Rassegna stampa 30 agosto

 

Giustizia: è tempo di carcere duro, 15mila in "alta sicurezza"

di Giacomo Russo Spena

 

Il Manifesto, 30 agosto 2008

 

Dietro le sbarre è boom dei metodi di alta sicurezza: 15mila sono i detenuti relegati in questo stato. Assente una legge nazionale, sono stabiliti dal Dap che ha potere esclusivo e discrezionale. Così ogni carcere è un mondo a sé.

Isolamento, meno ore d’aria, compressione delle attività interne, visite pressoché inesistenti. Detenuti a cui viene negato reinserimento sociale: per loro la legge Gozzini (che il governo Berlusconi vuole cancellare) è un miraggio. Eppure rappresentano una cospicua parte della popolazione carceraria nazionale e sono in buona parte estranei a procedimenti mafiosi. Il 41 bis non li riguarda. E allora? Sono colpiti da altri regimi di carcere duro previsti nel sistema penitenziario italiano e inflazionati negli ultimi anni: Alta sicurezza (As), Elevato indice di vigilanza (Eiv) e Sorveglianza particolare (Sp). Dati alla mano sono quindicimila i detenuti (nel 2000 erano solo mille) sottoposti a questi trattamenti, stabiliti direttamente dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), che variano nella durezza da carcere a carcere. Non esiste infatti una legge nazionale che "normalizzi" o quanto meno "regolamenti" queste restrizioni. Il potere è alla discrezionalità.

 

Regimi speciali

 

L’As, introdotta negli anni ‘90 dall’allora capo del Dap Nicolò Amato, è l’unica che specifica i reati che il detenuto deve aver commesso affinché sia giustificata: sequestro di persona, associazione a delinquere e traffico internazionale di droga, i principali. Non viene però applicato in maniera uniforme. In alcune carceri i detenuti sottoposti all’As sono del tutto esclusi dalla normale vita penitenziaria (scuola, lavoro, sport); in altri possono incontrare solo il cappellano. L’asprezza del trattamento varia a seconda del penitenziario. I benefici della legge Gozzini e gli "sconti" sul regime duro sono ammissibili a una sola condizione: la collaborazione con la giustizia. Un legame tra pentitismo e regime duro è così presente. E in alcuni casi è, seppur non esplicitamente, la via usata per indurre a parlare.

Sull’Eiv la discrezionalità del Dap aumenta. Non sono specificati i delitti per i quali è previsto: molti terroristi della prima generazione vi sono sottoposti. Questi due regimi sono comunque presenti in altre parti di Europa. Quello che cambia è la chiarezza delle norme nell’assegnazione a tali circuiti e l’effettività del potere di ricorso contro la decisione. "Non è accettabile la durata indefinita dei provvedimenti, il loro rinnovo automatico, i contenuti di tipo vessatorio tendenti a introdurre un’ulteriore pena rispetto a quella comminata e le condizioni di isolamento assoluto" dichiara Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che poi va oltre: "Rientrano nella definizione di trattamenti inumani o degradanti".

La Sorveglianza particolare, la più inflazionata negli ultimi anni, è invece utilizzata contro i detenuti "pericolosi dal punto di vista penitenziario". Persone sottoposte a questo regime per periodi limitati di tempo in considerazione di una valutazione di pericolosità intra-muraria decisa dall’amministrazione penitenziaria e confermata dalla magistratura di sorveglianza. E, come negli altri due regimi, si perde la possibilità di accedere a corsi di formazione professionale e a iniziative di carattere educativo e culturale. Oltre a essere soggetti a quell’isolamento che non permette praticamente di avere momenti di socialità con gli altri detenuti.

 

Il carcere punitivo

 

Il Comitato per la prevenzione della tortura segnala alcuni casi di totale inaccettabilità in molti carceri italiani. "Non vengono rispettati i diritti elementari", denuncia Franco Uda, responsabile nazionale giustizia dell’Arci e vice-presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che analizza la nuova composizione sociale delle galere: "Non sono più luoghi di rieducazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione - dice - ma contenitori dell’esclusione sociale".

Soprattutto dopo la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Cirelli sulla recidiva. Fatte dal precedente governo di centrodestra e non abrogate dall’ultimo di centrosinistra. Ora l’obiettivo di Uda, e non solo, è respingere le nuove misure del governo sulla questione sicurezza: "Berlusconi alimenta l’industria della paura - spiega - risvegliando la pancia del paese". Così come la tanto invocata "certezza della pena" si traduce in un carcere, come luogo esclusivamente di punizione. Si perde così di vista l’obiettivo originario del reinserimento.

"Stiamo assistendo a una grave regressione istituzionale e culturale nei sistemi penitenziari", dichiara sconfortato Giorgio Bertazzini, garante dei detenuti della provincia di Milano, che fa notare l’anomalia italiana: "Nei regimi di sicurezza ogni istituto è una costellazione a sé. Ci sono differenziazioni di fatto della stessa misura restrittiva". Un gap legislativo che questo esecutivo non sembra voler colmare.

 

Tutto il potere al Dap

 

Sulle responsabilità di questa situazione le associazioni che lavorano nelle carceri fanno un appello affinché le limitazioni alle libertà fondamentali non siano potere discrezionale del Dap: "La questione va normata". "Ai vertici del dipartimento prima viene posto un magistrato in nome della sua intrinseca indipendenza - spiega Palma - ma poi viene rimosso e sostituito al mutare del quadro politico. Il Dap non è più una controparte affidabile".

E se le associazioni chiedono maggiore attenzione alle norme di reinserimento della popolazione carceraria, magari estendendole (quasi) a tutti, i proclami del ministro Angelino Alfano e di Filippo Berselli (Presidente della Commissione Giustizia del Senato) fanno presagire un peggioramento della situazione. Toccare la Gozzini, in un sistema già in crisi, sarebbe la pietra tombale.

Giustizia: Osapp; sì a libertà su cauzione in attesa del processo

 

Agi, 30 agosto 2008

 

"Se dobbiamo guardare alle esperienze di altri paesi perché allora non ripristinare la libertà degli imputati dietro cauzione?". Rilancia così il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia Penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, il quale, ipotizzando un ripristino dell’istituto abolito con l’ultima riforma del Codice di procedura penale, scrive al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e al Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Il braccialetto elettronico, secondo il sindacalista "è stata un’esperienza antieconomica e antisociale, da non ripetere".

Uno strumento quale quello della cauzione, che "oltre ad annoverare autorevoli consensi nella dottrina processual-penalistica - si legge nella nota dell’Osapp - si identifica anche nell’adeguamento alle legislazioni degli altri Paesi cui il nostro codice si ispira".

Oltre che negli Stati Uniti e in Inghilterra, anche in Spagna, osserva il sindacato, sono previste disposizioni dal contenuto analogo, e "sono tutt’altro che infrequenti fughe di criminali italiani verso quel Paese, come ampiamente documentato dalla cronaca giudiziaria".

In Italia invece, "per l’esatto contrario - sottolinea Beneduci - il cittadino straniero che compie un reato, magari nel proprio Paese, e poi fugge in Italia, contribuisce solo ad incrementare la popolazione carceraria dei nostri istituti di pena sovraffollati, proprio perché l’ordinamento non prevede il rilascio su cauzione".

Quindi, aggiunge il segretario dell’Osapp, "si pensi alla criminalità del nostro paese e agli effetti decongestionanti sul sistema penitenziario, considerando che quasi la metà dei detenuti è dentro in attesa di giudizio", auspicando "una riforma in tal senso, con la concessione, esigibile anche su delega dell’Autorità Giudiziaria dalla Polizia penitenziaria, del rilascio dietro cauzione con le stesse modalità previste per esempio nel Regno Unito, ove la misura viene fatta discendere dal principio della presunzione d’innocenza, non affatto trascurato dal nostro ordinamento".

Secondo l’Osapp, inoltre, "il possibile abbattimento del contenzioso in tema di impugnazione dei provvedimenti coercitivi è un ulteriore argomento a favore dell’istituto della cauzione per evidenti ragioni di economia" ed ulteriori vantaggi "si profilano sul versante erariale per la riparazione dell’ingiusta custodia cautelare in carcere".

E ancora: il versamento della cauzione, conclude Beneduci, "costituisce in caso di condanna dell’imputato una quota di accantonamento dalla quale attingere per il recupero delle somme dovute allo Stato, ovvero ai privati danneggiati dal reato".

Giustizia: televisione e politica... ma la sicurezza non è fiction

di Giovanni Valentini

 

La Repubblica, 30 agosto 2008

 

Il Berlusconismo, sua colpa sua grandissima colpa, rivoluziona l’utilizzo della televisione come strumento della politica. (da "Cara Bombo..." di Angelo Mellone - Marsilio, 2008 - pag. 67).

Nessuno poteva francamente aspettarsi né tantomeno pretendere che l’impiego dei militari in difesa dell’ordine pubblico nelle nostre città, a fianco degli agenti di polizia e dei carabinieri, risolvesse di colpo i problemi della sicurezza. E in tutta sincerità, come avrebbe sentenziato il mitico Catalano nei surreali e divertenti talk-show di Renzo Arbore, meglio vedere tre uomini armati e in divisa che passeggiano per strada piuttosto che non vederne affatto. Almeno, per il cittadino che non ha nulla da nascondere o da temere.

Ma l’escalation di violenza degli ultimi giorni, con la successione impressionante di stupri a danno di malcapitate turiste straniere e con il culmine dell’aggressione o addirittura del raid contro i poveri frati del Canavese, rompe brutalmente l’incantesimo mediatico della sicurezza catodica.

Quella, per intenderci, indotta dalla messinscena governativa, alimentata e avallata dalla grancassa compiacente della tv, pubblica e privata. Non aveva torto Famiglia Cristiana a scrivere nelle settimane scorse che il nostro è ormai "Un Paese da marciapiede", presidiato appunto dai militari e nel contempo infestato dalla prostituzione peripatetica.

La sicurezza però non è una fiction. Non può essere ridotta a una rappresentazione propagandistica; a una parata o a uno spettacolo nazional-popolare. Se è diventata uno dei temi centrali dell’ultima campagna elettorale, o magari proprio quello decisivo, qualcuno dovrà pur domandarsi come fa poi il ministro dell’interno, Roberto Maroni, ad annunciare nella sua conferenza-stampa di Ferragosto che nell’ultimo anno - a cavallo di due legislature - i reati in Italia sono diminuiti del dieci per cento. E se la spiegazione è che nel frattempo s’è esaurito l’effetto dell’indulto, cioè che molti ex detenuti sono tornati in carcere, allora bisognerebbe avere l’onestà di chiarire che l’emergenza sicurezza era stata provocata da questo fattore contingente, in base a una scelta condivisa per altro anche da una cospicua parte del centrodestra.

In un dibattito estivo a Cortina, nel ciclo organizzato da Enrico e Iole Cisnetto, a giusta ragione Eugenio Scalfari ha osservato che una tale "manipolazione mediatica" meriterebbe di essere studiata nei master di comunicazione delle università italiane. E in effetti, a proposito di dipendenza dai mass media, la teoria dei mezzi di comunicazione di massa insegna che questa può essere cognitiva, di orientamento e di svago. Nel nostro caso, evidentemente, la dipendenza di una gran parte degli italiani dalla tv corrisponde a tutte e tre le categorie: informazione, opinione e intrattenimento.

A livello collettivo, la sicurezza è certamente un elemento psicologico, non solo un dato reale o statistico. Ma quanto influiscono i telegiornali su questa percezione? E quanta responsabilità ha la tv nella diffusione della violenza, soprattutto attraverso certi film e telefilm, innescando un meccanismo inconscio di assuefazione ed emulazione? Quanti episodi di cronaca nera finiscono per assomigliare terribilmente a scene già viste sul piccolo o grande schermo?

Ecco, questa continua sovrapposizione fra dimensione reale e proiezione virtuale è verosimilmente all’origine della sensazione d’insicurezza che pervade larghi strati di popolazione. La televisione come strumento della politica e la politica come effetto della televisione. Ma bisogna stare attenti a parlare in pubblico di "questione televisiva", di concentrazione o conflitto d’interessi: in alcuni casi, si può rischiare il linciaggio. È una sorta di sindrome di Stoccolma - o forse bisognerebbe dire di Arcore - per cui i teledipendenti non si accorgono neppure più della propria condizione e, anzi, difendono e amano i custodi della loro prigione catodica.

Le vestali del berlusconismo si strappano le vesti quando si affrontano questi argomenti. E spesso attribuiscono polemicamente agli interlocutori tesi di comodo, come quella che Berlusconi usa le televisioni per fare politica, oppure che ha vinto le elezioni perché controlla la tv. A parte il fatto che ormai le elezioni le ha vinte tre volte nell’arco di quindici anni, e ha diritto perciò a un riconoscimento politico, come si diceva ai tempi bui del terrorismo, in realtà nessuno è tanto ingenuo o sprovveduto da sostenere tesi così semplicistiche. Ma da qui a insinuare che la televisione non influisce più di tanto sull’opinione comune o a negare un controllo diretto e indiretto da parte del governo in carica, ce ne corre.

La verità è che la sicurezza non è né di destra né di sinistra. E quest’ultima - almeno nella sua versione riformista - farebbe bene a preoccuparsene sia quando è al governo sia quando è all’opposizione, senza sottovalutare l’aspetto psicologico del fenomeno, mentre non si può negare che in passato l’abbia considerato a lungo un tabù o addirittura uno strumento repressivo. La sensazione d’insicurezza diffusa merita in ogni caso di essere compresa, corrisposta e tutelata, prima sul campo o sul territorio e poi magari anche sul piano mediatico della comunicazione.

Quello che occorre garantire, innanzitutto, è la certezza della pena: e cioè il timore effettivo della sanzione. Vale come minaccia e ancor prima come deterrente. Troppi delinquenti in Italia escono troppo presto dal carcere o comunque non scontano interamente la pena. La sicurezza comincia dalla giustizia, dal rispetto e dall’applicazione rigorosa della legge. Altrimenti, non basterà schierare tutte le forze armate e tutte le forze di polizia per contrastare la criminalità, la violenza, il progressivo imbarbarimento della società.

Giustizia: Barbagli; frequenza di reati conta più della gravità

di Angelo Mincuzzi

 

Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2008

 

Non è un problema di soldi, né di raddoppio delle pene. C’è una strada più indiretta ma forse più efficace per aumentare la sicurezza e ridurre i reati. Marzio Barbagli, 70 anni, sociologo esperto di criminalità e docente all’Università di Bologna, la chiama "prevenzione situazionale", parolone difficile ma che sintetizza in una frase dal sapore di uno slogan: "Scoraggiare gli autori di reati rendendo più difficile o meno remunerativa la violazione della legge".

Già, ma come? "Per esempio, diminuendo l’uso del contante a vantaggio delle carte di credito", spiega. Possibile? "Certo, ci sono confronti tra Italia e Usa che ci dicono che negli Stati Uniti il numero dei borseggi è minore: nei portafogli ci sono meno contanti e dunque rapinare un passante è meno conveniente".

L’esperienza del passato, poi, insegna: le statistiche hanno registrato una diminuzione dei furti di cellulari quando le compagnie telefoniche hanno introdotto sistemi che bloccano gli apparecchi rendendoli inutilizzabili. E quando fu disposto l’obbligo del casco l’effetto immediato fu un drastico calo dei furti perché per rubare uno scooter anche il ladro ne doveva possedere uno. "Sono misure fredde, che certamente non scaldano i partiti politici come l’aumento della severità delle pene, ma che scoraggerebbero preventivamente gli autori di un crimine", precisa Barbagli

I reati contro il patrimonio, più degli omicidi, sono i principali responsabili dell’aumento del senso di insicurezza degli italiani. Le statistiche fotografano chiaramente questo fenomeno: ci si sente meno sicuri in Emilia Romagna che in Sicilia, meno al Nord che al Sud. Sembra impossibile ma, sottolinea Barbagli la realtà è questa: "La gente non è matta, non siamo di fronte a forme di isteria, ma a motivi reali di preoccupazione. Il senso di insicurezza dipende dalla frequenza dei reati.

Ma non solo. Ad aumentarlo sono anche comportamenti che non sono da codice penale e che possono essere sintetizzati in una parola, degrado". Atti di vandalismo, graffiti sui muri, prostituzione sulle strade, sono violazioni delle norme condivise dalla popolazione che danno ai cittadini la sensazione che nessuno faccia rispettare la legge". Il tasso di omicidi è arrivato al punto più basso degli ultimi 50 anni - racconta Barbagli - mentre crescono le rapine, i furti in casa, i borseggi, soprattutto al Nord. Qui il trend è più marcato ed è qui, dunque, che ci si sente più insicuri".

Giustizia: costi sicurezza; Lazio primo, e il Nord spende meno

di Roberto Galullo

 

Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2008

 

Torino, Roma e Catanzaro. Tre province, un comune denominatore che ha fatto di questo scorcio d’estate l’ennesima stagione di stupri, omicidi e violenze, che fa seguito a un anno passato a commentare il rapporto tra reati e l’indulto votato e approvato nel corso della precedente legislatura.

L’estate ha aumentato nei cittadini la sensazione d’insicurezza nonostante l’Esercito - per merito di una delle prime decisioni assunte dal Governo Berlusconi - presidi molti centri storici e posti sensibili e nonostante le ultime statistiche parlino di una regressione dei reati. Almeno di quelli efferati, che colpiscono di più l’opinione pubblica. È il recente caso di Roma, dove due pastori romeni hanno stuprato una turista olandese e picchiato il marito. Non sono mancate le critiche al sindaco Gianni Alemanno che in un primo momento aveva parlato di leggerezza da parte dei ciclo-turisti olandesi, nonostante avesse puntato la sua campagna elettorale sulla tolleranza zero, che non fa distinzioni tra violenze nei centri storici o nelle periferie degradate. Tolleranza zero verso la criminalità che aveva contraddistinto anche i programmi dei due candidati premier Silvio Berlusconi e Walter Veltroni.

Stupore e raccapriccio anche per pestaggi brutali nel convento piemontese di San Colombano Belmonte, dove quattro frati sono stati colpiti a bastonate. Un comun denominatore di violenza che non ha risparmiato nessuno e che non guarda alla geografia. A Catanzaro l’ultimo stupro, denunciato da una turista israeliana dopo una serata passata in discoteca

Il dibattito tra percezione di insicurezza e insicurezza reale non è una novità: politici, politologi, criminologi e sociologi ne discutono da tempo con statistiche alla mano. Pronti a denunciare "sensazioni" smisurate rispetto alla realtà se alcuni crimini diminuiscono, reattivi nel disquisire di situazione insostenibile se i reati aumentano.

Un dato, però, è oggettivo: la spesa in sicurezza pubblica sostenuta dallo Stato centrale e dalle autonomie locali e territoriali. Oneri che quest’estate sono stati oggetto di polemiche e scontri sui (supposti) tagli alle risorse destinate alle Forze dell’ordine. La spesa per la sicurezza non manca di sorprendere. Non fa notizia che nel 2006 lo Stato e le amministrazioni pubbliche abbiano sostenuto nel Lazio una spesa procapite di 485 euro per complessivi 2,6 miliardi (sul totale nazionale di 15,2 miliardi).

Roma assorbe la gran parte della spesa nel Lazio. Nella Capitale, Protezione civile, Carabinieri e Polizia, oltre ai corpi locali (a partire dalla polizia municipale) devono garantire la sicurezza di un numero elevato di luoghi e persone e debbono assicurare funzioni che, altrove, non vengono richieste. Si pensi al presidio delle Ambasciate e delle sedi internazionali o ai servizi d’ordine da espletare nel corso delle manifestazioni sindacali o durante le visite dei Capi di Stato.

La contiguità con il Vaticano, inoltre, assorbe un comprensibile surplus di spesa. In classifica segue, con valori elevati; la Valle d’Aosta, mentre dalla Liguria alla Sardegna la spesa procapite oscilla tra 333 e 257 euro per residente.

Quello che stupisce è trovare in coda alla classifica della spesa - elaborata dal Sole 24 Ore sulla base dei dati raccolti dal sistema dei conti pubblici territoriali e messi in rete dal Tesoro - Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. In quest’ultima regione Stato e pubblica amministrazione centrale e locale hanno speso 68 euro in meno della media procapite italiana, che è di 257,81 euro.

Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto valgono insieme circa i due terzi del Pil e la percezione di insicurezza dei cittadini di queste tre regioni è dovuta soprattutto dalla micro-criminalità che viene attirata dalle aree di maggior benessere economico. Di assalti in villa, scippi, furti nelle fabbriche e rapine sono piene le cronache.

Per quanto sottaciuto, inoltre, il fenomeno della criminalità organizzata sta minando i rapporti socio-economici del Nord. Racket, pizzo e usura - stabilmente in mano alle ‘ndrine calabresi e ai clan camorristici campani - assorbono sempre di più le energie delle Forze dell’Ordine, mentre l’ondata di cittadini extracomunitari non in regola e che commette reati, impegna soprattutto i corpi di polizia locale.

Se a queste tre regioni si aggiunge che al quint’ultimo posto della spesa figura il Piemonte (con un onere per cittadino residente di 221 euro) ce n’è abbastanza per sostenere che la spesa ha bisogno di trovare un nuovo equilibrio. Che appena sopra il Piemonte figuri la Campania avvalora il ragionamento. In una regione piegata dalla camorra, la quantità deve accompagnarsi alla qualità degli investimenti.

A leggere i dati disaggregati di spesa si scopre invece che - in tutta Italia e non solo al Sud - il personale assorbe la gran parte dei flussi finanziari: quasi il 70 per cento. A differenza di altri servizi essenziali garantiti da Stato, Comuni e pubbliche amministrazioni, la presenza fisica è vitale e giustifica un onere così elevato, anche se l’impressione è che lo squilibrio di forze nelle regioni - o nella migliore delle ipotesi una carenza di personale operativo - sia un dato di fatto.

La sicurezza pubblica - però - si garantisce sempre più con investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, immobili, posti di polizia tecnologicamente al passo con i tempi, sistemi di comunicazione e autostrade telematiche: in questi settori la spesa non supera il 15-20%.

Un altro 15-20% della spesa se ne va in beni e servizi essenziali non evoluti (a partire da benzina e cancelleria). Che i piatti della bilancia del comparto sicurezza pubblica debbano essere riequilibrati si capisce anche dalla lettura dei dati del Tesoro relativi alla Giustizia (l’insieme delle spese per l’amministrazione e il funzionamento dei Tribunali la consulenza legale, l’edilizia carceraria e la gestione dei penitenziari).

La regionalizzazione di questa spesa - che in Italia è di quasi 6,8miliardi - non cambia la classifica generale. Anche sommando alle spese per la sicurezza quelle per la Giustizia - complementari alle prime - agli ultimi posti della classificasi trovano Piemonte, Marche, Trentino-Alto Adige e poi Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Ai primi posti ancora il Lazio (dove la presenza di Tribunali e ministero assorbe risorse), Valle d’Aosta e Liguria. Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, ma il dibattito politico sulla sicurezza nel Paese difficilmente potrà prescindere da una diversa e più attenta destinazione dei flussi finanziari.

Giustizia: sull’obbligatorietà intervenire con legge ordinaria

di Tullio Padovani

 

www.radiocarcere.com, 30 agosto 2008

 

Se si riconosce la necessità di affrontare - alla buon’ora - la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, la strada maestra è ovviamente costituita dalla riforma dell’art. 112 Cost. Si tratta tuttavia di una strada piuttosto laboriosa, per la complessità del procedimento di revisione costituzionale e, con ogni probabilità, non conclusiva: ad un nuovo testo contenente disposizioni di principio deve accompagnarsi una disciplina di attuazione inevitabilmente elaborata.

Nell’attesa di un approdo non facile, varrebbe forse la pena di cominciare a lavorare, a costituzione vigente, su due possibili fronti. Il primo, costituito dalla fase delle indagini preliminari, la cui chiusura precede e condiziona l’esercizio dell’azione penale: esse non possono quindi ritenersi attratte dal vincolo costituzionale di obbligatorietà. Il secondo, rappresentato dalla fase successiva all’inizio dell’azione penale, rispetto alla quale vige certo l’obbligo costituzionale, espresso tuttavia in una dimensione di massima astrattezza, senza nulla stabilire circa tempi e modi del suo adempimento in concreto.

Per quanto riguarda il primo fronte, già esiste nel nostro ordinamento una disposizione, quella dell’art. 125 disp. att. c.p.p., che impone al p.m. di pre-sentare la richiesta di archiviazione, "quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio". Il punto è che "gli elementi acquisiti" dovrebbero coincidere, almeno tendenzialmente, con tutti gli elementi "acquisibili". Il p.m. dovrebbe aver svolto ogni indagine "necessaria", come prescrive l’art. 326 c.p.p., e aver concluso che il giudizio vedrebbe l’accusa sconfitta.

Nella prassi, si sa, le cose vanno spesso diversamente: il p.m. non svolge le indagini "necessarie", perché le considera, di solito per mille ottime ragioni, sostanzialmente inutili, e, confidando nella "comprensione" del gip, richiede l’archiviazione; che a volte c’è, a volte manca. Così va il mondo sotto il vigile ma remoto sguardo dell’art. 112 Cost.

Si tratta allora di rivisitare il dovere del p.m. di svolgere le indagini "necessarie" per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Tale necessità, anziché essere enunciata in termini genericamente funzionali (fa tutto quel che occorre per accertare qualsiasi reato), dovrebbe essere modulata su parametri definiti: il rapporto costi-risultati nel ricorso ai mezzi di ricerca della prova (nessuno si scandalizzi: è la stessa logica che ispira i limiti normativi stabiliti per le intercettazioni); il rapporto tra risultati già raggiunti con le attività svolte e quelli ragionevolmente ottenibili con l’ulteriore corso delle indagini ( a volte un sequestro con distruzione della cosa è tutto quello che si può spremere dal limone); infine, le valutazioni relative alla natura, alla gravità, alla persistenza dell’offesa (e qui si potrebbe attingere dalle disposizioni che, nella giurisdizione di pace, escludono la perseguibilità nei casi di particolare tenuità del fatto o sanciscono l’estinzione del reato in seguito a condotte riparatorie).

Sul secondo fronte, la questione si prospetta in termini diversi: il p.m. ha ritenuto di dover esercitare l’azione penale all’esito di indagini preliminari che non hanno potuto subire alcun "filtro". È ragionevole presumere che possa trattarsi ancora di un numero di procedimenti tanto elevato da non consentire uno svolgimento a pari velocità.

Del resto, già il codice individua opzioni differenziate quanto a speditezza del rito: arresto in flagranza, giudizio direttissimo; prova evidente, giudizio immediato; sanzione pecuniaria sostitutiva, giudizio per decreto; per non dire della priorità riconosciuta ai procedimenti con detenuti. Su questo versante si può senza dubbio lavorare, stabilendo precedenze legate alla natura e alle modalità dell’offesa. Si tratta tuttavia di precisare, in primo luogo, chi e come assegna la "corsia preferenziale", e, in secondo luogo, quale destino si riserva ai reati che non sono inclusi nel "gruppo di testa".

I nodi - come appare evidente - sono intricati, e sbrogliarli non è facile. Per un verso, è escluso che il catalogo delle priorità sia definito in modo normativamente rigido: in versione applicativa, ci imbatteremmo in continue assurdità. Per un altro verso, è chiaro che la scelta non potrebbe essere affidata senza un controllo: giudiziario, beninteso.

Lo stesso problema si prospetterebbe del resto anche sul primo fronte di intervento. Quanto al destino dei reati esclusi dalla corsia preferenziale, non si può certo ipotizzarne l’abbandono alle secche della prescrizione: di amnistie occulte non si avverte la necessità. Che fare, dunque? Ma qui finisce lo spazio concesso: occorre rinviare. Parlando di processi si finisce col subire l’influenza del loro destino abituale.

Giustizia: sulle intercettazioni, scontro tra Prodi e Berlusconi

 

Corriere della Sera, 30 agosto 2008

 

Sono ancora una volta le intercettazioni a tenere banco nella scena politica nazionale. Una questione che riaccende lo scontro tra maggioranza e opposizione e attorno alle quali si consuma un duro confronto a distanza tra Prodi e Berlusconi. La pubblicazione su Panorama (settimanale di proprietà di Silvio Berlusconi, diretto da Maurizio Belpietro) di alcune telefonate dell’ex presidente del Consiglio, intercettato nell’ambito dell’inchiesta su Italtel (per alcuni presunti favori ad amici e parenti), hanno fatto tornare alla ribalta l’ipotesi di una legge che regolamenti l’uso i controlli telefonici da parte dei pm. E se da una parte il premier Silvio Berlusconi, ha dichiarato la sua solidarietà a Prodi, invocando una legge che regolamenti l’uso delle telefonate, dall’latra l’ex premier ha rispedito al mittente la solidarietà, gelando il Cavaliere: "Intercettatemi pure - è in sostanza la posizione del Professore -. Io sono contrario a leggi lampo per fermare i giudici che indagano".

Il Premier - In mattinata Berlusconi, oltre ad esprimere "solidarietà" al predecessore, aveva dichiarato che "la pubblicazione di intercettazioni telefoniche riguardanti Romano Prodi non è che l’ennesima ripetizione di un copione già visto". Il Parlamento, secondo il premier, "deve sollecitamente intervenire per evitare il perpetuarsi di tali abusi che tanto profondamente incidono sulla vita dei cittadini e sulle libertà fondamentali".

"Intercettatemi pure" - A quel punto è giunto l’intervento di Prodi. "Da parte mia - ha detto l’ex premier - non ho alcuna contrarietà al fatto che tutte le mie telefonate siano rese pubbliche. Vista la grande enfasi e, nello stesso tempo, l’inconsistenza dei fatti a me attribuiti dal settimanale Panorama - ha detto Prodi, subito dopo l’intervento del premier - non vorrei che l’artificiale creazione di questo caso politico alimentasse il tentativo o la tentazione di dare vita, nel tempo più breve possibile ad una legge sulle intercettazioni telefoniche che possa sottrarre alla magistratura uno strumento che in molti casi si è dimostrato indispensabile per portare in luce azioni o accadimenti utili allo svolgimento delle funzioni che le sono proprie".

Veltroni e Di Pietro - Sulla vicenda è intervenuto il segretario del Pd, Walter Veltroni, apostrofando come "falsa" la solidarietà manifestata da Berlusconi a Prodi. "La dichiarazione di solidarietà del premier è un esercizio non utile - ha detto Veltroni -, sarebbe bastato che i giornali di sua proprietà non pubblicassero quelle intercettazioni: non ci sarebbe stato bisogno di fare una dichiarazione di solidarietà che evidentemente appare falsa e non ispirata a principi e pensieri reali". "Meno male che Prodi non è caduto nel trabocchetto e ha subito detto che le intercettazioni che lo riguardano, siano rese pubbliche" ha dichiarato Antonio Di Pietro, arrivando alla festa del Pd a Firenze.

Le critiche de Il Riformista - Le critiche a Prodi arrivano dal Pdl, ma anche da Il Riformista, che taccia l’ex premier e anche tutto il Pd di soffrire di una sorta di "sindrome di Stoccolma" nei confronti di "un apparato spionistico-giornalistico" cui delegare "il tema serio della trasparenza e della moralità politica". "Intendiamoci - scrive il direttore Antonio Polito in un editoriale che sarà pubblicato sabato -, può darsi che Berlusconi sia così luciferino da far pubblicare da Panorama un attacco a Prodi per tirare il Pd dentro la sua campagna anti-intercettazioni. Mai sotto-stimare Berlusconi. Ma la conseguenza che ne tira Prodi è agghiacciante".

Giustizia: Berlusconi all’attacco; su corruzione ascolto vietato

di Liana Milella

 

La Repubblica, 30 agosto 2008

 

Era ancora luglio. Un tavolo riservato a casa di Berlusconi per discutere di giustizia e di intercettazioni. Lui, il Cavaliere, scatenato, continuava a ripetere: "Dovete darmi retta. Questo disegno di legge va cambiato. In consiglio dei ministri mi avete forzato la mano. Ma io non sono per niente soddisfatto. Avete voluto a tutti i costi prevedere una lista ampia di reati. Così non va bene. I magistrati continueranno a massacrarci. Finiremo sempre sui giornali. Dobbiamo limitare la possibilità di ascoltare le telefonate solo ai delitti gravi, la mafia e il terrorismo. E basta. Perché...".

D’improvviso, fatto non proprio usuale quando parla il Cavaliere, lo interrompe Bobo Maroni: "Silvio, scusami. Ma hai per caso qualche altro problema che ti assilla?". Angoscia giudiziaria, ovviamente, ma il fair play impone di non chiamare le cose col loro nome. Il premier si fa una risata e replica: "Problemi? Io? Altre inchieste? Proprio no. Che io sappia non ne ho. Ma è il sistema che fa schifo. Ieri è toccato a me, domani toccherà a un altro. Qui non si salva nessuno. Prima o poi finiamo tutti sulla graticola, sputtanati sui e dai giornali. Per questo, e non finirò mai di ripetervelo, i reati sulla pubblica amministrazione non devono essere più ascoltati dai giudici. Capito?".

Ma la Lega di Maroni e An con Giulia Bongiorno non si sono spostate di un centimetro. "La corruzione è intercettabile, e tale deve restare" disse allora, e ripete ancora oggi, la delegata di Fini al tavolo della giustizia. Il Carroccio era ed è altrettanto irremovibile.

Sicché Berlusconi, quando l’altra sera gli hanno messo sul tavolo l’anteprima della copertina di Panorama col servizio su Prodi, ha avuto buon gioco ad esplodere: "Eccoci qua. È disgustoso. Ieri ero io la vittima, adesso è lui. Qui non si salva nessuno. Questi comportamenti non sono più tollerabili. Bisogna approvare la legge il più presto possibile. E bisogna stringere sulla lista dei reati".

Ha chiamato Niccolò Ghedini, il suo avvocato e consigliere giuridico. Con lui s’è lamentato con forza per "quella legge troppo morbida" che però Ghedini difende. "Berlusconi ha dato delle indicazioni, il ministro della Giustizia Alfano ha presentato un testo, ne abbiamo discusso, il consiglio dei ministri l’ha approvata, il premier stesso l’ha firmata, ora è in Parlamento.

Non ci sono accelerazioni particolari da imporre, il testo farà il suo iter, che non sarà certo breve, ma alla fine sarà approvato". E l’opposizione che oggi accusa Berlusconi di aver provocato e quasi ordinato lo scoop di Panorama per poi sfruttarlo politicamente e imporre il voto su una legge che in realtà serve soprattutto lui? Ghedini esplode in un mezzo moccolo: "Abbiamo una maggioranza fortissima. La legge ce la possiamo votare da soli. Che ce ne importa di Prodi? La verità è che Berlusconi ha scritto esattamente quello che provava. Fastidio, esasperazione, condanna per pubblicazioni inaccettabili".

Silvio sincero? Silvio autentico? Silvio che arriva a contrirsi per l’ex premier e l’ex avversario? Ghedini giura che è proprio così: "Berlusconi non sapeva nulla del servizio del settimanale. Se ne fossimo stati informati avremmo tentato di dire che stavano per fare una cosa pazzesca, anche perché si tratta di un comportamento penalmente rilevante". Avreste censurato Panorama? "Berlusconi non lo fa mai. E non lo avrebbe fatto nemmeno in questo caso. Ma la sua reazione è stata di indignazione profonda".

Quella che ieri mattina, a ridosso dell’incontro con Napolitano che lodava i risultati bipartisan sulla Georgia ottenuti dopo il confronto Frattini-Fassino, gli ha fatto dettare alle agenzie una nota decisamente a favore di Prodi.

Ma alla versione di Ghedini s’oppone quella del Pd e di Di Pietro. Solidarietà "pelosa". Come sospetta Marco Minniti, solo "una manovra architettata". Che serve a Berlusconi come pezza d’appoggio per giustificare non solo la stretta sulle intercettazioni, ma più in generale quella contro i giudici. Ma un fatto è certo. Nell’incontro tra il premier e il Guardasigilli Alfano a palazzo Grazioli, appena due giorni fa, il capo del governo ha detto al suo ministro: "E poi, Angelino, mi raccomando le intercettazioni. Segui la legge a ogni passo. E dammi retta. Limate quella lista dei reati".

Via la corruzione, la concussione, gli abusi. È l’unica preoccupazione del Cavaliere. Non il carcere per i giornalisti, ché quello vuole eliminarlo. Non la durata degli ascolti, ché non lo preoccupa. Ma la "lista". È quello il vero problema su cui vorrebbe che almeno i benpensanti della sinistra stessero dalla sua parte.

Giustizia: e questo è solo l’ultimo trucco del "mago" di Arcore

di Giuseppe D’Avanzo

 

La Repubblica, 30 agosto 2008

 

La classe non è acqua. Prodi dimostra di averne. Uno degli house organ del Cavaliere lo mette in mezzo. Scopre che è stato intercettato in un’inchiesta giudiziaria. Pubblica stralci delle sue conversazioni. È una buona occasione per rilanciare il "giro di vite" per le intercettazioni, già al primo posto dell’agenda del governo per l’autunno. Farle? Come disporle e per quali reati? Per tutti o soltanto per alcuni? Pubblicarle, e come e quando?

Senza troppo fantasia o sorpresa, si affaccia al proscenio prontamente - toh! - il Cavaliere ancora in vacanza (come non pensare che la minestrina se la siano cucinata in famiglia?). Esprime una solidarietà tartufesca al suo predecessore e chiede al Parlamento di approvare con sollecitudine il disegno di legge che, regolando l’uso delle intercettazioni, imbriglia il lavoro dei magistrati e ammutolisce l’informazione vietandone di fatto le cronache, a prezzo del carcere per gli scriba e punizioni pecuniarie per gli editori.

È l’ennesimo trucco del mago di Arcore. Al terzo round governativo, ha deciso di esercitare il suo potere secondo una tecnica che gli impone di creare - volontariamente e in modo artefatto - una necessità dopo l’altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche del Paese. Abitualmente i trucchi del mago di Arcore sono di cattiva qualità. Tutti vedono il passo storto, ma sono efficaci perché ipnotici. Per lo meno, per chi all’opposizione ci casca per non smarrire l’onda mediatica, che immagina essere l’unico canale per essere in sintonia con il Paese reale, condividendo così l’agenda del governo e l’offerta di un immaginario "dialogo istituzionale".

Questa volta, però, c’è Prodi di mezzo. Come il bambino di Andersen, dice quel che vede. E quel che vede è il sovrano nudo. Quel che scorge è un giochetto maldestro e molesto. Avverte che si vuole soltanto creare artificiosamente un "caso politico" per accelerare una soluzione legislativa che egli non condivide: "Le intercettazioni sono utili", dice. È tranquillo, certo di non avere nulla da temere dall’accertamento penale. Invita, chi vuole, a pubblicare integralmente le sue conversazioni, sicuro di non doversi vergognare delle sue parole. Con il che, l’ultimo tentativo di Berlusconi di creare uno stato di necessità, che imponga l’annichilimento delle intercettazioni e delle cronache, s’affloscia come un soufflé malfatto e svela i suoi ingredienti.

Da quando il Cavaliere è al governo è il terzo affondo. Si comincia nei primi giorni di giugno. Una nota di Palazzo Chigi annuncia che il governo ha approvato un decreto con immediata forza di legge che vieta le intercettazioni, se si esclude terrorismo e mafia, praticamente per tutti i reati (anche quelli per corruzione) e dispone il carcere per chi le pubblica. "È un provvedimento atteso da tutti i cittadini" giura Berlusconi. Deve intervenire addirittura il Quirinale per ricordare che il capo dello Stato ha già fatto sapere al governo che non intende riconoscere né l’urgenza né la necessità di un decreto legge. Palazzo Chigi impiega due ore per correggersi.

È "un refuso": presentiamo un disegno di legge, non un decreto. La rettifica arriva dopo che anche la Lega ha fatto la voce grossa (vuole che le intercettazioni siano consentite anche per i reati contro la pubblica amministrazione).

Il mago di Arcore ci riprova in luglio. Per giorni il Paese è inchiodato a un dilemma: che cosa dice Berlusconi nelle conversazioni privatissime registrate dalla procura di Napoli? Le sue parole sono davvero così inappropriate da costringerlo alle dimissioni? È vero che, in un’intercettazione, spiega a Fedele Confalonieri le ragioni postribolari dell’ingresso di qualche ministra nel governo? Quelle conversazioni semplicemente non esistono. Non sono mai esistite in un fascicolo giudiziario. L’avvocato del Cavaliere - Nicolò Ghedini, ministro di Giustizia di fatto - lo sa.

Sa che a Napoli e a Milano sono stati raccolti dei colloqui privati del Cavaliere (niente a proposito di ministre) e sa che, irrilevanti dal punto di vista penale, sono stati o saranno distrutti. Ghedini si guarda bene dal dirlo. Non aiuterebbe la performance dell’illusionista che, con notizie farlocche affidate ai famigli, veleni insufflati nelle redazioni, deve rappresentare la necessità di un urgente "giro di vite".

Mi spiano illegalmente, geme Berlusconi. Vogliono ricattarmi con intercettazioni private, abusivamente consegnate alle redazioni, protesta. Minaccia incursioni televisive e requisitorie parlamentari. La pantomima, che si è affatturato con la complicità del suo avvocato-consigliere, lo autorizza a chiedere subito alle Camere genuflesse l’approvazione della nuova legge. Si sente finalmente abilitato a pretendere dal capo dello Stato di riconoscere l’urgenza costituzionale di un decreto legge. Il sette luglio è a un passo dall’imporre al Consiglio dei ministri un provvedimento che vieta, pena la galera per il giornalista e la disgrazia dell’editore, la pubblicazione delle intercettazioni. Si ferma, lo fermano (troppo presto per dare battaglia a Napolitano).

Ci riprova ora combinando dal nulla un "caso Prodi" alla vigilia del suo rientro a Roma, tanto per spiegare ai suoi che cosa gli interessa che facciano in Parlamento nelle prossime settimane.

I suoi dimostrano di aver capito al volo. Il presidente del Senato Renato Schifani (chi lo sa con quale titolo istituzionale) chiede che le Camere approvino subito la riduzione al silenzio della stampa (gli appare addirittura una mossa "indifferibile") rinviando alla discussione della riforma della giustizia "l’individuazione delle tipologie di reato per le quali poter utilizzare quel metodo di indagine".

Difficile avere dubbi (chi ne aveva?): Berlusconi pretende che la sua legittimità a governare sia libera dall’impaccio della legalità; intende legale con un "soltanto formale" e legittimo come il suo opposto. Vuole tagliar corto con le dispute togate e avvocatesche di uno Stato giurisdizionale e le lunghe, faticose discussioni dello Stato parlamentare. Ridotte già le Camere a una sorta di "servizio al governo", era così scritto che il Cavaliere si dovesse occupare al più presto di magistratura e informazione, i due ordini che, nell’equilibrio di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri e, nell’interpretazione della legittimità di Berlusconi, soltanto pericolosi ostacoli che impediscono al sovrano di governare perché sorvegliano le sue decisioni.

Quella vigilanza è un impedimento che crea uno status necessitatis, che gli impone di andare avanti per decreti con forza di legge o per leggi approvate in pochi giorni creando ad hoc il "clima giusto". È quel che è accaduto con il fasullo "caso Prodi" e quel accadrà in un autunno, freddissimo per la Costituzione.

Lettera: ma tra i recidivi quanti avevano un posto dove andare?

 

Ristretti Orizzonti, 30 agosto 2008

 

Non sono d’accordo con lo studio fatto dal professor Giovanni Mastrobuoni a proposito del "costo economico" dell’indulto. Tra quelli che sono tornati a delinquere, chi aveva qualcuno fuori ad aspettarlo? È facile parlare dell’indulto, così, senza sapere cosa significa uscire dal carcere senza avere un posto dove andare. L’indulto non servirebbe, se si applicassero le leggi esistenti, però per applicare le leggi esistenti occorrono risorse.

Io sono volontario da 11 anni, vedo come si lavora all’interno del carcere: anche la polizia ha qualità, sta crescendo, non è più formata da "secondini". Gli educatori sono pochi, devono concentrarsi di più sul recupero, ma non hanno le risorse e non sono tanto motivati, perché alcune volte sono lasciati soli.

 

Angelo

Roma: muore di cancro in cella, aspettava misura alternativa

 

Agi, 30 agosto 2008

 

È morto nel centro clinico del carcere di Regina Coeli mentre attendeva, invano, che le autorità decidessero sulle sue richieste di scontare i pochi mesi di pena residua a casa, visto il peggiorare delle condizioni di salute minate da un tumore.

Protagonista della vicenda (avvenuta l’8 agosto e resa nota solo oggi), segnalata dal Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni, un detenuto albanese di 41 anni, Dule G., che avrebbe finito di scontare la pena nel marzo 2009. A quanto risulta al Garante, l’uomo (che aveva una figlia di sei anni ed una convivente con cui aveva regolari colloqui e che ha saputo della morte del compagno dagli operatori del carcere) era arrivato a Regina Coeli dal carcere di Velletri lo scorso maggio e, in poco più di 3 mesi, aveva sostenuto quattro visite mediche specialistiche e presentato due istanze di detenzione domiciliare per motivi di salute, visto l’evidente deperimento fisico. Al momento della sua morte, non risultavano ancora fissate udienze per discutere queste istanze.

Nato a Valona nel 1967, Dule era arrivato in Italia nel 1991 come regolare e dopo aver lavorato come operaio edile nel Nord, si era trasferito a Roma nel 1996: arrestato per reati legati alla droga, era stato condannato a 5 anni e mezzo di carcere. Dopo un primo periodo di detenzione a Civitavecchia (dove lavorava per mantenere la famiglia) era stato trasferito a Velletri e poi a Regina Coeli. Lo scorso aprile il tribunale di sorveglianza di Velletri aveva rigettato la sua richiesta di differimento pena per motivi di salute in base ad una relazione medica della direzione sanitaria del carcere che aveva giudicato la sua malattia compatibile con il regime carcerario.

"Trovo incredibile - afferma in una nota il Garante regionale dei detenuti Angiolo Marroni - che un malato non abbia avuto risposte alle sue richieste di trascorrere serenamente in casa gli ultimi mesi di vita, quasi che le patologie gravi non siano elementi da valutare con urgenza. Una vicenda ancor più grave se si considera che quest’uomo doveva uscire dal carcere fra sei mesi". Pochi giorni fa, ricorda il Garante, un altro detenuto malato è morto a Civitacastellana in attesa che il Tribunale decidesse la sua istanza di differimento pena: "l’ennesima conferma - conclude Marroni - che i tempi della giustizia sono drammaticamente più lunghi di quelli delle malattie".

Catanzaro: detenuto gay sieropositivo violentato e massacrato

 

www.gay.it, 30 agosto 2008

 

I compagni di cella lo stuprano perché gay. E quando scoprono che è sieropositivo lo massacrano. Un detenuto di 40 anni ha raccontato la sua odissea iniziata a luglio ma resa pubblica solo oggi.

"Stuprato, picchiato e minacciato in prigione, messo quindi in isolamento in una cella con topi e scarafaggi". È quanto sarebbe accaduto ad un detenuto gay e sieropositivo del carcere di Cosenza. I fatti risalgono a luglio ma vengono resi soltanto oggi grazie a Franco Corbelli, leader del movimento "Diritti Civili", che racconta di aver ricevuto una telefonata dal protagonista della triste vicenda.

"Un giovane calabrese di 40 anni da qualche giorno agli arresti domiciliari mi ha raccontato per telefono la sua allucinante e dolorosa odissea - dice Corbelli -. Arrestato per tentato furto, nel giugno scorso, viene rinchiuso in un carcere calabrese. Dichiara subito alla direzione dell’istituto di pena la sua omosessualità e sieropositività. In cella agli inizi di luglio subisce una violenza bestiale, viene ripetutamente violentato da alcuni detenuti, che quando poi scoprono che è sieropositivo lo picchiano e minacciano anche di ucciderlo. Il giovane viene per questo messo in isolamento in una cella con topi e scarafaggi.

Successivamente - prosegue Corbelli - viene trasferito in un carcere di un’altra regione e per alcuni giorni incredibilmente e irresponsabilmente rinchiuso in un reparto riservato a detenuti condannati per reati sessuali. Intanto chi lo ha violentato in cella e anche gli altri detenuti, dell’intera struttura ospedaliera, che sono venuti a contatto con lui, vivono con l’incubo di aver contratto l’Aids. Da pochi giorni il giovane ha ottenuto gli arresti domiciliari. Mi ha telefonato per raccontarmi, piangendo, con rabbia e dignità, il suo dramma, la sua sofferenza, la sua disperazione.

Sono profondamente indignato per quanto accaduto. Chiedo che venga fatta luce e giustizia su questo gravissimo episodio, accertate e perseguite le responsabilità a tutti i livelli. Quel giovane merita rispetto, solidarietà e giustizia. Naturalmente - conclude Corbelli - chiedo che in questo carcere venga fatto un attento esame per verificare se a seguito della violenza al giovane omosessuale sieropositivo si siano registrati casi di infezione da Hiv in altri detenuti che devono naturalmente essere seguiti con attenzione e curati adeguatamente per evitare il dilagare della malattia e per scongiurare che si diffonda in questa casa circondariale la psicosi Aids".

"È una vergogna" - tuona la parlamentare democratica Paola Concia. "Il ministro della Giustizia Alfano deve immediatamente attivarsi per la protezione dei detenuti omosessuali." E annuncia un’interpellanza urgente al Ministro della Giustizia "perché fermi questa barbarie."

Sulmona: collaboratore di giustizia tenta il suicidio, lo salvano

 

Agi, 30 agosto 2008

 

Un collaboratore di giustizia, detenuto nella zona "gialla", ex reparto femminile del supercarcere di Sulmona, ha tentato il suicidio ed è stato salvato in extremis solo grazie alla professionalità degli agenti penitenziari. Il fatto è accaduto intorno al 18 agosto ma la notizia è trapelata solo oggi. L’uomo, rinchiuso in una delle otto celle, ritenuto "fondamentale" tra coloro che collaborano alle indagini su mafia e camorra, è stato trovato a terra esanime in coma farmacologico e subito è stata attivata la procedura di emergenza con il suo trasferimento all’ospedale di Sulmona. Qui, come prevede il regolamento, è stato ricoverato nel reparto rianimazione con attribuito un codice al posto del nome e del cognome per tutelarne l’incolumità e piantonato da sette agenti penitenziari 24 ore su 24. Sono stati necessari circa dieci giorni per il pieno recupero, avvenuto il quale è stato riportato in cella, dove adesso è vigilato a vista.

Sanremo: la gestione dei "detenuti difficili" e dei sex-offender

 

Secolo XIX, 30 agosto 2008

 

Luca Delfino in carcere rifiuta persino di fare la doccia, nel terrore d’incrociare qualcuno, ed è tornato pavido come gli succedeva davanti ai pochi fidanzati che lo tenevano lontano dalla propria ragazza. Adesso in prigione minacciano di farlo fuori persino quelli che per legge devono stare isolati, nella sezione riservata ai "sex offender" ovvero ai criminali sessuali, e di solito il linciaggio lo rischiano anziché prometterlo.

Il massacratore di Sanremo, che il 10 agosto dello scorso anno uccise con quaranta coltellate in strada l’ex compagna Maria Antonia Multari (mentre era già sott’inchiesta a Genova per l’omicidio di un’altra fidanzata), nel penitenziario di Valle Armea è un detenuto ad alto rischio al punto d’essersi auto recluso: non fa l’ora d’aria, non si lava, mangia sempre da solo, non frequenta spazi comuni e si guarda bene dal lasciarsi coinvolgere in attività ricreative. Al più si crogiola in un delirante autocompiacimento davanti agli articoli - uno in particolare composto dalla scrittrice Dacia Maraini, appeso al muro di fianco alla tv sempre accesa - che raccontano il delitto più efferato e lo dipingono come una belva. E però l’unico scopo è non incontrare mai nessuno perché ha paura, una paura incredibile.

Il suo caso contrasta in modo quasi clamoroso con la storia di Edgar Bianchi, il maniaco dell’ascensore condannato per aver violentato 25 ragazzine a Genova fra il 2004 e il 2006 e beneficiario della "sezione protetta" a Chiavari, un’ala dall’eccezionale vivibilità dove ha la possibilità di studiare, fare palestra e condividere ampi saloni con ex poliziotti e carabinieri. Impossibile addentrarsi in un confronto sulla gravità dei reati commessi o sulle destinazioni - disciplinate da un ginepraio di norme - ma in un ragionamento sulla casualità dei regimi carcerari in presenza di crimini aberranti, e su alcune incomprensibili discrepanze, forse sì.

Francesco Frontirré è il direttore dell’istituto di Sanremo dove ci sono poco più di 300 uomini, 35 dei quali nella "gabbia" dei pedofili e degli stupratori. E accetta di affrontare il tema sollevato dal nostro giornale. "In teoria - ammette - ogni prigione dovrebbe garantire trattamenti più o meno simili, in presenza della stessa figura di detenuto. Non dobbiamo dimenticare che Bianchi ha subito una condanna, mentre Delfino è in attesa di giudizio. Ciò premesso, mi sento di dire che la situazione in cui si trova nel nostro istituto è semplicemente normale. Nessun lassismo ma il dovere, ovvio, di garantire l’ordine evitando scontri, parapiglia e intimidazioni nel limite del possibile. Se per arrivare al risultato complessivo è necessario "isolarlo" in parte beh, lo facciamo. Su quanto accade altrove, pur avendone una certa conoscenza avendo girato tutta la Liguria, non mi pronuncio". Semmai è particolare il cortocircuito che s’è innescato nel tradizionale rapporto fra i reclusi - ricostruito dal Secolo XIX attraverso una serie di testimonianze confidenziali raccolte da persone recentemente trattenute a Sanremo -, che ha fatto diventare il killer genovese una specie di nemico numero uno pure dietro le sbarre, nonostante ci sia chi ha fatto di peggio. Basti pensare che persino Paolo Leoni - ergastolo nel processo alle "Bestie di Satana" responsabili di più omicidi - ha confidato d’essere sorpreso dell’isolamento di Delfino. È vero che anche lui si muove pochissimo per paura, ma debitamente "scortato" s’avventura a messa o all’ora d’aria.

Insiste Frontirré: "Bisognerebbe interrogarsi, nel rispetto del dolore dei familiari d’ogni vittima, sulla gravità dei fatti compiuti pure dai criminali sessuali, persone che in alcuni frangenti rischiano di segnare la vita a bimbe che neppure conoscevano (e il caso di Edgar Bianchi rientra appieno in questa sfera, ndr). La prigione è uno specchio della devianza, e analizzarne le dinamiche può contribuire a migliorare la correzione e le anomalie del sistema nel complesso, senza che ci sia troppo divario fra un istituto e l’altro".

Nelle stanze della "sex offender" - fisicamente sopraelevata rispetto alla cella di Delfino, che sente tutto e non risponde mai - sono passati di recente Claudio Derin, il meccanico d’Imperia arrestato perché adescava ragazzine per farsi frustare, oppure Bernardo Pisciotta fermato in spiaggia per gli abusi su una bimba, e finito dentro pochi anni fa per lo stesso motivo. Luca Delfino ha gli occhi iniettati di sangue solo davanti alle telecamere, ormai, quando lo portano ai processi eppure non osa mettere il naso fuori dalla cella. "È vero - conferma il suo legale, Riccardo Lamonaca - è come se fosse sprofondato in una caverna, isolato dal mondo perché persino i carcerati che lo hanno visto sui giornali e in tv lo odiano. Ma fa parte d’un paese civile la tutela delle persone che si sono macchiate di fatti atroci".

Viareggio: il "progetto serre"... per ex detenuti ed emarginati

 

Il Tirreno, 30 agosto 2008

 

Ricominciare dal lavoro in serra. Uscire dall’isolamento, sociale ed occupazionale, portando avanti, in prima persona, un’idea. Il recupero della marginalità attraverso, appunto, il lavoro nelle serre: è questo l’obiettivo del progetto serre che a breve prenderà forma in alcuni terreni del parco della Versiliana (una superficie di quasi 11mila metri quadrati) dove si trovano capannoni da tempo dismessi e che saranno destinati ad attività sociali.

E proprio in questa ottica due giorni fa, il sindaco Massimo Mallegni, l’assessore al sociale Daniele Spina, il capo di gabinetto del sindaco Adamo Bernardi oltre a dirigenti e funzionari hanno fatto un sopralluogo sul posto dove il 1º agosto sono iniziate, da parte di una cooperativa, le operazioni di ripulitura dell’area. Devono ancora essere rimossi materiali edili, rifiuti di plastica e ferro oltre a legname: tutto è stato però catalogato per una più rapida bonifica del terreno. Presente al sopralluogo anche Roberto Nardini, responsabile dell’associazione di volontariato Gruppo Sims.

"Infatti, non appena la porzione di parco verrà bonificata - si legge in una nota - sarà ufficialmente sottoscritta la convenzione con cui l’amministrazione comunale concederà l’uso al Sims allo scopo di favorire l’inclusione lavorativa di soggetti esclusi dal mercato occupazionale. Il progetto serre oltre ad includere con gradualità quei soggetti che hanno ottenuto un buon risultato con l’esperienza del new opportunity (per chi ha beneficiato dell’indulto) andrà ad offrire un’opportunità lavorativa anche ad altre persone segnalate dai servizi sociali".

"Si tratta della prima sperimentazione di questo tipo in Versilia ma non solo - spiega il sindaco Massimo Mallegni - e sarà un modulo auto finanziato: infatti la produzione florovivaistica, nelle forme che poi saranno stabilite, sarà utile a sostenere questa nuova attività che permetterà al contempo di evitare le condizioni di degrado delle strutture. Attraverso un’adeguata formazione, i soggetti ammessi apprenderanno la capacità di organizzare, impiantare e gestire una coltura agricola a basso impatto ambientale in serra e in campo aperto, utilizzando conoscenze di fitopatologia, coltivazione e modalità di raccolta e conservazione dei prodotti".

"Organizzando questa sorta di "attività d’impresa" - illustra l’assessore al sociale Daniele Spina - verrà perseguito l’obiettivo di qualificazione morale, culturale, professionale e materiale di persone portatrici di difficoltà o comunque svantaggiate, dalle donne in difficoltà, ai cittadini immigrati, ai detenuti ed ex-detenuti, alle famiglie in condizioni di povertà e, al contempo, il loro inserimento sociale e lavorativo, attraverso l’utilizzo e la stabile organizzazione dei soci lavoratori che, a qualsiasi titolo e nelle diverse forme, partecipano alle attività della associazione.

In base alla tipologia del disagio verrà programmato l’inserimento di ogni persona secondo un percorso differenziato e ognuno verrà seguito da un operatore che lo affiancherà durante l’attività lavorativa. La creazione di un modulo polifunzionale di intervento coordinato con i servizi sociali del Comune - chiosa Spina - sarà in grado di offrire agli individui in stato di temporanea emarginazione un’occasione concreta per ricominciare con un lavoro in modo tale da innescare il ciclo virtuoso della risocializzazione".

Saluzzo: l’educatore; carcere dannoso, ma anche necessario

 

www.corrieredisaluzzo.it, 30 agosto 2008

 

Quando Antonella Basile ha preso servizio in qualità di educatore presso il carcere di Saluzzo, nel novembre 1991, i detenuti erano ancora reclusi nella Castiglia e l’istituto di pena era guidato dal direttore Onilde Guidi. Dalla prossima settimana la dott. Basile, romana, che nel frattempo è diventata responsabile dell’area trattamentale del carcere saluzzese, lascia il "Morandi" per trasferirsi a Prato dove svolgerà il suo lavoro di educatore presso la locale Casa Circondariale che con i suoi oltre 500 detenuti è uno dei penitenziari più grandi della Toscana. "Da tempo avevo chiesto trasferimento in una sede più vicina a Roma, dove risiede la mia famiglia" racconta la dott. Basile che dopo 17 anni traccia un bilancio della sua esperienza lavorativa a Saluzzo e dei cambiamenti avvenuti nel carcere cittadino.

 

Educatore in carcere per scelta?

"Non proprio. Io sono psicologa, all’epoca stavo seguendo un corso di specializzazione con l’obiettivo di diventare psicoterapeuta famigliare e fino ad allora avevo lavorato nel campo delle tossicodipendenze. Ho fatto alcuni concorsi ed il primo che ho vinto è stato quello per educatore in carcere: pur non avendo alcuna esperienza nel settore mi sono buttata".

 

Com’è stato l’impatto con questa realtà?

"Molto duro. 17 anni fa il carcere era un luogo molto "maschile", i colleghi erano tutti uomini, non c’erano poliziotte o ispettrici come oggi. All’inizio ero a disagio, mi sentivo tutti gli occhi addosso, non soltanto dei detenuti. La direttrice Guidi è stata per me una grande insegnante: io non avevo la formazione specifica che hanno gli educatori professionali che oggi lavorano in carcere e la dott. Guidi, che stimo moltissimo, mi ha aiutata".

 

Ma l’idea che la dott. Guidi aveva del carcere non era un po’ riduttiva?

"Probabilmente lei non credeva nella rieducazione ma vedeva nel carcere semplicemente un luogo di espiazione della pena. Autorizzava iniziative con l’obiettivo di "tenere occupati" i detenuti. Era contraria all’"apertura" verso l’esterno, a fare del carcere una specie di università o di centro culturale".

 

Cosa che in un certo senso è avvenuta di recente, con gli incontri della Fiera del libro nei cortili dell’aria…

"La svolta è avvenuta con l’arrivo di Marta Costantino. Dopo la partenza della dott. Guidi si erano succeduti per circa tre anni diversi direttori "in missione" a tempo determinato, finché la dott. Costantino ha preso in mano la guida del carcere saluzzese ed ha dato la sua impronta di apertura verso l’esterno, incoraggiando l’avvio di numerose iniziative. Tra le altre il laboratorio teatrale di Grazia Isoardi".

 

Che cosa fa un educatore in carcere?

"Incontra i detenuti, li ascolta, raccoglie i loro "pezzi di vita", cercando di stimolarli a fare una revisione critica dei loro errori. L’educatore si occupa delle pratiche burocratiche, ma soprattutto deve cercare di capire chi deve essere "salvato" dal carcere ed ammesso alle pene alternative. Anche se non deve diventare il "quarto grado di giudizio". Ci vuole grande empatia e capacità di mettersi nei panni degli altri e non è semplice considerato che ormai circa il 50% dei detenuti sono stranieri, con modelli culturali anche molto diversi dai nostri".

 

Soddisfazioni, cocenti delusioni?

"Ci sono state grandi delusioni: ad esempio quando una persona che hai seguito passo passo non ritorna dal permesso. All’inizio lo prendevo come un fallimento mio: non sono stata capace di incidere sul suo comportamento. Poi capisci che non sei onnipotente e non puoi manipolare il detenuto per fargli fare ciò che tu ritieni giusto. Sono persone adulte: molti hanno scelto di essere criminali, altri sono stati costretti dalle circostanze, dalla sfortuna o dal caso".

 

Si esce dal carcere migliori o peggiori di quando si è entrati?

"Peggiori, purtroppo. Il carcere è "dannoso" ma è anche necessario. In base alla mia esperienza posso dire che ce la fa a superare questa esperienza chi ha una famiglia sana alle spalle, chi non viene abbandonato, ce la fanno le persone che hanno una grossa capacità e forza per staccarsi da certi ambienti.

 

Quali sono i requisiti per essere un buon educatore?

"Questo è un lavoro che puoi fare bene senza star male solo se ti appassioni, con empatia verso il detenuto, pur mantenendo un certo distacco: l’eccessivo coinvolgimento impedisce di aiutare l’altro. E poi l’educatore non deve perdere mai la speranza, nonostante le delusioni che incontra".

Firenze: "Lilith. L’origine della donna", il teatro a Sollicciano

 

Il Tirreno, 30 agosto 2008

 

Lilith. L’origine della donna lettura teatrale di Chiara Stella Seravalle Carcere di Sollicciano - giardino degli incontri 12.09.2008 - ore 18.00.

Arte-Mide propone a Firenze, nell’anfiteatro del Giardino degli Incontri all’interno del Carcere di Sollicciano, un appuntamento legato a uno stimolante approccio ai temi relativi allo specifico femminile, incentrato sulla figura mitica di Lilith, metafora della donna e della libertà. Una formula originale di lettura teatrale che utilizza lo spazio offerto dal "Giardino degli Incontri", luogo assolutamente suggestivo e simbolico, che vedrà la partecipazione delle donne detenute e di un pubblico esterno di cittadini interessati.

Il "Giardino degli Incontri" è stato realizzato sulla base dell’ultimo progetto dell’architetto fiorentino Giovanni Michelucci, ed è destinato ai colloqui dei detenuti con le loro famiglie. Il filo conduttore dell’ incontro-spettacolo riflette le linee intorno le quali si sviluppa da anni il percorso di ricerca di ArteMide, concentrata sull’immagine femminile e sull’esperienza delle donne nel corso dei secoli. La paura del demone donna. Eccola, fiera, bella e indipendente. La prima donna, moglie di Adamo, prima di Eva. Lei creata per condividere il Giardino dell’Eden, lo abbandona di propria iniziativa pur di non sottostare all’uomo.

Ella disse: "Non starò sotto di te". Ed egli rispose: "Io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra". Lilith pronunciò infuriata il nome di Dio. Lasciò il Paradiso prima della caduta dell’uomo e, non toccando l’Albero della Conoscenza, non fu condannata alla mortalità. Immortale demone, la strega. Ripercorrendo la sua leggenda scopriremo l’uomo e le sue paure. La sua incapacità di comprendere quell’ universo magico e a lui sconosciuto che è la donna. A cui solo i grandi artisti e poeti si possono avvicinare. Le loro parole arricchiranno di poetica enfasi il nostro racconto.

Una composizione drammaturgica fatta di narrazione, poesia, prosa, il tutto immerso in atmosfere evocative, create da interventi musicali dal vivo e suggestioni ambientali registrate, composte esclusivamente per questo spettacolo. Lilith è la genesi della donna moderna che ha lottato lungo tutta la storia per ritrovare la propria collocazione, paritaria nella società, di coabitatrice dell’Eden. Lilith interpretata dall’attrice Chiara Stella Seravalle verrà contrastata da primordiali e suggestivi "voci di pietra" del musicologo Guglielmo Pinna, che attraverso i suoni primari della terra, del vento e dell’acqua, darà origine a incantevoli atmosfere.

Ideazione Chiara Stella Seravalle Regia Andrea Narsi, Chiara Stella Seravalle Musiche Andrea Mazzacavallo Voci di Pietre Guglielmo Pinna Testi Andrea Narsi, Maurizio Sangalli, Chiara Stella Seravalle Attrezzature scenografiche Stefano Perocco Calzature Rolando Segalin Costumi Alice Nicolai Tessuti Antico Cotonificio Veneziano Organizzazione Enrica Cavalli Progetto grafico Martina Pignataro Per assistere allo spettacolo occorre presentare una richiesta entro il 5 settembre contattando il numero: 055.7372454 oppure 055.2769137 o inviando una mail ai seguenti indirizzi: educatori.sollicciano.cc.firenze@giustizia.it; garante.detenuti@comune.fi.it.

Nuoro: e l’Orchestra Jazz della Sardegna si esibisce in carcere

 

La Nuova Sardegna, 30 agosto 2008

 

Qualcuno ha gli occhi chiusi, altri li hanno spalancati sull’onda sonora che ha invaso la cappella di Badu ‘e Carros. Sono gesti diversi di meraviglia quelli dei detenuti del carcere di Nuoro che si sono lasciati trasportare lontano dalle note dell’Orchestra Jazz della Sardegna. Ieri mattina Paolo Fresu ha voluto rinnovare il suo regalo a chi è chiuso nel penitenziario.

Da qualche anno, durante i seminari "Nuoro jazz", a cui è collegata una rassegna con oltre venti concerti, il trombettista ha scelto di irrompere nelle celle con la sua carovana sonora per spalancare una finestra sulla musica. Una mattina intensa, che ha coinvolto l’Ojs con una delle pagine più belle della letteratura jazzistica: "Porgy & Bess" di George Gershwin, nella versione incisa da Miles Davis e Gil Evans. La formazione diretta da Giovanni Agostino Frassetto ha iniziato a suonare prima di disporsi davanti al pubblico: una fila indiana di strumenti si è sistemata sul palco mentre risuonavano già le note del primo brano. Da "My man is gone now" a "Gone" l’orchestra ha eseguito tutti i brani più belli dell’opera. Il pubblico ha ringraziato Fresu con un’ ovazione in piedi, ma non è bastato chiudere con "Summertime".

I detenuti hanno chiesto ancora un brano, e poi hanno voluto salutare l’intera formazione. Mercoledì c’è stata l’apertura della rassegna diretta da Fresu e organizzata dall’Ente musicale di Nuoro. L’onore è toccato, come da tradizione, al gruppo formato dai migliori allievi dell’anno precedente, i "Viento Rojo", che in questi giorni incideranno un disco. Subito dopo, la voce di Maria Pia De Vito con il suo "Songs from the underground": il jazz diventa materiale sonoro con cui impastare il rock e la musica di artisti come Joni Mitchell e Leonard Cohen. Ma il concerto si è rivelato molto diverso da quello che gli stessi artisti avevano pensato.

Dopo poche battute la cantante ha dovuto rinunciare al suo alter ego elettronico, il voice sampler, con cui costruisce architetture vocali in ogni sua performance. Un guasto ha messo fuori uso la tecnologia e trasformato il concerto in una dimostrazione della versatilità della De Vito. La sua performance, aggressivamente acustica, ha dato ancora più spazio ai suoni e agli effetti che sa ottenere naturalmente.

Ha messo a nudo tutta la sua forza espressiva con un’interpretazione delicata e intensa di "Hallelujah" su una base scura e semplice, adagiata sul basso elettrico di Luca Bulgarelli e la batteria di Walter Paoli. Accanto a lei anche due audaci musicisti delle ultime generazioni: Francesco Bearzatti al sax e Claudio Filippini al pianoforte.

L’intesa emerge nelle improvvisazioni incrociate fra sax e voce, e nella grande capacità del gruppo di plasmare con nuove forme un concerto che doveva fare dell’elettronica il suo perno. Domani sera l’appuntamento sarà con gli insegnanti dei corsi invernali: un team sardo che porta avanti il lavoro iniziato nei seminari estivi. Il concerto, alle 21 nella Torre Aragonese di Ghilarza, vedrà sul palco Rossella Faa (voce), Alessandro Diliberto (pianoforte), Raffaele Polcino (tromba), Massimo Carboni (sax), Massimo Ferra (chitarra), Salvatore Maltana (contrabbasso) e Luca Piana (batteria). In programma un repertorio interamente dedicato ai brani di Alec Wilder. - Silvana Porcu

Sulmona: con i DisCanto il carcere s'apre alla musica popolare

 

Il Centro, 30 agosto 2008

 

"Allegra allegra" è la canzone che ha aperto il concerto dei DisCanto nella sala polivalente del supercarcere di Sulmona. La band ha strappato applausi a una quarantina di detenuti, tutti reclusi nella sezione "alta sicurezza". I DisCanto si sono esibiti con il loro repertorio di brani della tradizione popolare abruzzese e mediterranea. La band formata da Michele Avolio, Sara Ciancone, Antonello Di Matteo, Doriana Legge e Germana Rossi ha voluto essere protagonista di un’iniziativa promossa dalla Provincia.

"Non ci piace che ci si accorga del carcere di Sulmona solo quando ci sono detenuti eccellenti o quando avvengono tragedie", ha detto la presidente Stefania Pezzopane. "Con questo concerto", ha precisato Teresa Nannarone, assessore provinciale alla Promozione sociale, "abbiamo confermato l’attenzione verso questo istituto. Abbiamo contattato i DisCanto perché siamo certi che la musica popolare ha un linguaggio universale".

Il direttore del penitenziario, Sergio Romice, ha mostrato entusiasmo per l’iniziativa: "Proseguiamo il filone dell’educazione alla musica", ha ricordato, "eventi del genere spezzano la monotonia e danno la conferma che c’è umanità anche in un carcere. Dove tra l’altro esiste anche il complesso musicale, ormai famoso, I figli del vento".

Immigrazione: l’accordo con la Libia costa 5 miliardi di dollari

di Gerardo Pelosi

 

Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2008

 

Se il "comunicato congiunto" firmato nel luglio ‘98 dall’allora ministro degli Esteri, Lamberto Dini, ammetteva di fatto le gravi colpe dell’Italia per il periodo coloniale riaprendo un passato già liquidato da numerosi trattati internazionali, l’accordo di amicizia e cooperazione italo-libica che, tranne sorprese, verrà firmato oggi a Bengasi dal premier Silvio Berlusconi e dal colonnello Muammar Gheddafi (nominato ieri da 200 capi tribù "re dei re d’Africa") quantifica il "risarcimento" dovuto alla Libia. Si tratta di 5 miliardi di dollari che verranno "spalmati" in 25 anni, 200 milioni ogni anno. La somma dovrà servire per costruire l’autostrada litoranea di 2mila chilometri dal confine tunisino a quello egiziano (spesa prevista 3 miliardi di euro) più un piano di edilizia abitativa e di infrastrutture per le zone rurali.

Fino a ieri mattina una delegazione libica presieduta dal viceministro degli Esteri Al Obeidi era a Roma per mettere a punto con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta e con il ministro degli Esteri, Franco Frattini, gli ultimi punti dell’accordo. Molti sono gli aspetti da chiarire al punto di vista giuridico ma è stato deciso di incaricare delle commissioni tecniche ad hoc di lavorare anche dopo la firma di Berlusconi e Gheddafi. Il che la dice lunga sulla volontà dei libici di chiudere una volta per tutte questa partita.

Non è chiaro innanzi tutto come verranno reperiti ogni anno i 200 milioni di dollari. Se graveranno in tutto o in parte sul bilancio dello Stato o se vi sarà un meccanismo legato al prezzo delle importazioni energetiche come aveva previsto l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema coinvolgendo direttamente l’Eni. Per quanto riguarda i 600 milioni di dollari vantati dalle imprese italiane negli ultimi incontri tecnici la controparte libica.

avrebbe aumentato l’offerta portando a coprire quasi i due terzi degli insoluti (circa 400 milioni). Nessun intoppo vi sarebbe invece sulla questione della concessione dei visti agli italiani già residenti in Libia così come sulle borse di studio italiane a giovani libici. Proseguirà, nel frattempo, la collaborazione tra le autorità preposte alla tutela dei beni artistici per programmare il rientro in Libia di altri pezzi archeologici dopo la Venere di Cirene.

L’immigrazione, tema molto caro al Governo Berlusconi, entra nell’accordo ma senza impegni particolarmente dettagliati. Si riafferma solo l’impegno a collaborare per il contrasto ai flussi dei clandestini implementando quanto già previsto dall’accordo dell’anno scorso sul pattugliamento con motovedette firmato dall’ex ministro dell’Interno Giuliano Amato (mai applicato interamente così come quello raggiunto dal ministro Pisanu). L’Italia si impegnerà, però, a fornire ora alla Libia, attraverso le aziende Finmeccanica, un sistema radar di controllo satellitare delle frontiere Sud del Paese in cofinanziamento con l’Unione europea per frenare i flussi dall’Africa sub sahariana.

Un capitolo dell’accordo riguarderebbe anche la concessione di pensioni di guerra italiane agli eredi degli "ascari" che combatterono, nel corso dell’ultimo conflitto, a fianco delle truppe italiane. Non’ si tratterebbe di una grande cifra ma questa concessione rischia di essere percepita molto negativamente dalle associazioni dei rimpatriati dalla Libia, 20 mila persone che furono cacciate nel luglio del ‘70 da Gheddafi lasciando i loro beni in Libia e che nel corso degli anni sono stati solo parzialmente indennizzati dal nostro Paese. L’Airi, l’associazione che li rappresenta presieduta da Giovanna Ortu, ricorda che ben 6mila pratiche di indennizzo sono già state accettate dal ministero dell’Economia e che per chiudere la partita occorrerebbe reperire 300 milioni di euro.

Immigrazione: questi bambini Rom, "violentati" dalla politica

 

Liberazione, 30 agosto 2008

 

Si avvicina il primo giorno di scuola, ma non per tutti. La politica delle impronte digitali e degli sgomberi ha prodotto la sua prima vittima: la scolarizzazione dei bambini e delle bambine rom. A denunciarlo le associazioni e gli operatori del settore sociale di Lazio e Lombardia. Regioni che da sole ospitano il 34,2% degli iscritti dello scorso anno. Giorgio Bezzecchi, vicepresidente di Opera Nomadi, afferma: "Il procurato allarme di questa estate ha creato solo nuovo disagio sociale".

"Chi è stato costretto a lasciare le proprie abitazioni - spiega Bezzecchi - o per paura, o perché sgomberato, ha perso tutti i suoi punti di riferimento. A Milano ci sono 5.200 tra rom e sinti, di questi solo 1200 vivono negli 11 campi comunali. Il 50% è italiano, ma, cosa più importante, quasi la metà ha meno di 14 anni. Attenzione, parlare di rom e sinti significa sempre parlare di bambini. Purtroppo qualcuno se lo è dimenticato". Le famiglie che hanno lasciato le loro abitazioni sarebbero rimaste nel capoluogo lombardo, "qualcuna è momentaneamente ferma nell’interland", ma avranno bisogno di tanto tempo prima di trovare una loro stabilità.

"I danni di certe iniziative politiche - continua il vicepresidente di Opera Nomadi - si moltiplicano nelle fasce deboli e hanno degli effetti inimmaginabili. Sono stati interventi che riflettono quelli fascisti del 1941. Non è errato affermare che i problemi psicologici che ne derivano possano essere paragonati a quelli prodotti dai censimenti e dagli internamenti di un tempo". Gli sgomberi a Milano sarebbero continui, quotidiani e le conseguenze prevedibili.

Valerio Pedroni, un operatore sociale, ha raccontato a Redattore Sociale: "L’associazione dei Padri Somaschi ha seguito diversi campi abusivi, compreso quello della Bovisa, evacuato lo scorso 1° aprile. Fino alla primavera vi avevamo raccolto una trentina di preiscrizioni. Ora le situazioni monitorate sono 12, e solamente 5 o 6 corrispondono a ragazzi che lo scorso anno hanno frequentato". L’associazione Nocetum aveva seguito i bambini del campo di via San Dionigi, sgomberato un anno fa e conferma: "Adesso sono quasi irreperibili. Per loro il prossimo anno scolastico resta un punto interrogativo". Stessa storia a Roma, dove un assistente sociale del V municipio spiega: "In situazioni di difficoltà non si sa nemmeno come muoversi. Un po’ perché alcuni rom non conoscono la lingua o gli sportelli a cui rivolgersi, un po’ perché non sempre le scuole son ben disposte nei loro confronti.

Queste avrebbero il dovere di accettarli, ma in alcuni casi pongono il problema delle vaccinazioni e li rifiutano. È ovvio che i bambini siano vaccinati, ma non avendo i documenti, non possono dimostrarlo". E continua: "I mediatori interculturali ci sono, ma hanno un costo che non sempre può essere supportato. Da parte loro, le strutture scolastiche sono impreparate a assorbire venti nuovi iscritti da un giorno all’altro e i genitori continuano a lamentarsi del fatto che questi siano più grandi dei loro figli".

Sergio Giovagnoli dell’Arci precisa: "Occorre fare una distinzione netta tra scolarizzazione nei campi attrezzati e in quelli abusivi. Nei primi continuerà, nei secondi la situazione è notevolmente peggiorata". Dello stesso avviso Paolo Ciani della Comunità di S. Egidio: "I dati sulla scolarizzazione del ministero fanno riferimento ai bambini "regolari". Ma è nei campi non autorizzati che permangono i problemi di interruzione. In questi casi sono le famiglie a iscrivere i bambini e non li dichiarano come rom". I dati ufficiali parlano di 12.342 bambini rom iscritti nelle scuole italiane lo scorso anno.

Secondo le audizioni del gruppo di lavoro che sta stendendo il Piano nazionale infanzia 2008/2009, in Italia "ci sono 35mila rom tra i 6 ei 14 anni e 70mila under 18". La maggior parte degli alunni frequenta la scuola primaria, si dimezza alla scuola secondaria e solo in 300 si iscrivono alla scuola secondaria di secondo grado. "Le medie son più impegnative - spiega Ciani -. È l’età dell’adolescenza ed è qui che i ragazzi si tirano indietro. Occorrerebbero delle borse di studio, invece la realtà vuole che a metà hanno ancora non siano arrivati i libri di testo". Il presidente della Federazione rom e sinti, Nazareno Guarnieri è deciso: "Sì, c’è un forte rischio che le iscrizioni diminuiscano. Non si possono fare numeri precisi.

Alemanno aveva parlato di 5.500 rom seguiti in città. Calcolando gli abusivi alcuni hanno parlato di 12mila persone: molte di queste sono bambini. Gli sgomberi portano la gente per la strada senza alcun progetto di vita. È difficile integrarsi, lo è anche per gli italiani, basta pensare a ciò che è accaduto con la comunità di Campo Boario. Come spiegare ai nostri figli la storia delle impronte e della schedatura? Si respira violenza e non accettazione, sono preoccupato. Non c’è un progetto serio di integrazione che colleghi scuola, sanità e lavoro.

Questo governo ha reso i rom dei capri espiatori di tutto quello che non va. Il risultato? I bambini rom e sinti sono stati violentati dalla politica". La Federazione aveva proposto un progetto per il primo giorno di scuola: "Avremmo voluto far riunire i ragazzi in una struttura con il sindaco o un assessore che gli desse il benvenuto scolastico, che gli dicesse: "La scuola è anche per voi". Abbiamo incontrato 1000 difficoltà di ordine economico e politico, probabilmente non se ne farà più niente. Ma la Gelmini dove è?"

Gran Bretagna: aumento morti causate da ecstasy e cocaina

 

Notiziario Aduc, 30 agosto 2008

 

Le morti per ecstasy e cocaina, di fatto reclamizzate da celebrità alla Amy Winehouse, hanno raggiunto livelli record. A lanciare l’allarme è il Daily Mail, che cita le ultime stime del governo britannico. Le cosiddette droghe "da benestanti" provocano attualmente circa 300 decessi l’anno, con un aumento che corrisponde a oltre il 1.200 percento da quando una simile statistica è stata introdotta nel 1993, scrive il tabloid.

I risultati dell’indagine, diffusi dall’Office for National Statistics, dimostrano anche che in Inghilterra a morire per abuso di stupefacenti sono sempre più gli uomini che le donne, e che è sempre più alta l’età delle vittime, spesso nella quarantina. Gli esperti pensano che la rappresentazione - anche mediatica - della cocaina come droga del successo contribuisca a nasconderne i reali rischi. L’alto numero di morti per coca, del resto, sembra essere il risultato dell’innesto della polvere bianca con gli alcolici, che produce un mix potenzialmente letale. Le ong parlano di una vera e propria epidemia fra i giovani, che tenterebbero di imitare i loro idoli, come Kate Moss e Pete Doherty.

Clare McNeil, dell’organizzazione britannica Addiction, sostiene che "la cocaina è vista come una droga da fighi, spesso associata al successo e al denaro. Le persone - secondo lei - pensano di poter copiare i vip, così sniffano ritenendo che la cocaina non sia paragonabile alle altre droghe di classe A, anche se nella realtà è devastante nello stesso modo". "L’aumento dei decessi fra trentenni e quarantenni - dice ancora McNeil - è preoccupante e suggerisce che sempre più persone cominciano a sperimentare la droga in età adulta".

Nel 2007 in Gran Bretagna 196 persone sono morte di cocaina e 97 di ecstasy, per un totale di 293 persone. Si tratta di uno straordinario salto in avanti (1.274 percento) rispetto al 1993, quando solo 23 persone morirono per l’abuso di queste droghe. La maggior parte dei decessi è di uomini fra i 30 e i 39 anni.

Grecia: motofurgoni agricoli adibiti al trasporto dei detenuti

 

Ansa, 30 agosto 2008

 

La notizia è apparsa sul sito Athens Indymedia e subito è stata ripresa da molti blog per poi finire su molte televisioni greche e internazionali.

Tali trasporti di detenuti, comunque sono abbastanza normali in Grecia, dal momento che le stesse autorità di Polizia o sindacati hanno denunciato il fatto al Ministero degli Interni Greco e al capo della Polizia, da parte di Mikali Tolikas, Presidente dell’Associazione poliziotti di Larissa, dove si trovano le prigioni in questione. Non ha perso l’occasione, per di più, di denunciare oltre ai trasporti dei detenuti anche la situazione molto più grave dello squallore di detenzione nelle celle delle prigioni. Predisposte per ospitare 10 detenuti, vengono tenute 100 e anche duecento persone, dichiara anche il Presidente dell’Unione della Polizia, Kristos Fotopoulos.

Inoltre esistono seri rischi di trasmissioni di malattie contagiose come la tubercolosi, oltre che in queste prigioni,anche nei dipartimenti di Polizia di Elassonas dove vengono trattenuti i detenuti prima di essere trasportati con i furgoncini agricoli nelle prigioni, poiché gli ambienti non vengono neanche disinfettati.

Afghanistan: 11enne in carcere perché figlio di una terrorista

 

www.peacereporter.net, 30 agosto 2008

 

Ahmed Siddiqui ha undici anni e la sua unica colpa è quella di essere figlio di Aafia Siddiqui, una scienziata pakistana ritenuta dagli Usa legata ad al-Qaeda. Aafia, dopo essere scomparsa nel 2003 in Pakistan, è stata arrestata poco più di un mese fa in Afghanistan ed estradata negli Stati Uniti dove adesso è in attesa di giudizio.

Detenuta in attesa di giudizio. In attesa di un processo e dell’eventuale dimostrazione della sua colpevolezza, l’organizzazione non governativa Human Rights Watch, con base negli Usa, che da anni si batte per il rispetto dei diritti umani, ha chiesto oggi al governo di Kabul di rilasciare immediatamente il figlio undicenne di Aafia, Ahmed, che si trovava con la madre al momento dell’arresto e che da quel giorno è, secondo Hrw, nelle mani del Nds, i servizi segreti di Kabul. "Il governo afghano deve liberare immediatamente Ahmed Siddiqui, di 11 anni", recita la nota di Hrw, "cittadino statunitense posto sotto la custodia della sicurezza nazionale afgana dopo essere stato detenuto insieme a sua madre. Il luogo dove si trova attualmente è ignoto. La Nds è famosa per il trattamento brutale dei detenuti". Ahmed è cittadino Usa, essendo nato mentre la madre studiava presso il prestigioso Massachussets Institue of Technology (Mit).

Il caso Siddiqui è al centro di polemiche in Afghanistan, non essendo ancora chiara la dinamica dell’arresto della 36enne scienziata pakistana.

Alcuni deputati afgani, settimana scorsa, hanno votato una mozione che chiede il rimpatrio di Aaafia Siddiqui ed esige informazioni sulla sorte dei suoi tre figli piccoli di cui si sono perse le tracce dopo la scomparsa della loro madre dalla città di Karachi, in Pakistan meridionale, nel 2003. La sua famiglia e i suoi avvocati sostengono che la donna è stata, fin da allora, in realtà nelle mani dei servizi segreti Usa, forse in una prigione segreta.

Mistero internazionale. Gli Stati Uniti hanno sempre negato di conoscere la sorte di Aaafia tra il 2003, quando è scomparsa con i figli da Karachi, al 17 luglio 2008, quando è stata arrestata nella città afghana di Ghazni dove, secondo la polizia, la donna stava preparando un attentato suicida.

La scienziata, iscritta nel 2004 nella lista americana dei sospetti membri di Al Qaida, è stata trasferita negli Usa ai primi di agosto, dove sarà processata con l’accusa di aver cercato di uccidere agenti statunitensi venuti a interrogarla dopo che era stata arrestata dalla polizia afgana.

Aafia Siddiqui era entrata nel mirino dei servizi segreti Usa dopo l’arresto di Khalid Shaikh Mohammed, uno dei ventidue uomini più ricercati dalla Fbi. Durante l’interrogatorio di Khalid e la perquisizione della sua casa, gli inquirenti ritennero di essere entrati in possesso di prove schiaccianti contro la scienziata che, poco dopo, era scomparsa dalla sua abitazione di Karachi, in Pakistan, assieme ai tre figli.

Degli altri due bimbi non c’è traccia, mentre per Hrw ritiene che Ahmed sia nelle mani degli afgani. Che Aafia Siddiqui sia colpevole o innocente, i suoi tre figli sono vittime innocenti della guerra al terrorismo, dove è morto il diritto.

 

 

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