|
Giustizia: nelle carceri dell’Ue ci sono oltre 600mila detenuti di Davide Madeddu
L’Unità, 25 febbraio 2008
Tutti in prigione o quasi. Poco importa poi se gli spazi sono pochi e magari ristretti. Il numero dei detenuti che scontano una pena o attendono un processo dietro le sbarre continua a crescere. Non solo in Italia ma anche negli altri paesi che fanno parte dell’Unione europea. Che ci si trovi in Italia o in Gran Bretagna o in altri centri europei poco importa. Il numero dei detenuti, che scontano pene definitive o sono in attesa di giudizio, ha superato il mezzo milione di unità. I dati elaborati dall’Epsu, il sindacato internazionale che si occupa dei problemi legati al mondo penitenziario cui aderisce anche la Cgil, parlano di 600mila persone detenute in Europa. Una popolazione che, a leggere i dati elaborati dai sindacati fa registrare un sovraffollamento nella maggior parte delle prigioni d’Europa, dall’Italia alla Francia, dal Belgio alla Gran Bretagna. I dati, elaborati dalle organizzazioni sindacali che si occupano di carceri nei diversi stati europei, parlano di una crescita della popolazione carceraria europea di circa il 25 per cento. "La maggioranza delle carceri nell’Ue si trova ad affrontare un problema di sovraffollamento con una media di oltre il 25% in più dei detenuti per cui è stata progettata - si legge nel documento dell’Espu-. Ciò significa un peso massiccio sulla salute e sicurezza del personale e dei detenuti, come pure sui sistemi operativi e di sicurezza". Il sindacato internazionale, che per il 28 febbraio 2008 (in occasione del Consiglio Ministri Ue Affari interni e di giustizia) ha convocato una manifestazione di protesta a Bruxelles non si ferma qui. "Il sovraffollamento riguarda il diritto umano fondamentale di una buona parte dei 300.000 lavoratori penitenziari a lavorare in un ambiente sicuro. Questo è in contrasto con le regole penitenziarie del Consiglio d’Europa prigione che riconoscono il diritto dei detenuti alla dignità umana e della privacy. La cronica riduzione del personale in molte carceri è un’altra questione collegata alla questione della prevenzione per un’adeguata sorveglianza e la riabilitazione dei prigionieri". Situazioni insostenibili per le organizzazioni sindacali che hanno deciso di promuovere altre iniziative di sensibilizzazione. Per questo motivo, oltre alla manifestazione che si svolgerà a Bruxelles sono in programma altre iniziative nelle capitali europee. A Roma, nella sala stampa della Camera dei Deputati Fabrizio Rossetti, responsabile Funzione pubblica della Cgil, Patrizio Gonnella presidente di Antigone e Mauro Palma presidente del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa presenteranno l’iniziativa "Un’Europa sociale, non l’Europa delle prigioni" promossa dalla Funzione Pubblica della Cgil, dall’Associazione Antigone. "Si tratta di un appuntamento importante - spiegano i promotori- in cui saranno illustrati anche gli ultimi dati sulla presenza di detenuti nelle carceri d’Italia". Dati che, a sentire sindacati e volontari segnano una crescita di detenuti dietro le sbarre. "È proprio partendo da questi dati - spiegano - che si deve partire per trovare una soluzione al problema del sovraffollamento una volta per tutte". Ossia intervenendo con "il miglioramento delle condizioni di vita e aumentando gli investimenti nella prevenzione e nel recupero". Giustizia: a Bruxelles, contro l'affollamento carcerario nell’Ue
Comunicato stampa, 25 febbraio 2008
Il prossimo 28 febbraio si svolgerà a Bruxelles, davanti all’edificio Justus Lipsius sede del Consiglio dei Ministri, una manifestazione di protesta nel motto del "No al sovraffollamento delle carceri". La Fsesp (Federazione Sindacale Europea dei Servizi Pubblici) ha quindi riunito per il 28 p.v. oltre 400 delegati del settore penitenziario di tutta Europa per protestare contro il sovraffollamento dei detenuti ed in particolare per rivendicare che venga garantito il miglioramento dello condizioni di lavoro all’interno dei penitenziari. Anche per meglio comprendere lo spirito dell’iniziativa si allega il documento fornitoci dall’Ufficio Internazionale della Cisl Funzione Pubblica che, opportunamente tradotto in lingua italiana, riporta integralmente la delibera del Comitato Esecutivo della Fsesp. Il Coordinamento Nazionale Cisl Fp Penitenziario parteciperà all’iniziativa di Bruxelles ed altresì realizzerà a Roma una iniziativa di alto profilo politico, contestualmente allo svolgimento della manifestazione europea del 28 febbraio. I contenuti e le modalità di svolgimento dell’iniziativa che realizzeremo in Italia saranno rese note il prima possibile. Invitiamo tutte le Strutture della Cisl ad impegnarsi per la massima divulgazione delle iniziative, specialmente tra tutto il personale impegnato negli Istituti Penitenziari Italiani.
Il Coordinatore Nazionale, Marco Mammuccari
Cosa può fare la Fsesp?
Sensibilizzare sul programma congiunto in materia di servizi penitenziari e sull’elaborazione di norme europee in materia di formazione ed etica, attraverso: L’uso delle reti della Fsesp già esistenti, (come ad esempio quelle dell’amministrazione nazionale, dei servizi sociali e sanitari), i coordinatori nazionali della campagna "Servizi pubblici di qualità - qualità di vita", la contrattazione collettiva, e seminari di formazione sulla sindacalizzazione dei lavoratori; Il dialogo sociale europeo a livello settoriale e intersettoriale (ad esempio la contrattazione in materia di lotta contro la violenza sul luogo di lavoro); L’uso e l’arricchimento di contenuti della pagina web della rete dei servizi penitenziari della Fsesp e dell’Etui-Rehs (Istituto Sindacale Europeo per la Ricerca, la Formazione, la Salute e la Sicurezza), attraverso la pubblicazione dei rapporti sui seminari, lavori di ricerca, dichiarazioni di principi, notizie di attualità, la lista dei contatti della rete della Fsesp, esempi di buone pratiche(come le norme etiche di reclusione dei Paesi nordici, i programmi di reinserimento dei detenuti nel Regno Unito e nella Repubblica Ceca); La pubblicazione dei risultati delle discussioni in seno alle organizzazioni sindacali nazionali; La realizzazione di attività sindacali di carattere bilaterale e transfrontaliero, e la comunicazione di dati alla Fsesp (ad esempio, la convocazione di una riunione tra i sindacati cechi, austriaci e tedeschi, o tra Rcn e Poa-Scotland nel Regno Unito); L’organizzazione di attività di sensibilizzazione, come ad esempio una Giornata di azione europea per i servizi penitenziari (denunciandone il sovraffollamento ed evidenziando il bisogno di migliorare il servizio); La promozione del rispetto delle norme sui sistemi penitenziari emanate dal Consiglio d’Europa. Contestare i presunti aspetti positivi della privatizzazione e della liberalizzazione su scala europea e nazionale, attraverso: La ricerca di elementi concreti sugli effetti negativi e sulle strategie aziendali nei confronti delle autorità pubbliche, principalmente attraverso la pubblicazione Prison Privatisation Report International (www.psiru.orq/justice), al fine di organizzare riunioni su temi specifici; L’instaurazione di criteri di valutazione di qualità; La realizzazione di campagne a favore dell’esclusione dei servizi penitenziari dalle regole europee sulla concorrenza. Organizzare entro il 2009 una riunione della rete dei servizi penitenziari della Fsesp. Nel corso del secondo semestre del 2008, si provvederà a valutare l’applicazione del piano di azione. Monitoraggio. La Fsesp invierà il resoconto della riunione ai partecipanti, assieme alla lista dei partecipanti e al questionario sul tasso di sindacalizzazione. Presenterà inoltre il rapporto e sottoporrà il piano di azione all’approvazione dei Comitati permanenti HSS (Sanità e servizi sociali) e Nea (Amministrazione statale), rispettivamente il 27 marzo e il 16 aprile 2007, e del Comitato esecutivo il 4 giugno 2007.
Principali rivendicazioni della Fsesp
Miglioramento delle condizioni di lavoro del personale penitenziario
Riduzione del numero di detenuti e aumento delle risorse da destinare alla prevenzione e alla riabilitazione sociale di ex detenuti; Miglioramento dei livelli di sicurezza e salute (fisica e mentale); Adeguamento del numero di detenuti per agente, in base al lavoro da svolgere, vale a dire almeno un agente per detenuto, e aumento delle equipe psico-sociali; Promozione della formazione iniziale e professionale, apprendimento lungo tutto l’arco della vita e formazione alla prevenzione e gestione dei conflitti (capacità di sdrammatizzare e rappacificare); Non discriminazione sul posto di lavoro e pari opportunità tra donne e uomini del personale penitenziario; Durata massima dell’orario di lavoro (compresi i periodi di reperibilità); Una più chiara definizione delle responsabilità della direzione; Situazione della funzione pubblica, quadro condiviso delle condizioni di occupazione; Aumento di opportunità di mobilità professionale e sociale; Pieno esercizio dei diritti sindacali.
Miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti
Riduzione del numero di detenuti e aumento delle risorse da destinare alla prevenzione dei reati e alla riabilitazione sociale degli ex detenuti; Risorse sufficienti per rispondere adeguatamente ai bisogni elementari (cibo, igiene, sicurezza e vicinanza alla famiglia e agli amici); Diritto alla formazione e all’istruzione, ad un ambiente sano e a svolgere attività favorevoli al reinserimento sociale; Privacy: celle individuali e pulite; Prevenzione del suicidio; Diritto ad un salario dignitoso; Libertà di espressione e diritto a creare dei "consigli" di detenuti in carcere.
Miglioramento dei sistemi di giustizia penale
Determinati aspetti problematici delle condizioni di vita e di lavoro all’interno dei servizi penitenziari impongono il miglioramento e la riforma dei sistemi di giustizia penale; Allocazione di risorse adeguate per le misure alternative alla detenzione; Riduzione dei periodi di detenzione preventiva; Misure specifiche per giovani delinquenti; Indipendenza degli organismi di controllo penitenziario (con la consultazione dei sindacati dei sistemi penitenziari); Valutazione dei risultati raggiunti dai centri penitenziari pubblici e privati in termini di tasso di recidiva, di reinserimento sociale e condizioni di vita e di lavoro; Convergenza degli obiettivi delle diverse Amministrazioni penitenziarie e coerenza delle diverse politiche sociali, economiche, interne e della giustizia che incidono sui regimi penitenziari. Giustizia: pronto il Decreto, la cura dei detenuti passa alle Asl
Italia Oggi, 25 febbraio 2008
I Ministeri Giustizia e Salute hanno messo a punto il Dpcm che attua la Finanziaria 2008. Trasferiti al Ssn i medici dipendenti e le strutture sanitarie. Le prossime elezioni non impediranno il passaggio della Medicina Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale. È stata infatti approntata dai ministeri interessati (Giustizia e Salute) la bozza del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri concernente le modalità e i criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria. Il testo dovrà ora essere visionato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, prima di essere firmato dal Capo del Governo. Dal momento di entrata in vigore del Decreto verranno trasferite alle Regioni tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal dipartimento della giustizia minorile, comprese tra le altre cose quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche sia per i tossicodipendenti sia per i minori affetti da disturbi psichici. L’art. 3 della bozza di decreto prevede che siano trasferiti tutti i rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato relativi all’esercizio delle funzioni sanitarie svolte nell’ambito del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e di quello della giustizia minorile alle aziende sanitarie del Servizio sanitario nazionale nei cui territori sono ubicati gli istituti penitenziari e i servizi minorili di riferimento, secondo modalità concertate con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. L’art. 4 disciplina il trasferimento delle attrezzature, degli arredi e dei beni strumentali di proprietà del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del dipartimento della giustizia minorile del ministero della giustizia alle aziende sanitarie locali in base alle competenze territoriali. I locali adibiti all’esercizio delle funzioni sanitarie, inclusi quelli già utilizzati gratuitamente dalle aziende sanitarie per attività connesse alle patologie da dipendenza e per la custodia attenuata dei tossicodipendenti, verranno messi a disposizione a titolo gratuito delle aziende sanitarie del Servizio sanitario nazionale nel cui territorio sono ubicati gli istituti penitenziari di riferimento. L’art. 5 trasferisce alle regioni le funzioni sanitarie afferenti agli ospedali psichiatrici giudiziari ubicati nel territorio delle medesime, trasferendo contestualmente attrezzature, arredi e beni strumentali alle aziende sanitarie locali territorialmente competenti. Quanto alle risorse finanziarie, l’art. 6 trasferisce al Fondo Sanitario Nazionale 157,8 milioni di euro per l’anno 2008, 162,8 milioni per l’anno 2009 e 167,8 milioni di euro a decorrere dall’anno 2010. L’art. 7 prevede poi che entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome, vengano definite le forme di collaborazione relative alle funzioni della sicurezza e siano regolati i rapporti di collaborazione tra l’ordinamento sanitario e l’ordinamento penitenziario, anche in materia di patologie da dipendenza. Ovviamente si tratterà successivamente di monitorare il buon funzionamento della gestione della sanità in capo alle regioni. Un ruolo lo dovranno avere i garanti regionali delle persone private della libertà. Ma il decreto ha già suscitato polemiche. Con un documento di fuoco l’Amapi, l’associazione che raggruppa i medici carcerari, scrive ai ministri Scotti e Turco chiedendo garanzie sul mantenimento del loro posto di lavoro e preannunciando iniziative di piazza. Sotto accusa la riforma che prevede il passaggio di medici e infermieri penitenziari alle Asl territoriali con la possibilità che se prima erano i medici ad andare nei penitenziari per visitare i detenuti ammalati, ora saranno i detenuti malati ad andare negli ospedali. Giustizia: da marzo una "rivoluzione sanitaria" nelle carceri di Davide Madeddu
L’Unità, 25 febbraio 2008
Da marzo parte la rivoluzione sanitaria nelle carceri d’Italia. Ossia la gestione della sanità all’interno degli edifici di pena passa dal ministero della Giustizia a quello della Salute e alle regioni. Un provvedimento "importante" che, come ha spiegato a gennaio il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi modificherà il sistema sanitario nelle carceri. Che tradotto vuol dire una cosa. Da marzo le Asl assumeranno la responsabilità diretta della tutela della salute dei detenuti e quindi entro il 31 marzo passeranno loro i rapporti di lavoro e i beni relativi all’assistenza sanitaria fino ad oggi del Ministero della Giustizia. Un cambiamento definito dallo stesso sottosegretario storico perché dà il via libera all’apertura de carcere "al altre amministrazioni pubbliche e ad altre professionalità secondo un principio di corresponsabilità nella esecuzione penale al quale da tempo stiamo indirizzando l’azione di governo". Il passaggio di competenze, e di risorse non è che il primo passo di un percorso che dovrebbe modificare l’intero sistema penitenziario. Fabrizio Rossetti, responsabile carceri per la funzione pubblica della Cgil parla di "risultato straordinario, il più importante degli ultimi dieci anni" perché, a suo parere "si cambia finalmente un sistema". In che modo? "Innanzitutto si ha il trasferimento delle risorse e del personale dal ministero della Giustizia a quello della salute prima e alle regioni e quindi alle Asl poi". In pratica succede che: "i medici che operano all’interno delle carceri non dovranno più render conto del loro operato ai responsabili della struttura detentiva ma dovranno occuparsi solamente del caso specifico del paziente". Fa anche un esempio il sindacalista che da anni si occupa di problemi legati al mondo carcerario. "Se il medico in servizio in un piccolo carcere ritiene che un certo detenuto debba essere mandato in ospedale per accertamenti, della sua decisione non deve render conto all’organizzazione della struttura, ma dispone subito il trasferimento e basta". Non solo, il trasferimento di competenze prevede anche lo spostamento delle risorse dal ministero della Giustizia a quello della Salute. "La finanziaria prevede che per la sanità dietro le sbarre vengano spesi, da quest’anno 160 milioni di euro, sessanta dei quali per il personale e cento per l’assistenza. Un dato - continua ancora Rossetti - che non può essere trascurato". L’avvio della riforma ha anche un’altra faccia. "Gli operatori sanitari intervengono all’interno delle carceri in una condizione di parità rispetto agli altri e non più si subalternità perché, per la prima volta si pone come primo obiettivo la tutela e la salvaguardia della salute dei detenuti". Giustizia: Di Pietro con Veltroni… ma è un’ipoteca giustizialista di Angelo Panebianco
Il Corriere della Sera, 25 febbraio 2008
Dopo l’iniziale sconcerto di alcuni e qualche protesta, è calato il silenzio sulla scelta di Walter Veltroni di allearsi con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro (che mantiene il proprio simbolo a differenza dei radicali), facendo così un’eccezione rispetto alla regola dello "andare da soli". Eppure quella decisione può essere foriera di rilevanti conseguenze sui rapporti fra la futura maggioranza (quale che essa sia) e la futura opposizione. Da quel che si è capito, la mossa di Veltroni è giustificata dalla volontà di "coprirsi" rispetto agli umori antipolitici che circolano nell’opinione pubblica. Non pare però che ci sia stata una attenta riflessione sui prezzi politici da pagare. Da molti, e giustamente, è stata apprezzata, del segretario del Pd, la volontà, più volte affermata, di farla finita con l’eterna guerra civile italiana, di scegliere una competizione con il centrodestra non più fondata sulla demonizzazione dell’avversario. Quel nuovo stile e il nuovo clima politico che, ha contribuito a suscitare hanno anche reso possibile ai leader dei due schieramenti (Veltroni e Berlusconi) di parlarsi fra loro con linguaggi nuovi. E fanno ben sperare, in linea di principio, anche per le future relazioni fra maggioranza e opposizione. Ma l’alleanza del Partito Democratico con l’Italia dei Valori mette a rischio tutto ciò. Di Pietro rappresenta l’antipolitica nella variante giudiziario - giustizialista. I suoi elettori tutto possono volere meno che la fine della guerra civile italiana. D’altra parte, nemmeno era ancora stato siglato l’accordo che già Di Pietro chiariva a tutti il senso della sua presenza politica proponendo, in pratica, l’esproprio proletario di alcune reti televisive. Come si concilieranno, nel prossimo Parlamento, lo stile nuovo e quella presenza? Ma c’è di più. Non ci sarà mai nessuna possibilità di chiudere l’eterna transizione italiana se non interverrà un accordo bipartisan sulla giustizia. Ma Veltroni si è messo in casa una forza che lavorerà strenuamente (e giustamente, dal suo punto di vista, essendo quello il mandato che avrà ricevuto dagli elettori) perché un accordo del genere non possa essere siglato. Sarà difficile rimettere ordine, in modo consensuale, nel sistema giudiziario italiano. E continueranno le solite invasioni di campo (l’ultima in ordine di tempo, con il caso Mastella, ha dato il colpo di grazia al governo Prodi). L’Italia dei Valori, una piccola formazione che, in queste faccende, è in grado di trovare il sostegno esterno di un vasto esercito giustizialista, sarà lì, vigile, pronta a méttere veti. Prendiamo il caso delle intercettazioni che sono non solo una delle armi più avvelenate della politica italiana ma anche una spia evidente degli sviluppi patologici del nostro sistema giudiziario. Riportare la giustizia alla normalità significa anche mettere regole e paletti, e cioè limiti, all’uso che i magistrati possono fare di uno strumento così delicato, che comporta l’intrusione nella sfera privata dei cittadini. Significa mettere la parola fine alle inchieste-mostro fondate sulle intercettazioni selvagge, "di massa" (intercetto mezzo mondo: alla fine qualcosa salterà pur fuori). Ne abbiamo viste fin troppe di inchieste del genere: grande fracasso, tante reputazioni fatte a pezzi, e poi, quasi sempre, una volta giunti in tribunale, tutto finisce in niente. Non è solo una questione di uso politico-mediatico delle intercettazioni. È, prima ancora, una questione di rispetto delle libertà individuali. Ed è un problema di responsabilizzazione che sempre deve accompagnare e limitare il (grande) potere di chi fa inchieste giudiziarie. Per dimostrare di non essere condizionato dai giustizialisti alla Di Pietro, Veltroni ha dichiarato di voler limitare l’uso mediatico delle intercettazioni. Lodevole proposito. Peccato che ad esso si sia accompagnata, forse in volontariamente, l’affermazione, di sapore un po’ giustizialista, secondo cui i magistrati, a patto che ciò non finisca sui giornali, possono utilizzare le intercettazioni come, dove e quando vogliono. Ma ciò non è consentito ai magistrati senza che vi siano dei limiti nei regimi politici che rispettano davvero i diritti individuali di libertà. È difficile credere che l’alleanza del Partito democratico con Di Pietro non finirà per incidere negativamente sulla futura politica di quel partito. Giustizia: pedofili; 1.322 in carcere, 98 donne e 400 stranieri
Il Padova, 25 febbraio 2008
Il mondo dei pedofili dietro le sbarre: in Italia 3 carceri speciali La maggior parte vive in isolamento nei reparti "protetti", ma esistono piccole strutture dedicate. In Campania, Sardegna e Friuli: ecco come vivono e chi sono i detenuti che si sono macchiati di crimini sessuali Poche attività sociali e mancanza di figure specializzate per i "sex offenders" nelle Guantanamo nostrane. Il violentatore di Agrigento è uscito dal carcere dopo meno di un anno. Idem ad Aosta: il professore indagato per pedopornografia è tornato ad insegnare a scuola. Gli orchi sono tra noi, e spesso la certezza della pena è un optional. Ma quelli che finiscono dentro sono in aree "protette", padiglioni a parte dove si vive quasi in isolamento. Nessun contatto con gli altri reclusi, niente corsi di formazione o vita sociale. È il mondo parallelo di chi in carcere è finito per un reato ignobile. Sono i pedofili, o più in generale chi si è macchiato di reati di violenza sessuale, finiti in quelle celle perché incapaci di controllare pulsioni e azioni. In Italia sono principalmente tre gli istituti penitenziari destinati ad accogliere in maggioranza i "sex offender", ovvero detenuti condannati per reati sessuali, tra cui appunto chi è accusato di pedofilia. A Vallo della Lucania in provincia di Salerno, ad esempio, in paese tutti conoscono quello che chiamano il carcere "dei pedofili". In quelle otto celle trascorrono il loro tempo, scontando la pena. Qui i 50 detenuti, quasi tutti provenienti da ambienti disagiati, seguono i corsi di scolarizzazione, ma i colloqui sono davvero pochi così come le ore dedicate dall’unica psicologa della struttura. Nel Triveneto, fino al 2005, toccava alla casa circondariale di Rovereto ospitare solo violentatori e "orchi" che oggi vengono destinati alle sezioni protette di Padova, Verona e soprattutto Pordenone, dove rappresentano il 50% degli ospiti: oltre ai pedofili, anche collaboratori di giustizia e ex forze dell’ordine. Sulla collina di Lanusei, in Sardegna, il piccolo carcere dal 1998 ospita sex offender. Nell’ex convento settecentesco dei frati, trasformato con grate e porte blindate, i detenuti si dividono in nove celle. Le giornate per i 35 "ospiti" scorrono lente e la doccia, due volte la settimana, è all’aperto in cortile con qualsiasi temperatura. "Molti sono accusati di pedofilia - spiega il comandante Claudio Melis, in servizio presso l’istituto da oltre otto anni -. Nell’80% dei casi il reato è commesso in famiglia e sta aumentando il numero di indagati anziani, di età superiore ai 60 anni. Attualmente ospitiamo perfino un 82 enne e un insegnante, e, in passato, anche un prete. Servirebbe un trattamento psicologico continuo, ma lo psicologo c’è solo per poche ore a settimana e l’ultima selezione per educatori, bandita due anni fa, è ancora in corso". Il 70% ammette la propria colpa, mentre in pochi negano di aver commesso abusi sui minori. Oltre a questi istituti "speciali" esistono diversi reparti attrezzati negli istituti di pena di tutte le regioni italiane. Nel Lazio ne esistono quattro: Frosinone, Civitavecchia, Rebibbia e Viterbo. "Sono le sezioni degli infami, con i locali più fatiscenti, senza biblioteca e poche attività sociali e terapeutiche - dice l’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio - per loro non c’è nessuna programmazione nazionale, lì vengono semplicemente abbandonati".
I dati del Ministero
Più di mille i detenuti nelle carceri italiane accusati di reati di pedofilia, abusi e violenza sessuale su minori. Nello specifico, sono soprattutto uomini italiani la maggioranza dei reclusi (824), seguono i pedofili stranieri (400) e 98 donne di cui 45 di nazionalità italiana e 53 straniera. La regione che ospita nei suoi istituti di pena il maggior numero di accusati e condannati è la Lombardia. Segue Sicilia (204), Piemonte (145), Lazio (112) e Campania (106). Solo tre detenuti invece in Trentino Alto Adige. Sulla posizione giuridica 289 sono in attesa di giudizio, 129 sono appellanti, 71 ricorrenti, 819 sono stati condannati definitivamente e 14 sono internati. Per quanto riguarda l’età il picco si registra tra le persone nella fascia tra i 30 e i 39 anni (323), con un numero elevato anche tra i 40 e i 49 anni (321) e di giovani (262 tra i 21-29 anni).
L’articolo 609 nonies del Codice penale
È all’interno della legge 66 del 15 febbraio 1996 e riguarda le "pene accessorie ed altri effetti penali". In caso di abuso, prevede la perdita della potestà del genitore, l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, la perdita del diritto agli alimenti e l’esclusione dalla successione della persona offesa.
Curare i maniaci è l’unica strada
"Combattere la pedofilia si può. Basterebbe cominciare a modificare l’articolo 609 nonies che ancora non riconosce come una persona malata chi abusa di un minore". Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori è stufo di continuare ad aggiornare la lista, lunghissima, delle vittime innocenti di abusi e violenza. Pochi giorni fa, all’ ennesima notizia di un pedofilo arrestato ma lasciato di nuovo libero di stuprare una bambina, aveva invitato a restituire la tessera elettorale al Presidente della Repubblica. "Un gesto nato da un moto di rabbia - chiarisce - Ma se il governo che verrà entro sei mesi non si deciderà ad affrontare la questione in maniera seria, scenderemo noi in campo con un movimento politico". Le richieste, in pratica, sono semplici: cura obbligatoria per i soggetti deviati, sia essa di tipo farmacologico (ovvero la castrazione chimica) o di tipo psicoterapeutico, l’allontanamento di tali persone dai luoghi frequentati dai bambini e una banca informatica nazionale con i nomi dei pedofili passati in giudicato o in attesa di giudizio accessibile a tutti gli organi di polizia . Fino ad ora, infatti, i pedofili, una volta in carcere non partecipano a dei programmi terapeutici mirati che permetterebbero almeno di "limitare i danni" una volta scontata la pena. Secondo l’associazione Antigone, che si occupa di monitorare le condizioni nelle carceri italiane, in alcuni istituti penitenziari sono stati promossi delle iniziative ad hoc per i detenuti per reati sessuali come a Biella, dove da alcuni anni è in corso il progetto "Azzurro" che prevede una metodologia incentrata sull’autobiografia ed i giochi di ruolo, o nella casa circondariale di Prato dove è attivo il programma "For Wolf". "Meglio recuperare che castrare" è invece il commento di Leo Beneduci, segretario dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp). "Sarebbe più comodo. Invece serve conoscenza e prevenzione".
Nel mondo
Le ricette di Francia, Gran Bretagna e Ue per contrastare un fenomeno in costante crescita. Castrazione e liste di mostri. "Così noi salviamo i bambini". Giro di vite dei governi su chi abusa e sfrutta i bambini innocenti. Il caso del partito dei pedofili. C’è chi come Nicolas Sarkozy promette "ospedali chiusi" dove castrare chimicamente i pedofili, altri, come ha annunciato il governo inglese, che permetteranno ai genitori di verificare che baby-sitter ed insegnanti non abbiano precedenti per crimini sessuali, ed infine i parlamentari europei che hanno avviato una raccolta firme per mobilitare l’Ue contro il fenomeno crescente della pedofilia via internet. Le ricette antimaniaci fanno discutere tutto il mondo, che si interroga su come combattere contro orchi e mostri per salvare i propri bambini. In Francia il presidente ha presentato, solo pochi mesi fa, la sua battaglia contro la pedofilia in pieno "stile sarkozista". A chi chiedeva maggiori garanzie per le vittime innocenti non ha esitato a parlare di cure mediche e a evocare la castrazione chimica, dettando in maniera chiara le sue nuove misure contro chi abusa dei minori. In primo luogo, per i condannati non sarà possibile alcun sconto di pena, e, alla fine della loro detenzione, i pedofili, se ritenuti ancora pericolosi, dovranno andare in un "ospedale chiuso" per farsi curare. Quelli che lo vorranno, verranno sottoposti a un trattamento ormonale, ossia alla castrazione chimica. Il primo ospedale per pedofili dovrebbe aprire a Lione nel 2009. Il giro di vite contro chi tocca i più indifesi ha portato anche il governo inglese a prendere dei seri provvedimenti. In quattro contee della Gran Bretagna, proprio in questi giorni, è partita una sperimentazione che consentirà ai genitori di verificare con la polizia se le baby-sitter o altri adulti che entrino in contatto con i bambini, come insegnanti o vicini di casa, abbiano precedenti per crimini sessuali. Un metodo contestato per il rischio di violazione della privacy, ma che permetterebbe alle famiglie di non temere per i propri piccoli. Anche negli Usa la questione castrazione sta sollevando numerose polemiche, nonostante la maggior parte della popolazione sia comunque a favore di tale metodo, mentre in Europa il business dei siti pedo-pornografici ha raggiunto un mercato si aggira su prezzi davvero astronomici che vanno dai 500 dollari a film e gli 80 dollari a foto. Per debellare un mercato così lucroso, i parlamentari europei, con un’iniziativa bipartisan, hanno lanciato una raccolta firme per chiedere una regolamentazione unica a livello Ue che impedisca la diffusione dei siti pedofili. Un modo per "colmare il vuoto e il silenzio a livello europeo". E proprio nel cuore del Vecchio Continente ha destato immenso scalpore la nascita, solo due anni fa, del cosiddetto "partito dei pedofili" organizzato in Olanda. Ora i programmi la liberalizzazione della pornografia infantile e i rapporti sessuali fra adulti e bambini. L’aberrazione umana in questi casi non ha davvero limiti. Giustizia: Pecorella (FI); i pedofili vanno liberati solo se guariti di Stefano Zurlo
Il Giornale, 25 febbraio 2008
Pecorella: "Centri di detenzione per curare chi ha commesso crimini orrendi ed è ancora pericoloso". Fa discutere la norma voluta da Sarkozy. Espiare la pena non basterà più per tornare nella società. Sarà necessario un trattamento medico-psicologico. Tornano in libertà, a volte dopo pochi anni di carcere, ma non sono guariti. Anzi, sono pericolosi come e più di prima. Pedofili, violentatori, malati di mente. Perfino assassini. La Francia corre ai ripari e fra polemiche e limitazioni vara la legge che introduce, per questi soggetti, la carcerazione di sicurezza in strutture protette. In Italia il dibattito è più ondivago perché da noi è già un’impresa, fra lungaggini e cavilli, arrivare alla pena e dunque il caso del pedofilo che torna a colpire - vedi Agrigento nei giorni scorsi - si mescola con quello di chi ha scontato la pena e rientra, come una mina vagante, nella società. "Ma il tema - spiega Gaetano Pecorella, penalista, deputato di FI ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera - non può essere eluso. Tutta l’Europa si sta muovendo su questa linea: non solo la Francia, ma anche la Germania, il Belgio, la Svizzera che per certi reati stabilisce la pena minima ma non quella massima".
In Italia, avvocato Pecorella? "È curioso. La legge voluta da Sarkozy, anzi dalla Guardasigilli Rachida Dati, non inventa nulla. Nel nostro codice, già dall’Ottocento, sono presentì le misure di sicurezza. Ecco: le misure di sicurezza affrontano il tema della pericolosità di un individuo che termina il suo periodo di detenzione ma non è a posto perché ha disturbi di mente, perché alcolizzato o perché in balia di impulsi sessuali irrefrenabili".
Dunque, abbiamo una soluzione a portata di mano? "Un attimo. Le misure di sicurezza hanno fatto il loro tempo, vengono applicate poco, soprattutto con le patologie psichiatriche, e non tutelano la società".
Come rimediare? "Con una risposta flessibile. Prendiamo il caso più odioso, quello del pedofilo. Un pedofilo può stare in galera dieci anni, ma poi siamo al punto di prima. E quando torna a casa spesso ricomincia col vizio".
E allora? "Appunto dobbiamo pensare ad un ventaglio, caso per caso, di soluzioni possibili. Una sorta di detenzione non in galera ma in centri socio-medio-giudiziari, come quelli appena istituiti in Francia. Oppure un adeguato trattamento psicologico ad oltranza in ospedale, o ancora, se il problema è fisico, quella che volgarmente si chiama castrazione chimica".
D’accordo, ma per quanto tempo? "Interventi di questo spessore hanno bisogno di strutture, medici, personale specializzato. Saranno questi tecnici, a valutare, di volta in volta, l’avvenuta guarigione, o comunque il venir meno della pericolosità di quel soggetto".
Scusi, ma così non viene meno il fine rieducativo della pena? "La pena guarda al passato, la pericolosità si confronta col futuro. In sostanza: io posso aver capito che violentare un bambino sia una mostruosità. Solo che poi, quando vedo un ragazzino, lo desidero sessualmente. Sono stato rieducato, ma non sono guarito. E questo lo Stato non può tollerarlo".
Così non si condannano alcune persone ad un ergastolo strisciante? Non si va verso il fine pena mai, magari non dichiarato? "La nostra cronaca nera conosce pagine terribili, dal mostro di Foligno a Ferdinando Carretta. Li rimettiamo tranquillamente in libertà e incrociamo le dita? O ci preoccupiamo di curare o almeno arginare seriamente le patologie che li hanno spinti verso il crimine? Naturalmente, questo sistema funziona se prima è stata scontata la pena. Ma se ci vogliono otto, dieci anni per arrivare alla condanna definitiva, allora tutto il discorso cade ancor prima di cominciare".
La legge francese
La legge arti crimine appena approvata dal Parlamento francese prevede la creazione di centri "socio-medico-giudiziari" dove internare i criminali "pericolosi". Insomma, chi ha scontato la pena ma rappresenta ancora un pericolo per la società. La misura dovrebbe applicarsi a tutti i condannati ad almeno 15 anni per gravi crimini (omicidio, violenza sessuale, tortura). La detenzione in questi centri di sicurezza, strutture ben distinte dalle carceri, dovrebbe durare almeno un anno, ma naturalmente con la possibilità di essere allungata senza limiti di tempo. In sostanza, l’ex detenuto rientra nella società quando non costituisce più un pericolo. In Francia la nuova norma è passata fra polemiche furiose: secondo i critici in questo modo si introduce di fatto l’ergastolo per persone che dovrebbero essere libere. Inoltre la Corte Costituzionale ha detto che la legge non sarà retroattiva. Giustizia: a Bolzaneto detenuti costretti ad abbaiare come cani
Il Secolo XIX, 25 febbraio 2008
Nell’aula-bunker del tribunale di Genova è incominciata (e si protrarrà per altre quattro udienze) la seconda parte della requisitoria dei pubblici ministeri Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello al processo per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Gli imputati sono 45, tra medici e personale (di vario grado) di polizia Penitenziaria, di Stato e carabinieri. I Pm hanno elencato le vessazioni subite dagli arrestati, che sarebbero stati costretti a stare in piedi per ore o a fare la posizione "del cigno" e "della ballerina", ad abbaiare come cani per poi essere insultati con minacce di tipo politico e sessuale; molti avrebbero ricevuto schiaffi a mano aperta e colpi alla nuca, soprattutto quando venivano portati a due a due nelle celle di destinazione. La presenza di più forze dell’ordine avrebbe comportato due perquisizioni: una nell’atrio e un’altra nell’infermeria; perquisizioni che, secondo i Pm, provocarono ai detenuti ulteriore stress, in aggiunta a quello causato dall’arresto. I Pm hanno descritto altre vessazioni, come lo strappo di piercing anche dalle parti intime, l’obbligo per alcune ragazze di rimanere nude e girare su se stesse o in tondo, subendo "commenti brutali" da parte di agenti, presenti anche in infermeria: "L’infermeria - ha denunciato il Pm Miniati - che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza, è diventata un luogo di ulteriore vessazione". Giustizia: D’Elia dovrà chiedere la grazia alla "Corte del Loft"? di Sergio Segio
Liberazione, 25 febbraio 2008
Tira una brutta aria. Aria di inquisizione sulla libera scelta delle donne in materia di maternità, che si vorrebbe revocare; aria di tortura mascherata da terapia, come quell’elettroshock, che ciclicamente si propone di ripristinare; aria di esclusione a vita, oltre ogni limite e al di fuori di qualsiasi garanzia, in un gioioso tintinnare di manette. Come nella Francia di Sarkozy, dove per i reati gravi verrà introdotta una nuova misura: dopo aver scontata la condanna in prigione, se giudici e psicologi ipotizzeranno un rischio di recidiva, il dimesso dal carcere entrerà direttamente in un apposito centro, vale a dire in un’altra galera, dove potrà essere trattenuto a vita. Un ritorno a Lombroso, a una pena di morte diluita e non dichiarata. Il provvedimento è stato sostenuto dal premier francese con l’argomentazione "non si pensa abbastanza alle vittime". Anche da noi si ripete insistentemente, a destra e a manca, la stessa cosa. Ma qui l’ergastolo bianco non ha neppure avuto bisogno di passaggi parlamentari. Viene applicato e basta. Uno dei condannati a questa pena non scritta si chiama Sergio D’Elia. Contro una sua eventuale candidatura alle prossime elezioni i vertici del Pd hanno posto un espresso veto, in spregio alle stesse regole che quel neonato partito si era dato e contro ogni regola giuridica e principio costituzionale. D’Elia,
militante di Prima linea negli anni Settanta, nonostante sia abbia scontato per
intero la condanna ricevuta e sia giuridicamente "riabilitato",
nonostante sia da decenni impegnato per promuovere una cultura della
nonviolenza, non potrà dunque ricandidarsi. Nel consiglio nazionale dei
radicali, tuttora in corso, ha commentato con un’amara battuta: "Visto
che Si è detto che i drammatici errori della lotta armata non vengono azzerati semplicemente scontando la condanna; richiedono un di più di discrezione e di ritegno e l’accesso a incarichi parlamentari può ferire sentimenti ed essere percepito come immeritato privilegio. Un argomento che meriterebbe magari non consenso ma certo considerazione. Se non fosse per un particolare: il medesimo linciaggio è toccato e tocca a chiunque altro degli "ex terroristi", dissociato o meno che sia, abbia la sventura di essere oggetto di articoli di stampa e proteste, prontamente alimentate e cavalcate da qualche esponente politico in cerca di visibilità, che si fa scudo dei sentimenti dei parenti delle vittime. Sono recenti i casi di Susanna Ronconi, che si vorrebbe impossibilitare a lavorare anche nel Terzo settore, di Renato Cucio cui si vorrebbe impedire ogni apparizione pubblica, dell’ex brigatista rosso Vittorio Antonini, ora impegnato sui temi carcerari, o dell’ex ordinovista nero Pierluigi Concutelli e – mi si consenta – del sottoscritto, frequentemente oggetto di inviti alla gogna e alla costrizione al silenzio da salotti televisivi o dalle colonne di autorevoli quotidiani. Il combinato disposto tra malafede di molti opinionisti, disinformazione della pubblica opinione sollecitata a interessate rimozioni (a partire dalle responsabilità istituzionali nella strategia della tensione) e "doppiopesismo" nella considerazione delle vittime, e una più generale cultura intollerante ormai saldamente insediata a livello politico e sociale, ha prodotto questa situazione in cui prevale una irragionevole persecuzione e una cultura della gogna. Tanto che ci è creata una vera e propria black list, una lista di proscrizione periodicamente pubblicizzata sulle colonne dei giornali e rimbalzata da blog e siti internet in cui finisce chi non accetti la morte civile, non sia riuscito a farsi dimenticare o anche, semplicemente, abbia la sventura di essere preso di mira per qualsivoglia circostanza. Alla solidarietà fraterna per Sergio D’Elia, vorrei aggiungere un appello rivolto a quella composita sinistra (comunista, democratica, ecologista, pacifista, socialista, liberale e libertaria) che afferma di voler competere con il partito di Veltroni (dove su questa questione regna assordante un prudente, e pavido, silenzio): oltre a tanti temi economici, sociali e ambientali, in questi anni è rimasto progressivamente orfano il tema dei diritti civili, dello stato di diritto e della democrazia "mite" e includente. La persecuzione nei confronti degli "ex terroristi" non è altro che la cartina di tornasole di un più complessivo problema: quello di una idea di società claustrofobica e intollerante che ha preso saldamente piede nella Seconda Repubblica. Per contrastarla servono anche gesti simbolici e controcorrente, tanto più in un periodo elettorale segnato dall’equivalenza dei programmi e delle maggiori forze politiche. Si apra dunque la porta che il Pd ha chiuso, si rendano ospitali le liste a ex terroristi e ex detenuti. Si favoriscano candidature di tossici, immigrati, operai, precari, dei tanti paria e invisibili che questa "Italia dei valori" e questa politica delle apparenze, verticale e autoritaria, sta producendo. Come ha scritto di recente Gustavo Zagrebelsky: "Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo". Giustizia: Radicali; lettera ai detenuti sul caso di Sergio D’Elia
Lettera alla Redazione, 25 febbraio 2008
Cari cittadini detenuti, cari amici, il veto posto da molti partiti politici alla candidatura di quanti hanno subito condanne penali, anche dopo che hanno scontato la pena, anche dopo che sono stati riabilitati, e in particolare il veto dei vertici del Pd alla candidatura di Sergio D’Elia - e per altro verso la "conventio ad escludendum" nei confronti di Marco Pannella - riguarda tutti noi, ma soprattutto tutti voi. Riguarda la possibilità stessa di poter sperare, in questo Paese, nell’affermazione dei principi dello Stato di Diritto e della civiltà giuridica e dà la misura del degrado morale e civile di una classe politica che si ammanta di moralismo ipocrita per accattare qualche voto in più. Chi decide di negare ai cittadini che hanno scontato la loro pena detentiva il diritto al pieno reinserimento nella vita civile e politica, agisce contro la Costituzione e contro la legge e dovrebbe essere perseguito tanto per questa decisione quanto per il suo presupposto razzista, per cui chi delinque e si fa la galera resta comunque e sempre "un delinquente" e dunque tutti costituiscono, collettivamente, una "razza di delinquenti", cioè delinquenti per sempre. A destra e a sinistra ci sono partiti candidati a governare il nostro Paese che menano vanto perché i loro Statuti, o le loro Carte così dette "dei valori", contengono disposizioni discriminatorie di tal fatta, e che dovrebbero piuttosto essere dichiarati illegali e annullati. Giustamente Sergio D’Elia rifiuta di essere trattato come "un caso", e rivendica il suo diritto di essere preso in considerazione come una persona, con la sua storia e la sua evoluzione individuale, rifiutando di restare inchiodato per sempre a ciò che ha fatto in un limitato periodo della sua vita. Non chiedono forse anche i cittadini detenuti di essere considerati e trattati ciascuno come una persona, garantita nel suo percorso educativo, aiutata nel suo processo evolutivo individuale, considerata per il possibile apporto immediato che può dare alla vita civile reale attraverso lo studio, il lavoro, l’affettività, l’espressione intellettuale e artistica, la pratica non violenta nei rapporti con gli altri, la riscoperta della giustizia e del diritto basati sul rispetto della legge e delle regole di convivenza ? Non è forse una fondamentale rivendicazione dei cittadini detenuti il non dover subire in carcere processi di totale spersonalizzazione, di negazione della propria dignità umana e civile, di costrizione nelle logiche malavitose e di contrapposizione violenta? Oggi il carcere è ancora questo in molte realtà, e chi raggiunge uno stadio di maturazione personale e di emancipazione dal proprio passato, ottiene questo a prezzo di sforzi sovrumani e in condizioni disumane, "nonostante" il carcere e non certo grazie alle striminzite opportunità che gli vengono offerte dalla detenzione. Per quanto riguarda Sergio D’Elia, la sua storia rappresenta per tutti voi la prova che il passaggio dall’inferno carcerario lascia intatte per ciascuno le possibilità di totale riscatto e vi incoraggia a non mollare e ad intraprendere con determinazione le lotte di giustizia che ognuno immagina nel profondo di sé. La storia di Sergio D’Elia poteva essere scelta e presentata come promessa e garanzia di rispetto profondo della dignità della persona in uno Stato di Diritto. Non è stato così. Come iscritto all’Associazione Radicale Satyagraha e al Detenuto Ignoto, come membro di Radicali senza fissa dimora e del Comitato nazionale di Radicali Italiani, mi permetto di suggerire ai 50.851 cittadini detenuti al 21 febbraio 2008, tranne a chi è malato, di fare la meno gravosa delle azioni nonviolente: un giorno di sciopero del carrello, per comunicare ai partiti politici che saranno presenti alle prossime elezioni, che neanche voi, come i radicali, accettate nei confronti di Sergio D’Elia una discriminazione che, se ha potuto colpire il principale artefice della moratoria universale sulla pena di morte, sarà tanto più grave nei vostri confronti. Con la vostra azione nonviolenta, potrete dire a tutti che avete riconosciuto nella storia di Sergio una possibilità e una speranza per il seguito della vostra storia, che siete consapevoli di essere sempre in tempo per trovare e per esprimere in pieno ciò che conta per voi, e che non smetterete mai di rivendicare il fondamentale diritto umano a ricercare il senso della vostra esistenza - dentro o fuori dal carcere - e che per questo continuerete a rivendicare dentro e fuori dal carcere, il diritto al rispetto della vostra dignità.
Lucio Bertè, Comitato Nazionale di Radicali Italiani Giustizia: se il carcere è solo scuola specializzata del crimine di Ester Isaja
Gazzetta del Sud, 25 febbraio 2008
"Il pubblico non sa abbastanza, bisogna vederle certe carceri italiane, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere, questo è il punto essenziale!". Ecco quello che diceva il grande giurista Calamandrei nel 1948 al tempo in cui era membro della Camera dei deputati ed esortava il Parlamento a compiere una seria indagine sull’universo carcerario e a squarciare il velo d’ignoranza che copriva inesorabilmente la condizione dei detenuti. In verità, sul tema delle carceri oggi non si indugia più di tanto. È un argomento che induce il più delle volte a cambiare discorso e, se se ne parla, è unicamente nel dibattito politico solo con riferimento a problemi legati al sovraffollamento o all’edilizia penitenziaria. E ciò, perché il carcere rappresenta nei paesi occidentali industrializzati uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana, come autorevoli studiosi hanno sostenuto evidenziando la necessità di una radicale trasformazione secondo modelli esistenti (quale quello del carcere di Tihar a Nuova Delhi c.d. modello della colomba). L’intenzione di riabilitare, riformare, risocializzare si rivela qui da noi solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno delle carceri è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare giustizia. E non c’è da meravigliarsi se il carcere finisce con l’avere un effetto criminogeno e diventa una sorta di scuola specializzata del crimine. Né c’è da meravigliarsi se al momento in cui il detenuto fisicamente e psicologicamente segnato, privo di lavoro e di affetti viene finalmente liberato, si innesca con estrema facilità il meccanismo della porta girevole, così ben illustrato dalle statistiche sulla recidiva e dalla recente esperienza italiana dell’indulto. La società viene percepita all’interno del carcere come avente un ruolo ostile, negativo (la c.d. cultura dell’avvoltoio) e non esiste logica di reintegrazione del detenuto ma solo di esclusione. La distanza burocratica e fisica tra noi e la prigione rende in verità indifferenti ai detenuti e alla loro vita e ai politici va detto che non saranno certo celle più ampie o più pulite a risolvere il problema. In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve esser messo sotto accusa, ove sveli il suo volto primitivo, quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione. Nessuna riparazione dei torti subiti dai detenuti è ipotizzabile, ed è possibile solo immaginare provvedimenti giudiziari o legislativi che mettano fine a questi continui torti, nonché l’istituzione capillare su tutto il territorio della figura del Garante dei detenuti al momento istituita solo dai Comuni più rappresentativi. Le carceri continuano a essere la palese dimostrazione del fallimento dell’idea di risocializzazione. Perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una loro radicale trasformazione. Bologna: Desi Bruno; soltanto 44 borse-lavoro su 850 detenuti di Monica Caboi
http://lastefani.it, 25 febbraio 2008
I dati 2007, resi noti da Desi Bruno, Garante per i diritti delle persone private della libertà, evidenziano una situazione difficile per quanti sperano in un reinserimento sociale: solo 44 borse lavoro su 850 detenuti. E i tirocini formativi non bastano a vincere il pregiudizio delle aziende che dovrebbero assumere. Dell’articolo 27 della Costituzione, che sancisce "il fine rieducativo della pena", l’unica cosa che porti con te, una volta uscito dal carcere, è un kit di pronto intervento. Uno zainetto di tela con la pianta della città, una guida dove mangiare, dormire, lavarsi, dei buoni pasto, una scheda telefonica e se lo richiedi, un biglietto per tornare a casa. Sempre che tu abbia ancora un posto dove andare. Il kit delle 48/72 ore è il simbolo del fallimento delle politiche per il reinserimento sociale degli ex-detenuti. A Bologna, su una popolazione carceraria di 850 persone, solo 44, negli ultimi tre mesi, hanno usufruito delle 86 borse lavoro stanziate dal Comune. I dati del 2007, raccolti nell’ultimo rapporto della Garante per i diritti delle persone private della libertà, l’avvocato Desi Bruno, lamentano proprio una "carenza di opportunità lavorative". Ad oggi, nel carcere della Dozza sono 137 i detenuti impiegati in lavori domestici, e la cifra non sale di molto se si parla di progetti di formazione: 52 partecipano a quelli di aiuto giardiniere, pasticciere-panettiere e tecniche di decorazione muraria; 48 sono, invece, gli iscritti ai corsi di alfabetizzazione informatica. Eppure alla Dozza le iniziative non mancano. Progetti ammirevoli, che però trovano difficoltà ad avere uno sbocco sul mercato. Un esempio emblematico è quello della tipografia che, nonostante sia ben avviata, impiega solo 3 detenuti dato che gli unici committenti sono le Istituzioni. La serra, invece, che cerca di decollare con l’aiuto di Coldiretti e Agricoop, destinando una parte della produzione alle erbe aromatiche e l’altra alla coltivazione degli ortaggi, paga la limitatezza degli spazi a disposizione. Numerosi anche gli esempi d’imprenditoria sociale, rappresentati da corsi di formazione sull’energia alternativa e un laboratorio di sartoria dedicato alle donne. Differente il caso, di un innovativo progetto di smaltimento dei rifiuti elettronici, finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Nonostante l’esiguità dei detenuti impiegati - solo 3 - avrebbe il vantaggio di fornire un servizio che, in città, ancora nessuno offre. Pierpaolo Bergamini, che per conto della cooperativa It2 gestisce il laboratorio di riciclo, sostiene "sono soddisfatto dei risultati ottenuti, ma fra tre mesi la sperimentazione sarà conclusa e a quel punto spetterà alla Provincia e ad Hera, garantirci gli investimenti". Tradotto: non possiamo fare molto da soli. L’assessore provinciale all’ambiente, Emanuele Burgin, dice "siamo pienamente disponibile a fornire i finanziamenti, ma dipende tutto dai fondi della Regione". Al momento le borse lavoro rappresentano il mezzo principale d’impiego. In pratica un contributo di 400 euro, erogato dal Comune, della durata di tre mesi rinnovabile fino a sei: questo il motivo dei 44 detenuti o beneficiari pur su 86 borse stanziate. Si tratta di un tirocinio formativo, che dovrebbe rappresentare la via d’accesso all’assunzione vera e propria. Ma quante borse lavoro diventano poi dei contratti? Non ci sono dati pubblici a riguardo. Li abbiamo richiesti a Francesco Errani, dell’assessorato al lavoro della Provincia, ma ancora non abbiamo ricevuto una risposta. Molta più disponibilità, invece, dal Centro per l’impiego di via Todaro che ha attivato nel 2002 uno sportello di orientamento al lavoro all’interno del carcere. "Il problema di riferire dati certi sulle assunzioni - spiega Dario Audiello, referente del Centro - è dovuto al numero di realtà coinvolte, ognuna con la propria statistica e i propri risultati. Su 62 percorsi attivati negli ultimi mesi - continua - 8 sono diventati assunzioni, e ci aspettiamo che crescano". "Del resto, è probabile che questi dati non esistano proprio" - sostiene al telefono Desi Bruno - "perché parlano di cifre quasi inesistenti".
Cooperativa Croce Servizi: storia di un riscatto possibile
La cooperativa che aiuta anziani e disabili, nata nel 2005 da un’idea di Papillon e con il sostegno del Comune di Casalecchio, assume detenuti ed ex, dimostrando che, dove esiste una volontà forte, la discriminazione può essere battuta. Tre su mille ce la fanno. Del migliaio di detenuti che affollano il carcere della Dozza, tre si sono rifatti una vita aiutando i più deboli. Sembrerebbe una favola, ma è la realtà della Croce Servizi, la cooperativa che si occupa, per conto del Comune di Casalecchio, di aiutare anziani e disabili nei loro spostamenti. Tra le sue mansioni anche quella di portare i pasti a casa delle persone che non possono muoversi. Si tratta di un caso unico nel suo genere: affidare un servizio delicato, l’assistenza di persone praticamente inermi, a gente vittima di un forte pregiudizio sociale. Quest’iniziativa nasce nel 2005, dalla collaborazione tra l’associazione Papillon ed il Comune di Casalecchio, che impiegò tre detenuti della Dozza, tramite borse lavoro. Nel 2007, finita la sperimentazione, il progetto è divenuto stabile nella forma di una cooperativa di cui i detenuti - due dei quali divenuti ormai ex - fanno parte come soci fondatori o lavoratori con regolare contratto. La struttura, una palazzina del Comune nel quartiere Croce (da qui il nome), ospita anche una ludoteca, dei corsi di ballo e una sala informatica. Al pian terreno, un’enorme cucina è il territorio indiscusso delle "anziane", che si sbizzarriscono a cucinare tigelle e ravioli per la cena che ogni venerdì riunisce i soci. Il bar, 4 tavolini e un bancone in radica, è gestito invece da Maria, una bionda signora polacca, che subito ci dice "qui il caffè costa ancora mille lire". Insomma, esperimento perfettamente riuscito. "I cittadini sono entusiasti: è andato non bene, strabene!" afferma Valerio Guizzardi, presidente di Papillon Bologna. "Anche i parenti delle persone assistite hanno accettato senza problemi - prosegue Guizzardi, tra i soci fondatori della cooperativa - all’inizio avevamo qualche perplessità su questo punto, ma probabilmente il pregiudizio esiste più nei politici che nella popolazione". E proprio qui sta l’amarezza. Nel constatare come questa di Casalecchio sia un’eccezione, nel panorama d’abbandono in cui è lasciato chi ha, o ha avuto, problemi con la giustizia. "Ho girato tutti gli assessorati della Provincia per mostrargli che l’iniziativa funziona e proporgliene di simili, ma nessuno ci ha ancora risposto - continua Guizzardi - e mettiamo subito in chiaro che noi non vogliamo il copyright dell’iniziativa, anzi, vorremmo che venisse riproposta in altre realtà". L’idea di base è molto semplice: ogni detenuto reinserito è una persona in meno che delinque, e su questa filosofia Papillon ha fondato il suo lavoro. Quando chiediamo a Guizzardi se, davanti a tutte queste difficoltà, non perda mai la speranza, lui, pronto risponde: "No, perché sono un combattente". Per ora, battaglia vinta. Viterbo: i Sanitari con la Polizia contro apertura Sezione ad Eiv
Lettera alla Redazione, 25 febbraio 2008
L’area Sanitaria del Carcere di Viterbo intende manifestare la propria solidarietà alla Polizia Penitenziaria che giustamente rivendica le proprie difficoltà operative in un Istituto Penitenziario come quello di Viterbo dove ormai da tempo l’effetto indulto è sostanzialmente svanito. Se prima del provvedimento di clemenza albergavano a Viterbo circa 630 detenuti, oggi questi sono circa 600, una contrazione rispetto al 2006 assolutamente irrilevante. Nonostante questo il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria annuncia l’apertura di un nuovo reparto ad Elevato Indice di Vigilanza e contestualmente nel bilancio del primo semestre 2008 dedicato alla sanità penitenziaria ratifica la riduzione della presenza sanitaria all’interno dell’istituto (rispetto al pre-indulto) di circa il 25% in termini di risorse umane. I medici e gli infermieri del carcere quindi, a fianco della Polizia Penitenziaria, nell’interesse della salvaguardia della salute delle persone detenute, della salubrità dei luoghi e della tranquillità operativa che solo la consapevolezza di poter fronteggiare le esigenze di salute può dare, chiede al Provveditore Zaccagnino un immediato intervento affinché gli standard operativi sanitari pre-indulto vengano immediatamente ripristinati con un adeguamento sostanziale delle risorse destinate alla cura della salute in carcere. Non ci esimeremo dal partecipare alle manifestazioni di protesta concordate con le maggiori organizzazioni sindacali.
Il Responsabile dell’Area Sanitaria del Carcere di Viterbo Dott. Franco Lepri Forlì: per i detenuti un laboratorio di teatro delle marionette
Redattore Sociale, 25 febbraio 2008
Iniziativa della "Baracca dei talenti", rete di solidarietà costituita da professionisti del teatro di figura e volontari. L’obiettivo: costruire burattini e in seguito realizzare uno spettacolo nella casa circondariale. Burattini, pupazzi e marionette entrano nel carcere di Forlì. È una delle nuove iniziative della "Baracca dei talenti", rete di solidarietà romagnola costituita da professionisti del teatro di figura e associazioni di volontariato per "usare le pratiche teatrali come risorsa per l’integrazione". Della "Baracca" fanno parte diverse compagnie "integrate", nelle quali volontari e disabili fisici, psichici e relazionali lavorano insieme per produrre e proporre spettacoli di teatro di figura come strumento e "linguaggio" per combattere il disagio. Tra le attività ci sono anche percorsi ludici e riabilitativi per giovani usciti dal coma. La rete è coordinata e promossa dall’associazione Cyranò di Cesena, insieme alle sezioni locali di Anffas, Adda (associazione per i diritti degli audiolesi) e Aism e alla cooperativa "Arrivano dal mare!", che tutti gli anni organizza l’omonimo festival teatrale internazionale a Cervia (Ravenna). Quest’anno il progetto si allarga dal mondo della disabilità alla realtà del carcere. "Avvieremo due laboratori di teatro di figura nella casa circondariale di Forlì - spiega Adriano Brandolini, presidente dell’associazione Cyranò - uno con un gruppo di detenuti uomini, l’altro con le donne. L’obiettivo iniziale del lavoro comune è la costruzione di marionette, pupazzi e burattini, per arrivare in un secondo tempo a proporre uno spettacolo teatrale ideato e messo in scena insieme ai carcerati". "Il teatro di figura - prosegue Brandolini - non è in sé una terapia, ma una pratica che può affiancare in parallelo e potenziare i processi educativi e riabilitativi. La pratica del costruire personaggi e storie e mettere in scena spettacoli aiuta le persone - disabili e non solo - a superare le difficoltà di relazione, a mettere in campo i propri talenti, a stare insieme e comunicare. Vogliamo portare anche dentro le mura del carcere questo tipo di esperienza, in collaborazione con l’associazione di volontari Con-Tatto, e siamo fiduciosi sui possibili risultati". L’attività della "Baracca dei talenti" consiste anche in corsi di formazione per volontari e operatori del sociale sull’uso del teatro di figura in situazioni di disagio. Le "compagnie integrate" sono quattro: "Pupazzi da slegare", "Fuori dal coro", "Teatro in mano" e "L’Acchiappa Sogni". Tutte hanno partecipato a festival ed eventi teatrali un po’ in tutta Italia. Le attività della "Baracca" sono state sostenute nel 2007 anche da Ausl, Provincia e Comune di Cesena, dal Centro servizi per il volontariato Assiprov di Forlì-Cesena, dalla Fondazione Vodafone e dal Progetto "C’entro anch’io" di Coop Adriatica. Napoli: il volontariato carcerario, per scardinare i pregiudizi di Patrizia Capuano
Il Mattino, 25 febbraio 2008
"Dietro le sbarre del carcere femminile di Pozzuoli ci sono 140 detenute. Ognuna ha una storia frantumata e una vita da ricostruire, cui bisogna donare sostegno per ricominciare". Queste le parole del direttore della Caritas Diocesana e cappellano della casa circondariale di Pozzuoli, don Fernando Carannante in apertura del convegno "L’importanza del volontariato all’interno delle carceri". L’altro ieri, durante una giornata di studi nel Seminario Maggiore, è stato delineato il difficile percorso che unisce le condizioni della vita dei reclusi con il volontariato e il rispetto dei diritti umani. "Bisogna mettere a fuoco la realtà nel carcere, avvicinarsi alle singole storie e scardinare soprattutto i pregiudizi", spiega invece don Paolo Auricchio, vicario Diocesi di Pozzuoli e cappellano nel carcere minorile di Nisida. A moderare il dibattito, Luciano Scateni, che in un suo intervento ha sottolineato: "C’è da riflettere molto sulle capacità della società nel sostenere queste persone". Fondamentale dunque è il contributo del volontariato. "Occorre forza - racconta Maria Gaita dell’associazione Febe e volontaria nel carcere di Pozzuoli - per permettere a queste donne di illuminare la parte più buia di se stesse e della loro vita". Al summit ha partecipato anche l’Itis di Pozzuoli. Particolare interesse tra gli alunni ha suscitato la testimonianza di David Atwood, fondatore della Coalizione Texana per l’abolizione della pena di morte. "In 25 anni - spiega Atwood - negli Usa sono state eseguite mille esecuzioni. Due milioni le persone in carcere e 3mila nel braccio della morte. La mentalità però sta cambiando: il 60 per cento dei cittadini si è dichiarato a favore di una pena alternativa all’esecuzione capitale". Michela Mancini, socio fondatore della Coalizione italiana contro la pena di morte e presidente della cooperativa Città dell’Essere afferma: "Non si muore solo con una condanna a morte. L’emarginazione e le condizioni nelle nostre carceri conducono i detenuti ad una morte lenta". La conclusione, infine, è stata affidata al vescovo di Pozzuoli, monsignor Gennaro Pascarella, che ha sottolineato il fondamentale contributo del volontariato. Il convegno è stato realizzato dall’associazione Angeli Flegrei, Campi Flegrei Terzo Settore, Città dell’Essere, Febe, Caritas Diocesana di Pozzuoli e la Coalizione contro la pena di morte con il Centro Servizi per il Volontariato. Milano: le foto dei detenuti e i "Disastri della guerra" di Goya di Manuela Gandini
La Stampa, 25 febbraio 2008
"Ma liberaci dal male...". Milano, Centro San Fedele. Sino al 20 aprile 2008. "Ma liberaci dal male..." è un grido d’aiuto e una preghiera. Ma è anche il titolo della mostra in corso al Centro San Fedele, che comprende opere di artisti contemporanei e del passato e di alcuni detenuti di San Vittore che hanno partecipato a un corso di fotografia tenuto in carcere da Andrea dall’Asta, Gigliola Foschi e Donatello Occhibianco lo scorso autunno. Tutti, indifferentemente sotto lo stesso tetto (cielo) parlano del male e poi del bene come temporanea assenza. Le incisioni Los desastres de la guerra (1810-1820) di Francisco Goya segnano l’inizio del percorso. Susan Sontag ha definito Goya il primo "reporter di guerra", e le cupe scene di tortura e di morte, così assolute e ripetitive, lo testimoniano. Accanto a queste, Gabriele Pesci monta i filmati dei soldati americani in Iraq tratti dalla Rete, creando un micidiale videoclip. Ma l’arte è l’interfaccia tra bene e male, è lo spazio impercettibile tra due note musicali o tra due granelli di sabbia. Dall’ex sede della Gestapo a Berlino, Silvio Wolf ha fotografato un riflesso di sole, su una finestra, che ricorda la stella di Davide. L’oscurità della materia che si trasforma in luce. "Ma liberaci dal male..." significa liberaci dal nostro male intimo, quello di cui siamo i portatori. Le foto dei detenuti, che mimano risse e violenze, ma si aggrappano alla presenza di Cristo, sono il risultato di un processo di trasformazione (e anche purificazione) indotto dalla presenza dell’arte nella loro vita. Droghe: consumatori segnalati, quelle cifre che fanno paura di Sergio Segio
Fuoriluogo, 25 febbraio 2008
È sempre bene prendere le statistiche con beneficio d’inventario. Ricordate il grido di allarme lanciato la scorsa primavera dal Viminale su una presunta impennata dei reati? Occupò i media per giorni e fu messa in relazione con l’indulto, varato l’estate precedente. Sei mesi dopo, sugli stessi giornali qualche striminzito articolo ci ha informato - si fa per dire - invece di un calo dei delitti nel secondo semestre 2007. Una diminuzione vistosa se vista sul periodo più ampio: dal 1991 al 2006 gli omicidi volontari si sono ridotti di due terzi, passando da 3,3 a 1,1 per centomila abitanti; tanto che l’Italia, nonostante la peculiarità mafiosa, da questo punto di vista risulta, dopo la Norvegia, il Paese più sicuro d’Europa. I furti in abitazione sono passati da 3,6 a 2,4 per mille abitanti e gli scippi da 1,3 a 0,4. Unico dato in modesta crescita le rapine, da 0,7 a 0,9 per mille abitanti. Si riducono dunque i delitti ma crescono, in maniera inversamente proporzionale, le paure. E, con esse, la necessità di trovare capri espiatori o, per dirla con Nils Christie, "suitable enemies", nemici convenienti su cui esercitare il rigore della tolleranza zero, in un rito di rassicurazione simbolica. Quale "nemico perfetto" migliore del consumatore di droghe, costretto alla illegalità e clandestinità? Le ultime cifre diffuse dal ministero dell’Interno ("Analisi dei mutamenti del consumo tra le persone segnalate ai prefetti per detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti dal 1991 al 2006", dicembre 2007) fotografano una vera e propria persecuzione di massa: dall’11 luglio 1990 al 31 dicembre 2006, 516.427 persone segnalate, in forza dell’art. 75 della legge del 1990, poi peggiorata dalla Fini-Giovanardi del 2006 (per la serie: non c’è limite al peggio, mentre il governo Prodi ha optato per la politica donabbondiana dello struzzo). Oltre mezzo milione di segnalati, nel 93% dei casi maschi, nel 9% minorenni. Un dato ancor più impressionante se si considera che la prima sostanza di segnalazione è costituita dai cannabinoidi, quasi raddoppiata nel periodo in esame: dal 42,53% del 1991 al 73,99% del 2006. Viceversa, i segnalati per eroina sono stati, rispettivamente, il 50,52% e l’8,13%, quelli per cocaina il 5,17 e il 14,4%. Un bel risultato, considerato che, nel 1990, uno degli argomenti principe della svolta repressiva era stata la necessità di arginare le morti per droga. Come si sa, di cannabis non è mai morto nessuno (di carcere sì, come da ultimo Aldo Bianzino a Perugia). Eppure, in un’ottica inguaribilmente proibizionista, dopo le cifre anche i fatti possono essere stravolti. Così, il dato che le centinaia di migliaia di segnalazioni al Prefetto riguardano in stragrande maggioranza giovani consumatori occasionali di hashish o marijuana viene così commentato nel Rapporto: "Senza tale attività di prevenzione, sarebbero rimasti privi della rete di sostegno che a livello locale i Nuclei Operativi per le Tossicodipendenze in questi anni hanno contribuito a costruire". È facile immaginare che di tale attività "di sostegno" (che più che a una rete allude a una manetta) il mezzo milione di destinatari avrebbe fatto volentieri a meno, costituendo - va ricordato - il primo passaggio dell’iter sanzionatorio e forzatamente terapeutico, al cui fondo, in caso di reiterazione (e i pluri-segnalati sono il 20%), scattano prima misure amministrative e poi quelle penali. Sono passati 15 anni e diversi governi, sono state varate due leggi ad hoc, ma la logica è rimasta la stessa: ti controlliamo e ti puniamo per aiutarti e sostenerti. Più o meno la stessa filosofia che governava i gulag del Novecento. Francia: i "Prison-Hotel", quando il lusso è dietro le sbarre
Panorama, 25 febbraio 2008
Una prigione con 700 celle nella medievale Avignone, nel sud della Francia. Ma adesso St Anne, come la conoscono tutti da quelle parti, dopo essere stata a lungo in vendita su Internet, diventa un hotel a 5 stelle, con tanto di guida per permettere ai fortunati clienti di conoscere in ogni dettaglio il luogo che li ospita. Il caso francese non è, però, un fatto isolato. Negli ultimi anni si è assistito ad un boom delle prigioni-hotel. E non è solo una questione di stanze, piuttosto un modo completamente diverso di viaggiare. Dall’Europa agli Usa, passando per Oxford, in attesa che sul genere venga pubblicata una guida specifica non è difficile crearsi un itinerario personalizzato. Dipende dalla prigione che si sceglie e, ovviamente dal paese che si vuole visitare. Tra i più celebri il Liberty Hotel di Boston. Il nome è tutto un programma, visto che laddove sorgono adesso suite di superlusso venti anni fa espiavano le proprie pene alcuni tra i più pericolosi detenuti statunitensi. Per la cronaca transitarono di lì anche Sacco e Vanzetti, prima della loro condanna a morte. In Europa ad Oxford il Malmaison è fiero della sua storia. Nel sito internet dell’Hotel si racconta di come il carcere risultava annesso al castello della città dal lontano 1166 e si spiegano tutti i successivi rimaneggiamenti. Perché ogni epoca ha avuto il carcere che voleva e che si meritava. Rimanendo in Europa nella cittadina di Ribe, a poche ore d’auto dalla capitale della Danimarca, l’hotel Den Gamle Arrest, "La vecchia prigione" non fa niente per nascondere il suo passato. Con tutto il suo valore visto che l’intero edificio in mattoni rossi risale al lontano 1546. Una piccola prigione ecco cosa era. Le undici celle riadattate in stanze sono ancora lì per ricordarlo. Da noi, invece, il business degli hotel-prigione è un po' più difficile perché le carceri in genere se chiudono vengono comunque trasformati in edifici pubblici. E gli antichi luoghi delle espiazioni sono stati ormai ricoperti da case, come è accaduto per il Tribunale dell’Inquisizione di Milano in zona Sant’Eustorgio. Nell’isola pontina di Santo Stefano, laddove sorge un ex carcere borbonico, verrà realizzato un museo mentre l’Asinara, un tempo isola-prigione di massima sicurezza oggi meraviglioso parco naturale, offre escursioni guidate. E per chi è in cerca di emozioni estreme si sappia che in Malaysia il carcere di Johor Baru, il più antico del paese, offre per 17 dollari Usa una cella e un materasso, per dormire come i detenuti. Che però sono stati mandati da un’altra parte. Arabia Saudita: caffè con un collega, arrestata donna d’affari
Apcom, 25 febbraio 2008
È agli arresti domiciliari la donna d’affari saudita Yara (il cognome non è noto), fermata lo scorso 4 febbraio a Riad dalla polizia morale (Muttawa), e detenuta per alcuni giorni dopo essere stata sorpresa a bere un caffè in compagnia di un collega. La Società nazionale per i diritti umani (Sndu) ha comunicato di non avere ancora ricevuto una risposta alla richiesta di proscioglimento, presentata a nome della donna, alla ‘Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Viziò. La Sndu nei giorni scorsi aveva anche pubblicato ripetuti appelli, in vari giornali locali, a sostegno di Yara che però non hanno dato alcun risultato concreto. Non è servito peraltro l’intervento del marito che alla Muttawa ha spiegato che la donna è rispettosa dell’Islam e dei suoi obblighi. In Arabia Saudita, dove è dominante il wahabismo, una delle correnti più rigide dell’Islam, sono proibiti i contatti fra persone di sesso opposto non appartenenti alla stessa famiglia. Yara, 36 anni e nota imprenditrice, venne arrestata assieme a un suo collega siriano, già rilasciato, perché sorpresi a bere un caffè nello Starbucks di Riad. La donna ha denunciato di essere stata costretta a firmare la sua confessione e di aver subito maltrattamenti. La Muttawa, braccio esecutivo del wahabismo, è tornata a essere molto attiva negli ultimi tempi. Nei giorni scorsi decine di giovani uomini sono stato arrestati per aver tentato di attirare l’attenzione, con balli e musica, di alcune ragazze in un centro commerciale della Mecca, città santa dell’Islam.
|