal Congresso (all’epoca controllato dai repubblicani) per legittimare Guantanamo. Ma ora il Congresso è nelle mani dei democratici e per un’ amministrazione a fine mandato non c’é più tempo per soluzioni del genere. La tesi di Bush secondo la quale le circostanze eccezionali della "guerra al terrorismo" richiedono strumenti fuori dall’ ordinario, per la Corte non è sufficiente per ignorare i pilastri di uno stato di diritto. "Le leggi e la Costituzione sono disegnati per sopravvivere e restare in vigore anche in tempi eccezionali", ha scritto nelle motivazioni di maggioranza il giudice Anthony Kennedy, un moderato il cui voto ha dato la vittoria all’ala progressista della Corte. "La libertà e la sicurezza - ha aggiunto Kennedy - possono essere riconciliate e nel nostro sistema lo sono, nella cornice della legge". Una sentenza già definita storica che ha subito aperto un limbo legale che rende ancora più incerta la già complessa situazione giuridica dei circa 270 detenuti ancora a Guantanamo. La Corte Suprema ha in pratica dichiarato che anche a loro, pur essendo cittadini stranieri etichettati dal Pentagono come "combattenti nemici", spetta il diritto di sfidare di fronte a tribunali ordinari le accuse per le quali sono in cella. La corte federale di Washington, che in questi anni ha gestito i casi dei detenuti, è entrata in stato d’emergenza, prevedendo l’arrivo di un’ondata di ricorsi da parte dei legali dei prigionieri. Le 70 pagine della sentenza sembrano lasciare pochi dubbi sul fatto che i presunti terroristi di Guantanamo devono poter comparire di fronte a giudici ordinari e non venir gestiti solo da militari. Ai detenuti spettano regolare diritto alla difesa, presunzione di innocenza, possibilità di interrogare testimoni e ogni altra garanzia basilare prevista dall’ordinamento americano. "Rispetteremo la decisione della Corte, il che non significa che la condividiamo", ha detto il presidente, George W. Bush, a Roma, nel corso della conferenza stampa con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. "Valuteranno se sia necessaria una ulteriore attività legislativa", ha aggiunto. Una probabile conseguenza sarà un colpo di freno ai processi di fronte alle "commissioni militari" in programma in estate: tra questi, quello contro lo stratega reo confesso dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, e altri quattro presunti leader di al Qaida, rinviati a giudizio la settimana scorsa. I quattro giudici finiti in minoranza, tra i quali il presidente John Roberts, ritengono che ai detenuti siano stati concessi ben più diritti di quanto storicamente sia mai stato fatto con "combattenti nemici" in periodi di guerra. Ma molti esperti da anni sottolineano che il problema di fondo è proprio la definizione di cosa sia una "guerra al terrorismo", chi sia da considerare il nemico e quando si possono dichiarare finite le ostilità, restaurando così il diritto. La sentenza è stata accolta con favore dai candidati alla Casa Bianca, il repubblicano John McCain e il democratico Barack Obama, che hanno entrambi promesso di chiudere Guantanamo e trasferire i detenuti negli Usa. Ma lo stesso Bush da tempo ribadisce una volontà analoga, senza che né Casa Bianca, né il Congresso controllato dai democratici abbiano trovato una soluzione alternativa per i prigionieri. Le circostanze della cattura, la pericolosità di molti di loro, il tipo degli interrogatori cui sono stati sottoposti, le modalità con cui sono stati raccolti gli indizi per i processi: tutto è anomalo e con pochi precedenti. E anche McCain e Obama, per ora, non hanno indicato alcuna idea su come chiudere la drammatica pagina di Guantanamo. Gran Bretagna: lo scambio impossibile tra sicurezza e libertà di Timothy Garton (Traduzione di Emilia Benghi)
La Repubblica, 13 giugno 2008
Il voto di misura alla Camera dei Comuni che recentemente ha approvato la proposta di legge che estende la custodia cautelare per sospetti terroristi a 42 giorni, ha segnato un giorno infausto per la libertà e per la democrazia in Gran Bretagna. Tanto per cominciare questa proposta inutile e illiberale non sarebbe mai dovuta arrivare al voto del parlamento. Il governo di Gordon Brown non avrebbe mai dovuto spingerla mescolando la retorica della sicurezza nazionale a metodi poco ortodossi di caccia al voto. Quali che fossero le loro motivazioni - in alcuni casi forse anche giuste - la maggioranza dei parlamentari laburisti ha tradito il popolo britannico, come hanno fatto i nove membri del partito unionista dell’Irlanda del nord, i cui voti sono stati determinanti. La difesa della libertà di noi cittadini britannici non dovrebbe essere affidata a parlamentari non eletti (è quasi certo che la Camera dei Lord rimanderà il progetto di legge ai Comuni con emendamenti, anche se non può bloccarne l’iter), giudici (inclusi quelli di tribunali europei che potrebbero dichiararla illegittima) e giornalisti. Non nascondiamoci la verità. Le nostre libertà, non solo in Gran Bretagna, ma in ogni paese libero, sono minacciate su due fronti. Una minaccia proviene dai terroristi, soprattutto jihadisti tafkiri, che sfruttano le nuove tecnologie e la società aperta per uccidere, menomare e terrorizzare gli innocenti. L’altra viene dalla reazione eccessiva dello stato, che erode le libertà in nome della difesa dei cittadini. Estremizzando equivale a strangolare la libertà per salvarla. Occorre equilibrare le politiche per difenderci da entrambi i rischi. L’estensione a 42 giorni del periodo di custodia cautelare è una norma che altera disastrosamente l’equilibrio. Nessun altro paese libero con un ordinamento giuridico simile al nostro arriva a tanto. E, come ha ammonito il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lettera, una norma simile "si discosterebbe notevolmente dai limiti di detenzione preventiva in vigore altrove in Europa". I vertici stessi dell’antiterrorismo britannico sono divisi. Alcuni sono favorevoli, è chiaro, se no la proposta non sarebbe nata. Ma chi ha cognizione di causa reputa in stragrande maggioranza che il governo britannico abbia sbagliato a portarla avanti, a cominciare dal procuratore generale in carica Sir Ken MacDonald, che ha detto a chiare lettere che il termine di 28 giorni è sufficiente. Seguono un ex ministro della giustizia (Falconer), un ex Attorney General (Goldsmith), un ex primo ministro, (Major), un ex Lord Chief Justice (Woolf) e molti altri, tra cui avvocati difensori dei diritti umani che lanciano l’allarme sulle insufficienti garanzie offerte dalla nuova norma e la potenziale violazione della Convenzione europea sui diritti umani. Persino chi è favorevole, come l’ex capo della Polizia metropolitana di Londra John Stevens, (oggi Lord), non ne rivendica la necessità immediata per le indagini su complotti terroristici internazionali. Dicono che forse servirà in tempi brevi, quindi meglio averla già pronta di riserva. Ma stando a testimonianze riportate, alte cariche della polizia sostengono che estendere i termini della custodia cautelare sarebbe controproducente. Il messaggio che arriva ai britannici dai ministri del governo è semplice e paternalistico: "Fidatevi di noi, sappiamo cose che voi non sapete". Oppure, come ci assicurò a suo tempo Blair per l’Iraq: "La nostra intelligence riferisce che…". Quanto all’estensione della custodia cautelare a 42 giorni il governo rende noto che è frutto delle pressioni da parte dei servizi di sicurezza. Ora una dichiarazione del capo dell’MI5 (i servizi segreti britannici) ha chiarito diplomaticamente ma senza possibilità di equivoci che così non è stato. I nostri governanti sono stati beccati un’altra volta a "gonfiare" i dossier. E noi ci dovremmo fidare di loro? Su quali basi, scusate? Ma per capire cosa comporterebbero 42 giorni di custodia cautelare prendiamo in considerazione gli elementi che abbiamo finora a disposizione. Il politologo Anthony Barnett ha fatto qualche indagine per noi in un bell’articolo pubblicato su www.opendemocracy.net. Constata che quasi la metà dei sospetti detenuti secondo i limiti finora in vigore (7 giorni in base al Terrorism Act del 2000, 14 giorni a partire dal 2003, 28 giorni a partire dal 2006) sono stati rilasciati senza imputazione. Solo sei sono stati trattenuti fino al ventottesimo giorno e, di questi, tre sono stati rilasciati senza imputazione. Su pressioni da parte del conservatore David Davis, portavoce dell’opposizione per gli Affari interni, la polizia ha rivelato che le persone rilasciate non sono state poste in libertà vigilata né tenute sotto sorveglianza. "Quindi erano innocenti?", ha chiesto Davis. La polizia ha risposto "alzando le spalle in segno di assenso", dice Barnett. Pensate un attimo alla realtà umana dietro quell’alzata di spalle. Qui in Gran Bretagna - badate bene non nel Cile di Pinochet o nella Russia di Stalin, ma in un paese che alcuni di noi reputavano uno tra i più liberi del mondo - un uomo o una donna vengono prelevati in strada, imprigionati e interrogati per quattro settimane, quindi rilasciati senza imputazione né spiegazioni. "Scusa tanto amico, ora puoi andare". Ammesso che ti chiedano davvero scusa. Quattro settimane. Ed ora, in casi eccezionali, vogliono portarle a sei. Alcuni dei rilasciati saranno magari dei brutti ceffi scampati per questa volta alla giustizia, ma è impossibile che per tutti sia così. Mettetevi nei loro panni. Immaginate di essere stati trattenuti in carcere da innocenti. E il ministro dell’Interno britannico Jacqui Smith sostiene che questa nuova norma non contribuirà alla radicalizzazione dei giovani musulmani già profondamente ostili. Ditelo ai poliziotti in servizio sul territorio, che ne sanno qualcosa. In un contesto più ampio la norma è presentata come un compromesso tra sicurezza e libertà. È vero, si scende spesso a questi compromessi e sì, molti antepongono la sicurezza alla libertà (il 69 per cento dell’opinione pubblica britannica è favorevole all’estensione della custodia cautelare a 42 giorni "in casi eccezionali" stando ad un sondaggio pubblicato dal Daily Telegraph, anche se molto dipende dai termini esatti in cui viene posta la domanda). Ma questa misura ha un impatto negativo proprio su coloro che, se vogliamo vincere la battaglia, devono stare dalla nostra parte, talmente negativo che potremmo ritrovarci meno sicuri di prima. Quindi minor libertà in cambio di minor sicurezza. Che offerta imperdibile. Tutto questo si inserisce, come ha indicato l’ex premier John Major in termini sobri ma efficaci, in un contesto più ampio in cui la Gran Bretagna si è spinta oltre la maggioranza delle democrazie liberali in direzione di uno stato di sicurezza nazionale e una società di sorveglianza. E poi c’è il modo in cui il governo britannico ha vinto la riluttanza della Camera dei Comuni facendo "concessioni", sacrificando i principi fondamentali della legittima procedura giudiziaria alla convenienza politica e ingraziandosi chiunque fosse disposto a votare la nuova norma. Questo da parte di un premier che all’assunzione dell’incarico l’estate scorsa promise un governo strategico basato sui valori dichiarando che l’essenza dell’identità nazionale britannica è la libertà. E tutto questo per niente: ora come ora l’estensione della custodia cautelare è soggetta a tanti di quei paletti che è inverosimile che vi si faccia ricorso se non in caso di una vera e propria emergenza nazionale, nel qual caso si sarebbe potuto fare qualcosa di analogo anche in base alla legislazione esistente. Lord, giudici e giornalisti quanto meno rallenteranno l’iter della proposta. E se mai diventerà legge sicuramente un governo conservatore la abrogherà. Si è trattato quindi di un futile, pasticciato esercizio illiberale. Diamine, quasi quasi vien voglia di trasferirsi in Germania.
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