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Giustizia: la cronaca di una paura immaginaria... di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (Associazione A Buon Diritto)
L’Unità, 3 gennaio 2008
Alcuni quotidiani, nelle loro pagine online, hanno chiesto ai lettori di indicare la parola che più di altre descrive o riassume il senso dell’anno che sta per finire. Ed ecco saltar fuori il "bamboccioni" di Padoa Schioppa, la "casta" di Stella e Rizzo; e poi "mutui", "clima", "Rom", "carovita" e altre ancora. Tentati dal giochino, con fini però poco ludici, crediamo che una parola che ben descrive i primi anni di questo millennio, nelle democrazie occidentali, possa essere "insicurezza". Un termine questo che per molti aspetti include la maggior parte delle indicazioni venute dai frequentatori di quei siti; che per altri, ben più complessi, rimanda a questioni esistenziali e antropologiche; e che, sopra ogni cosa, spiega, e al contempo reclama interpretazione, di questo tempo fatto di ansie, minacce percepite, incertezze sull’oggi e sul domani. L’insicurezza, come cifra emotiva di interpretazione della vita e della realtà, evidentemente, è sempre esistita: ha a che fare con la nostra condizione di finitezza. Oggi, su quella condizione, si addensano paure motivate e inconsistenti, si accumula un capitale personale e sociale di stress, così che la precarietà della condizione umana finisce per essere percepita più come minaccia immanente e forse imminente - proveniente dall’esterno - che come dato naturale. Facile, d’altronde, se i fattori ansiogeni, di minaccia (presunta o effettiva), naturali non sono. Una recente ricerca, "Indagine sul sentimento e sul significato di sicurezza in Italia", realizzata dalla Demos e curata da Ilvo Diamanti, sottolinea una serie di dati interessanti: di come le nostre paure vengano sempre più frequentemente proiettate su fattori al di fuori della portata di controllo e intervento dell’individuo. E di come, parallelamente, si sia spaventati tanto da dinamiche globali quanto da minacce a noi potenzialmente molto prossime. Emerge che la distruzione dell’ambiente rappresenta l’angoscia maggiore per quasi il 60% degli italiani; e risulta come la paura per il futuro dei propri figli (46% degli intervistati) e la paura di attentati terroristici (quasi il 40%) siano poi gli altri principali fattori di insicurezza. A seguire, la paura della povertà e della malattia; e preoccupazioni, variegate per frequenza nelle diverse fasce anagrafiche e nei distinti gruppi sociali, come poter un giorno percepire una pensione. E la paura della criminalità? Non è scomparsa, anzi. Crescono la paura di furti, rapine, borseggi; nove persone su dieci pensano che la criminalità in Italia sia aumentata (ma solo cinque su dieci che ciò sia avvenuto anche a livello locale, nel loro luogo di vita). Insomma; cresce la percezione di paura, nel suo complesso, e si nutre di preoccupazione per i cambiamenti globali in corso (maggiormente sentiti nell’elettorato di centrosinistra) e per fattori di ordine economico e riguardanti l’incolumità fisica (questi ultimi più presenti nell’elettorato di centrodestra). La ricerca in questione mette in luce alcuni comportamenti e orientamenti che sembrano direttamente correlati a tali percezioni. Ecco dunque che il 44% degli italiani ha già blindato porte e finestre della propria abitazione, e che un altro 10% conta di farlo presto; ecco che un italiano su tre difende la propria casa con sistemi di allarme (anche qui, un restante 14% vorrebbe installarne uno prossimamente); l’8% degli intervistati, poi, dichiara di possedere un’arma e un altro 4% vorrebbe acquistarla. E molti, più in generale, chiedono un maggior controllo delle città e del territorio: l’89% degli intervistati sarebbe d’accordo ad "aumentare la presenza della polizia nelle strade e nei quartieri"; l’86% è favorevole "all’aumento di sorveglianza degli spazi pubblici attraverso telecamere", che emergono come lo strumento di controllo più apprezzato. E sale la paura dello straniero: il 47% degli italiani (è il dato più alto registrato in tal senso negli ultimi 10 anni) vede negli immigrati una minaccia; il 55% guarda con favore alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e venditori abusivi; un italiano su quattro ritiene che i campi rom vadano "sgomberati e basta" (ovvero, evacuati senza bisogno di misure ulteriori di collocamento delle persone sfollate). Siamo un Paese spaventato, dunque. Impegnativo, e tuttavia necessario, comprendere il perché. Certo esistono fattori concreti e tangibili, dalla precarietà nel mondo del lavoro al peggioramento della qualità ambientale, dal caro prezzi alla disoccupazione. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che hanno a che fare con un intreccio perverso di informazione tutta giocata sui registri del noir (per così dire) e sull’azione, irruenta e costante, di una politica che fa della paura collettiva una risorsa elettorale, proprio come il mercato dei beni di consumo ne fa una risorsa economica. Comprensibile, ad esempio, che il pensiero del terrorismo spaventi. Più difficile credere che questa paura sia giustificata in un paese in cui l’eversione nazionale è poca cosa; e in cui il terrorismo internazionale non ha mai colpito. Perché gli italiani non temono le morti sul luogo di lavoro o le morti da incidenti stradali, assai più prossime, possibili e ingenti, di qualsivoglia attentato? Cosa sta cambiando in un paese che si dice disposto persino a essere spiato, ripreso costantemente da telecamere in ogni dove, pur di sentirsi al sicuro? E perché si continua a vedere nella criminalità una marea montante e una minaccia sempre più diffusa? Basterebbe analizzare i dati presentati dall’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza per comprendere che in Italia certi allarmi sono ingiustificati (ancorché, certamente, il numero dei reati registrati annualmente meriti di essere abbattuto). Basterebbe pensare a come si vadano divaricando i dati relativi ai reati commessi e la percezione collettiva dei fattori di rischio che vengono dal crimine per imporre una discussione non superficiale sui dati di questa e di altre ricerche. Nel 2006, ad esempio, gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro Paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in Paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne hanno in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, lungo e forse sorprendente. Pure, il dato centrale è che dai primi anni 90 ad oggi va aumentando la percentuale di italiani che si sentono quotidianamente minacciati da una pluralità di fattori di allarme. Alcuni reali, altri remoti, taluni quasi immaginari. Un buona politica e una buona cultura sono quelle che riescono a ridurre al minimo almeno quest’ultima categoria. Giustizia: la sicurezza è il business del XXI secolo di Salvatore Palidda (Università di Genova)
Altraeconomia, 3 gennaio 2008
Come hanno scritto alcuni autori americani, già alla fine degli anni ottanta appariva evidente che la sicurezza sarebbe diventata il business del XXI secolo. È infatti tipico delle congiunture connesse alle grandi trasformazioni politiche l’ossessione per l’insicurezza in tutti i campi. Il processo di destrutturazione provocato dalla rivoluzione tecnologica, dalla rivoluzione finanziaria e da quella militare, con lo sviluppo neo-liberale globalizzato, ha creato una sorta di nuovo frame hobbesiano: il trionfo sempre più pervasivo della paura e delle proposte di rassicurazione manipolate dagli attori forti che chiedono sempre più deleghe e imbastiscono affari sempre più redditizi. In effetti, il successo del teorema sicuritario (più polizia, più repressione, più penalità, tolleranza zero) soddisfa una molteplicità di attori: i politici che occultano le vere ragioni delle insicurezze - ossia il degrado socio-economico e l’erosione dei diritti fondamentali - giornalisti, opinion leader, imprenditori morali e dirigenti delle polizie pubbliche e private che fanno carriera, le società che producono e commercializzano sistemi di sicurezza, le assicurazioni che offrono polizze contro qualsiasi rischio. Le ripetute campagne allarmistiche sembrano far diventare realtà le insicurezze inventate a colpi di sondaggi manipolanti e analisi di statistiche che misurano solo quello che il potere vuole misurare. Così, il paradosso apparente è che in realtà oggi c’è molto meno insicurezza dovuta alla criminalità, ma si promuove l’inflazione delle spese per combatterla e punirla. Dal 1990 alla fine del 2006 il totale dei reati denunciati dalle forze di polizia in Italia è rimasto quasi immutato (erano 2.501.640 e nel 2006 sono stati 2.515.168). Inoltre, più del 30% dei reati sono in realtà banali trasgressioni alle norme (ingiurie, schiamazzi, ubriachezza, ecc.); i reati effettivamente gravi (omicidi e rapine) sono diminuiti. C’è stato però un forte aumento del ricorso alle denunce di una parte della popolazione e una notevole crescita della disponibilità a riceverle da parte delle forze di polizia (sino a volte a incitarle come prova di popolarità di queste). Il risultato è stato il boom delle risorse pubbliche e private destinate alla sicurezza, l’enorme aumento dei controlli sulle persone e lo scarso controllo sulle attività che oscillano fra legale e illegale su scala locale, nazionale e mondiale (si pensi ad esempio alle delocalizzazioni e all’aumento delle economie sommerse). Molti indizi fanno pensare che rispetto ai paesi ricchi cosiddetti democratici in Italia la spesa per la sicurezza, pubblica e privata (in proporzione agli abitanti) sia la più alta e la meno democraticamente controllata (per certi versi è più controllato il settore militare grazie alle battaglie degli anni ‘70). La quasi totalità dei politici italiani ignora del tutto i diversi aspetti del settore della sicurezza e perpetua una pratica di corteggiamento nei confronti dei dirigenti di tale settore. È emblematico che sia quasi unanimemente condivisa l’idea che "la sicurezza non è di destra né di sinistra". La proliferazione dei dispositivi e degli attori nel campo della sicurezza complica la ricerca sulle spese che lo riguardano. Le risorse pubbliche - per ciò che concerne le attività di sicurezza - allocate alla polizia di stato, all’arma dei carabinieri, alla guardia di finanza, alla guardia forestale, alla polizia penitenziaria, alle carceri, alla guardia costiera, alle capitanerie di porto e alle polizie locali (oltre che ai dispositivi e sistemi di controllo, repressione e punizione), figurano in diversi capitoli di spesa che a volte apparentemente non hanno nulla a che fare con il settore sicurezza. L’ibridizzazione e la pervasività dei controlli ha infatti fagocitato all’interno della cornice e quindi della pratiche sicuritarie anche attività di ben altri settori (la sanità, la pubblica istruzione, l’assistenza sociale, i trasporti, le istituzioni artistiche come i musei, ecc.). Mentre i portavoce di tutte le istituzioni del settore sicurezza si lamentano sempre delle riduzioni e dell’insufficienza delle risorse ad esse destinate, non è difficile stimare che in realtà esse abbiano avuto un aumento notevole. È importante osservare che le spese per la sicurezza sono raramente discusse e valutate, in particolare quando si tratta di dispositivi che sembrano essere diventati "sacri". È il caso dei sistemi di video-sorveglianza che tutti i comuni di destra e di sinistra adottano da più di un decennio senza mai valutarne l’utilità, più che mai dubbia come dimostrano diversi studi nei paesi anglosassoni e francofoni. Peraltro, a proposito delle pratiche securitarie nel settore migrazioni, la stessa Corte dei Conti ha dimostrato la ridicola "produttività" della logica proibizionista-repressiva (che però ha provocato sempre più morti fra i migranti). Il fenomeno ancora più eclatante di quest’ultimo ventennio riguarda lo sviluppo incontrollato e considerevole della privatizzazione della sicurezza pubblica e della sicurezza dei privati. Nulla si sa di quanto spendono gli italiani per sistemi di sicurezza più o meno sofisticati (dai catenacci, serrature e porte blindate sino ai sistemi di allarme più complessi) e per le assicurazioni, ma è certo che si tratta di un budget che ha avuto una crescita esponenziale. Ancor più clamoroso è stato l’aumento del valore finanziario delle attività delle polizie private ormai impiegate non solo nei tradizionali compiti di vigilanza (banche, dimore private, industrie e società diverse, ecc.) ma anche in spazi pubblici (aeroporti, università, musei, ministeri, addirittura depositi di armi delle forze armate, quartieri che imitano le gated communities, trasporti pubblici, centri commerciali, ecc.). Secondo le logiche oggi dominanti la produttività delle forze e dei dispositivi di sicurezza si misura innanzitutto in termini di persone e cose controllate, denunce e arresti. Paradossalmente, gli studi recenti delle stesse istituzioni mostrano che l’aumento della stretta repressiva a parità di reati identificati non fa diminuire il sentimento di insicurezza. In effetti, i reati gravi e anche meno gravi sono diminuiti - secondo il ministero degli Interni (giugno 2007) nel 1991 si erano registrati 1901 omicidi, nel 2005 "solo" 601 e nel 2006 in tutto 621, di cui 121 dovuti alle mafie - mentre aumentano il disagio e le insicurezze dovute a malesseri e problemi sociali che ovviamente non possono mai essere contrastati dall’azione delle polizie. Ne consegue che se non c’è un adeguato equilibrio fra spese per le politiche sociali e spese per la sicurezza e la penalità si producono inevitabilmente gravi effetti perversi. In Italia manca una tradizione liberal-democratica di controllo del settore sicurezza. Sia a livello centrale che a livello locale non c’è mai stato un’effettiva valutazione delle scelte in tale campo. La valutazione della sicurezza non deve corrispondere alla effettiva tutela delle persone più a rischio di insicurezza? Ma chi sono queste persone? Non sono forse i rom, gli immigrati clandestini alla mercé del sommerso, i marginali, gli stessi italiani costretti a subire il sommerso o semi-nero? Cosa fanno le polizie per tutelare queste persone? E cosa si fa nei confronti degli abusi, della corruzione e delle violenze da parte di agenti delle polizie? Giustizia: indagine Eurisko; gli italiani sono "arrabbiati" di Fabio Bordignon
La Repubblica, 3 gennaio 2008
Cittadini "arrabbiati", ma, nonostante tutto, felici: così si auto-definiscono gli italiani. Insoddisfatti dell’economia, preoccupati per la sicurezza, scontenti della politica: il bilancio del 2007 è ampiamente negativo, mentre le previsioni sul nuovo anno segnano un ritorno del pessimismo. Le note positive sembrano venire esclusivamente dalla sfera privata, oppure dalla passione sportiva. Nel complesso, più di otto persone su dieci si dicono (abbastanza) felici. Mentre in molti, per il 2008, pronosticano nuovi successi per l’Italia nella Formula 1 e nel calcio. Un sondaggio condotto da Demos-Eurisko ha rilevato, per La Repubblica, le aspettative dell’opinione pubblica in vista dei prossimi dodici mesi. Una nuova inversione di rotta: se l’inizio del 2007 sembrava poter segnare, agli occhi degli italiani, una svolta in positivo, l’umore dei cittadini, a dodici mesi di distanza, si presenta più nero che mai. Le valutazioni sull’anno appena concluso non lasciano dubbi, in proposito. Sette persone su dieci pensano che le cose siano peggiorate per quanto riguarda l’economia nazionale (74%), la politica (70%), la pressione tributaria (65%). La maggioranza assoluta ritiene che le condizioni siano andate deteriorandosi anche per quanto riguarda la sicurezza (59%), la corruzione politica (59%), la qualità della televisione (51%). Un quadro a tinte fosche, che propone un netto passo indietro rispetto al bilancio 2006. Solo in riferimento alla dimensione individuale e privata - il proprio reddito, la vita personale - prevalgono indicazioni di stabilità. Anche sotto questo profilo, tuttavia, in pochi hanno registrato un miglioramento, e una componente non trascurabile parla di un ulteriore arretramento. Il disappunto generato da queste percezioni è evidente, e quasi scontato. L’Italia, ciò nondimeno, stenta a riconoscersi nella definizione di Paese depresso, o infelice. Appare piuttosto, agli occhi degli intervistati, un Paese "arrabbiato": la componente più ampia (44%), nel descrivere i propri concittadini (e quindi se stessa), ricorre innanzitutto a questo aggettivo. Più di otto persone su dieci, comunque, affermano di sentirsi felici (82%), quantomeno "abbastanza" felici (68%) della propria vita. Anche nella valutazione delle prospettive future, i segnali più confortanti riguardano la dimensione privata (individuale e familiare), dove quattro persone su dieci delineano una evoluzione favorevole nel corso del 2008. Come già rilevato in occasione dei precedenti sondaggi "di fine anno", peraltro, il raffronto tra valutazioni passate e aspettative future traccia, comunque, un lieve miglioramento: perché, forse, "peggio di così non può andare". La stessa "idea" di futuro viene associata, ancor prima che all’"incertezza" (40%), alla "speranza" (67%). Così, sebbene il sondaggio registri previsioni di segno opposto, tende a prevalere un timido ottimismo anche per quanto riguarda la sicurezza, l’economia, la qualità della tv. Per quanto attiene alla politica, invece, gli italiani sembrano quasi rassegnati ad un quadro di fermento e instabilità: quattro su dieci, in generale, immaginano una evoluzione negativa, per i prossimi dodici mesi. Guardando agli eventi attesi per il 2008, le previsioni più ottimistiche riguardano soprattutto il mondo dello sport: tre persone su quattro sognano nuovi trionfi della Ferrari (75%), mentre due su tre confidano in un successo azzurro agli Europei (66%). Sotto il cielo della politica, novità significative sono attese soprattutto per quanto riguarda la meccanica elettorale: il 63%, infatti, ritiene probabile il varo di una riforma nel corso dei prossimi mesi. Tra le priorità segnalate dai cittadini, tuttavia, la legge elettorale non figura certo nelle prime posizioni: anzi, fra le "questioni" suggerite dal sondaggio, finisce addirittura all’ultimo posto (5%). Le vere emergenze, nel giudizio dell’opinione pubblica, coincidono con altri problemi: l’aumento dei salari e delle pensioni, innanzitutto (39%); ma anche la lotta alla criminalità (31%), il controllo dei prezzi (28%), la riduzione delle tasse (27%). Tra le ricette per rilanciare l’Italia, infine, i cittadini suggeriscono di puntare maggiormente sui giovani: aumentando la loro presenza nelle posizioni di comando (41%), ma anche investendo sulla scuola e sull’università (31%). Giustizia: Ristretti; 120 morti dietro le sbarre nel 2007 di Davide Madeddu
L’Unità, 3 gennaio 2008
Internet per riconquistare la normalità oltre le sbarre. Dove, un anno e mezzo dopo l’indulto, si sta nuovamente stretti e dove, nell’arco di sette anni sono morte 1.208 persone. A tracciare il bilancio di un anno al lavoro tra carceri e "società" sono i volontari di Ristretti, la testata on-line dell’associazione Ristretti Orizzonti diretta da Ornella Favero, da anni impegnata in attività di supporto e aiuto ai detenuti. I numeri elaborati dall’associazione parlano di 310 edizioni del notiziario diffuse nel corso del 2007, mezzo milione di pagine visitate e registrate, 6.000 notizie diffuse, 7.500 i lettori che quotidianamente hanno ricevuto il notiziario e 500 le iniziative, svolte in tutta Italia, pubblicizzate dallo stesso notiziario. L’attività di Ristretti e dell’associazione non si ferma comunque qui. Nelle pagine del sito web, che offrono una serie di servizi che vanno dal supporto assistenziale a chi ha problemi di salute all’ assistenza per coloro che lasciano il carcere, continua anche con la raccolta dati e l’elaborazione. Una su tutte il dossier "morire di carcere" che secondo l’inchiesta effettuata dai volontari di Ristretti parla di 1.208 persone morte dietro le sbarre nell’arco di sette anni. Nel dossier elaborato da Ristretti c’è anche la distinzione tra suicidi e totale e inoltre i dati relativi ai singoli anni. Numeri che fanno segnare il picco di maggiore valore nel 2001 con 177 morti e 69 suicidi, seguito poi dal 2005 con 172 morti e 57 suicidi. Nei dati elaborati dall’associazione si nota, comunque un progressivo calo negli ultimi due anni, dato che si passa dai 172 del 2005 (il periodo in cui si è registrato il massimo affollamento delle celle) al 2007 con 120 morti, di cui 43 suicidi. Dati che, come scrivono i volontari nei comunicati e nella rivista on-line, che "non devono essere sottovalutati". L’attività dei volontari però va anche oltre e vede inoltre la realizzazione di documentari, video e la pubblicazione di libri che dal carcere vanno ad affrontare la vita di tutti i giorni, compresa una collaborazione con le scuole. E ci sono le pagine web che danno assistenza a chi è in difficoltà fornendo supporto legale ma anche logistico, come per esempio dando informazioni su come muoversi e dove andare a bussare anche per trovare lavoro una volta lasciato il carcere. Non è tutto. I volontari di Ristretti lanciano anche un appello perché "non ci siano più bimbi in carcere e vengano chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari". Giustizia: Ferrara (Dap); le carceri scoppiano di nuovo
Il Giornale, 3 gennaio 2008
Spazi insufficienti, poco personale e migliaia di extracomunitari dietro le sbarre. Dopo un anno l’effetto indulto è già svanito e le carceri italiane scoppiano di nuovo. Sono infatti 49.442 i detenuti negli istituti di pena italiani, 6.200 in più rispetto a quelli previsti dal regolamento e da ottobre a dicembre 2007 sono finite in cella oltre mille persone al mese. "La situazione sta diventando irrecuperabile - dice a L’Espresso in edicola domani, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Ettore Ferrara - c’è un rubinetto aperto che allaga la casa, e tutti guardano senza intervenire". Il sovraffollamento si registra sia nelle carceri delle regioni del Nord che in quelle del Meridione: a Milano, nell’istituto di San Vittore, ad esempio, "con due reparti chiusi per ristrutturazione, la capienza maschile è di 700 unità - racconta Luigi Pagano, responsabile dei penitenziari lombardi -invece gli uomini sono 1.187, senza contare le 97 donne e i 77 ricoverati del centro clinico". Lo scenario appare simile a Genova: la capienza limite, al carcere di Marassi, è di 450 posti ma il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, segnala la presenza di "oltre 600 detenuti", con una carenza stimata "di più di 120 agenti". In Sicilia, inoltre, dall’agosto scorso il "tutto esaurito" abbonda: nel carcere Piazza Lanza di Catania, ci sono 399 detenuti contro i 245 previsti, mentre ad Agrigento se ne registrano 294 contro 253 e a Barcellona Pozzo di Gotto sono 256 contro 216. Dall’estate scorsa a oggi, il 23,8% degli "indultati" è tornato in cella e sono cresciute, in parallelo, le percentuali di reati come rapina, truffa e tentato omicidio. L’altro punto scomodo è la divisione in carcere tra chi è stato condannato e chi è in attesa di giudizio: su 49.193 detenuti, ben 29.137 rientrano nella categoria degli imputati, mentre 18.569 sono i condannati e 1.487 gli internati, ossia i ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari. Giustizia: agenti suicidi; carcere è un'istituzione superata
Redattore Sociale, 3 gennaio 2008
Il segretario nazionale del Sappe, Donato Capece: "Il problema vero è che lo stesso carcere è diventato un’istituzione superata, che tra l’altro mette continuamente a rischio il personale di polizia". "C’è un filo conduttore che lega i quattro casi di suicidio che si sono registrati negli ultimi giorni dell’anno. E quel filo si chiama stress da lavoro, o effetto burn-out, come dicono gli specialisti, ovvero un eccessivo carico di lavoro non intervallato da periodi di riposo adeguati". Così, il segretario generale del sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, Sappe, Donato Capece, spiega i casi di suicidio che ci sono stati nell’arco degli ultimi dieci giorni del 2007 tra il personale della Polizia penitenziaria. Secondo Capece dietro i quattro suicidi ci sono le stesse motivazioni: la prima riguarda appunto il carico di lavoro (ci sono casi in cui un poliziotto è costretto a lavorare per due in carcere); l’altro motivo di disagio ricorrente per la categoria è la lontananza dalle famiglie, visto che spesso si tratta di poliziotti emigrati dal sud e che nelle regioni di destinazione non hanno la possibilità di trasferirsi con tutta la famiglia a causa dei costi molto alti a cominciare da quelli relativi agli affitti (la media degli stipendi si aggira sui 1.200 euro): il terzo motivo ricorrente riguarda quindi l’obbligo alla vita di caserma (queste persone passano dal carcere dove lavorano alla caserma dove abitano fuori dai turni. In caserme e nel carcere mancano poi dei punti di riferimento. "Una volta - spiega Capece - c’era almeno la figura del maresciallo che comunque girava tra i rappresentanti del personale, era un punto di riferimento, soprattutto durante i momenti delicati delle festività. Ora quella cultura e quel modo di fare, quei valori, sono tutta roba superata". L’amministrazione penitenziaria, denuncia quindi Capece, nonostante la sensibilità e l’attenzione che è stata mostrata in più occasioni dal capo del Dap, Ferrara, non riesce a intervenire per risolvere questi problemi di fondo. "Il problema vero - conclude il segretario del Sappe - è che lo stesso carcere è diventato un’istituzione superata, che tra l’altro mette continuamente a rischio il personale di polizia". Il Sappe chiede dunque al governo di aprire al più presto un tavolo per discutere del fenomeno, attivare un monitoraggio istituzionale, rivedere gli organici e comunque discutere delle possibili alternative alla situazione attuale che ormai è ripiombata nell’emergenza. Su questi temi verrà inviata domani una lettera ai ministri interessati. Giustizia: il "mal di vivere" e la rabbia degli agenti... di Flavia Amabile
La Stampa, 3 gennaio 2008
I primi due si sono ammazzati poco prima di Natale, gli altri due tra Natale e Capodanno: erano due agenti, un sovrintendente e un commissario di polizia penitenziaria, tutti abbastanza giovani ma stanchi di una vita diventata impossibile. I primi due gesti sono passati quasi inosservati, ma gli altri hanno portato a galla il problema in tutta la sua tragica dimensione. "Quattro suicidi in dieci giorni è un’emergenza", avverte Donato Capece, segretario generale del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria. "È un dato da leggere con estrema preoccupazione, rispetto al quale il ministro della Giustizia Clemente Mastella ed il capo dell’Amministrazione Penitenziaria Ernesto Ferrara devono assumere con urgenza provvedimenti", continua. Sui suicidi delle forze di polizia penitenziaria non esistono molti studi. I rappresentanti sindacali hanno provato da soli a tenere il conto. "All’incirca abbiamo calcolato una decina di casi in quattro-cinque anni", spiega Capece. "Siamo nell’ordine di quattro suicidi in un biennio" spiega Francesco Quinti, coordinatore nazionale della Cgil Funzione Pubblica per la polizia penitenziaria. Entrambi, insomma, si trovano d’accordo su una media di circa due suicidi l’anno. Fino a questo dicembre, quando all’improvviso le statistiche e le medie sono saltate. Che cosa è successo? Innanzitutto i dati, i pochi in grado di fotografare la vita e la desolazione degli agenti che lavorano nelle carceri. "Sono i dipendenti pubblici con il tasso più alto di pensionamento per malattie depressive. Tra il 20 e il 30% di loro viene riformato per problemi di questo tipo", avverte il segretario generale del Sappe. Guadagnano circa 1200 euro al mese netti, hanno in media almeno sei detenuti a testa di cui occuparsi, sono in buona parte originari del Sud e lavorano al Nord vivendo in caserma per risparmiare, lontano dalle famiglie e dalle loro città e senza prospettive di tornarci. "Con l’indulto si è persa una grande occasione" è l’opinione del segretario del Sappe. "Le carceri si erano svuotate, era il momento di fare le riforme strutturali promesse. Invece, tutto è rimasto come prima ed ora le carceri si stanno di nuovo riempiendo al ritmo di 1300 nuovi detenuti al mese. E qualcuno scoppia". "È una situazione rispetto alla quale non esistono molte soluzioni - ammette Fabrizio Rossetti, responsabile nazionale della Cgil Funzione Pubblica per il settore penitenziario - il carcere è un ambiente degradante per chi è dentro ma anche per chi ci lavora. Si possono però alleviare i disagi predisponendo una maggiore formazione professionale, un’organizzazione del lavoro che preveda più tempo libero per restare a casa con la propria famiglia, e un trattamento salariale differenziato fra chi fa un lavoro di tipo amministrativo e chi opera nelle carceri altrimenti i più deboli da un punto di vista psicologico finiscono per crollare". Per l’amministrazione penitenziaria così come per ogni altro dipendente pubblico esiste il blocco delle assunzioni. "E quindi sono tanti i meridionali spediti al Nord senza alcuna possibilità di ricongiungersi alle famiglie. Sono persone che hanno difficoltà ad integrarsi, trascorrono le loro serate a guardare la tv in caserma perché non possono permettersi l’affitto di una casa, e si sottopongono a turni massacranti per mettere insieme ogni mese i tre-quattro giorni necessari per riabbracciare la famiglia. In una situazione così, può capitare che qualcuno decida di farla finita", spiega Francesco Quinti. La soluzione? "Il personale va avvicendato, sono lavori difficili: non possono essere svolti per troppo tempo. Bisogna sbloccare le assunzioni e dopo un certo numero di anni prevedere il passaggio dalle carceri ad altre funzioni".
Per i sindacati siamo in una situazione di emergenza
La Finanziaria non è solo un insieme arido di cifre e conti che non tornano quasi mai. È sempre più sangue, pelle, vita degli italiani. Gli ultimi dieci giorni di dicembre, mentre milioni di persone si preoccupavano di aver acquistato tutti i regali giusti e preparato le pietanze adatte per pranzi e cenoni, quattro persone della polizia penitenziaria si sono uccise: un commissario, un sovrintendente e due agenti. Quattro in dieci giorni e ben assortiti come cariche, a lasciar intendere che il malessere - se di malessere si tratta - è diffuso a tutti i livelli. E che il malessere - se di malessere si tratta - è ormai arrivato alla soglia di guardia. In media i suicidi fra gli uomini della polizia penitenziaria sono di circa due l’anno: quella della fine del 2007 è una brusca un’impennata: a volerla considerare secondo i freddi parametri statistici è un aumento del 200% o qualcosa di simile. I secondini sono i secondini, sono quelli che picchiano i detenuti, abusano delle carcerate, una categoria per nulla amata dall’immaginario collettivo. La realtà è diversa. Sono persone che guadagnano 1200 euro al mese nette, sulla carta hanno almeno sei detenuti a testa di cui occuparsi, in pratica molti di più tra turni, ferie, malattie del personale. A Ferrara, per esempio, dove hanno protestato di recente, sono in 180 su un organico di 232: il 28% in meno, il che significa che invece di sei ore al giorno si finisca per lavorare anche 10 ore. A Viterbo sono in 358 e dovrebbero essere almeno 390. Sono i dipendenti con il più alto tasso di pensionamento da malattie depressive dell’intera amministrazione pubblica, con percentuali che arrivano al 30%, mi spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe, uno dei sindacati di categoria. Sono carcerati come e anche di più dei detenuti veri. Quasi tutti meridionali, subito dopo l’assegnazione del posto vengono spediti nelle carceri del nord. Lontani dalla famiglia, vivono nelle stanze delle caserme, sottoponendosi a turni massacranti per mettere insieme tre o quattro giorni al mese e tornare nella loro terra, senza mai riuscire a stringere amicizie. Sono persone che non hanno grandi prospettive di trasferimento perché per essere trasferiti è necessario avere qualcuno che li sostituisce e nella pubblica amministrazione era in vigore il blocco delle assunzioni. Ecco, allora, che cosa c’entra la Finanziaria. Se nelle misure per il 2007 era presente un taglio di 70 milioni di euro negli stanziamenti per il settore, e se erano previste assunzioni per tutti gli ausiliari delle forze di polizia tranne per gli agenti penitenziari, qualcosa questo significa sul sangue, la pelle, la vita di chi lavora nelle carceri. E se anche nella Finanziaria del prossimo anno si prosegue tagliando altri 60 miliardi, è chiaro che le prospettive non sono rosee. Quest’anno la Finanziaria ha cancellato in parte il blocco delle assunzioni. È prevista una spesa fino a 80 milioni di euro per far entrare nuove persone anche nella polizia penitenziaria. Il problema è che le assunzioni sono legate al potenziamento delle attività di accertamento, ispettive e di contrasto alle frodi, di soccorso pubblico, di ispettorato e di controllo. C’entreranno qualcosa quelli che lavorano nelle carceri? Probabilmente no, ed ecco che il malessere - se di malessere si tratta - cresce e qualcuno finisce anche per decidere di farla finita.
Emergenza carceri: intervento di Alessio Saso (An)
"I tragici fatti accaduti negli ultimi giorni in alcuni istituti penitenziari del Paese, tra cui Imperia, dimostrano che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza sulla quale c’è l’assoluta necessità di intervenire con urgenza". Lo ha detto il Consigliere Regionale di An, Alessio Saso. "Peraltro - prosegue Saso - raccogliendo le sollecitazioni del Sappe, Organizzazione Sindacale della Polizia Penitenziaria, già dai primi di novembre ho chiesto, con una interpellanza, l’intervento della Regione, sottolineando come l’emergenza immigrazione in Liguria, con il 20 % di presenze in più di stranieri rappresenti anche un’emergenza carceraria. Al 30 settembre scorso i detenuti stranieri nelle carceri liguri erano complessivamente circa 700 a fronte di una popolazione carceraria totale di circa 1150 persone e che la percentuale di detenuti stranieri ad Imperia risulta essere del 65%, del 64% nel carcere genovese di Pontedecimo, del 62% alla Spezia, del 61% a Savona, del 57% nel carcere di Marassi, del 55% in quello di Sanremo e del 32% in quello di Chiavari. Tali elevate percentuali di detenuti stranieri, per le quali tristemente primeggia Imperia, determinano, inevitabilmente, non pochi problemi di convivenza all’interno delle strutture carcerarie. È, infatti, ancor più difficile, in un contesto restrittivo, controllare soggetti provenienti da Paesi con culture e tradizioni totalmente diverse e molto lontane dalle nostre, con il rischio, anche di ingenerare situazioni difficilmente controllabili dagli stessi Operatori di Polizia Penitenziaria, molto spesso sotto organico rispetto alle reali necessità o quando costretti a fronteggiare situazioni addirittura esplosive. L’immigrazione onesta e lavoratrice è sicuramente la benvenuta, ma i delinquenti comunitari ed extracomunitari devono essere espulsi e devono scontare la pena a casa loro. È, inoltre, altrettanto necessario, anche alla luce di questi tragici gesti estremi, che la Regione solleciti un intervento urgente degli Organi Competenti, affinché vengano assicurati agli Operatori di Polizia Penitenziaria condizioni lavorative più adeguate ed un supporto psicologico indispensabile per far fronte al disagio professionale sicuramente usurante sul piano umano e mentale". Cosenza: comune acceleri su nascita Garante dei detenuti
Apcom, 3 gennaio 2008
Il Comune di Cosenza istituisca la figura del Garante dei detenuti. È la sollecitazione che il senatore del Pd, Franco Bruno, ha inviato, con una lettera aperta, al sindaco del capoluogo calabrese, Salvatore Perugini. Richiamandosi a una visita effettuata dal primo cittadino di Cosenza nel carcere della città, Bruno scrive: "Caro Salvatore, ho appreso dalla stampa della tua recente visita ai detenuti del carcere di Cosenza. Ho anche avuto modo di leggere la lettera che ti è stata consegnata. Sappiamo entrambi che fin dal voto sull’indulto ci siamo posti, anche a Cosenza, il problema del reinserimento sociale e delle condizioni delle carceri. Siamo in linea con un’impostazione culturale che sta tutta dentro il centrosinistra. Sta - prosegue Bruno - con la visione del carcere come luogo dove si pagano anche colpe legate al disagio che attraversa la nostra società "spesso legati a problemi di lavoro e di emarginazione sociale", come hanno ricordato i detenuti cosentini, e stiamo dentro una visione che testimonia la sofferenza e il limite della città dell’uomo". Per questo, osserva Bruno ‘occuparsi dei carcerati è un obbligo indifferibile per chi si richiama all’ispirazione cristiana. In tale contesto abbiamo avviato la discussione sulla figura del "Garante dei diritti dei detenuti’ da te richiamata nell’ultimo dell’anno. Sappiamo bene che, purtroppo, la funzione non è prevista nell’attuale Statuto comunale". "Ma su questo argomento - annota Bruno - possiamo attendere i tempi della politica e delle istituzioni? O meglio, dopo una discussione iniziata già da un anno, non è preferibile adottare una soluzione alternativa, magari temporanea, che avvii un percorso più stringente ed efficace? Per come la vedo io, in questa direzione nessuno avrà niente da eccepire ad un provvedimento di Giunta che istituzionalizzi l’ufficio del Garante, oppure assegnare una delega specifica a qualche Assessore o ancora nominare una personalità esterna alle dirette dipendenze del Sindaco". "Insomma - conclude Bruno - in attesa della revisione dello Statuto, e per sopperire all’inerzie che si sono registrate sull’argomento, credo sia giunto proprio il tempo di agire e produrre azioni amministrative utili". Larino: studenti-detenuti incontrano Fioroni e Napolitano
Comunicato stampa, 3 gennaio 2008
In occasione della Cerimonia di presentazione del "Quaderno della Costituzione" per celebrare il 60° anniversario della Costituzione, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e del ministro Fioroni sono stati ricevuti due studenti detenuti dell’Itis "E. Majorana" (Termoli - CB) presso la Casa Circondariale di Larino (CB). Alla cerimonia erano presenti il Direttore della Casa Circondariale di Larino Dott.ssa Rosa La Ginestra, il Comandante Dr. Luigi Ardini, gli agenti di scorta e la prof.ssa Italia Martusciello che ha coordinato il progetto di approfondimento sulla Costituzione dal titolo "Noi siamo di robusta… Costituzione!". Andrea G. ha commentato "Dopo tanti anni di detenzione non credo ancora ai miei occhi e non potrò mai dimenticare la stretta di mano del Presidente Napolitano". Francesco C. "Questo evento ci deve spronare tutti ad impegnarci sempre di più nello studio, perché la cultura è potere e rappresenta una grossa chiave per il nostro futuro riscatto sociale". Ecco la motivazione del percorso di approfondimento sulla Costituzione dal titolo "Noi siamo di robusta… Costituzione!": Viene segnalato il lavoro operante presso l’istituto di reclusione, non solo per l’ originalità dei contenuti e delle modalità espressive, ma anche per taluni interessanti spunti di riflessione sulla fondamentale funzione della Costituzione. Gli elaborati non mancano di umorismo e anche di una gradevole autoironia. Un ringraziamento particolare va all’insegnante Italia Martusciello che ha sostenuto l’iniziativa con gli allievi, stimolato il loro impegno e la loro creatività, raggiungendo così lo scopo principale del concorso che era quello di promuovere, nei giovani, studi e approfondimenti sulla Costituzione.
Italia Martusciello Alessandria: detenuto giordano si laurea in informatica
Comunicato stampa, 3 gennaio 2008
Per il Politecnico Abderrahim El Mountaj è il quarto detenuto laureato all’interno delle mura del carcere di San Michele. La sua tesi in informatica l’ha discussa sabato mattina davanti a una commissione d’esame soddisfatta e un pubblico attento di studenti "ristretti" e di volontari. C’erano anche gli altri redattori del giornale "Altrove", il periodico della casa di reclusione per il quale Abderrahim scrive e cura alcuna rubriche. Una laurea in carcere non è cosa da tutti i giorni, e lo sanno bene gli insegnanti che di questi studenti "speciali" apprezzano la dedizione e la volontà. La commissione esaminatrice, che ha premiato la tesi e il corso di laurea del detenuto marocchino con una votazione di 110, era composta dai professori Attilio Giordana, Giuseppe Dellacasa, Lorenza Saitta, Fabio Gastaldi, Daniele Theseider Dupré e Lavinia Egidi. "Un risultato ampiamente meritato - ha detto il professor Giordana motivando il voto ottenuto - che ha permesso alla Facoltà di Scienze di acquisire un software che verrà installato sul nostro sistema informativo e che servirà agli studenti e agli insegnanti per gestire l’orario delle lezioni". Abderrahim El Monuntaj era emozionatissimo mentre spiegava ai docenti il prodotto software da lui concepito, e ancora di più mentre stringeva loro la mano tra gli applausi del pubblico. Altri due detenuti hanno discusso la loro tesi alcuni mesi fa, sempre con successo. "I risultati conseguiti dai detenuti - ha commentato con convinzione Giordana - sono decisamente difficili da ritrovare tra i nostri studenti esterni. La loro determinazione, aiutata da una concentrazione che aiuta a mantenere la sanità mentale in condizioni così difficili, è veramente encomiabile. La nostra attività accademica in carcere è iniziata nel 1999, quando non avevamo ancora una struttura e ci vedevamo in parlatorio, e quando avevamo a che fare con amministrazioni carcerarie che mal sopportavano questa attività. Dobbiamo poi un particolare ringraziamento all’ex direttore amministrativo, Fragapane, che si è assunto la responsabilità di iscrivere il nostro laureando nonostante le contraddizioni della legge, che trattiene sul suolo un cittadino straniero ma non gli concede il permesso di soggiorno". Ora la Facoltà di scienze può contare, senza aver sborsato nulla, su un nuovo sofisticato software ideato da uno studente.
La redazione di "Altrove" Immigrazione: la doppia strategia per gli allontanamenti di Elena Simonetti
Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2008
Espulsioni immediate per i cittadini Ue che abbiano attentato alla sicurezza dello stato e reclusione fino a tre anni per chi viola il provvedimento di allontanamento motivato dalla decadenza del permesso di soggiorno. La stretta varata dal Governo con il decreto legge di fine anno sulle norme in materia di sicurezza immigrazione riguarda anche i cittadini comunitari direttamente interessati da alcune novità contenute in un altro provvedimento approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Si tratta dello schema di decreto legislativo che modifica le disposizioni sulla libera circolazione delle persone nel territorio dell’Unione (decreto legislativo 30/06), tra l’altro, allo scopo di rendere più celeri ed efficaci le misure di espulsione decise dai prefetti anche in base alle nuove disposizioni d’urgenza previste dal Dl per ragioni imperative di pubblica sicurezza e di terrorismo. I due provvedimenti viaggiano, infatti, in parallelo anche se con diverse velocità. Le correzioni in materia di libera circolazione negli stati membri entreranno in vigore solo dopo che il testo messo a punto dai dicasteri delle Politiche europee e dall’Interno avrà acquisito il parere delle commissioni parlamentari. La bozza inasprisce le misure adottate nei confronti di chi rappresenti una minaccia attuale e concreta per l’ordine e la sicurezza pubblica anche nell’ipotesi in cui il provvedimento riguardi familiari extra-comunitari. L’allontanamento potrà ora essere deciso direttamente dal prefetto del luogo di dimora o residenza dell’interessato, mentre il Viminale dovrà essere consultato solo nel caso in cui l’espulsione sia dovuta a motivi legati alla sicurezza dello Stato. In quest’ultima ipotesi sarà il questore a rendere esecutiva l’espulsione che verrà convalidata nelle successive 48 ore dal giudice di pace (con possibilità di ricorrere al Tar del Lazio). Se l’espulsione non è immediata, invece, il termine entro cui bisogna tassativamente lasciare il territorio non potrà essere inferiore a un mese dalla data della notifica dell’atto ma nei casi di "comprovata urgenza" sarà facoltà del prefetto ridurlo a dieci giorni. Nel provvedimento di espulsione (impugnabile entro 20 giorni presso il tribunale ordinario) sarà indicata anche la durata del divieto di reingresso. Quest’ultimo non potrà essere superiore a dieci anni se l’allontanamento è stato deciso per motivi di sicurezza dello Stato e a 5 anni nelle altre ipotesi. L’interessato potrà chiederne la revoca solo dopo che sia trascorsa almeno la metà della durata del divieto e comunque non prima dei tre anni a patto che si dimostri che le circostanze che hanno condotto all’espulsione non siano "oggettivamente" cambiate. Giro di vite anche nei confronti di abbia lasciato scadere il permesso di soggiorno e per questa ragione sia stato allontanato in modo formale. In buona sostanza i cittadini comunitari con le carte non in regola saranno trattati come quelli provenienti da Paesi extra Ue. Chi viola le misure di allontanamento si espone infatti all’espulsione immediata e alla pena della reclusione fino a tre anni. Per evitare guai sarà necessario inoltrare alla questura una dichiarazione di presenza, tradotta nelle varie lingue, secondo modalità che verranno indicate dal ministro dell’interno con un apposito decreto entro un mese dall’entrata in vigore della legge. Per poter restare non sarà tuttavia più sufficiente dimostrare di essere in possesso di risorse economiche sufficienti, ma occorrerà provare che esse derivino da "fonti lecite e dimostrabili". Per i rimpatri sono stati stanziati 10,4 milioni di euro, circa il 16% in meno rispetto al 2006 quando vennero espulsi 22.770 cittadini, il 36,2% dei quali rumeni e bulgari. Droghe: i Servizi vanno in vacanza, e così si muore… di Paola Vuolo
Il Messaggero, 3 gennaio 2008
Cinque morti per overdose in quattro giorni. La droga killer continua a fare le sue vittime: gira una partita di eroina purissima, e i carabinieri controllano a tappeto i canali che forniscono lo stupefacente al mercato romano. "L’aumento del numero dei morti per droga è la drammatica realtà dei giorni di festa, ma anche di una domenica odi un sabato qualsiasi dell’anno, Perché i tossicodipendenti sono considerati vuoto a perdere e lo Stato non si preoccupa davvero di loro". È amareggiato Massimo Barra, presidente della Croce Rossa e responsabile di Villa Maraini, dove solo nel giorno di Capodanno hanno chiesto aiuto 300 tossicodipendenti. "L’eroina che in questi giorni sta seminandola morte - dice Barra - è droga purissima, ed è possibile che le persone che l’hanno assunta l’abbiano presa da uno spacciatore diverso da quello abituale. A Roma ci sono persone 30.000 eroinomani, ma ai politici non importa davvero di loro. Gli operatori del privato sociale non hanno preso lo stipendio da mesi. Gli interventi non sono strutturali ma si va avanti solo per prorogale. I tossicodipendenti e chi si occupa di loro sono gli ultimi nell’agenda dei politici. Questo vale per ogni tipo di maggioranza, che sia di destra o di sinistra. E una situazione ormai strutturale. È impossibile per esempio trovare un servizio aperto la domenica pomeriggio o d’estate, oppure un servizio che funzioni 12 ore. A Villa Maraini si lavora notte e giorno, eppure non sono ancora arrivati gli stipendi dalla Asl Rm D. I Sert fanno orari limitati all’orario del personale e i tossicodipendenti vengono a Villa Maraini per la dose di metadone. Parliamo di quattro soldi, costa 5 curo farmaco compreso, ma non arrivano i soldi nemmeno per questo. La regione non paga e di questo problema non si preoccupa neppure il ministero della Giustizia. Chi parla di droga non si rende conto della realtà. I politici parlano demagogicamente ma poi sono incapaci di fare funzionare i servizi. Più che in altri periodi dell’anno, gli operatori del privato sociale e i tossicodipendenti durante le feste sono lasciati soli, e le morti sono un’espressione di queste politiche. E davvero una situazione pazzesca, che come purtroppo abbiamo visto, diventa ancora più pesante nei periodi festivi, quando gli operatori ne per sperimentare quelle che vengono chiamate le cosiddette stanze del buco, che hanno l’obiettivo di ridurre i rischi sanitari per i tossicodipendenti". E Giulio Manfredi, della giunta della segreteria dei Radicali Italiani, a proposito della proposta di Paolo Cento dice: "Il sottosegretario Paolo Cento ha rilanciato, anche per Roma, la proposta di istituire una narco-sala, sarebbe opportuno che Cento, oltre a far comunicati, scrivesse una lettera al riguardo ai suoi colleghi di governo Livia Turco e Paolo Ferrero. Magari avrebbe più fortuna dei promotori della narco-sala torinese, che hanno scritto ad entrambi i ministri ed attendono ancora la risposta. Devo anche ricordare che nove anni fa predisposi un esposto in cui denunciavo l’inattuazione, continuata e quindi aggravata, delle disposizioni di legge sui giorni ed orari di apertura dei Sert. "La diffusione della droga killer pone la città in uno stato di emergenza sociale e sanitaria", afferma il segretario dei socialisti romani Atlantide Di Tommaso: "Bisogna garantire, immediatamente, ai tossicodipendenti un uso controllato e garantito di eroina con la somministrazione pubblica presso i Sert per evitare sicuri nuovi decessi". Un provvedimento terapeutico già applicato in altri paesi europei". Samuele Piccolo, membro della Commissione scuola e consigliere di An dice: "L’ennesima strage di giovani deceduti per colpa degli stupefacenti dimostra quanto erano fondati i miei allarmi sul pericolo stupefacenti nella capitale e quanto fosse necessaria un’opera di informazione capillare da iniziare nelle scuole e nei luoghi frequentati dai più giovani, come discoteche e pub". Droghe: Piobbichi (Prc); è emergenza, Prodi cambi legge
Dire, 3 dicembre 2007
"Purtroppo in questi giorni dobbiamo segnalare un’escalation di morti da overdose, Perugia, San Benedetto del Tronto, Roma, 8 decessi avvenuti a distanza di pochi giorni che hanno coinvolto tossicodipendenti". A lanciare l’allarme è Francesco Piobbichi, responsabile delle politiche sociali del Prc. "L’aumento esponenziale dell’offerta della sostanza proveniente dall’enorme produzione afgana - aggiunge Piobbichi - è un fattore di rischio che associato ad una legge che clandestinizza i consumatori, ed a servizi sempre più precari contribuisce ad elevare il rischio di mortalità da overdose". Per l’esponente del Prc "Prodi deve mantenere gli impegni presi in campagna elettorale, occorre al più presto intervenire in sede legislativa- dice- per dare al nostro paese una legge in grado di offrire risposte adeguate sul fenomeno delle dipendenze come nel resto d’Europa". Iran: il nuovo anno viene salutato con... 13 impiccagioni
Ansa, 3 dicembre 2007
Si apre la botola: tredici tonfi sordi, tredici corpi in preda agli spasmi, poi il silenzio. Così l’Iran di Mahumud Ahmadinejad ha voluto salutare l’arrivo del 2008. Tredici impiccagioni di detenuti nell’anno in cui, praticamente in gran parte del mondo, si è messa al bando la pena capitale. Il codice legislativo iraniano non lascia scampo. Si è passibili di soppressione se si è commesso uno dei seguenti atti: omicidio, adulterio, stupro, rapporti omosessuali, ripetute pratiche non sessuali ma erotiche tra uomini, bacio con lussuria in pubblico reiterato almeno quattro volte, reati di prostituzione, reati di droga, reati riconducibili alla pornografia, blasfemia, apostasia all’Islam, contrabbando ripetuto d’alcol, rapina a mano armata, terrorismo e teppismo. Le vittime possono essere anche giovanissime. Nonostante un decreto nazionale del 2004 che vieta espressamente l’esecuzione di minori, il codice penale prevede la possibilità di giustiziare i maschi sopra i quindici anni e le femmine sopra i nove. All’alba di Mercoledì 2 Gennaio il boia ha iniziato la sua carneficina: 8 vittime nel carcere di Evin a Teheran, tre in piazza a Qom, e due nel penitenziario di Zahedan, nel sud-est del Paese. Vittima di questa barbarie anche una giovane donna madre di due figli. Raheleh, 27 anni, è stata appesa perché nel 2005 con una spranga uccise il marito colto in fragranza d’adulterio facendolo poi a pezzi. La magistratura aveva concesso una proroga dell’esecuzione per permettere ai familiari del marito assassinato di concedere il perdono. Il perdono però non è mai arrivato e il boia è tornato ad uccidere. Usa: poliziotto uccide un detenuto fuggito dall'ospedale
Apcom, 3 dicembre 2007
Kelvin Poke, il detenuto condannato all’ergastolo che era fuggito questa mattina dall’ospedale di Laurel, in Maryland, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dopo una colluttazione con un agente della polizia della contea di Prince George che era riuscito a interromperne la fuga in auto. Come riportato dall’emittente televisiva Cnn, l’uomo, dopo avere sottratto l’arma a una delle guardie, aveva esploso alcuni colpi, forse per liberarsi dalle manette. Scappato, aveva sparato al conducente di un’auto, che non ha riportato ferite gravi, e gli ha rubato la vettura, a bordo della quale si era dato alla fuga. Secondo quanto ha reso noto il locale dipartimento di polizia, Poke, che era detenuto presso il Jessup Correctional Institution, è stato fermato poco prima delle 15.30 (le 21.30 in Italia) a bordo di una Ford Explorer, sulla quale viaggiava accompagnato da una donna, forse rapita dal detenuto. Arabia Saudita: è nato il carcere "anti-Guantanamo" di Cecilia Zecchinelli
Corriere della Sera, 3 dicembre 2007
Chissà se Yousef Al Ramah pensava che sarebbe finita così. Addestrato nei campi afghani di Al Qaeda, combattente in Iraq nel nome di Allah, arrestato dagli americani a Falluja nel 2004, consegnato alle autorità di Riad. Poi, anziché finire sepolto in qualche prigione (o giustiziato), la sua destinazione è stato l’allora nuovissimo Centro di Riabilitazione "Care". Una struttura nel deserto a un’ora dalla capitale saudita, più simile a un campus universitario che a un carcere di massima sicurezza: al posto di gabbie grandi spazi comuni all’aperto, invece dell’isolamento forzato una socialità invogliata, nessun interrogatorio sfibrante ma ore di lezioni dall’arte all’Islam, e molto sport, ping pong soprattutto. Gli ospiti, tutti (ex) terroristi. L’obiettivo: convincerli - con le buone - che hanno sbagliato. L’anti-Guantanamo, come tutti la chiamano, è l’insolito tentativo di Re Abdullah di sostituire repressione e punizione (normali anche in questa parte del mondo) con la persuasione. E Al Ramah, uno dei primi a finire nel centro, sembra sia stato in effetti persuaso. Diplomatosi in informatica durante la detenzione a "Care", ne è uscito, si è sposato, ha avuto due figli. E giurato "che mai e poi mai tornerà alla jihad". A convincerlo, sostengono nel centro diretto da Sheikh Ahmed Hamid Jelan, un giudice del ministero degli Affari religiosi, sono state soprattutto le lezioni di Islam politicamente corretto. Le ore di corsi (obbligatori) a cui i jihadisti devono sottoporsi per capire che seguire il Corano e l’esempio del Profeta non significa guerra all’infedele ovunque e comunque. In Afghanistan, ai tempi dell’invasione sovietica, andava bene. Riad aveva sponsorizzato con gli Usa la jihad contro i comunisti. Dopo l’11 settembre, tutto è cambiato anche nel Regno wahhabita. Anche perché i seguaci di Osama, da allora, hanno sulla coscienza 144 vittime in Arabia Saudita. Molte di più in Iraq. Non è solo Al Ramah ad essersi riabilitato, tornando in libertà. Come lui 700 ex mujaheddin. Altri (la possibilità è offerta a tutti, solo il 20% la rifiutano) stanno completando il corso: come Ahmed Al Shayea, che sognava di diventare un kamikaze, a soli 19 anni ha tentato di farsi esplodere davanti all’Ambasciata giordana di Bagdad. Ha ucciso 9 iracheni, è rimasto mutilato. Ma vivo. Ed è finito anche lui a seguire le lezioni di Islam, arte creativa, giardinaggio, a parlare con psicologi e teo-logi, a giocare a ping pong. Ha già dichiarato di aver capito come le sue idee fossero sbagliate ("Internet mi ha stregato, i fanatici mi hanno fatto uccidere innocenti, chiedo scusa a tutti, anche agli americani). Con lui molti sauditi "restituiti" all’Arabia da Guantanamo, quella vera. Il piano di Riad non si ferma al centro nel deserto. Quando escono, gli ex jihadisti sono sostenuti con un salario mensile di 700 dollari, aiutati a trovare lavoro. E a sposarsi, nella convinzione che moglie e figli siano il deterrente più forte. Il ricco Regno contribuisce così alle spese per il matrimonio, fino a 20 mila dollari. A molti regala anche un’auto. "Voglio essere anch’io un terrorista saudita pentito", si legge così, ad esempio, nel blog di un ragazzo giordano, Nasim Tarawanah. Che dichiara di guadagnare come molti suoi connazionali ben meno di quei 700 dollari al mese. E ricorda come in Giordania agli (ex) jihadisti siano riservate "botte e impiccagioni", non Pepsi Cola e buone parole. E su alcuni siti apertamente anti-Islam si leg-gono parole ancora più dure: "Massacrano cristiani ed ebrei - scrive Lisa Richard su Islam Watch - poi vengono coccolati e pagati in quel centro un po’ Spa, un po’ Alcolisti Anonimi. Che carino, uccidi e poi ti fai curare". Ma re Abdullah è convinto. Il programma va avanti.
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