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Giustizia: Caniato (Cei); nuovo Codice e misure alternative
Asca, 1 aprile 2008
Con mille nuovi detenuti ogni mese, le carceri italiane stanno di nuovo scoppiando proprio come prima dell’indulto: la denuncia arriva da mons. Giorgio Caniato, che per la Cei ricopre l’incarico di Ispettore Generale dei Cappellani Italiani. In vista delle prossime elezioni, mons. Caniato, che è stato anche cappellano di San Vittore a Milano, non arriva a chiedere un nuovo indulto. "Piuttosto serve una riforma del Codice Penale, con la depenalizzazione di molti reati, e il potenziamento delle misure alternative al carcere, come l’affidamento ai servizi sociali". Anche se, aggiunge, "molti parlamentari, non faccio nomi, si sono fatti eleggere promettendo amnistie e condoni e poi, quando è arrivato Mastella e ha fatto l’indulto, tutti si sono tirati indietro e hanno fatto finta di non esserci mai stati, oppure hanno tirato fuori dei numeri che non rispondono alla realtà". "Non è assolutamente vero - si accalora - che se la gente delinque è colpa dell’indulto. La maggior parte dei detenuti sono nuovi, pochissimi i recidivi". "Sono impressionato - spiega - dalla perdita di identità morale della società: chi arriva in carcere non sono solo i poveracci, quelli che trasgrediscono la legge per motivi economici, che sarebbero anche giustificati a rubare se muoiono di fame, ma i ricchi. C’è una grandissima crescita dei reati in famiglia, sulla strada, tra i giovani. In tanti anni non ho mai visto una situazione del genere: ho avuto solo due ragazzi dentro per omicidio quando, dal ‘59 al ‘73, sono stato cappellano del carcere minorile "Beccaria". Adesso i ragazzi che arrivano in carcere si mettono a piangere, non si rendono conto di essere responsabili della violenza. E si è persa completamente ogni fiducia nella giustizia e nella legalità". Anche la magistratura, aggiunge mons. Caniato, ha la sua grande parte di colpa in questa crisi: "Quando ero a San Vittore, durante Mani Pulite, ho conosciuto tanta casi di gente che è finita dentro ed poi stata rimandata a casa perché non aveva fatto niente. È vero che la giustizia è politicizzata". Poi, conclude, "basta con i processi mediatici come quelli di Cogne o di Erba: non dico che è colpa dei magistrati la crisi della nostra società, ma che i magistrati dovrebbero occuparsi delle indagini invece di fare conferenze stampa, altrimenti si perde credibilità e serietà". Giustizia: sul progetto di graduale superamento degli Opg di Elisabetta Laganà (Presidente del Seac)
Ristretti Orizzonti, 1 aprile 2008
Si celebrano in questi giorni i trent’anni della legge 180: in realtà questa legge è tronca senza il superamento degli Opg. Il concetto di pericolosità per malattia mentale in questi anni è rimasto presente tra le righe anche per la presenza degli Opg e ha contribuito e contribuisce a confondere due concetti, che invece vanno nettamente separati: la pericolosità sociale, che richiede misure di sicurezza, e la pericolosità per malattia mentale, che non esiste, se si attuano misure di cura. Il passaggio della sanità carceraria alla sanità pubblica costituisce la possibilità di soluzione del nodo Opg. Lo realizza nella misura in cui si abolisce ogni ipotesi di struttura intermedia che contenga ipotesi più o meno custodialistiche e più o meno carcerarie. È la sanità del territorio, del distretto, che deve assumere un ruolo diretto nella cura del paziente. Questa strada è stata percorsa da alcune realtà (Trieste) e da molti anni e testimonia la fattibilità e la semplicità del percorso ( sia nella dimissione dall’Opg, sia nell’affido ai Csm per evitare l’internamento negli Opg). Al nostro ultimo convegno nazionale Seac del dicembre 2007, Giuseppe dell’Acqua, direttore del Dsm di Trieste ha affermato che negli Opg nessun triestino è internato in Opg. Dichiarazione confermata da Giovanni Tamburino, presidente del Coordinamento Magistrati di Sorveglianza. In un altro contesto (a Matera) da vari anni alcuni psichiatri di buona volontà hanno deciso di occuparsi del loro carcere. La loro assidua frequentazione ha permesso di evitare invii in Opg. È illusorio ritenere quindi che il superamento dell’Opg sia un semplice problema di ingegneria istituzionale, operato da decisioni di vertice. La presa in carico di un paziente grave, che ha alle spalle acting out e che ha incorporato l’idea della violenza, attraverso una storia personale fatta di violenze agite e subite, non è facile. Occorre che la sua presa in carico sia reale e impegnativa, agita da alta professionalità. Occorre che chi la compie partecipi con convinzione al progetto di abilitazione ( non di ri-abilitazione che è invece un concetto astratto e contraddittorio: non esiste una idea di normalità perduta a cui occorre tornare!). Occorre che il Csm senta questo compito come una sfida, una priorità, una cartina di tornasole sulla qualità delle sue prestazioni. Infatti molti Csm operano nella quotidianità non secondo un concetto di "care" (prendersi carico di), bensì secondo un concetto di "cure"(trattamento con prestazioni di cura). Ciò accade peraltro non sempre per loro responsabilità, ma anche per la logica aziendalistica dominante, che costoro subiscono. La presa in carico del paziente difficile, contrariamente al pensiero comune degli operatori, non costituisce una sottrazione di tempo necessario agli altri pazienti, al contrario costituisce una possibilità di elevare la qualità complessiva del servizio. Per avere un riscontro della credibilità del processo, bisognerebbe che i Csm spontaneamente spingessero per assumersi il compito dell’inclusione sociale del paziente, piuttosto che essere costretti a farlo da decisioni di vertice. La capacità di sciogliere il nodo dell’Opg ripropone l’antinomia fra psichiatria e salute mentale. Con tutte le debite diversificazioni non possiamo operare come se il superamento dell’Opg costituisse una nuova forma di indulto, Bisogna creare le condizioni perché l’inserimento del paziente difficile abbia gli strumenti sociali per realizzarsi. Occorre creare/attivare una rete sociale in grado di esprimere solidarietà/presa in carico. Questo compito non può essere delegato a un servizio specialistico - quello psichiatrico - e nemmeno al solo mondo della sanità. È un problema che coinvolge l’intera comunità locale, è una prova di democrazia, di cittadinanza. In questa prospettiva il volontariato delle carceri, se stimolato, se richiesto, potrà/dovrà svolgere una funzione importante, nell’attivare la propria rete sociale. Si tratta di un ruolo non di semplice assistenza e supporto, ma di vero protagonismo, naturalmente insieme ai tanti attori, istituzionali e non, necessari a questo processo. Si tratta in sostanza di rendere una comunità "competente", in grado di prendersi carico dei suoi membri, senza delegare, separare, ghettizzare, ma utilizzando invece al meglio le sue risorse, aiutate in questo compito dalla professionalità e competenza degli esperti. Pochi casi e luoghi dimostrano come già oggi si possa fare a meno degli Opg o ridurre fortemente l’uso e la durata delle misure di sicurezza; per lo più prevale un ripetersi per inerzia di vecchi automatismi anche se, fortunatamente, le sentenze della Corte Costituzionale emesse dopo l’approvazione della legge 180 hanno cancellato alcuni dei meccanismi peggiori o ne hanno indotto la modifica. Quindi, pur senza una vera ridefinizione normativa si è mosso un processo di riforma che ha creato le condizioni per la riduzione degli ingressi. Il punto è che non sempre le possibilità date dalle norme vengono colte. Pur senza smettere di indignarsi per la situazione di contenimento degli internati, è necessario ragionare in termini più allargati per evitare di imputare interamente agli Opg la responsabilità della situazione attuale, che vanno ridistribuite nel sistema più complesso: magistratura di sorveglianza, servizi di salute mentale, amministrazione penitenziaria. Dati abbastanza recenti indicano che circa la metà degli internati ha commesso reati minori., e sono stati condannati alla misura più bassa cioè 2 anni. Dunque, una metà degli internati ha commesso, in situazioni di sofferenza, dei reati minori che, se non sottoposti al giudizio di non imputabilità, gli avrebbero permesso di scontare una carcerazione più breve. Ci si potrebbe chiedere quanta parte di quella metà degli internati avrebbe potuto evitare l’invio automatico in Opg se i servizi di salute mentale e la magistratura si fossero mesi a lavorare insieme. Sappiamo che le proroghe date dalla magistratura, come tutti i direttori degli Opg sostengono, sono dovute, più che al perdurare della malattia e della pericolosità, al fatto che i servizi di salute mentale sono refrattari ad occuparsi di queste persone. Agli occhi del magistrato, quindi, l’Opg risulta essere la sola risposta disponibile. Ma a questo punto la questione va allargata sulla capacità di dare risposte politiche e sociali orientate in termini di diritti, di nuovo orientamento delle istituzioni. Come spesso avviene quando si analizza la composizione della popolazione ospitata dalle istituzioni totali, capita di osservare che è prevalentemente costituita da soggetti che provengono da situazioni penalizzate di partenza; che, per capirci, non hanno avuto sufficiente potere sociale o economico, condizioni necessarie per poter accedere ad alternative meno drammatiche. Come sempre, la forbice economica che separa chi ha da chi ha meno, poco o nulla decide del destino e dei diritti dei soggetti, sulle possibilità di poter usufruire di una tutela della salute fisica e mentale che restituisca dignità alla persona e alla malattia. Parallelamente a quanto sostenuto per la "normale" detenzione, anche per gli Opg il passaggio dal penale al sociale richiede pratiche di sostegno e di integrazione territoriale, diversa organizzazione dei servizi, distribuzione delle opportunità e delle risorse economiche. La cosa necessaria è che si faccia presto. Tanti volontari presenti quotidianamente in queste strutture raccolgono molte storie di vite bruciate, storie taglienti come lame, principalmente per chi le ha vissute ma anche per chi crede che la riabilitazione sia qualcosa di diverso dalle strutture attuali. Siamo del parere che è il momento di stringere tutte le energie e le idee che sostengono questo desiderio di ridare futuro, dignità e voce agli internati: operatori della salute mentale, della magistratura, dell’associazionismo, del volontariato, politici ed amministratori sono disposti ad impegnarsi in questa direzione sostenendo con forza l’idea del cambiamento. Insieme alle altre istituzioni, il volontariato può rendersi responsabile di una giusta informazione sul problema, per evitare l’oscillazione della cittadinanza tra il la preoccupazione per la sicurezza ed il pietismo per le drammatiche storie dei reclusi. Dobbiamo, responsabilmente, denunciare l’anacronismo di questa istituzione portando la realtà di pratiche buone e possibili.
Elisabetta Laganà, presidente Seac Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario Giustizia: Anm; prospettive e richieste per il dopo-elezioni di Giovanni Salvi
L’Unità, 1 aprile 2008
L’Associazione Nazionale Magistrati ha convocato per il 6 giugno il Congresso Nazionale, intitolato "Un progetto per la giustizia: organizzazione, professionalità, efficacia". È da tempo che l’Associazione che riunisce la quasi totalità dei magistrati ordinari ha posto al centro della sua iniziativa politica l’obbiettivo di rendere giustizia in tempi ragionevoli, attraverso una migliore organizzazione e un alto livello di professionalità. È la prima volta, però, che l’Anm lancia con chiarezza una sfida agli interlocutori politici, invitandoli a confrontarsi su di un progetto realizzabile, finalizzato a perseguire un obbiettivo che tutti affermano esser proprio. Niente più lunghi preamboli sul ruolo costituzionale della magistratura e sulla difesa dei diritti, vecchi e nuovi. È ormai chiaro - con la forza dei fatti - che premessa ineludibile perché la giurisdizione possa svolgere fino in fondo il ruolo di garante dei diritti, in un sistema bilanciato di poteri, è il corretto e tempestivo funzionamento della giustizia quotidiana. A proposito dei fatti di Genova e delle violenze di Bolzaneto, Stefano Rodotà ha ricordato come la giurisdizione si sia rivelata ancora una volta l’istituzione garante delle libertà, nel vuoto delle iniziative politiche e nell’inerzia di quelle amministrative. Si avvicina però la prescrizione. Se ciò avverrà, non solo la giurisdizione si sarà rivelata inadeguata al suo compito, ma avrà finito per fornire un alibi all’incapacità delle istituzioni politiche (in senso lato e dunque anche a quelle governative) di svolgere il proprio ruolo, che non è quello di attendere le decisioni della magistratura ma di assumere le proprie autonome responsabilità, sulla base degli elementi di fatto a tutti noti. Nel settore dei diritti personali la magistratura ha saputo offrire tutela là dove compromessi sui principi erano passati sulla pelle degli individui, posti di fronte a intollerabili dilemmi morali, come nel caso delle diagnosi di reimpianto nella fecondazione assistita, interpretando alla luce dei principi costituzionali le oscure norme frutto di quei compromessi. Tuttavia il quotidiano fallimento dei tempi della giustizia civile oscura questi risultati e fa percepire ai cittadini, così come agli imprenditori e ai lavoratori, la giustizia non come un utile strumento di risoluzione o di composizione anticipata delle controversie, e quindi come un mezzo di propulsione della società civile, ma come una palla al piede, un gigantesco costo aggiuntivo, che frena l’Italia nella competizione internazionale. Non si tratta solo di costi economici. Anche questi sono elevatissimi. Operare in una zona ad alto livello di illegalità diffusa è molto più impegnativo per un imprenditore che far funzionare la propria impresa in un contesto di rispetto generalizzato delle norme. I costi economici che derivano dall’impossibilità di ottenere giustizia in tempi rapidi aumenta a dismisura i rischi connessi con l’insolvenza, aggravando al tempo stesso i creditori e coloro che vorrebbero accedere al credito. E così via. A questi costi economici se ne aggiungono di sociali e politici, forse incalcolabili. Ci si è chiesto, per fare un caso di forte rilievo politico, quanto abbia pesato sul lavoro precario, sulla sua stessa definizione, il sostanziale fallimento della giustizia del lavoro e come ciò pesi anche sulle future possibilità di rendere effettivi meccanismi che consentano al contempo mobilità e sicurezza del lavoro? E ciò senza voler pensare alle umiliazioni cui sono sottoposti i cittadini che alla giustizia si rivolgono, ad esempio in sede di separazione personale, costretti a lunghe attese in affollati stanzoni. Su alcuni di questi aspetti la magistratura associata non è priva di colpe. Fino a pochi anni addietro prevaleva una logica corporativa, soprattutto nelle componenti maggioritarie, che è stata di ostacolo alla faticosa affermazione dei controlli di professionalità e sulle capacità organizzative dei dirigenti e anche dei singoli magistrati. Resistenze di tal genere, spesso legate a logiche di appartenenza, permangono ancora, soprattutto nella nomina dei dirigenti, anche se finalmente comincia a vedersi un’aria nuova; basti pensare che nel nuovo Csm le nomine all’unanimità sono divenute la norma, in confronto alle nomine della consiliatura precedente, a colpi di maggioranza e spesso in spregio della stessa normativa interna. Non vi sono dunque più scuse per nessuno. Non è senza significato che intorno a questa impostazione l’Anm, fino ad oggi spaccata, sembra poter ritrovare l’unità. E il momento di confrontarsi con poche, chiare priorità, che costituiscono la base di un possibile progetto per una giustizia efficiente e finalizzata alla effettiva tutela dei diritti. Vi sono molti punti di convergenza col programma del Partito Democratico (le misure sul processo penale, guidate dall’obbiettivo della certezza della pena, in un quadro di garanzie finalizzate a rendere una decisione giusta in un tempo ragionevole, e quindi che evitino inutili dispendi di energie o barocche moltiplicazioni; un diritto penale che persegua solo i fatti che meritano una così grave sanzione; semplificazione del processo civile e stimolo degli strumenti di composizione delle controversie). Particolarmente importanti sono le proposte in tema di organizzazione, che implicano anch’esse scelte politiche non neutrali (dalla riqualificazione professionale del personale amministrativo fino al raggiungimento di obbiettivi di recupero dei fondi inutilizzati). Ma non è questo il punto della discussione. Che vi siano o meno convergenze tra programmi si vedrà solo, davvero, quando si passerà a sciogliere i nodi politici che restano irrisolti, così nei programmi dell’Anm come in quelli degli schieramenti oggi al voto. Ciò che conta è che si affermi un metodo di lavoro. Sono finite le scuse. Lo scontro tra politica e giustizia non può più valere come alibi e ne è consapevole chi tenta continuamente di riattizzarlo; esso costituisce un comodo paravento per nascondere l’incapacità di confrontarsi sui costi politici che far funzionare la giustizia comporta. Un esempio per tutti: il programma del Popolo della Libertà punta molto sul processo telematico; peccato che in cinque anni di governo i fondi per l’informatizzazione siano stati drasticamente ridotti. Deve finire di conseguenza anche il dialogo tra autistici che sembra affliggere la giustizia. Ognuno parla una sua lingua, si accorge di fatti che ad altri sembrano inesistenti. A proposito di fatti, per parlare di giustizia in questa nuova, feconda prospettiva è necessario partire dalle cose, dalla loro dura realtà. Si vuole affermare che i magistrati lavorano poco e che da qui occorre partire? Lo si documenti e non ci si limiti alla facile boutade dei 45 giorni di ferie. I dati esistono già e riguardano l’incremento percentuale delle prestazioni mediamente fornite dai singoli e dagli uffici; da questi dati si comprenderà che a un aumento significativo dell’impegno (documentato dal numero di udienze, di atti svolti ecc.) non corrisponde un pari risultato definitivo. Da questi dati si potrà concludere se i magistrati lavorino poco oppure lavorino molto, ma in larga parte a vuoto, a causa di inadeguatezze procedurali e organizzative. I dati diranno anche dove sono le sacche di disimpegno o di cattiva preparazione e consentiranno di colpire selettivamente e dunque non con argomenti ad effetto, ma con misure efficaci. Il tema che l’Anm ha scelto per il proprio congresso non deve dunque trarre in errore: non ha prevalso tra i magistrati una scelta riduttiva, quasi produttivistica, una specie di fordismo giudiziario in ritardo. I giudici italiani dicono una cosa chiara: i tempi della giustizia sono altrettanto importanti del contenuto della decisione. Spero che questa consapevolezza contenga anche quella dei costi che essa necessariamente comporta, anche per i magistrati, e che non riemergano antiche resistenze. Quale che sarà la risposta a questo interrogativo, ciò che è certo è che l’interlocutore politico che vorrà continuare a trattare la giustizia come campo di guerra, in cui agitare includenti bandiere ideologiche (come quella della separazione delle carriere o delle toghe rosse o della burocratizzazione dei giudici), sarà responsabile della perdita di un’occasione per offrire finalmente ai cittadini un servizio efficiente e in grado di garantire i diritti di tutti. Giustizia: Sappe; "larghe intese" per la riforma delle carceri
Il Velino, 1 aprile 2008
La fotografia odierna delle carceri italiane immortala due dati incontrovertibili rispetto al quale sarebbe auspicale davvero una "larga intesa" politica per la sua risoluzione: da un lato abbiamo il numero dei detenuti in netto aumento - circa 52 mila oggi, con ciò ponendo una pietra tombale sugli effetti del provvedimento di indulto del 2006 - e dall’altro una carenza negli organici di Polizia Penitenziaria pari a circa 4.300 unità. Lo ha affermato oggi a Verona Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, organizzazione di categoria con dodicimila iscritti, nella conferenza stampa di presentazione del XIX Consiglio Nazionale del Sappe che si svolge nella città scaligera fino al 2 aprile prossimo. "La situazione - ha aggiunto Capece - sta rapidamente volgendo verso l’emergenza e quindi ci vuole un impegno responsabile e urgente nel settore da parte di chi andrà a governare il paese nelle prossime settimane con l’inevitabile contributo della opposizione parlamentare. Perché la sicurezza dei cittadini, dei poliziotti, dell’Italia non può e non deve avere colorazione politica ma deve essere un impegno primario per tutti". Capece ha avuto parole di apprezzamento e di sincero ringraziamento per i messaggi pervenuti al Sindacato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano e dai presidente di Senato e Camera, Franco Marini e Fausto Bertinotti, e ha aggiunto: "Il tema della sicurezza non deve rimanere uno slogan elettorale, ma servono impegni precisi". "Oggi - ha spiegato Capece -, a fronte di una capienza regolamentare di circa 43 mila posti nei 205 istituti penitenziari italiani, abbiamo 5mila detenuti. Subito dopo l’indulto, che ne fece uscire 27 mila, ne rimasero in carcere poco più di 35 mila. Non sono state fatte le riforme strutturali nel sistema penitenziario, da noi più volte sollecitate, e oggi le carcere sono di nuovo nel caos. E la politica, soprattutto chi si appresta a guidare l’Italia, non può tralasciare questo importante e delicato tema". Il Sappe ha dunque auspicato una politica di larghe intese su tre questioni fondamentali per il sistema penitenziario: una modifica del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, prevedendo procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici come il braccialetto elettronico; l’impegno ad assumere nuovi poliziotti penitenziari, stante la grave carenza di personale che si registra nel paese; l’impegno a costituire, attraverso il ministro della Giustizia, la direzione generale del Corpo di Polizia penitenziaria nell’ambito del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Preannunciato, per domani il saluto del sindaco di Verona Flavio Tosi al XIX Consiglio nazionale del Sappe (che ha concesso anche il patrocinio all’importante Assise sindacale). Federica Mogherini, responsabile Istituzioni del Partito Democratico, e Lanfranco Tenaglia, responsabile Giustizia del Pd, hanno inviato al Sappe un messaggio. Giustizia: Osapp; dopo sanità riforma di Polizia Penitenziaria
Ansa, 1 aprile 2008
"Il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale deve necessariamente legarsi ad una completa riforma della Polizia Penitenziaria, in base alla quale agli appartenenti al Corpo siano riconosciuti gli incarichi, le retribuzioni e le carriere relative al lavoro effettivamente svolto". A chiederlo è il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, Leo Beneduci. "L’attuale assetto penitenziario, paragonato a quello delle altre istituzioni, può ritenersi un fallimento completo - lamenta Beneduci in una nota - come direzione, e come dignità per le persone che vi lavorano. Tra le tante situazioni atipiche, che denunciamo da tempo, registriamo quella di un Capo Dipartimento che, per un’indennità annua di 500.000 euro, è equiparato al Capo della Polizia di Stato, senza, per giunta, esercitare le attribuzioni che gli sono riconosciute". Secondo l’Osapp, dunque, "il passaggio della sanità penitenziaria al Ssn può essere il primo passo per regolarizzare e rendere aderente a criteri di efficienza e funzionalità, rispetto a quello che è sempre stato un servizio pubblico finanziato dallo Stato, la grande quantità di convenzioni, parcelle, contratti e contrattini che caratterizzava l’assistenza resa in carcere". "Il rischio più grande - conclude l’Osapp - è rappresentato dal fatto che le funzioni di supplenza, particolarmente frequenti in certi orari e turnazioni, o per infrastrutture penitenziarie in territori lontani dai nosocomi, o di difficile raggiungimento, dovranno essere svolte da quel Personale di Polizia penitenziaria che non ha né le competenze né le qualifiche adatte, e che quindi, presterà a proprio rischio e pericolo". Giustizia: polizia penitenziaria; intervenire contro i suicidi
Comunicato stampa, 1 aprile 2008
Nel suo intervento al XIX Consiglio Nazionale del Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria, in corso di svolgimento a Verona, il Segretario Generale Donato Capece ha parlato del preoccupante fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria - 6 casi in pochi mesi. "È davvero un luogo comune pensare che lo stress lavorativo riguardi solamente le persone fragili. Al contrario, il fenomeno colpisce, inevitabilmente, tutti i lavoratori, e in modo particolare coloro che operano nei servizi di sicurezza e tutela pubblica, che non solo vivono sovente in una costante situazione di rischio, ma spesso vengono a contatto con situazioni di dolore, angoscia, paura, violenza, distruzione e morte non escluse anche le conflittualità interprofessionali in una struttura fortemente gerarchizzata quale è quella della Polizia Penitenziaria. Capece ha sottolineato l’effetto burn-out tra i poliziotti penitenziari, "una forma di disagio professionale protratto nel tempo e derivato dalla discrepanza tra gli ideali del soggetto e la realtà della vita lavorativa. Per questo riteniamo che l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di Polizia - garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene - possa essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile, all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia Penitenziaria. In tal senso, auspichiamo che l’incontro con il Capo dell’Amministrazione penitenziaria Ettore Ferrara su questo delicato tema - previsto per metà aprile al Dipartimento di Roma - tenga in debito conto queste considerazioni". Giustizia: i "fantasmi" della Diaz e le complicità politiche di Giuliano Pisapia (Presidente Commissione Riforma Codice Penale)
Il Manifesto, 1 aprile 2008
La richiesta di rinvio a giudizio di Gianni De Gennaro è l’ultima notizia che ci viene da Genova, dove, nel luglio 2001 come nel luglio del ‘60, vi è stata una mattanza nei confronti di chi si batteva per la pace, per la democrazia e per lo stato di diritto. Ma, al di là della vicenda giudiziaria, di cui doverosamente si occuperà la magistratura, la questione assume una rilevanza fortemente politica. Ecco perché non ci si può esimere dal denunciare, con forza sempre maggiore, la responsabilità sia di coloro che, allora, guardarono dall’altra parte sia di chi - come, salvo poche eccezioni, gli esponenti dell’attuale Pd e dei loro alleati - abbandonò a se stessi le centinaia di migliaia di pacifisti, di non violenti, massacrati nel corpo e nella dignità. E cercò, successivamente, di far calare un colpevole silenzio sulla macelleria cilena nei giorni del G8. Nel 2001 quello che allora si chiamava Ulivo, e che fino all’aprile governava il Paese, non solo non fece nulla per impedire i massacri della Diaz e di Bolzaneto ma fu direttamente responsabile di altri episodi, analoghi anche se meno eclatanti (basti pensare ai fatti, impuniti, di Napoli, che, come ormai è assodato, altro non furono che una prova generale per Genova). Un evento come il G8 non si organizza in pochi mesi: dunque fu preparato, in ogni suo aspetto (compresa la trasformazione provvisoria in struttura carceraria della caserma di Bolzaneto), ben prima che Berlusconi vincesse le elezioni. Ecco, allora, che si spiega il doloso silenzio in tutti questi anni e la colposa indifferenza alle denunce di chi, a sinistra, aveva vissuto quelle giornate e aveva provato, sulla propria pelle, le violenze, le torture e la cancellazione di ogni diritto costituzionale. È a dir poco stupefacente, allora, leggere le parole del ministro Amato, che si è svegliato pochi giorni fa - guarda caso in piena campagna elettorale - per denunciare, a parole, in una focosa intervista, i fatti di Bolzaneto. Dimenticandosi, però - nel tentativo addossare ogni colpa alla polizia penitenziaria - dei fatti della Diaz e delle ormai evidenti responsabilità dei vertici della polizia di stato che hanno avuto plauso, promozioni e protezioni dai ministri degli interni sia del centrodestra che del centrosinistra. Ma è mai possibile che, prima dell’intervista, l’attuale ministro degli interni non si fosse accorto di nulla? Così come, pur essendone ai vertici, non si era, a suo tempo, accorto di quanto accadeva nel "glorioso" partito socialista! E, allora, diciamolo senza reticenze: in questi lunghi, lunghissimi 80 mesi - dal luglio 2001 ad oggi - il comportamento del centrodestra, dell’Italia dei Valori e di tanti che sono accorsi nel grande, accogliente Partito Democratico, è stato sostanzialmente identico. Sono state fatte promozioni; si è impedita la commissione parlamentare d’inchiesta; sono state bloccate le leggi sull’identificazione delle forze dell’ordine, sulla creazione di un organismo indipendente per la promozione e la protezione dei diritti umani e sull’istituzione di un’autorità di controllo e garanzia nei luoghi di privazione della liberà personale (pure previsti da convenzioni internazionali e la cui esistenza avrebbe potuto impedire i fatti di Bolzaneto e tanti episodi di violenza nelle celle di sicurezza, nei Cpt e nelle carceri). Proprio il progressivo aumento degli abusi e delle violenze - nei confronti soprattutto di giovani, di migranti e di emarginati - da parte di singoli appartenenti alle forze dell’ordine (raramente denunciati per paura di ritorsioni) è una delle conseguenze più nefaste del clima che si è creato, anche per le reticenze e per il comportamento dei ministri che dovrebbero occuparsi di "ordine pubblico". Non voglio, e non intendo, generalizzare, ma non si può ignorare che quanto avvenuto in questi anni ha determinato anche la progressiva emarginazione di chi si è battuto in passato, e continua a battersi oggi, per la democratizzazione delle forze dell’ordine. L’aver creato un simile clima di impunità e di omertà, che sarà sempre più difficile scalfire e contrastare, è una delle numerose responsabilità politiche degli ultimi ministri degli interni del centrosinistra. Se è indubbio che da questa spirale perversa non ci farà uscire il centrodestra, è purtroppo da escludere che possa farlo il Pd, prigioniero delle sue contraddizioni e del tentativo fallimentare di conciliare gli opposti in ogni campo, compreso quello dei diritti e della garanzie. Se non vi sarà quella "verità e giustizia", per la quale solo la sinistra si è battuta in questi anni, sarà impossibile spezzare la spirale perversa che sta trasformando uno stato di diritto in uno stato dove i diritti possono, e potranno anche in futuro, essere impunemente ignorati o cancellati. Giustizia: il "dopo-Bolzaneto"... una vergogna senza limiti di Giancarlo Ferrero (Giurista)
Il Manifesto, 1 aprile 2008
In uno Stato effettivamente democratico e di diritto nessuno si sarebbe stupito che i suoi rappresentanti in giudizio avessero presentato le scuse alle parti offese per i fatti del G8. Poiché peraltro non siamo uno Stato effettivamente democratico e di diritto (nonostante la bellissima Costituzione di cui facciamo sfoggio), le parole di scusa pronunciate dai due giovani avvocati dello Stato in udienza vanno sottolineate ed applaudite perché fanno ammenda di tanta cattiva lettura istituzionale che ha accompagnato il caso. Dovrebbe essere non solo logico ma ovvio che l’Avvocatura dello Stato, per il suo nome ed il suo ruolo, abbia il compito esclusivo di tutelare sempre i pubblici interessi, al cui vertice si trovano congiunti i principi inderogabili della legalità e della giustizia. Purtroppo non sempre è così, per molte ragioni contingenti tra cui l’eccesso di lavoro rutinario, ma anche per una insufficiente cultura democratica, per una tendenza a prediligere il sostantivo alla sua specificazione, il denaro al servizio. Un grave errore istituzionale perché l’Avvocatura dello Stato in tanto ha un senso in quanto contribuisce a garantire la legittimità dei vari apparati della Repubblica, ponendosi in una posizione di attenzione, ma di grande autonomia tecnica verso la politica e la pubblica amministrazione. Sotto questo profilo costituisce un grave vulnus l’obbligo introdotto surrettiziamente con una legge del 1991, riguardante gli organici, di condizionare la costituzione nei giudizi penali ad una apposita autorizzazione della Presidenza del consiglio dei ministri. In tal modo l’Avvocatura dello Stato perde la sua autonomia e viene sottoposta ad una contingente valutazione prettamente politica che ne offende dignità e ruolo, prestandosi a molte strumentalizzazioni. Si spiega così la sua assenza nel processo di Genova come parte offesa nei confronti degli imputati, assenza non giustificata dalla sua citazione come responsabile civile, tra l’altro contestata proprio perché il comportamento degli agenti infedeli non può essere considerata espressione del potere statuale. L’aspetto processuale da ultimo indicato è solo la punta di un iceberg dello scandalo politico-istituzionale che ha accompagnato l’intera vicenda. Già le modalità dei fatti commessi in quel terribile giorno sono tali da destare un grave allarme: per ore le persone, i loro diritti, la pubblica funzione sono state in balia di un nutrito gruppuscolo di scalmanati violenti senza che nessuno dei responsabili del settore pubblico intervenisse per interrompere, come era loro dovere, i reati in atto (impossibile che non ne fossero a conoscenza). Subito dopo, presa visione in modo inconfutabile di quanto era accaduto, gli organi istituzionali hanno mantenuto una riservatezza più vicina al silenzio omertoso che alla prudenza esasperata. La classe politica nel suo insieme ha rivelato un distacco ed un’apatia morale degne dei peggiori periodi del più brutto passato ed ha sostanzialmente mantenuto per anni questo vergognoso atteggiamento. Anche il sindacato di polizia, che pure conta al suo interno dei galantuomini, ha preso le distanze chiudendosi in uno sdegnoso silenzio che ha danneggiato i suoi assistiti onesti. Soltanto la magistratura, anche se si sarebbe auspicata una maggiore solerzia, ha mantenuto alto il prestigio della sua funzione, rivelandosi l’unica effettiva garante dei diritti fondamentali dell’uomo e della legalità dello Stato democratico. L’indagine condotta dalla procura genovese ha incontrato notevoli difficoltà, a partire, da quanto sembra, dalla "cauta" partecipazione del procuratore dirigente alla modesta ed ambigua collaborazione della polizia, dall’insicura autenticità dei mezzi probatori raccolti al numero e reperibilità dei testimoni ed alle non parsimoniose richieste degli avvocati difensori. A legare le mani dei magistrati incombe dall’alto l’assenza dal nostro codice penale del reato di tortura (certamente realizzato in tutti i suoi classici estremi in quel sciagurato giorno) oggetto di specifici richiami della comunità europea, ben presente nei trattati internazionali. Il parlamento italiano ha avuto occasione di occuparsene, con una calma che ha finito con il perdersi nei polverosi meandri del Senato prima di essere licenziato nel testo definitivo. Così i rivoltanti fatti commessi hanno trovato spazio nei più modesti reati di abusi d’ufficio e lesioni personali, per i quali la pena è non solo molto contenuta, ma destinata a cadere sotto la mannaia della solita prescrizione, trasformata in condono permanente. La vergogna per il nostro devastato stato non conosce limiti: gli imputati non sconteranno neppure l’esigua pena, i danni provocati ai malcapitati ragazzi saranno probabilmente pagati dallo Stato (che faticherà persino a farseli in parte rimborsare con l’azione di rivalsa nei confronti dei colpevoli), mentre i danni alla sua immagine ed al buon nome della polizia si perderanno lungo le strade delle buone intenzioni di cui è lastricato, con l’inferno, anche il nostro paese. Di procedimenti disciplinari non se ne è sentito parlare, se non vagamente ed in modo improprio dal ministro Amato (cui siamo creditori di una risposta dopo il nostro, recente intervento su l’Unità), contrariamente alle non poche promozioni effettuate. Ora si è appreso di una richiesta di rinvio a giudizio dello stesso capo della polizia, una notizia-bomba che ci auguriamo, nell’interesse di tutti, venga presto disinnescata. La sua eventuale deflagrazione sconvolgerebbe la credibilità delle istituzioni ed aprirebbe le porte al più devastante scetticismo sul cui terreno tanti cittadini hanno purtroppo abbandonato i loro ideali e le loro aspettative democratiche. Milano: San Vittore scoppia, 1.410 detenuti per 874 posti
Dire, 1 aprile 2008
Situazione da pre-indulto in tutta la regione: 7.800 detenuti per una capienza di 7.000. "Stiamo raggiungendo una condizione di sovraffollamento critica" commenta Gloria Manzelli, direttrice dell’istituto. Sono circa 7.800 i detenuti rinchiusi nei 18 istituti di pena lombardi che, complessivamente, hanno una capienza di 7.000 posti. In alcune carceri si è ormai arrivati al sovraffollamento. "In due istituti vecchi come San Vittore e Brescia si è tornati a una situazione pre-indulto abbastanza grave -afferma Luigi Pagano, provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria- mentre a Opera, Bollate e Cremona la situazione è più semplice da gestire". A San Vittore sono attualmente recluse 1.410 persone a fonte di una capienza di 874 posti disponibili e tre reparti (il Secondo, il Quarto e la Sezione speciale) sono chiusi. "Stiamo raggiungendo una situazione di sovraffollamento critica - spiega Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore - e che si riverbera sulle condizioni igieniche e sulla vivibilità". Milano: compie un anno la "casa" per le detenute con figli
Dire, 1 aprile 2008
Ha ospitato 37 mamme e 38 bambini grazie al progetto di "custodia attenuata" riconosciuto dall’Ue e proposto come modello di buona prassi. L’assessore Corso: "Ora mettere in pratica questa esperienza anche nel resto d’Italia". Compie un anno la "casa-carcere" di Milano per detenute con figli: ha ospitato finora 37 mamme e 38 bambini fino a tre anni che, altrimenti, avrebbero dovuto crescere all’interno delle strutture penitenziarie tradizionali. "Abbiamo messo fine a questa situazione vergognosa - commenta Francesca Corso, assessore all’integrazione sociale delle persone in carcere della Provincia di Milano - ma questa sperimentazione è stata fatta solo a Milano. Il nostro obiettivo è dare forma concreta a questi progetti in altre Regioni". L’Istituto di custodia attenuata per detenute madri (Icam), così si chiama in termini tecnici, ospita ora 12 mamme e altrettanti bambini che possono così crescere lontano dalle sbarre. Qui gli operatori della polizia penitenziaria sono senza divisa ma le detenute devono rispettare la stessa disciplina del carcere. Nella casa inoltre sono presenti educatori specializzati. L’Icam è stato riconosciuto dall’Unione Europea come modello di buona pratica da proporre anche in altri Paesi. "Italia, Germania, Spagna e Slovenia hanno formato un gruppo di lavoro - spiega Marina De Berti, funzionaria della Provincia che si occupa d progettazione europea - per valutare come applicare questo progetto in contesti legislativi tanto diversi". Roma: Veltroni; via i detenuti e valorizzare Regina Coeli
Dire, 1 aprile 2008
Roma - Restituire a Roma l’edificio di Regina Coeli, dove oggi è ospitato una delle carceri della Capitale, e portare quindi i detenuti in una struttura più moderna. A proporlo è il candidato premier del Pd, parlando con i costruttori dell’Ance, oggi a Roma. "Perché - chiede l’ex sindaco di Roma - il carcere di Regina Coeli deve essere nel cuore della città con persone che sono lì in una struttura d’altri tempi? E perché - aggiunge Veltroni - non portare quelle persone in una struttura più moderna che consenta a Roma di riprendere e valorizzare il Regina Coeli?". Napoli: il Rotary e il problema dei minori che delinquono di Alessandra Giordano
www.napoli.com, 1 aprile 2008
"Questa riunione andava fatta in tribunale, solo così vi potevate rendere conto realmente delle difficoltà e dei problemi dei minori che delinquono". A parlare davanti ad un folto gruppo di soci rotariani è S. E. Stefano Trapani, magistrato dal 1963 e già Presidente del Tribunale per i Minorenni invitato da Sergio Civita, presidente del Rotary Club Napoli Sud Ovest a tenere una conversazione su "Il futuro dei nostri ragazzi". Il sodalizio che si riunisce alla Staffa è da sempre sensibile alle problematiche giovanili e soprattutto a quelle dei minori detenuti nel carcere di Nisida e a favore dei quali sabato 5 aprile è stato organizzato dall’Inner Wheel Napoli Ovest al Teatro Politeama, un concerto di musiche scritte dal maestro Gorni Kramer. La disgregazione della famiglia, la mancanza di posti di lavoro, le scuole e le chiese chiuse nel pomeriggio, la difficoltà di adozioni, un Parlamento che non si preoccupa del futuro dei giovani, poca severità negli istituti di pena e soprattutto una situazione economica precaria: sono questi i motivi alla base della delinquenza minorile e del difficile re-inserimento nella società del giovane che ha scontato la pena. La denuncia è chiara e il presidente Trapani non nasconde il suo disappunto. "Si deve vivere secondo legge, ma invece le cose che andavano fatte non sono state attuate e la colpa è soprattutto dei genitori che non hanno sorvegliato". Più volte nel corso del suo impegno istituzionale, l’alto magistrato ha sollecitato il legislatore a rivedere l’età dei minori imputabili dai 14 ai 13-12 anni, in considerazione del maggiore sviluppo della maturità raggiunta dai minori in rapporto all’attuale società e "nell’intento di contenere la spinta degli adulti e della stessa famiglia a servirsi dei minori per episodi criminosi per lo più legati allo smercio di droga". Questo suggerimento è stato oggetto di una proposta di legge non ancora, però, presa in considerazione. "I tredicenni - insiste il conversatore - hanno già avuto un esempio dai loro genitori… come pure bisognerebbe fermare quei ragazzi che ancora circolano dopo le dieci di sera o la mattina in orari di scuola… ma chi paga gli straordinari ai poliziotti o agli insegnanti?". La gioventù napoletana è completamente abbandonata: senza studio o con condanne penali scontate in quegli edifici che dovrebbero essere "palestra di lavoro", è difficile per un ragazzo trovare un inserimento onesto. "Anche noi magistrati dobbiamo sovrintendere su una zona troppo vasta che va da Avellino a Ischia", afferma Trapani e conclude sperando nella collaborazione nei Rotary e quindi nella società civile che dovrebbero affiancare nell’arduo compito il prefetto Pansa e il Cardinale Sepe. Milano: a Bollate debutta la compagnia "Teatro In-Stabile"
Redattore Sociale, 1 aprile 2008
Debutta il 3 aprile la compagnia "Teatro In-Stabile", formata dai detenuti, con lo spettacolo "Psycopathia Sinpatica". È la prima tappa di una vera e propria stagione teatrale che si svolgerà sia all’interno del carcere che all’esterno. Debutta il 3 aprile la compagnia "Teatro In-Stabile", formata dai detenuti di Bollate, con lo spettacolo "Psycopathia Sinpatica". "È la prima tappa di una vera e propria stagione teatrale - spiega Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate - che si svolgerà sia all’interno della casa circondariale, per un totale di 20 date, sia all’esterno". L’allestimento dello spettacolo è il punto d’arrivo di un percorso durato un anno, basato su lezioni di recitazione, studio del linguaggio del corpo e capacità di organizzare eventi. "L’obiettivo è dare una professionalità ai detenuti - spiega la regista Michelina Capato - che, usciti dal carcere, potranno fare attività di animazione a carattere educativo". Gli spettacoli della compagnia di Bollate sono aperte al pubblico che, per accedere al carcere, dovrà registrarsi al sito www.cooperativaestia.it e fornire i propri dati anagrafici. I coupon per acquistare i biglietti si possono ritirare presso i chiostri della Società Umanitaria (Milano) e il bar Varni di Bollate. Le date degli spettacoli "in trasferta" invece verranno definite entro il mese di maggio. Ferrara: "I colori del dialogo", mostra di arte dal carcere
www.cronacacomune.it, 1 aprile 2008
"I colori del dialogo": è questo il titolo della mostra degli elaborati artistici realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Ferrara che verrà inaugurata giovedì 3 aprile alle 11.30 alle Grotte del Boldini (via Previati 18). L’esposizione, che resterà aperta fino al prossimo 16 aprile (tutti i giorni dalle 16 alle 21), è organizzata in collaborazione dall’assessorato alla Salute e Servizi alla Persona del Comune e dalla Casa Circondariale cittadina e propone al pubblico i dipinti realizzati dagli allievi del corso di pittura curato dalla volontaria Annie Botti, all’interno del carcere. I giornalisti, i fotografi e i video operatori sono invitati all’inaugurazione che vedrà la presenza, tra gli altri, dell’assessore comunale Maria Giovanna Cuccuru e del direttore della Casa circondariale di Ferrara Francesco Cacciola. Nota a cura dell’assessore alla Salute e Servizi alla Persona del Comune Maria Giovanna Cuccuru e del direttore della Casa circondariale di Ferrara Francesco Cacciola: "Il Carcere e la Città: parlare di detenuti e di reinserimento". La programmazione delle azioni comprese nel Piano Sociale di Zona, a partire dal 2005, ha reso possibile l’intensificazione dei rapporti tra l’Istituto Carcerario di Ferrara, le Istituzioni locali, e gli organismi del Terzo Settore, al fine di favorire la conoscenza reciproca circa i bisogni e le risorse, e di facilitare il percorso di reinserimento delle persone nel contesto sociale allo scadere del loro periodo di detenzione. Sul carcere e sull’esecuzione penale si intersecano molte questioni: sociali, culturali, politiche, gestionali. Il trinomio "legalità, benessere, sicurezza" non può essere garantito solo dalla detenzione dei condannati, ma soprattutto dal tempestivo sforzo di riabilitazione, tramite i piani di trattamento e le misure alternative: statistiche alla mano, sono questi sforzi che riducono davvero la recidività, a tutto vantaggio della collettività e della persona condannata. Emerge allora, un’esigenza di maggiore integrazione tra politiche sociali e del lavoro: per quanto siano singolarmente di buon livello scarseggiano strumenti di intervento che tengano insieme queste due dimensioni. Soprattutto per le persone condannate e ex detenute, sono fasi inscindibili per favorire la riabilitazione e la qualità di vita La mostra è una vetrina all’esterno della Casa Circondariale per comunicare con la società, per mostrare la creatività e l’impegno dei detenuti, segni tangibili del lungo processo di riabilitazione che stanno compiendo. Televisione: da Ipm di Bologna ospite a "Fà la cosa giusta"
Redattore Sociale, 1 aprile 2008
Nella puntata in onda domani (Rai Uno) il racconto di amicizie che vanno oltre i pregiudizi, progetti di solidarietà e riscatto sociale per i ragazzi difficili. Si parla di progetti di solidarietà e sbocchi professionali per ragazzi difficili nella puntata di "Fa" la cosa giusta", in onda domani, 1 aprile, alle 9 circa su Rai Uno, a cura di Giovanna Rossiello. Tra le storie raccontate in questa puntata quella di un adolescente che dal carcere minorile del Pratello di Bologna segue un programma di reinserimento sociale accanto agli anziani malati. A Torino, invece, il cioccolato artigianale scelto dal comune come cioccolato ufficiale è prodotto dalla "Piazza dei mestieri", una scuola professionale, di dimensione familiare, nella quale si impara un lavoro. Il filo che accomuna queste storie di riscatto è l’ amore e l’amicizia come quella nata nella Locride tra i ragazzi di San Luca e i ragazzi di Duisburg, la città tedesca tristemente famosa per la strage di ferragosto del 2007 . Dalla visita è nata la voglia di conoscersi oltre i pregiudizi. Da Milano gli studenti di una classe del liceo statale Virgilio hanno aderito al progetto "volontari del buon umore", un’associazione fondata dai genitori di una ragazza morta in un incidente stradale. Ettore e Claudia per superare lo sconforto hanno deciso di impiegare il risarcimento ottenuto dall’assicurazione per "formare" dei clown che a titolo volontario fanno divertire i bambini ricoverati negli ospedali e quelli in carcere assieme alle loro mamme. Le storie sono raccontate da Nelson Bova da Bologna, da Felicita Pistilli da Torino, da Donatella Negri da Milano e Franco Bruno da San Luca. Televisione: "Reparto Trans" di Rebibbia in onda su Sky
Ansa, 1 aprile 2008
Dagli autori di "Liberanti", "Residence Bastoggi" e "Hotel Helvetia", arriva su Cult (canale 142 di Sky), ogni mercoledì con doppio appuntamento alle 22.00 e alle 22.30 a partire dal 16 aprile, l’inedita docu-story "Reparto Trans". Prodotta da Bastoggi per Fox Channels Italy e ambientata fra le pareti del reparto transessuali del carcere di Rebibbia, a Roma, Reparto Trans, porta le telecamere in uno degli angoli meno noti del mondo carcerario, oltre i cliché e gli stereotipi, dove l’identità dei detenuti è diversa per loro stessa scelta. "Reparto Trans" racconta così, con toni agrodolci, l’intrecciarsi dei destini di cinque detenuti: Perla, Manolo, Cinzia, Ginevra e Angelo. Cinque persone che nel chiuso del carcere vivono un’estate di amori, conflitti, passioni, rabbia e riflessioni. Ginevra, l’ultima arrivata, s’innamora di Cinzia, l’anziana della sezione. Ma l’amore tra le due diventa presto burrascoso, sfociando in liti, ferite e minacce. Perla, invece, è innamorata di Manolo, un detenuto della sezione maschile. Le regole del carcere, però, vietano loro di vedersi. Un amore impossibile che arriva a sfidare le rigide disposizioni carcerarie. Angelo, infine, è l’unico ospite gay della sezione. In quindici anni di reclusione non ha mai pensato di vestirsi da donna e con i trans non va d’accordo: con loro è arrivato spesso alle mani. Ma qualcosa in lui sta cambiando. Droghe: dipendenze; confronto tra i Programmi elettorali
Fuoriluogo, 1 aprile 2007
Franco Corleone dice bene quando afferma che il tema delle droghe è praticamente assente da una delle meno entusiasmanti campagne elettorali del dopoguerra. Vediamo cosa dicono, o vorrebbero dire, i programmi dei partiti che si presentano alle politiche del 13 e 14 aprile. Partito delle Libertà: non poteva non confermare la legge Fini - Giovanardi, e continuare nell’opera di nasconderne gli effetti. "Attuazione della legge contro le droghe e potenziamento dei presidi pubblici e privati di prevenzione e di recupero dalle tossicodipendenze" si legge nella sezione salute. Se non conoscessimo i contenuti di quella legge potremmo anche essere contenti, salvo poi verificare che alla sezione sicurezza si propone di costruire nuove carceri. Chi ci andrà mai dentro? Altre due note che ci sfiorano: [contro]riforma della legge "Basaglia" e inasprimento delle pene per i reati contro le forze dell’ordine. Auguri. Lega Nord: innanzitutto va notato come in homepage la Lega tenga a precisare di aver "stoppato Berlusconi: mai il voto agli immigrati". Le famose coalizioni coese. La lettura del programma è poi "agevolata" da un file pdf per ogni punto programmatico. Per fortuna che i saggi leghisti son pur sempre leghisti, e quindi ce la caviamo con poco. Sulle droghe non troviamo nessun esplicito riferimento (aiutateci se potete), anche se dichiarazioni tipo "test antidroga per tutti" fanno capire l’andazzo. Nota sugli stranieri, pezzo forte del programma leghista: ci rubano (oltre a donne e lavoro) anche i posti in cella, per cui via al rimpatrio. Partito Democratico: nel programma nessun accenno alle droghe, forse c’era anche, ma evidentemente la mediazione fra Bonino e Binetti ha portato all’usanza tutta italiana di rimuovere il problema. Nel "fantastico mondo di Walter" evidentemente non esistono milioni di consumatori che vengono trattati come criminali. Italia dei Valori: idem come sopra. Anche se i punti sono 11, uno in meno del Pd, e solo cinquecento parole per spiegarli. Che il programma dell’Unione fosse ridondante non c’erano dubbi, ma a qualcuno non è venuto il dubbio che per candidarsi al governo della quinta potenza mondiale servirebbe qualcosa di più di 500 "belle" parole? Fra queste, notiamo infine, anche l’incandidabilità delle persone con sentenza passata in giudicato. Nessun interesse se la pena l’hanno già scontata, o magari sono stati riabilitati o semplicemente hanno dimostrato di essere stati rieducati, come un articolo della nostra Costituzione vorrebbe. Sinistra Arcobaleno: forse la posizione più chiara, per ora. Al di là delle recenti dichiarazioni di Bertinotti su legalizzazione e stanze del consumo, il programma recita "La Sinistra L’Arcobaleno propone di abrogare la Fini - Giovanardi sulle droghe, superando in una prospettiva non proibizionista la normativa vigente". Partito Socialista: al di là delle dichiarazioni di alcuni suoi candidati, nulla dice nel programma di che fine far fare alla Fini - Giovanardi. La Destra: per reperire il programma della Destra della signora Santanchè ci tocca passare per il blog di Storace. Ci tocca. Alla fine il risultato è questo: "Tolleranza zero contro lo spaccio di stupefacenti - innalzamento della pena fino all’ergastolo per i grandi spacciatori" salvo sottolineare qualche riga sotto il ruolo del terzo settore nel recupero di emarginati e tossici. Sinistra Critica: posizione decisa quella della formazione di Turigliatto. Il programma recita, testuale: "Siamo antiproibizionisti e rifiutiamo la criminalizzazione del consumo di droghe. Per questo ci battiamo per la liberalizzazione di quelle leggere e la legalizzazione delle altre." Lista per il bene Comune: la lista del signor Rossi nulla dice sulle droghe. Però almeno c’è un riferimento al carcere: "potenziamento delle attività e dei servizi di riabilitazione, per favorire il reinserimento di chi ha scontato la propria pena". Droghe: Parma; un percorso per i consumatori di cocaina
Dire, 1 aprile 2008
Arriva anche a Parma il percorso "ambulatoriale" per chi fa uso di cocaina. Si chiama progetto "Dedalo" e sarà avviato a giugno dal centro L’Orizzonte. L’approccio è di tipo comportamentale e non ricorre alle comunità di recupero. Si tratta quindi di un "programma a carattere psicologico, diviso in quattro fasi e della durata di un anno, fatto di colloqui personali o di gruppo, di visite mediche e di controlli delle urine che porta ad uscire dal tunnel della cocaina attraverso un percorso di sedute settimanali", spiega Roberto Rosselli, presidente del centro. Il progetto "Dedalo" è stato presentato ieri a Parma all’interno del convegno "Cambiare pista: il sistema dei servizi tra vecchie e nuove dipendenze" organizzato dall’Azienda Usl di Parma e dal centro di solidarietà L’Orizzonte in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna, l’assessorato alle Politiche sociali del Comune e la Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict). La rete dei servizi per le dipendenze patologiche già da tempo si sta interrogando su come dare delle risposte, alternative a quelle dei Sert, a chi fa uso abituale di cocaina. "Dedalo", infatti, si rifà al modello del progetto "Narciso", adottato nel ‘99 dalla comunità Il Pettirosso di Bologna e inserito nel 2007 nei piani del Ministero della Salute, e al programma "No cocaine" che il Centro di solidarietà di Reggio Emilia ha attivato da un paio d’anni. Tutte e tre le realtà sono "affiliate" alla Fict. "Vogliamo essere uno strumento in più per riuscire ad avvicinare tutte quelle persone che hanno problemi con la cocaina e che normalmente non si rivolgono ai servizi per le tossicodipendenze dell’Ausl, a cui accede in genere solo il 3% di chi ha problemi di dipendenza", continua Rosselli. Secondo Lorenzo De Donno, direttore dei Sert dei distretti di Fidenza e di Valli Taro e Ceno, "nel parmense si stimano circa 6.000 persone che almeno occasionalmente abbiano fatto uso di cocaina. La cifra è presunta e si rifà agli indicatori forniti dall’Osservatorio europeo sulle dipendenze patologiche, che prendono a riferimento la fascia d’età 15-64 anni". Un dato però è certo, ed è che "negli ultimi anni l’utenza cocainomane in cura nei Ser.T. dell’Ausl di Parma è aumentata dal 5% del 2001 al 14% del 2007", anche se si tratta pur sempre di numeri esigui: "L’anno scorso infatti sono state 220 le persone seguite dai servizi sanitari pubblici che hanno abusato di cocaina come sostanza primaria e 380 quelle che ne hanno abusato come sostanza secondaria". Romania: accordo con l’Italia per Rete contro dipendenze
Redattore Sociale, 1 aprile 2008
L’Agenzia Nazionale Antidroga Rumena e la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche hanno siglato ieri a Bucarest un’intesa triennale di cooperazione per sviluppare una rete rumena di servizi per le dipendenze. L’Agenzia Nazionale Antidroga Rumena e la Federazione Italiana Comunità Terapeutiche hanno siglato ieri a Bucarest un accordo triennale di cooperazione per l’implementazione la rete nazionale rumena di servizi per le dipendenze: prevenzione, riduzione del danno, terapia e cura, inclusione socio-lavorativa, formazione dei quadri e degli operatori sociali. Nel quadro di questo accordo la Fict svolgerà un ruolo di supervisione, consulenza, formazione, progettazione ed accompagnamento. Tra le iniziative previste percorsi di formazione (iniziale, continua e on-line) per manager, formatori, operatori sociali e per target group svantaggiati per poter acquisire capacità e competenze diversificate nell’ambito delle dipendenze; interventi di supporto ed accompagnamento per la strutturazione di azioni tipologiche specifiche nell’ambito delle dipendenze (prevenzione, riduzione del danno, terapia e cura, inclusione socio-lavorativa); scambi di esperti, coordinatori, formatori, ricercatori per condurre attività congiunte di ricerca e progettazione; assistenza tecnica per la progettazione sociale sia sui fondi nazionali che, in particolare, sui fondi comunitari, siano essi fondi strutturali che programmi comunitari. Inoltre saranno organizzati congiuntamente eventi internazionali, conferenze, seminari, workshop nell’ambito delle dipendenze.
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