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Giustizia: diritti umani; Unimondo festeggia i 10 anni di vita di Fabio Pipinato (direttore di Unimondo)
www.unimondo.org, 10 dicembre 2008
10 dicembre 2008. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani compie 60 anni. La più autorevole promulgazione per porre un freno all’io che alimenta ogni guerra "che ci portiamo dentro" ed a quel "noi" che tanto ci differenzia dagli "altri" - humus per la guerra esterna. L’animale uomo per difendere se stesso, famiglia, branco, clan, razza, corporazione, impresa è disposto a tutto. Alla minaccia esterna segue fisiologicamente un’ormonale scarica interna che altera l’equilibrio organico: sudorazione, rabbia, repulsione, propensione alla "conta", alla menzogna, all’aggregazione. Lo "squilibrio chimico" in preparazione alla guerra esterna. La Carta del ‘48 volle disinnescare queste endogene cluster bombs al fine di prevenire nuove catastrofi umanitarie dando "dignità"ad ogni essere umano indipendentemente dal suo "essere diverso". Le parole, siglate a Parigi, hanno bisogno di "tutti noi" per essere tradotte quotidianamente in azioni ed opere. Non si può più assistere, impotenti, ad estese violazioni dei diritti umani per poi intervenire sempre e solo sul lato umanitario. Il sessantesimo dovrebbe aiutarci a ridisegnare la convivenza per andare oltre la violenza strutturata ed il conseguente "buonismo" e "caritatismo". - "Che ce ne facciamo dei vostri aiuti se non avete fatto nulla per fermare i criminali? Ebbe a dire un Tutsi sopravvissuto". Iniziamo da ciò che ci è più difficile. Dal "non facile" esercizio di rivisitare la "solidarietà". Dai tentativi di dialogo per scovare nel "nemico precostituito" terre di mezzo. Iniziamo dall’appena conclusasi "campagna elettorale" ove abbiamo in molti "barrato la strada" a Divina Presidente. Ebbene, lo stesso Divina, vicepresidente della commissione Esteri del Senato, sembra essere, ad oggi, l’unico senatore ad occuparsi del Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo. Egli ha fatto un appello "al governo italiano, all’ Unione Europa perché si facciano partecipi per salvare le migliaia e migliaia di profughi che stanno fuggendo da quell’area al confine con il Ruanda (per non lasciare) campo libero per un nuovo genocidio!" Insomma, il "nemico" Divina al nostro fianco. Sottosegretario del governo italiano che ha recentemente firmato ad Oslo il Trattato per la messa al bando delle "cluster bombs" e, nel contempo ha ridimensionato le spese per la difesa costringendo l’opposizione in parlamento alla difesa del budget della difesa. In passato non sono certo mancati i nostri attacchi al governo ma forse non abbiamo abitato a sufficienza le "terre di mezzo" ove il dialogo è possibile e la traduzione della Carta dei Diritti Umani anche. 10 anni fa, con un editoriale di Pierangelo Giovannetti, Unimondo tentò l’inquietudine: raccontare, fare i primi siti internet per le organizzazioni non profit, fare sintesi del presente. Ma di fronte alle nuove sfide, per dirla con Zamagni, il mero aggiornamento delle vecchie categorie di pensiero o il semplice ricorso a sia pure raffinate tecniche di decisione collettiva non servono alla bisogna. Occorre osare vie diverse perché (Aristotele) "ogni arte persegue un certo fine, ma appare evidente che vi è differenza tra i fini: alcuni sono attività, altri sono opere, che stanno al di là di quelle". Noi vorremmo tentare, nel prossimo decennio, un’opera: cambiare. Come afferma il già direttore del portale Mauro Cereghini sul blog di Unimondo: "dare voce elettronica alle associazioni era fondamentale quando molte nemmeno avevano una connessione internet. Oggi sarebbe insufficiente. Anzi, oggi di voci sul web ce ne sono fin troppe, tanto che nella massa enorme di informazioni in circolazione si finisce per essere tutti più ignoranti. Per questo servono dizionari, bussole, sportelli di orientamento. E, per quanto vedo da lettore-utente, Unimondo si sta attrezzando. Con i libri, il progetto Antologia, l’Atlante per le scuole. Con l’uscire dal solo virtuale organizzando incontri, seminari, la World Social Agenda. C’è bisogno di tutto questo, e c’è bisogno di farlo anche mettendo in discussione parole e rituali dei nostri mondi, così solidali ma a volte così lenti a cogliere i cambiamenti che ci travolgono. Servono dizionari che non siano solo riproposizione dell’esistente, ma si spingano oltre: oltre il pacifismo manicheo e il semplice antimilitarismo, oltre l’uso retorico e formalista dei diritti umani, oltre il professionismo dello sviluppo, oltre l’intercultura dei buoni sentimenti". Gli fa eco Massimo De Marchi che con Ambrogio Monetti hanno voluto questo portale: "in Canada il Primo Ministro Harper ha sospeso le attività del parlamento per evitare una sfiducia al proprio governo, il tutto motivato dalla crisi economica. In Lettonia la polizia ferma ed interroga economisti troppo pessimisti. In Cile le popolazioni della Valle del Choapa lottano per richiedere alla Minera Los Pelambres il rispetto di standard ambientali. Nel contempo riemerge una carità pelosa e pietistica, oppure mediatica e messianica". Raffaello Zordan di Nigrizia, anche lui nel blog: "di questi tempi, c’è un diritto di cittadinanza che va difeso con particolare impegno, talora anche contro se stessi. È il diritto di prendersi cura della propria informazione. Che significa non accontentarsi di letture semplici e semplificate della realtà. Che significa mettersi in gioco nella partita della complessità, dell’interazione e dello scambio, che sono poi parti costitutive di quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione". Noi, questa partita, vogliamo giocarcela tutta. Giustizia: Arci; dichiarazione diritti umani è la nostra bussola Paolo Beni (Presidente Nazionale Arci)
Liberazione, 10 dicembre 2008
Il 10 dicembre 1948, approvando la Dichiarazione universale dei diritti umani, l’assemblea delle Nazioni Unite sanciva i diritti che spettano ad ogni essere umano, e l’impegno solenne degli Stati a garantirli. Quando quel testo fu scritto l’Onu era appena nata, e ne facevano parte solo le nazioni che avevano vinto la Seconda guerra mondiale. Alcune possedevano ancora imperi coloniali in Asia e in Africa. C’erano le grandi potenze, come Stati Uniti ed Unione Sovietica, che di lì a poco avrebbero inaugurato la stagione della guerra fredda e continuato poi per decenni a contendersi il dominio del mondo alimentando conflitti e dittature. Eppure, ancora in mezzo alle macerie della guerra, col ricordo vivo di milioni di morti, della tragedia dell’olocausto e della prima bomba atomica, anche i vincitori avevano capito che non c’è pace e sicurezza per nessuno senza il rispetto dei diritti di tutti, e sentirono il bisogno di voltar pagina alla storia scrivendo quella carta. Ancora oggi, la Dichiarazione del ‘48 è la bussola che può orientarci nello sforzo di cercare le risposte alla grave crisi del tempo che viviamo. Certo, in sessant’anni la cultura dei diritti si è evoluta. L’Onu ha approvato altre importanti Convenzioni contro la discriminazione delle donne e il razzismo, per i diritti dell’infanzia, delle persone disabili e dei lavoratori migranti, per la protezione delle biodiversità e delle diversità culturali. Tutti temi che oggi dovremmo aggiungere alla Dichiarazione, insieme ad altri ancora, come il diritto del pianeta terra ad essere difeso dall’azione irresponsabile degli umani. Viviamo un tempo difficile. La negazione dei diritti umani è ancora normalità quotidiana per milioni di persone. Eppure al mondo ci sarebbero risorse sufficienti per assicurare a tutti una vita degna e la sicurezza del futuro; eppure il progresso scientifico ci offrirebbe la possibilità di ridurre le disuguaglianze ed aumentare il benessere dell’intero pianeta. Ma il mondo è sempre più dominato dalla legge del più forte. Enormi quantità di ricchezza si concentrano nelle mani di pochi. Disuguaglianze, scempio delle risorse naturali, guerre e regimi totalitari dilagano ad ogni latitudine. Diritti elementari come abitare, nutrirsi, curarsi, istruirsi sono occasione di profitto per pochi e motivo di sofferenza per tanti. Il problema non riguarda solo il sud del mondo: i diritti sono violati anche nell’occidente sviluppato, anche nel nostro Paese. E non riguarda solo gli ultimi, i più deboli, ma la dignità e la vita di ciascuno di noi. In Italia il divario sociale sta crescendo fino a toccare il livello di guardia. Nuove povertà, precarietà del lavoro e della vita investono strati sociali sempre più estesi alimentando un diffuso senso di frustrazione e di insicurezza. Sono evidenti i segnali di sgretolamento dei legami comunitari. All’emergenza sociale si somma un grande problema culturale. Nel vuoto creato dal crollo degli ideali del ‘900 si fa largo l’ideologia dell’autosufficienza dell’individuo contrapposta alla dimensione sociale della vita, un’idea darwinista della società in cui la competizione è l’unico orizzonte delle relazioni umane. L’invadenza del mercato e dei consumi produce nelle persone crisi di senso, solitudine, difficoltà a rielaborare le informazioni in sapere critico, a pensare con la propria testa. Il Paese non riesce più a fare sistema fra le sue componenti, a riconoscersi in un progetto comune. Viviamo in una società impaurita, che si illude di difendere il proprio benessere escludendo i più deboli, alimenta pregiudizio, rancore, guerra fra poveri, e diventa terreno di conquista del populismo autoritario con cui la destra fa scempio dei principi costituzionali e delle conquiste sociali del ‘900. Stanno facendo dell’Italia un Paese fondato non più sulla cittadinanza come insieme di diritti civili, sociali e politici, ma sul privilegio dei potenti e la compassione per i poveri. Per restituire fiducia alla gente servirebbe una politica capace di proporre alternative concrete e credibili a questo stato di cose. Ma i partiti sono incerti e divisi, le organizzazioni sociali deboli e frammentate. La sinistra sconta un pesante ritardo di elaborazione, l’assenza di un progetto. Non basta la percezione che le cose così come sono non vanno bene per creare le condizioni del cambiamento: bisogna che un altro progetto di società ci sia, concreto e credibile. Bisognerebbe ritrovare il filo di un ragionamento comune, la consapevolezza che i destini umani sono legati e interdipendenti, che gli uni contro gli altri perderemo sempre perché i diritti di tutti sono l’unica condizione per garantire anche i nostri. Bisognerebbe ripartire dalle persone per ricostruire la politica come fatto collettivo, presa di coscienza, assunzione di responsabilità, percorso comune di emancipazione e conquista dei diritti. Lavorare nei territori e nelle comunità per ricostruire i legami sociali e un nuovo patto di convivenza. Tutto questo è certamente compito della politica e delle istituzioni, ma anche di ciascuno di noi. Ecco perché, nel 60° della Dichiarazione universale, l’Arci ha promosso una "Maratona dei diritti umani": centinaia di incontri, eventi culturali, mostre, film, dibattiti, tante occasioni per riflettere e discutere su questi temi. Una maratona che si intreccia con le tappe della carovana antimafia, con le campagne contro il razzismo e le discriminazioni, la precarietà e le morti sul lavoro; col nostro impegno contro l’ignoranza, per la conoscenza e il sapere critico. Trenta giorni di iniziative, tanti quanti sono gli articoli della Dichiarazione, che abbiamo ristampato in decine di migliaia di copie invitando tutti a rileggerla, perché è semplice, chiara, e ancora attualissima. Al testo originale abbiamo voluto aggiungere una frase, l’articolo 0: "io sono perché siamo". Perché da soli non ce la faremo a liberarci della legge del più forte, dell’ingiustizia e della solitudine che ci fanno vivere male. Abbiamo bisogno di fare comunità, una comunità democratica in cui sentirci liberi e sicuri in mezzo agli altri. E dobbiamo provare a costruirla. Giustizia: riforma sul tavolo; prove di dialogo con opposizione
Corriere della Sera, 10 dicembre 2008
Per il ministro della Giustizia Angelino Alfano il caso De Magistris e i contrasti tra le procure di Salerno e Catanzaro dimostrano che la riforma della Giustizia sia quanto mai necessaria. E guardando al Ddl che verrà presentato in Parlamento il prossimo 19 dicembre, annuncia una serie di misure che dovrebbero rendere più agevole il lavoro dei giudici. Tra queste più autonomia alla polizia giudiziaria nella fase delle indagini rispetto al pubblico ministero che, con l’attuale codice di procedura penale, delega la ricerca della notizia di reato al pg. Ma anche indagini parallele tra polizia giudiziaria e magistrati e cessazione della libera ricerca delle notizie di reato da parte dei pubblici ministeri. Inoltre misure contro il sovraffollamento delle carceri. Ma il vero nodo da sciogliere è quello della separazione delle carriere di magistrati e pubblici ministeri che vede da parte dell’opposizione una chiusura totale. "Non interverremo sull’obbligatorietà dell’azione penale" - "Non ci sarà un intervento costituzionale" sull’obbligatorietà dell’azione penale, ma si inciderà "solo sul suo funzionamento: il pm ha l’obbligo di perseguire i reati, ma a volte sono troppi e non ce la fa e diventa un’azione discrezionale", ha spiegato il Guardasigilli. E su questo frangente ci saranno sì modifiche alla Costituzione. Con l’obiettivo, precisa il ministro, "della parità tra accusa e difesa, per la quale occorre un giudice terzo ed equidistante da entrambe le parti, che sul piano tecnico si può anche chiamare separazione delle carriere". Di conseguenza una riforma del Csm "con un intervento serio". Riforma in due fasi - Nel disegno del governo, quindi, i cambiamenti del pianeta giustizia ci sono eccome. Il tutto avverrà in due fasi, ha detto il ministro: la prima riguarderà la riforma del processo civile, "che speriamo entri in vigore all’inizio del nuovo anno, con l’approvazione al Senato e il ripassaggio alla Camera". Quindi sarà la volta delle modifiche al processo penale "per una maggiore efficacia e certezza per i cittadini" con l’attuazione del "giusto processo e la questione della certezza della pena". La parte più spinosa dell’intero disegno di legge. Violante: no alla divisione delle carriere - Dal Partito democratico, infatti, arriva un "no" secco alla separazione delle carriere dei magistrati e alla divisione del Consiglio Superiore della Magistratura. "Sono contrario perché farebbe dei pubblici ministeri un corpo di super-poliziotti incontrollabili da chiunque. Oppure si tratta dell’anticamera del controllo politico del pubblico ministero e non sono d’accordo", ha detto il responsabile giustizia del Pd, Luciano Violante. Non solo: "I pubblici ministeri sarebbero separati, totalmente autoreferenziali e questo sarebbe sbagliato. In Portogallo hanno fatto così e ora si stanno mordendo le mani". E sulla divisione del Csm: "La stessa cosa. Si farebbe un corpo separato rispetto agli altri e sarebbe molto pericoloso". Casini, prove di dialogo: il tavolo è aperto - Il primo a rispondere agli appelli del Capo dello Stato perché si faccia una riforma condivisa è Pierferdinando Casini che, dopo aver incontrato questa mattina il Guardasigilli, fa sapere di essere disposto ad avviare il confronto con la maggioranza sul tema giustizia. "La riforma va fatta rispettando l’autonomia della magistratura - ha detto il leader dell’Udc - abbiamo comunicato al ministro la nostra disponibilità. Il tavolo è aperto, chi si vuole sedere si sieda". E invita il Pd a fare altrettanto. "Le esitazioni vanno messe da parte - ha sollecitato Casini - il giustizialismo è merce avariata di ieri. Nessuno può escludere Di Pietro, semmai è lui che si autoesclude". Giustizia: revisione poteri investigativi per i pubblici ministeri
La Repubblica, 10 dicembre 2008
Secondo il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, il caso De Magistris dimostra l’urgenza di una riforma della giustizia. E una delle modifiche consisterebbe nel dare più autonomia alla polizia giudiziaria nella fase delle indagini rispetto al pubblico ministero che, con l’attuale codice di procedura penale, delega la ricerca della notizia di reato alla Pg: "Non credo che questo significhi tagliare le unghie ai magistrati né sottrarre loro potere, a meno che i magistrati non ritengano che sia una cosa plebea collaborare con Guardia di finanza, polizia e carabinieri", ha detto Alfano durante la registrazione di Porta a Porta alla quale partecipano, tra gli altri, Luciano Violante (Pd), e il presidente dell’Anm Luca Palamara. Fine dei teoremi investigativi. Il pacchetto che Alfano prepara per il consiglio dei ministri del 19 dicembre prevede che non ci sia più libera ricerca delle notizie di reato da parte dei pubblici ministeri e quindi la fine dei "teoremi investigativi". La maggiore autonomia della polizia giudiziaria dal pm rappresenta il punto nodale del ddl sull’accelerazione del processo penale. Diverse le novità previste nelle bozze dei tecnici di Via Arenula, che il ministro non avrebbe ancora sottoposto all’esame degli alleati di governo. Novità destinate prevedibilmente ad avere l’altolà dall’Associazione nazionale magistrati e molto probabilmente anche da chi tra le fila dell’opposizione (Luciano Violante in primis) aveva auspicato una maggiore autonomia investigativa della polizia giudiziaria. Mentre proprio oggi il segretario del Pd, Walter Veltroni, aveva aperto alla possibilità di dialogo sul tema giustizia, invocato anche da Fini, a patto che venissero coinvolti anche i magistrati. Polizia, guardia di finanza, carabinieri e i corpi di polizia giudiziaria in generale potranno ricercare e acquisire liberamente le notizie di reato (che resteranno da comunicare "senza ritardo" al magistrato), mentre il pm potrà solo riceverle (non solo dalla pg ma anche con denunce di privati, querele etc.). Vietato per i pm aprire fascicoli prendendo spunto da articoli di giornale oppure da una confidenza privata. Una limitazione per impedire al pm di "scegliere" la notizia di reato. Non solo: nella sua autonomia investigativa, la polizia giudiziaria, anche dopo aver comunicato la notizia di reato al pm, potrà svolgere indagini parallele, seguendo anche una linea opposta da quella del magistrato, che dovrà tenerne conto. Potere autonomo di sequestro. La polizia giudiziaria avrebbe un potere autonomo di sequestro del corpo del reato e potrebbe essere delegata dal pm anche nell’interrogatorio di persone arrestate o fermate. Indagini preliminari. Il provvedimento modificherà anche i termini della proroga delle indagini preliminari. Queste attualmente durano 18 messi massimo (due anni per i casi più gravi), ma le proroghe avvengono di sei mesi in sei mesi. La bozza di ddl porterà da sei mesi ad un anno il termine entro il quale chiedere la prima proroga, con un obiettivo acceleratorio (il gip non dovrà pronunciarsi più volte per concedere altro tempo al pm che, generalmente, in sei mesi non conclude quasi mai un’indagine). Tempi differenziati per la discovery degli atti (art.415 bis del codice di procedura penale): l’avviso di chiusura delle indagini prevede infatti una serie di notifiche che rallentano i procedimenti penali ma che allo stesso tempo consentono all’indagato di conoscere le carte e i motivi in base ai quali viene accusato. Qui potrebbe essere l’ostilità degli avvocati penalisti a far saltare l’ipotesi di modifica. Sovraffollamento carceri. Nel pacchetto anche misure per risolvere l’emergenza sovraffollamento carceri, con modifiche alle norme sulle gare di appalto per costruirne nuove, (così da evitare che in caso di contenzioso si blocchino i lavori) e anche con novità sul trasferimento dei detenuti. È stato infatti calcolato che il 33% delle traduzioni fatte dalla polizia penitenziaria riguarda i detenuti da interrogare o da sottoporre a convalida di misure cautelari. Per questi casi è stato ipotizzato che siano il pm o il gip a recarsi in carcere, così da risparmiare l’utilizzo di agenti. Giustizia: Csm; riforma intercettazioni, a rischio indagini mafia
Ansa, 10 dicembre 2008
L’Anm è contraria al ddl sulle intercettazioni. Con la riforma messa a punto dal governo, e ora all’esame della Camera, sarà sempre più difficile, secondo il sindacato delle toghe, indagare sulla mafia. Il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini ha lanciato l’allarme nel corso della sua audizione in commissione Giustizia a Montecitorio sul disegno di legge che riguarda le intercettazioni. "Formalmente le indagini sulla criminalità organizzata si possono fare - aggiunge Cascini - ma poi nella pratica questo si rivelerebbe impossibile visto che con il provvedimento del governo diventeranno intercettabili solo reati con condanne superiori ai 10 anni". E questo significa che "l’indispensabile strumento delle intercettazioni non potrà essere usato per tutta una serie di reati compiuti normalmente dai mafiosi come, ad esempio, la turbativa d’asta, l’estorsione ecc. ecc". "A meno che - prosegue Cascini - non si voglia sostenere che la mafia sia solo narcotraffico e omicidio". "Con questo ddl, poi - sottolinea l’esponente dell’Anm - sarà impossibile intercettare i detenuti mafiosi quando telefonano in carcere o durante i colloqui con i familiari". Garanzie fondamentali - Nel corso della sua audizione in commissione Giustizia della Camera, ribadisce anche la contrarietà dell’Anm all’ipotesi di estendere il campo di applicazione delle intercettazioni preventive rispetto a quelle processuali. "Abbiamo espresso delle perplessità molto serie - dice il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini - sull’ipotesi di ampliare il novero dei casi in cui sia possibile procedere con intercettazioni preventive a scapito delle intercettazioni processuali". "Questa soluzione ridurrebbe le garanzie fondamentali dei cittadini e - afferma ancora il pm - contemporaneamente comporterebbe anche una drastica riduzione dei possibili accertamenti di gravi fatti illeciti". "Abbiamo ribadito - sostiene Cascini - che l’Anm è favorevole a una disciplina molto rigorosa sulla possibilità di diffondere e di pubblicare intercettazioni telefoniche contenenti fatti non rilevanti per l’accertamento nel processo penale attraverso il meccanismo del filtro anticipato che esclude il materiale non rilevante da custodire in archivi riservati". L’Anm ribadisce anche che "la riduzione della possibilità di utilizzare lo strumento delle intercettazioni, determinerebbe oggettivamente la riduzione della capacità di contrasto dei fenomeni criminali da parte di forze dell’ordine e magistratura". "Riducendo il novero dei reati - conclude Cascini - è nelle cose che si riduca anche la capacità di indagare sulla mafia e sul terrorismo". Giustizia: un sistema di carceri "leggere", per 15mila detenuti di Donatella Stasio
Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2008
Un segnale politico da non sottovalutare per chi (il Guardasigilli Alfano e Nicolò Ghedini) sta mettendo a punto la bozza di riforma (50 articoli) che venerdì verrà sottoposta agli alleati in vista del Consiglio dei Ministri del 19 dicembre. Per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini "è necessaria una riforma che abbia come obiettivo condiviso ciò che è auspicabile da tutte le forze politiche, l’efficienza del sistema giudiziario". Il testo che sta preparando via Arenula, oltre ad occuparsi del processo, interviene anche sul versante carceri con la creazione di un circuito di "minima sicurezza" destinato ai detenuti in attesa di giudizio "non pericolosi", quelli che restano in carcere una settimana per lo più per reati on gravi (circa 15mila). Il "carcere leggero" sarà scontato in strutture prefabbricate da costruire in 8/10 mesi, in aree demaniali, ciascuna con capienza di 200 posti letto con celle singole. Sul versante del processo, la bozza modifica le norme sui rapporti tra polizia giudiziaria e Pm, sganciando la prima dal secondo. Una misura che non piace ai magistrati ma che ieri Alfano ha difeso. "Spostare il baricentro delle indagini dalla magistratura alla polizia giudiziaria - ha ribadito il segretario dell’Anm, Giuseppe Cascini, significa rafforzare il controllo della politica sulla giustizia". La bozza Alfano-Ghedini, reintroduce anche la "messa alla prova" ma in una versione soft perché potranno chiederla solo gli incensurati accusati di reati punibili fino a 2 anni (prima il tetto era 4 anni). Se la prova è positiva, il reato si estingue. La modifica dovrebbe servire a superare le resistenze di An e Lega. Alfano ha assicurato che la riforma sarà oggetto di un confronto con l’opposizione e con l’Anm. "Vogliamo dialogare e casomai andare avanti se non troveremo un consenso". Appello del ministro della giustizia accolto dall’opposizione a patto che non si tocchi la Costituzione e che si riformino le procedure per assicurare la celerità e l’affidabilità della giustizia. Giustizia: Osapp; carceri "leggere"? ma dove sono gli agenti?!
Agi, 10 dicembre 2008
"Il Ministro della Giustizia Alfano continua a cambiare rotta sulla questione vera del sovraffollamento (arrivato a toccare ieri quota 58.474 detenuti) probabilmente non ha nessuna risposta in merito, o non gliela ha ancora suggerita nessuno". Così Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), risponde al Guardasigilli che oggi è intervenuto su Canale 5 nella trasmissione "Panorama del giorno". "Senza Polizia Penitenziaria le carceri che questo Governo vuole costruire, quelle prefabbricate per intenderci, non potranno essere comunque gestite - spiega ancora Beneduci - per il semplice motivo che con l’organico che il Ministero si ritrova, non si potranno assicurare a lungo quegli standard minimi che ciascun istituto di pena impone". "Siamo poco più di 44 mila unità e abbiamo calcolato, considerando i turni di servizio, 1 agente ogni 100 reclusi, e questo in genere in tutti i penitenziari del Paese. A questo si aggiunga un turnover di 500 unità di personale che sparisce ogni anno". "Si sposteranno i detenuti - prosegue il segretario dell’Osapp -, si creerà quel circuito di minima sicurezza che anche l’On. Ghedini ha ribadito oggi sul Sole 24 ore, si darà risposta immediata e a pagarne le conseguenze sarà comunque e sempre la categoria che rappresentiamo". "A questo punto - conclude l’Osapp - invitiamo il Ministro a riflettere su un potenziamento d’organico necessario, come necessario, oltre che il riallineamento promesso, anche la possibilità di una riforma strutturale del Corpo di Polizia, che secondo noi, con il pacchetto di riforme annunciato per il 19 potrebbe iniziare a vedere la luce". Giustizia: Osapp; pronti a incatenarci in cantieri nuove carceri
Apcom, 10 dicembre 2008
"Siamo pronti a sederci al tavolo delle riforme; altrettanto pronti ad occupare e ad incatenarci davanti ai cantieri dei nuovi istituti di pena che questo Governo intende costruire, se nel progetto annunciato dal Ministro Alfano non ci sarà il minimo segnale di una riforma strutturale che riguardi un Corpo di Polizia da troppo tempo agonizzante". È quanto afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp) a proposito del pacchetto di misure che il Governo presenterà in Consiglio dei Ministri la prossima settimana. "Senza Polizia Penitenziaria le carceri non vanno avanti - aggiunge Beneduci - sembra che questo, il ministro della Giustizia, lo abbia capito perfettamente, ma il rischio di finire lasciati soli ad operare, in strutture che a febbraio toccheranno il punto di non ritorno, è veramente alto". Il Guardasigilli, ha poi ricordato Beneduci, nel corso della trattativa del contratto nazionale, ha "sostenuto il valore e l’apporto che l’agente penitenziario fornisce ogni giorno al funzionamento del sistema, e ne ha promesso l’imminente riallineamento rispetto le altre forze dell’ordine, insieme ad un potenziamento di ruoli e di funzioni, anche in ragione di quelle che sono le prerogative di chi è a contatto di soggetti pericolosi in stato di reclusione". "Vogliamo sperare - ha concluso - che non sia l’ennesima promessa, annunciata e non mantenuta, di un esecutivo che s’illude ancora che i cambiamenti possano realizzarsi senza alcuna contropartita". Giustizia: no alle "stanze bunker" per il ricovero dei detenuti
Lettera alla Redazione, 10 dicembre 2008
Ho letto che sono stati spesi 50.000 euro per la realizzazione di una stanza presso l’Ospedale Poma di Mantova per detenuti che necessitino di ricovero ospedaliero. Non ci siamo. Le stanze di degenza affidate alla responsabilità di U.O., secondo la patologa del paziente detenuto, non garantiscono né salute (sinceramente credete che medici e infermieri di altre U.U.O.O. attendano a braccia aperte i detenuti? Pensate che il Nucleo Traduzioni sia felicissimo di impegnare in piantonamenti estemporanei il proprio personale? O credete che mai nessuno (medici e agenti) vorrà accelerare le dimissioni del paziente chiuso nella "vasca dei pesci rossi"?) né dignità per la persona (i diritti per le riprese saranno venduti al "Grande Fratello"?). Un proverbio afferma che "chi poco spende tanto spende" nel senso che quei 50.000 euro non erano sufficienti per realizzare un reparto ma per iniziarlo si. Peccato, avevate in Lombardia il buon esempio del " San Paolo".
Giulio Starnini, Direttore U.O. Medicina Protetta Malattie Infettive Ospedale Belcolle di Viterbo Giustizia: Radicali; bambini in carcere, sostegno a nuova legge
Comunicato stampa, 10 dicembre 2008
Ringraziamo il circolo Arci di Roma e le Associazioni Detenuto Ignoto e Radicali Roma che domani, per il 60° anniversario della dichiarazione internazionale dei diritti umani firmata a Parigi, hanno intrapreso un’importante iniziativa a sostegno delle nostre proposte di legge, che prevedono una soluzione alternativa al carcere per le mamme detenute e soprattutto per i loro bambini che fino all’età di tre anni sono costretti a trascorre un tempo estremamente prezioso delle loro vite dietro le mura di un carcere. Parteciperemo all’evento ed estendiamo l’invito a chi vorrà e potrà esserci: domani sera dalle 19 in poi presso il locale Rising Love in via delle Conce 14, in zona Roma Ostiense. Siamo felici di segnalare che, oltre a questa iniziativa, i gesti di solidarietà per questi bambini arrivano anche dal Parlamento: mi è giunta stamane la risposta ad una lettera aperta che qualche settimana fa ho inviato all’On. Alessandra Mussolini, Presidente della Commissione bicamerale Infanzia, nella quale viene espressa l’intenzione di affrontare questo problema e si prevede, già prima di Natale, una visita della Commissione in alcuni istituti di pena carcerari, perché vengano verificate le condizioni in cui tanti piccoli innocenti sono costretti a vivere.
Sen. Donatella Poretti e On. Rita Bernardini Parlamentari Radicali - Partito Democratico Giustizia: e prima di Basaglia la psichiatria... ci voleva così di Tonino Bucci
Liberazione, 10 dicembre 2008
Intervista allo psicanalista Massimo Recalcati. Il Sessantotto, checché se ne dica, una rivoluzione l’ha fatta. Si chiama Basaglia. La legge 180 dà fastidio a molti ancora oggi. L’accusa più morbida che si possa sentire è che Basaglia, criticando la psichiatria finì con il cadere nell’antiscienza e nell’irrazionalismo. Se ne parlerà oggi nel convegno "Franco Basaglia e la filosofia del ‘900" con Eugenio Borgna, Mario Colucci, Romolo Rossi, Massimo Recalcati, Ota De Leonardis, Alessandro Dal Lago, Carlo Sini e Pier Aldo Rovatti (Milano, via Festa del Perdono 7, aula Crociera Alta, dalle 9 alle 17). Cosa è vivo, cosa è morto della svolta basagliana? Lo chiediamo a Massimo Recalcati, psicoanalista e docente di psicopatologia del comportamento alimentare.
Cosa c’è che non funziona nella 180 e cosa continua ancora oggi a funzionare? La battaglia di Basaglia contro l’istituzione del manicomio è stata anche una battaglia svolta all’interno della psichiatria, contro la psichiatria, ovvero contro il suo ruolo sociale di difesa della società dal folle, dal deviante, dal pazzo. La chiusura dei manicomi è stato un atto giusto di soppressione di istituzioni tanto violente, oscene e brutali quanto inutili ai fini terapeutico-riabilitativi. Ma Basaglia era preoccupato per il futuro della psichiatria e del trattamento della malattia mentale dopo l’approvazione della Legge. Il suo ragionamento non è mai stato: poiché la malattia mentale non esiste ma è solo il prodotto del manicomio se chiudiamo il manicomio risolviamo per sempre il problema della malattia mentale. Per Basaglia l’abolizione dei manicomi significa piuttosto l’assunzione di una nuova responsabilità da parte delle istituzioni per promuovere una logica alternativa di intervento rispetto a quella disciplinare e segregativa; una logica reticolare, frammentata, indebolita. La battaglia culturale e politica auspicata da Basaglia all’indomani dell’approvazione della Legge 180 è ancora da giocarsi.
Si accusa Basaglia di aver negato che la psichiatria è una scienza. È davvero così? In realtà Basaglia rifiutò sempre di considerarsi un antipsichiatra, anzi egli rivendicò il suo far parte della psichiatria. Il rifiuto dell’antipsichiatria e il rifiuto nei confronti di una esaltazione ideologica della follia si spiegano considerando l’atteggiamento di fondo di Basaglia: cambiare dall’interno la psichiatria, produrre una rivoluzione nel discorso della psichiatria, nella sua stessa identità e nelle sue istituzioni. Se si rileggono gli scritti di Basaglia si resta colpiti da un movimento di cesura che li attraversa. Sino alla metà degli anni sessanta è un giovane psichiatra di impostazione fenomenologica che si occupa da psicopatologo della malattia mentale con la preoccupazione vivissima di salvaguardare la soggettività del malato di fronte alla violenza del sapere psichiatrico e della sua attitudine a ricoprire la dimensione più misteriosa e dunque più particolare dell’essere umano con un uso anonimo e oggettivante delle categorie nosografiche. Basaglia avvertiva allora la necessità di operare una sospensione, una epoché, di tutte queste categorie sclerotizzate per poter ridare parola al paziente. Dalla metà degli anni sessanta il protagonista dei suoi scritti cambia; non è più la soggettività sommersa del paziente e il suo essere ridotto ad oggetto da un uso reificato del linguaggio psichiatrico ma è il manicomio come istituzione capace di produrre un soggetto alienato. Esso non rappresenta solo un’istituzione disciplinare brutale che distrugge la soggettività degli internati ma è anche l’espressione del carattere ideologico della psichiatria che, attraverso il manicomio, risponde all’esigenza di ordine sociale della borghesia confinandovi coloro che deviano dalla norma stabilita dalla ragione. Si consuma qui il passaggio dalla fenomenologia al marxismo. È necessaria una strategia politica più articolata e più radicale che investa la struttura stessa del potere psichiatrico, cioè il manicomio. Ma il motivo di fondo dell’insegnamento di Basaglia è sempre stato un motivo umanistico: salvare l’uomo dall’alienazione, liberare la soggettività dalla prigione del sapere-potere.
La follia non è malattia. L’analista deve restare in ascolto dell’altro e spogliarsi d’ogni certezza. È questo l’aspetto più attuale di Basaglia? Indubbiamente di fronte alla avanzata recente della cosiddetta psicologia scientifica, vedi, per esempio, le terapie cognitivo-comportamentali e delle sue nuove tecniche di addestramento disciplinare del soggetto, l’appello di Basaglia all’importanza dell’"incontro" con il paziente, al rifiuto di trattamenti coercitivi, alla valorizzazione dell’ascolto della parola e della storia del paziente, alla critica nei confronti di un uso difensivo e violento delle categorie diagnostiche, ma soprattutto la sua problematizzazione dialettica della nozione di confine, di confine tra normalità e anormalità, tra razionalità e irrazionalità, tra corpo individuale e corpo sociale, tra soggetto e istituzione, laddove ritiene che questo confine non può funzionare da barriera, non deve servire cioè a definire solo delle identità chiuse, separate le une dalle altre, ma deve essere in grado di rendersi permeabile a transiti differenti, ebbene tutta questa problematica ha un respiro etico tale da apparire ancora oggi come una riflessione di grande valore e non solo nel campo della clinica. La questione basagliana del confine pone il problema di come iscrivere la libertà individuale in una comunità che non operi per esclusioni del diverso ma per la via della sua integrazione.
Basaglia contesta la scienza in quanto legittimazione ultima del manicomio. C’è affinità con il gesto etico di Lacan contro il "soggetto presunto sapere"? Basaglia e Lacan hanno lavorato negli stessi anni ma si sono più o meno ignorati. E sarebbe prezioso ricostruire un possibile dialogo tra questi due grandi figure della storia della psichiatria e della psicoanalisi. E se provassimo a ricostruire questo dialogo mancato potremmo notare che esistono diversi motivi comuni. Uno tra questi è la critica non tanto alla scienza in quanto tale, ma alla sua degenerazione scientista, disumanizzante, violenta, segregativa. Per Basaglia e per Lacan la dimensione particolare della soggettività è ciò che più conta. Con una precisazione però; la soggettività di cui entrambi parlano non coincide affatto con l’individualità chiusa su se stessa, con l’interiorità psicologica, di cui una certa psicoanalisi dopo Freud ha fatto l’elogio. Un altro motivo comune è anche la critica radicale alla versione "borghese", direbbe Basaglia, della psicoanalisi. Quella versione che isola e separa astrattamente il mondo interno dal mondo esterno, l’individuale dal sociale, e che pone come obbiettivo di una cura psicoanalitica l’adattamento acritico del soggetto al principio di realtà, all’ordine stabilito, al mondo così com’è, spegnendo di fatto ogni slancio creativo e ogni prassi capace di realizzare trasformazioni. Sulmona: rissa tra detenuti, un ricoverato in gravi condizioni
Ansa, 10 dicembre 2008
Una lite per futili motivi degenera e un detenuto, caduto a terra dopo essere stato colpito, batte la testa. Adesso è in gravi condizioni all’ospedale dell’Aquila. L’episodio, svoltosi nella sala ricreativa del supercarcere di Sulmona, ha visto coinvolti due detenuti internati, quelli, cioè che, pur avendo già scontato la pena, in attesa di poter essere ricollocati nella società, trascorrono un periodo supplementare in carcere perché socialmente pericolosi. All’origine un diverbio, sembra per futili motivi, poi le botte che hanno causato al detenuto, del quale non si conosce il nome e l’età, lo sfondamento del timpano. Al momento dell’arrivo all’ospedale di Sulmona ha perso conoscenza, poi è stato deciso il trasferimento al nosocomio aquilano, dove si trova attualmente ricoverato in condizioni che destano preoccupazione tra i medici che lo hanno in cura. Vicenza: 450 mila euro per reinserimento e misure alternative
Veneto Sociale, 10 dicembre 2008
Assessore Regionale Stefano Valdegamberi: "450 mila euro di contributi all’associazione Diakonia di Vicenza per la promozione dei reinserimenti socio lavorativi e le misure alternative al carcere". Per promuovere percorsi di reinserimento socio lavorativo a favore delle persone detenute nelle carceri di Vicenza e Padova, la Giunta regionale, su proposta dell’Assessore regionale alle politiche sociali Stefano Valdegamberi, ha deliberato l’approvazione di un contributo straordinario di 450 mila euro all’Associazione Diakonia Onlus di Vicenza per la prosecuzione e implementazione a livello regionale del progetto triennale, 2008-2010, "Il lembo del mantello". "Tale progetto - spiega l’Assessore - parte dal presupposto, suffragato dalle statistiche del Ministero della Giustizia, che la fruizione delle misure alternative al carcere, da parte delle persone condannate, diminuisca la recidiva". Il provvedimento riguarda anche le persone detenute che siano in esecuzione penale esterna o ex-detenute nei primi sei mesi di post detenzione, in situazione di disagio sociale con scarsità di sostegni familiari. Il provvedimento è previsto dalla legge finanziaria regionale per il 2008. L’Osservatorio regionale devianze, carcere e marginalità sociale dovrà effettuare la funzione di monitoraggio e verifica delle azioni relative all’inserimento socio lavorativo, il lavoro di rete e all’implementazione. Il progetto dovrà prevedere la strutturazione di rapporti formali con il Tribunale di Sorveglianza, le Direzioni degli Istituti di Pena e degli Uffici di Esecuzione Penale interessati e, nello stesso tempo, sistematizzare la stretta collaborazione con gli Enti Locali. "La Regione Veneto - spiega l’Assessore Valdegamberi - riconosce nella realtà del Terzo Settore una peculiare ricchezza del nostro territorio, da promuovere e valorizzare a garanzia della coesione sociale e della diffusione di una cultura della solidarietà e della legalità, e da anni sostiene i soggetti del non profit, come quest’associazione vicentina, in interventi a forte valenza educativa, a favore delle persone detenute e in esecuzione penale esterna. Questi interventi regionali si inseriscono coerentemente nel nostro ordinamento costituzionale il quale prevede, all’articolo 27, la finalità rieducativi della pena e la sua finalizzazione al reinserimento sociale delle persone detenute". Voghera: Uil; pochi agenti per il carcere, situazione è a rischio
La Provincia Pavese, 10 dicembre 2008
Gianluigi Madonia, sindacalista della Uil Lombardia, definisce preoccupante la situazione del carcere di via Prati Nuovi. "La situazione che ci preoccupa, che è fortemente legata alla gestione del servizio (quindi anche le ferie), è il continuo defluire di risorse umane in uscita: pensionamenti (ancora due per il 2009), pre-pensionamenti per infermità, distacchi, sospensioni dal servizio, destituzioni e/o passaggi a ruoli civili. E Madonia prosegue: "L’organico assegnato sarebbe di 193 unità e la massiccia carenza dovuta alle predette ragioni fa sì che il personale assegnato alle turnazioni 24 ore su 24 è stimabile a circa 90 unità (dato variabile per continua movimentazione out-in). Ebbene dagli ultimi dati forniti dalla direzione, ma basterebbe guardare la progettazione dell’istituto, la normale copertura dei posti di servizio sarebbe soddisfatta con la presenza, nell’arco delle 24 ore, di 88 unità, ciò significherebbe un esiguo "esubero" di 2 unità. Dato che dovrebbe far fronte alle previsioni di assenza convenzionale pari al 35%, così come indicato in una recente circolare, a firma dell’ex Capo del Dipartimento. La situazione è davvero allarmante". Ancora il rappresentante della Uil: "La direzione non provvede ad adeguare il numero dei posti di servizio all’organico effettivamente presente. Vige quindi una continua e vorticosissima oscillazione tra scopertura di posti di servizio e mancato riconoscimento dei diritti. Inoltre nei periodi più caldi dell’anno, estivi e festivi, le presenze sono prossime ai 250 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 163, situazioni di estremo sovraffollamento e di pessima civiltà". La Uil sostiene che la pianta organica prevista dal Decreto Ministeriale del 2001 non è più corrispondente alle effettive esigenze dell’istituto, che nel frattempo, ha subìto una serie di cambiamenti. "Tuttavia è doveroso, nei confronti dello stesso personale, apprezzare come in questi anni non si siano registrati particolari eventi critici o situazioni di emergenza. Buone dosi di fortuna sì, ma anche alto senso di responsabilità, abnegazione ed attaccamento al servizio. Quello stesso personale che continua, sommesso ed umile, a sopportare, portando comunque sempre a termine il proprio turno di lavoro con onore". Senza ombra di dubbio l’appello del segretario regionale della Uil, mette un po’ con le spalle al muro l’amministrazione penitenziaria, a tutti i livelli. Reggio Emilia: don Luigi in pensione, c’è un nuovo cappellano
La Gazzetta di Reggio, 10 dicembre 2008
Il testimone è stato passato: il carcere reggiano ha un nuovo cappellano. Dopo 38 anni don Luigi Veratti fa "largo ai giovani", lasciando il posto a don Matteo Mioni, fratello della carità e vicario parrocchiale per la comunità di San Luigi Gonzaga, nel quartiere Rosta Nuova. Un mandato concluso per raggiungimento dell’età pensionabile, ma don Luigi non ha esaurito il suo entusiasmo per la missione intrapresa nel lontano 1970. Sempre in silenzio, lontano dai riflettori. "È tempo che nel ruolo di cappellano del carcere si cali un prete più giovane come don Matteo, abituato ad avere sulle spalle una parrocchia con tanti ragazzi - commenta - il lavoro è diventato pesante, in questi decenni ho visto cambiare molto la realtà del carcere. Basti pensare che all’inizio mi dovevo occupare solo di 60, 70 detenuti al massimo, mentre ora i numeri sono decisamente più alti. Altro fattore è che in principio erano quasi tutti italiani, mentre ora sono per la maggior parte stranieri con provenienze, lingue e culture davvero diverse tra loro, il che complica il lavoro". Un’attività che l’ex cappellano conosce bene ma che fatica a descrivere in poche parole. "Tra detenuti e famiglie c’è sempre tanto da fare, è impossibile riassumere a voce l’opera di ascolto, preghiera e vicinanza alle persone che un cappellano deve affrontare ogni giorno e ogni anno di più". Ma don Veratti non è stanco, non sparirà, il carcere ormai è per lui una seconda dimora. "Per il primo periodo affiancherò don Matteo per dargli le informazioni necessarie, poi manterrò la mia presenza come volontario". Don Veratti ha vissuto l’uccisione del cappellano dell’Opg don Amos Barigazzi e ha visto passare centinaia di volti nelle celle, senza mai perdere la forza di lottare. Padova: con Associazione Fantalica mostra opere dei detenuti
Il Padova, 10 dicembre 2008
L’associazione Fantalica di Padova, da alcuni anni impegnata nella valorizzazione delle forme d’arte contemporanea e nella sensibilizzazione verso tematiche sociali, e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Albignasego in collaborazione con la Pro Loco, propongono un’esposizione dei lavori realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Padova in occasione del progetto "Creatività 2007". L’attività nasce dall’esperienza maturata negli ultimi quattro anni alla Casa Circondariale di Padova, in cui l’associazione propone regolarmente corsi di pittura rivolti alla popolazione carceraria, grazie al finanziamento della Regione Veneto. Il percorso svolto in carcere dalle due artiste Debora Antonello e Vanilla Ragana nel corso del 2007 e del 2008 ha portato alla realizzazione di lavori che fanno emergere il disagio della condizione di reclusione, ma al contempo in grado di coinvolgere i partecipanti in un percorso di riflessione interiore. L’esposizione intende quindi offrire l’opportunità di conoscere, attraverso gli occhi di chi lo vive, il difficile ambiente del carcere, evidenziando in particolare la voglia di riscatto e di cambiamento che spesso si riesce a cogliere dai lavori artistici prodotti. La selezione delle opere è stata realizzata sulla base di un criterio tecnico e tematico. La mostra comprende 36 fra incisioni, dipinti, collage e opere a tecnica mista, suddivise in due tematiche principali: il tema dell’albero inteso come metafora della vita e quello delle emozioni interiori, come la gioia, la rabbia, la tristezza, la serenità. L’inaugurazione della mostra è in programma sabato 13 dicembre alle ore 10.30 in Villa Obizzi. Le opere rimarranno esposte fino a sabato 20 dicembre. Orari di apertura: Dal lunedì al venerdì: dalle ore 15.30 alle ore 18.30; Sabato e domenica: dalle ore 10 alle ore 12 e dalle ore 15.30 alle ore 18.30. Bologna: i detenuti all’Arena del Sole, recitano nel "Gulliver" Sabrina Camonchia
Il Domani, 10 dicembre 2008
Detenuti ma anche attori. Sempre più nel nostro paese, su imitazione di altre e analoghe esperienze europee, il teatro entra fra le pareti del carcere per poi uscirne, per mostrarsi all’esterno. La Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, che lavora al carcere di Volterra, è l’esempio principe in questo campo, attivo dalla prima metà degli anni Novanta i suoi spettacoli vanno in tour, i critici teatrali ne parlano e recensiscono i suoi spettacoli. Il "nostro" Paolo Billi è da almeno dieci anni che lavora all’interno dell’Istituto Penale Minorile di via del Pratello, con ragazzi difficili, problematici, soprattutto immigrati, con i quali ha creato la Compagnia del Pratello. Il suo ultimo lavoro, con cui ha festeggiato i dieci anni di attività proprio quest’anno, si intitola L’ultimo viaggio del Gulliver, tappa conclusiva di una ricerca attorno l’opera di Jonathan Swift, che il regista ha iniziato lo scorso maggio con il Cantico degli Yahoo, spettacolo con alcuni detenuti del carcere della Dozza. La sua attenzione, dunque, si è spostata per un attimo dal mondo dei ragazzi a quello degli adulti. Sarà proprio questo spettacolo, che per la prima volta vede recitare alcuni detenuti della Dozza a teatro, a essere messo in scena questa sera e domani all’Arena del Sole, il teatro stabile di via Indipendenza (dalle 21.30). Scritto e diretto dallo stesso regista, lo spettacolo è l’ultimo atto di quel laboratorio iniziato nella scorsa primavera con gli attori -più giovani. Cantico degli Yahoo. Giratorio per voci e pianoforte era nato per essere rappresentato soltanto all’interno della casa circondariale bolognese, poi l’idea di portarlo fuori, in un teatro vero, con un pubblico. vero. Le due rappresentazioni sono state rese possibile grazie al Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna e alla direzione della Casa Circondariale di Bologna. Fino a un mese fa, per problemi burocratici, non si sapeva se lo spettacolo sarebbe andato in scena o meno. Alla fine, tre degli attori - detenuti (Gianfranco, Slim e Macram, compreso il protagonista), non hanno ottenuto il permesso di lasciare il carcere, Per questo lo spettacolo, senza allestimento scenico, andrà in forma di oratorio, con quattro attori che reciteranno dal leggìo accompagnati al pianoforte da Daniele Furiati, autore delle musiche. "Quello di Bologna - ha ricordato l’altro giorno il neo direttore pro-tempore, Gianluca Candiano durante la presentazione dello spettacolo - è il quinto, carcere italiano, con 1.080 detenuti. Ha grossi problemi di sovraffollamento e una carenza di duecento agenti e otto educatori. Se verrò confermato a Bologna, rilancerò iniziative come questa e mi impegno a porre il problema della Dozza a livello istituzionale affinché i suoi problemi possano essere in qualche maniera risolti". Il regista e ideatore dello spettacolo, Paolo Billi, ha voluto dedicarlo ai tre attori che non potranno parteciparvi. Per informazioni: 051.2910910. Busto: detenuti-attori in documentario "Via per Cassano 102"
Varese News, 10 dicembre 2008
Il video "Via per Cassano 102" realizzato da Mauro Colombo per raccontare il lavoro nella Casa Circondariale bustocca. I detenuti diventano attori e raccontano il lavoro in carcere. Cuochi, giardinieri, muratori e altro. Sono solo alcune della attività lavorative che i detenuti del carcere di Busto Arsizio possono svolgere. A raccontarci le loro esperienze sono i detenuti stessi che a luglio 2008 sono diventati "attori" per un cortometraggio realizzato dal regista Mauro Colombo e Massimo Lazzaroni . Il video si intitola "Via per Cassano 102", ovvero l’indirizzo della Casa Circondariale ed è stato nuovamente proiettato giovedì 27 novembre in occasione dell’incontro al Cesvov di Varese. In quell’occasione si è parlato di "Carcere e società civile" nell’ambito della rassegna di cinema e documentazione sociale "Un posto nel mondo". La serata aveva lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza ai problemi del carcere e di quanti vi si trovano, forzosamente (i detenuti), ma anche per lavoro (il personale), o volontariamente, come le non poche persone che aiutano nelle attività lavorative e di reinserimento sociale. "In carcere ho la fortuna di lavorare". È questa la frase che apre il cortometraggio. A pronunciarla è Marco, cuoco del carcere: alla sue testimonianza ne seguono altre che danno un’idea - per quanto superficiale - di una "giornata tipo" raccontata da persone che in carcere vivono da anni e che nel lavoro hanno trovato "una mezza libertà", come racconta Roman. Ecco allora che quando la cella si apre al mattino presto inizia la giornata di Marco, cuoco dell’istituto, che spiega che "io fuori ho sempre lavorato. Quando sono arrivato qui, i primi tempi non avevo niente da fare e la testa andava per i fatti suoi. Avevo toccato il fondo. Il lavoro invece ti permette non solo di essere impegnato, ma di guadagnare anche qualcosa per te e la tua famiglia". E proprio la famiglia è il pensiero più bello, ma anche più doloroso per i detenuti. "Mio figlio è nato quando ero già qui dentro: non l’ho mai visto". "Non so come fai a resistere: i miei vengono a trovarmi spesso, le loro visite per me sono importantissime". Sono le "tipiche" chiacchiere di due detenuti mentre "passeggiano" avanti e indietro per il piccolo sportivo. Un piccolo viaggio, di pochi minuti, in un mondo che chi "sta fuori" difficilmente riesce a immaginare. Busto: "Fuggi... fuggi", dal carcere non si scappa ma si corre
Varese News, 10 dicembre 2008
La prima corsa podistica in carcere: un nigerino ha vinto "Fuggi...Fuggi!", la gara organizzata dalla Uisp all’interno della casa circondariale bustese. La legge africana ha dominato anche la prima edizione di "Fuggi...Fuggi", la corsa tra le mura del carcere alla quale hanno partecipato una cinquantina di detenuti della casa circondariale bustese. Ad organizzare la competizione è stata la Uisp (Unione italiana sport per tutti) e alla gara, tenutasi questa mattina martedì 9 dicembre, hanno partecipato circa 50 detenuti. Molti gli stranieri presenti alla competizione tanto da far respirare alla gara un clima da Olimpiadi. La classifica finale, però, ha premiato l’Africa che, di fronte alle gare di fondo e mezzo fondo non ha rivali. I 5,5 km intorno al carcere sono stati percorsi in poco meno di 20 minuti da Moubarak Aboubaker, 24 enne del Niger, seconda piazza per il marocchino Hasshi Brahim, 26 anni, e terzo posto per Gueye Seringe Matar, senegalese di 27 anni. Monopolio del continente nero anche al quarto e quinto posto mentre i sudamericani, in diversi hanno partecipato, si sono piazzati a ridosso dei primi. Male i detenuti italiani che, oltre ad aver partecipato in pochi, non hanno brillato. La competizione ha animato gli spiriti e le menti e la premiazione, dopo un bel tè caldo, è stato un momento di festa senza recriminazioni o proteste. I detenuti sono rimasti ad applaudire dall’ultimo al primo premiato, sempre con la stessa intensità di applausi e incitazioni. Soddisfazione è stata espressa dalla responsabile dell’area trattamentale del carcere Rita Gaeta che è stata premiata per l’importante lavoro svolto nella creazione di attività educative e di lavoro per i carcerati. Il vincitore della gara Moubarik Aboubaker è apparso molto emozionato subito dopo la vittoria e racconta il suo sogno a Varesenews, una volta che sarà uscito dal carcere tra circa un mese: "Vengo dal Niger, dalla città di Nyamai, - ha raccontato Moubarik - qui ho chiesto asilo politico perché nel mio Paese non si può più vivere. Sono finito dentro 5 mesi perché non ho i documenti e quando uscirò di qui il mio sogno è andare in Finlandia, so che è più freddo di qua ma lì ho parenti. Una volta uscito mi daranno 5 giorni di tempo per lasciare l’Italia. Non so se riuscirò a farcela in così poco tempo e la mia paura è che mi arrestino di nuovo o, peggio, che mi riportino al mio Paese. Si sta meglio qui in carcere". Grande soddisfazione per Alessandra Pessina della Uisp, che ha organizzato l’iniziativa: "È stata un successo, speriamo di poterla ripetere anche con gente esterna". Roma: domani convegno su riforma di medicina penitenziaria
Comunicato stampa, 10 dicembre 2008
Riforma della medicina penitenziaria e federalismo. A che punto siamo? Giovedì 11 dicembre 2008 - ore 9.00/12.30. Camera dei deputati - Palazzo Marini - Sala delle conferenze - Via del Pozzetto 158, Roma. Il 1° aprile di quest’anno è stato avviato con decreto del presidente del Consiglio il trasferimento della sanità penitenziaria dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Si tratta di una riforma complessa e difficile, di alto valore civile, che colloca l’Italia all’avanguardia in Europa e porta nelle carceri italiane l’impostazione dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Per la prima volta Regioni, province autonome ed enti locali assumono competenze e responsabilità per la salute dei detenuti attuando e mettendo alla prova il federalismo istituzionale. Ma il trasferimento delle competenze è solo l’inizio di un riordino della medicina penitenziaria cui debbono seguire trasferimenti di risorse finanziarie congrue, da parte dello Stato, e modelli organizzativi da stabilire, da parte delle Regioni e delle Province autonome, che consentano di armonizzare la compresenza nel carcere di due ordinamenti distinti, il penitenziario e il sanitario. Nel corso della mattinata viene presentato il volume di Bruno Benigni Sani dentro. Cronistoria di una riforma (Legautonomie e Noema edizioni). La mattinata, introdotta da Bruno Benigni, presidente del Centro Franco Basaglia di Arezzo e animatore del Forum nazionale per il diritto alla salute in carcere, oltre che da esperti e amministratori locali, vede la partecipazione di Ferruccio Fazio, sottosegretario per la Salute, Giacomo Caliendo, sottosegretario per la Giustizia, Franco Ionta, capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Livia Turco, XII Commissione affari sociali della Camera, Leda Colombini, presidente del Forum-Legautonomie, di Angiolo Marroni, Coordinatore Nazionale dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti, e di Oriano Giovanelli, presidente di Legautonomie.
Annalisa Scalco, 3296148860 Marco Leone, 3356949151 Mondo: rapporto della Fao, 1 miliardo di persone soffre fame di Giampaolo Cadalanu
La Repubblica, 10 dicembre 2008
Mancano solo sei anni, poi finalmente l’ipocrisia sarà svelata: gli Obiettivi del Millennio, la formula-slogan con cui i potenti della terra avevano preso l’impegno di dimezzare la fame nel mondo, non saranno realizzati. Il nuovo rapporto 2008 sulla "insicurezza alimentare" presentato ieri dalla Fao è ormai più un grido di dolore che un allarme. Invece che diminuire, la quota complessiva degli esseri umani sottonutriti aumenta: ora sfiora il miliardo. Il conteggio si ferma a 963 milioni, quasi che la cifra tonda sia un’oscenità insostenibile. Ma anche questo gradino sarà superato presto: l’ultimo salto, pari a 40 milioni di persone, è stato registrato nel solo 2008. Due anni fa erano 115 milioni in meno, nel 1996 erano 832 milioni. Per salvare gli affamati servono 30 miliardi di dollari l’anno, poca cosa in confronto alle spese per armamenti, o alle somme stanziate per la crisi economica, ribadisce per l’ennesima volta Jacques Diouf, direttore dell’agenzia Onu. Il tema è ben noto, ma stavolta non è un ritornello stantìo. C’è una nota nuova, l’unica, ma significativa. Nel 2009 l’Occidente, e dunque il mondo intero, sarà diverso. Yes, we can: deve valere anche per gli altri, chiede Diouf. Deve allargarsi al pianeta intero la speranza di cambiamento suscitata negli Stati Uniti dall’avvento del primo presidente nero. "Ho chiesto ad Obama di farsi promotore di un’iniziativa per un summit che abbia come obiettivo sradicare la povertà dal pianeta", annuncia il direttore della Fao. Insomma, "possiamo farcela". L’alternativa è già nel panorama struggente descritto da Jacques Diouf. Il 65 per cento degli affamati vive in soli sette paesi, dice il responsabile dell’agenzia. Nell’Africa subshariana una persona su tre è cronicamente affamata e nei mesi scorsi rivolte per il cibo sono scoppiate in 25 paesi. L’escalation delle emergenze è in parte legata all’andamento perverso dei mercati: quando le quotazioni degli alimentari sono alte, i consumatori più poveri non possono permettersi la spesa. Se invece i prezzi si abbassano, allora sono i contadini poveri a non poter sopravvivere, anche perché le sementi restano care. E con i prezzi alti, i paesi in via di sviluppo non sono stati nemmeno in grado di aumentare la produzione. Di fronte al disastro, non è più tabù mettere in discussione il modello di sviluppo e contestare il feticcio dell’agricoltura intensiva per l’esportazione. "È urgente aiutare lo sviluppo dell’agricoltura nel Sud del mondo: basterebbe meno di un decimo dei sussidi agricoli ai paesi dell’Ocse", sintetizza Marco De Ponte di Action Aid. Ma oltre ad accogliere i richiami degli esperti e restituire dignità ai piccoli produttori, bisogna intervenire subito dove i meccanismi del mercato stanno stritolando i più deboli: la popolazione di paesi "difficili" come la Corea del nord, lo Zimbabwe, il Congo. Oppure le fasce più basse di altre società: i poveri di città e campagna, i braccianti senza terra, le donne sole con bambini. È vero che i meccanismi di controllo delle emergenze, con gli interventi del World Food Programme, riescono in genere a togliere dai telegiornali le immagini dei bambini scheletrici coperti di mosche, con la pancia piena d’aria. Ma c’è un’altra fame, che mina le esistenze e sgretola la capacità produttiva, più insidiosa perché meno visibile. Non è quella che uccide in pochi mesi, è quella che nega agli esseri umani un apporto calorico adeguato e dunque schiavizza i pensieri, indebolisce il sistema immunitario, impedisce il lavoro. È quella che nega anche le speranze. E allora? Allora, ripete ancora una volta Jacques Diouf, serve la solidarietà internazionale. "Non ci stanchiamo di pregare, non ci scoraggiamo. È tutta questione di priorità politica". Stati Uniti: ecco il piano di Obama per chiudere Guantanamo
La Repubblica, 10 dicembre 2008
Trasferimento dei detenuti in carceri americane, processi in tribunali federali, programmi di riabilitazione per i prigionieri. E per i più pericolosi un nuovo campo Nato in Afghanistan Così i consiglieri di Obama pensano di mettere la parola fine all’Alcatraz dei Caraibi. Presto le iguane torneranno ad essere padrone di Guantanamo. Presto, ha promesso Obama, questo spicchio dell’isola di Cuba sarà abitato solamente dalle grosse lucertole in via di estinzione, perciò protette dagli animalisti, mentre quegli strani esseri in tunica arancione e catene scompariranno. "Qui, hanno avuto più diritti le iguane dei detenuti" scherza qualche avvocato, quando ancora ne ha la forza. Non ci sarà più "l’Alcatraz dei Caraibi", il marchio della vergogna, l’infame rovescio della "Guerra al Terrore". "How to close Guantanamo". L’American Progress ha dato forma alle parole di Barack Obama. Ecco come chiudere Guantanamo, scrive la prestigiosa fondazione guidata da John Podesta, a capo del "transition team", nel rapporto appena consegnato al presidente eletto. Il think tank liberal ha tracciato una dettagliata tabella di marcia: entro 18 mesi dall’insediamento di Obama i cancelli di Camp Delta dovranno chiudersi per sempre. I punti del piano sono articolati in varie fasi. Dal trasferimento dei detenuti in una prigione americana, probabilmente in Kansas o Colorado, alle modalità per nuovi processi presso tribunali federali (New York o Washington), all’avvio di programmi di "riabilitazione" per gli ex galeotti, fino al trasferimento dei soggetti più pericolosi (che continueranno a chiamarsi "combattenti nemici") verso una nuova base Nato vicino a Bagram, in Afghanistan. "Dobbiamo fare in fretta". Ken Gude, giovane ricercatore dell’American Progress, si scioglie la cravatta nell’ufficio di H Street, a Washington. In questi giorni si fanno gli straordinari per lavorare alla Transizione. "Più va avanti, più si complica", continua Gude a proposito di Guantanamo. Dopo la sentenza della Corte Suprema che ha riconosciuto ai detenuti le garanzie dell’habeas corpus, i tribunali federali sono sommersi di richieste: si accumulano precedenti e scarcerazioni. Qualcuno ipotizza addirittura che alcuni prigionieri possano chiedere asilo politico negli Usa. Il piano dei ricercatori del think tank è pronto. Una prima versione era stata preparata in giugno, dopo la sentenza della Corte Suprema. Ora è stata completamente aggiornata alla luce delle ultime novità e della volontà politica di Obama di "velocizzare il piano". Il rapporto sarà il canovaccio su cui il nuovo presidente organizzerà la discussione politica nelle prossime settimane. Potrà essere emendato in qualche punto ma rimarrà probabilmente integro sulle linee guida. L’annuncio della chiusura della prigione e l’azzeramento delle "commissioni militari" potrebbe avvenire già al momento del suo insediamento, il 20 gennaio, o nei giorni immediatamente successivi. Da quel momento - scrive il rapporto - ci saranno 18 mesi di tempo per concludere il piano. L’obiettivo del nuovo presidente è poter dire entro luglio 2010 che Guantanamo non esiste più. Il primo passo ufficiale sarà il trasferimento all’interno degli Stati Uniti, forse in primavera, di un piccolo gruppo di detenuti incolpati e in attesa di giudizio. Il rapporto individua la prigione di massima sicurezza "Supermax" di Florence, in Colorado, e la base militare di Fort Leavenworth, in Kansas. Sulla sorte dei circa 250 detenuti che si trovano ancora nella baia dei dannati deciderà il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. L’organo diretto dall’ex generale dei marines Jim Jones dovrà decidere chi tra i detenuti deve essere trasferito negli Usa per un processo e chi dovrà essere semplicemente liberato. Una terza categoria di detenuti - di più complessa gestione - sarà formata da individui su cui non sono stati raccolti sufficienti indizi ma che vengono considerati comunque una minaccia per la sicurezza nazionale: per loro dovrà essere cercata una sistemazione all’estero. "Nessuna forma di detenzione preventiva né giurisdizione speciale all’interno degli Stati Uniti". Sono questi i due paletti normativi fissati dal rapporto. L’ipotesi di nuovi "tribunali speciali" era stata avanzata mesi fa da Eric Holder, ora nominato ministro della Giustizia, e da Laurence Tribe, professore di diritto ad Harvard e tra i consulenti di Obama. "Un organo "ibrido" - era la proposta di Tribe - a metà tra i tribunali federali e le corti militari". "Sarebbe molto negativo", ribatte Gude, con un giudizio secco. Questi tribunali speciali rischierebbero di essere invalidati dalla Corte Suprema. Il piano dei ricercatori guidati da John Podesta sostiene invece che tutti gli imputati potranno essere giudicati dai tribunali federali di New York e Washington con l’accusa di terrorismo, oppure da una corte militare regolare se accusati di attacchi contro l’esercito americano. Un’altra scelta dirimente nel rapporto presentato a Obama riguarda il dilemma sull’utilizzo di confessioni ottenute attraverso tortura e metodi inumani come la "sleep deprivation", la privazione del sonno. "Il nostro ordinamento non lo prevede" afferma il rapporto. Khalid Sheikh Mohammed, interrogato con il "waterboarding", l’annegamento simulato, sarà allora liberato? "Le prove raccolte contro di lui - spiega Gude - sono tali e tante che le probabilità che possa essere assolto sono comunque pari a zero". I tribunali federali, aggiunge, hanno già dato prova di funzionare sui reati di terrorismo con i processi a Zacarias Moussaoui e José Padilla. I collaboratori di Obama si sono comunque accorti che quella promessa - chiudere Guantanamo - nasconde molti rebus. Persino mandar via i suoi "ospiti" è diventato impossibile. Il Pentagono finora non ha voluto rispedire a casa quasi un centinaio di detenuti dello Yemen, temendo che sarebbero evasi o scarcerati. Per tornare poi a combattere contro gli Stati Uniti. Qualche mese fa, un ex detenuto di Guantanamo ha partecipato a un attacco contro le forze americane in Iraq. L’America, inoltre, non può rimpatriare detenuti provenienti da Paesi dove ci sono paesi che ancora praticano la tortura. È l’ostacolo che bisogna affrontare per i prigionieri di Cina, Russia, Tunisia, Libia, Uzbekistan. Il rapporto propone di effettuare "programmi di riabilitazione" con personale religioso sul modello di quelli già organizzati in Iraq e Arabia Saudita per gli ex terroristi. "Questi soggetti potranno poi trovare ospitalità in paesi terzi, tra Europa e Medio Oriente" suggerisce il Center for American Progress. "Le trattative diplomatiche per ottenere il rimpatrio alle nostre condizioni sarà molto lungo", pronostica Matthew Waxman, professore di diritto alla Columbia ed ex funzionario del Pentagono dimissionario proprio in polemica su Guantanamo. Il tempo però non è molto. Dopo anni di battaglie, gli avvocati dei diritti umani stanno finalmente vincendo. Salim Hamdan, l’autista di Osama Bin Laden, è riuscito pochi giorni fa a tornare in Yemen. Quando Obama giurerà da presidente, Hamdan sarà libero e forse nuovi detenuti saranno stati scarcerati. Il nuovo presidente farà anche qualche compromesso. Il controverso statuto di "combattente nemico" verrà mantenuto per quei detenuti considerati dal Pentagono "estremamente pericolosi". "Tra 15 e 25 soggetti" quantifica Ken Gude. "Ma la definizione di combattente nemico illegale - aggiunge - sarà intesa in un senso molto meno vago che durante l’Amministrazione Bush e nel rispetto dell’articolo 5 della Convenzione di Ginevra". Gli irriducibili della guerra contro l’America dovranno essere trasferiti in una nuova prigione fuori dagli Stati Uniti, gestita dalla Nato. Da Guantanamo torneranno laddove erano stati catturati: in Afghanistan. Lontano dall’America che ha fretta di dimenticare. Stati Uniti: Guantanamo addio… tre motivi per fare in fretta di Antonio Cassese
La Repubblica, 10 dicembre 2008
Perché Guantanamo rimarrà per sempre un buco nero nella democrazia statunitense, una macchia infamante per la grandi tradizioni di quel paese? Per tre ragioni principali. Anzitutto, gli Usa, pur sapendo che in guerra non esistono che i "combattenti" (che possono essere uccisi e, in caso di cattura, vanno trattati come prigionieri di guerra) e i "civili"(che vanno risparmiati) hanno inventato una terza categoria: quella dei "combattenti illegali nemici" un categoria in cui hanno ficcato tutti i presunti terroristi o combattenti che hanno arrestato in Afghanistan, in Iraq o in Pakistan (compreso l’autista di Bin Laden e tutti coloro che avevano solo partecipato ad addestramenti militari in campi pachistani o afghani, senza poi partecipare ad alcun combattimento). Questi "combattenti illegali" non hanno né i diritti dei civili (perché possono essere oggetto di attacchi armati, ed uccisi o feriti) né i diritti dei membri delle forze armate, perché in caso di cattura non godono del trattamento dei prigionieri di guerra. Il campo di Guantánamo, nella base militare statunitense a Cuba, è stato utilizzato per detenere tutti costoro. Ora, l’esistenza di questa terza categoria, conclamata solo da un altro Governo, quello israeliano, è inammissibile, ed infatti è stata contestata da giuristi e uomini di stato; cosa ancora più importante, è stata nettamente negata dalla Corte Suprema di Israele nell’importante sentenza del 14 dicembre 2006 sugli "assassinii mirati." Beninteso, se civili usano le armi o compiono attacchi terroristici, devono essere catturati e processati, ma durante la loro detenzione tutti i loro diritti vanno scrupolosamente rispettati. In secondo luogo, per i detenuti di Guantánamo è stato creato un "limbo giuridico". I dirigenti di Washington hanno deciso che, siccome quel campo si trova all’estero, era lecito non applicare a quei detenuti i diritti fondamentali che spettano a qualunque persona arrestata da uno stato democratico. E così, tra l’altro, non si è riconosciuto alle 759 persone colà confinate né il diritto di habeas corpus (e cioè il diritto fondamentale che spetta ad ognuno di noi in qualunque stato civile, di contestare davanti ad un giudice la legalità dell’arresto), né il diritto di conoscere le accuse per le quali si è detenuti, e tanto meno il diritto ad un equo processo. Inoltre, le condizioni di detenzione a Guantanamo sono inumane. Così facendo, Washington ha calpestato un principio fondamentale dello stato democratico moderno: le autorità statali devono rispettare i diritti fondamentali degli individui sottoposti alla loro potestà coercitiva, dovunque tali individui si trovino, sia in patria che all’estero. Siccome i detenuti di Guantanamo sono sottoposti all’autorità degli Stati Uniti, anche se sono in territorio cubano, Washington è tenuta a riconoscere ad essi tutti i diritti sanciti nella Costituzione statunitense e nel Patto dell’Onu sui diritti civili e politici, ratificato da Washington. Allo stesso titolo le autorità italiane devono rispettare i fondamentali diritti della persona umana di tutti coloro che, in Afghanistan, in Iraq, in Libano o altrove, sono sottoposti alla potestà coercitiva dell’Italia. Insomma, dove vada e dovunque eserciti le sue prerogative sovrane, lo stato moderno deve osservare i diritti umani che si è obbligato - costituzionalmente ed internazionalmente- - a salvaguardare: l’obbligo di rispettare quei diritti segue dovunque lo stato, come l’ombra segue il corpo. In terzo luogo, l’amministrazione Bush ha deciso che a Guantanamo era lecito ciò che è vietatissimo in ogni stato civile, e cioè interrogare le persone private di libertà, usando "metodi coercitivi", e cioè la tortura. Non solo: è stato anche deciso che le prove strappate usando la tortura potevano essere ritenute valide in qualunque procedimento contro i torturati. Come vedete, con un tratto di penna si è cancellato tutte le conquiste dello stato moderno, e Beccaria è stato mandato al macero. Che Obama abbia deciso di chiudere al più presto Guantanamo è una buona notizia, anche se ci vorrà molto tempo per riparare i guasti enormi che quel buco nero ha causato al prestigio della democrazia statunitense. Guantanamo passerà alla storia come tante località prima sconosciute, diventate tristemente famose per le gravissime violazioni che vi sono state compiute: Marzabotto, Oradour-sur-Glane, Soweto, My Lai, Sabra e Chatila, Srebrenica, e tante altre.
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