Rassegna stampa 26 agosto

 

Giustizia: finiamola con questa truffa della "realtà percepita"

di Domenico De Masi

 

Corriere della Sera, 26 agosto 2008

 

Questa faccenda della sicurezza rappresenta un argomento con il quale siamo stati presi in giro - da destra e da sinistra - molto più di quanto avremmo dovuto tollerare. Chi sta all’opposizione, sostiene che viviamo in un turbine di crescente violenza; chi sta al potere, sostiene che godiamo della massima tranquillità.

Appena l’opposizione diventa maggioranza, subito i pareri spudoratamente si rovesciano. Sia per la destra che per la sinistra, i dati reali non contano: conta la capacità di creare artatamente sensazioni diffuse e infondate, come se fossimo un popolo di imbecilli.

In effetti è sorprendente che questo popolo più studia e viaggia, più diventa vulnerabile alla manipolazione. Questi politici - personcine alle quali, negli anni di De Gasperi e di La Malfa (quello vero) non si sarebbe affidata neppure la portineria del Palazzo - ora dal Palazzo decidono il nostro futuro non in base a fatti accertati, e ce lo impongono per mezzo di supporti mediatici che consentono loro di contrabbandare il nero per bianco e, il giorno successivo, il bianco per nero.

Nel caso della sicurezza, non gli è bastato manipolare smaccatamente i dati: hanno anche inventato di sana pianta la categoria della "realtà percepita", secondo cui non conta quante persone vengono realmente stuprate e da chi. Quel che conta è la quantità di paura collettiva che, in base a quel determinato stupro, si riesce a indurre nelle masse.

Stessa cosa vale per la crisi economica. Andate a Cortina o in Costa Smeralda, dove si raggruma il fior fiore dei miliardari: dai loro discorsi ricaverete che essi "si percepiscono" come pezzenti, appezzentiti dalle tasse esose e dallo Stato invadente.

Più di due secoli fa, proprio per combattere la pericolosissima categoria della "realtà percepita", contrapponendole la realtà scientificamente accertata, Diderot e Voltaire elaborarono il paradigma illuminista. Di che cosa si tratta? Secondo Kant, si tratta della "uscita dell’uomo dalla minorità che va imputata a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Pigrizia e viltà sono le cause per le quali una gran parte degli uomini di buon grado rimangono minorenni per il resto della propria vita; per questo è così facile ad altri erigersi a loro tutori".

Basta, dunque, con questa truffa della "realtà percepita". È ora di liberarsi - criticamente e razionalmente - dai pregiudizi indotti e dai dogmi imposti.

Giustizia: se il Pd s’impegna può superare a destra Alemanno

di Rina Gagliardi

 

Liberazione, 26 agosto 2008

 

Su Wikipedia, alla voce "Scienza della sicurezza", si possono contare 43 (quarantatre) articolazioni di questa complessa nozione di cui ci si occupa in tutta Europa e che generalmente coincide con le politiche di prevenzione: si va dalla sicurezza del lavoro a quella domestica, da quella della salute a quella sportiva, fino a quella nucleare.

In Italia, invece, a destra come a sinistra, "sicurezza" è diventato tout court sinonimo di "pubblica sicurezza" o "ordine pubblico" - e fa sempre rima con "emergenza". Uno slittamento semantico impressionante, costruito in coproduzione dalla crisi della politica, da incessanti campagne mediatiche, dalla regressione culturale e del senso comune (il tasso di sicurezza non si misura più su dati, più o meno, oggettivi, ma sugli stati d’animo soggettivi, sulla paura, insomma sulla così detta "sicurezza percepita").

Di più: quando si agita il termine e lo si connota come una categoria neutra, universale, "a-politica" ("la sicurezza dei cittadini non è né di destra né di sinistra", come tuonano quasi tutti i sindaci non importa se di An o del Pd), ci si riferisce pressoché esclusivamente ad una particolare tipologia di reati, la microcriminalità quotidiana, a una specifica situazione urbana, il "disordine" o il fastidio delle strade, a un preciso soggetto criminale, lo straniero migrante.

Così circoscritto e immiserito, il concetto di "sicurezza" si riduce a una volgare, volgarissima operazione strumentale, buona per le campagne elettorali, agitata da tutte le forze politiche maggiori alla ricerca dell’unico consenso oggi, elettoralmente facile: quello che nasce dalla paura, dall’angoscia, dalla drammatica insicurezza dell’esistenza. Che è poi crescente mancanza di libertà.

I due sfortunati turisti olandesi, stuprati (stuprata), picchiati selvaggiamente, derubati notti fa a Ponte Galeria, sono evidentemente spiriti liberi, persone abituate a girare per l’Europa in bicicletta, per esplorare con i loro occhi, e non in cartolina, una città sconosciuta.

Che preferiscono accamparsi in tenda piuttosto che in un tre o quattro stelle. Che non sono ossessionati, cioè, né dal comfort né dalla paura dei ladri. Non dovrebbero, per questo, essere apprezzati (e perfino un po’ invidiati), oltre che assistiti, curati e coccolati con scatole di cioccolatini? Invece, il sindaco postfascista di Roma non trova di meglio che esprimere il più vieto dei commenti da bar: "se la sono cercata", sono stati "imprudenti", insomma sono loro i colpevoli, non i governanti della città.

Più o meno, è quello che si è usato dire di ogni giovane ragazza stuprata: è lei ad essersela voluta, troppo svestita e provocante, offriva agli stupratori una tentazione troppo ghiotta, oppure, al minimo, del tutto "imprudente" ad accettare quel passaggio in macchina, quell’invito. A mò di suggello della sua squisita e modernissima Weltanschaung, Alemanno ha aggiunto un’altra ovvia osservazione: come si fa a mettersi a dormire in un luogo così desolato, "abbandonato da Dio e dagli uomini?".

Non solo un’ulteriore colpevolizzazione della coppia olandese, non solo un altro scarico di responsabilità, ma qualcosa di culturalmente ancora più grave: l’esistenza di gironi infernali, nella metropoli ("Nella città l’inferno"), come una ineluttabilità "naturale", acquisita per l’eternità, incontrastabile. Voce dal sen fuggita, forse, ma non per questo meno significativa: è l’indizio chiarissimo non

soltanto del carattere tutto e solo propagandistico (simbolico) delle "promesse di sicurezza", ma della rinuncia programmatica all’intervento della politica - all’idea che la politica serve, giust’appunto, anche ad evitare che ci siano luoghi perduti, "abbandonati da Dio e dagli uomini", giacché, ad evitare questo "destino", non servirebbero - come non servono a Ponte Galeria - qualche decina di carabinieri o di militari in pattuglia, non basterebbero le pagliacciate di La Russa, ma un’idea diversa di città. E di libertà.

Ma chi ce l’ha, se qualcuno ce l’ha ancora, se non un’idea, almeno un’aspirazione non rassegnata alla Politica? Non certo la sinistra moderata, a giudicare dalle reazioni, molto indignate ma del tutto strumentali e anche un po’ infantili, alla vicenda di Ponte Galeria. Si è contenti, e non lo si nasconde più di tanto, che ora, alla prova dei fatti, la destra al potere in Campidoglio non garantisce affatto una città sicura - siamo all’antico tanto peggio tanto meglio. Ci si atteggia a "primi della classe", precipitando mani e piedi, sempre più inesorabilmente, sul terreno securitario.

E si rimprovera al sindaco di non aver risolto i problemi di Roma (sic!) nel giro di tre mesi -come si usava nella peggiore delle dialettiche tra maggioranza e opposizione. Del resto, più in generale, la critica più insistita - o più visibile - alla finanziaria di quest’anno non è forse quella di aver tagliato le spese per la sicurezza?

In questo atteggiamento, c’è davvero qualcosa di disperante: in assenza di un’analisi diversa e di un progetto diverso di società, l’opposizione si concentra tutta e soltanto sulla rincorsa agli stessi obiettivi, e la critica sulla constatazione che questi obiettivi - pessimi e talora incivili - non sono stati realizzati con la necessaria fermezza ed efficienza.

Finirà che il Pd accuserà Alemanno di non militarizzare abbastanza Roma, e di non perseguitare più di tanto rom e mendicanti. Finirà, prima o poi, che si darà addosso alla ministra Gelmini perché non riuscirà a portare a termine fino in fondo la Restaurazione della Gerarchia, dell’Autorità, del "merito" e dei grembiuli?

Sì, la sicurezza - e il diritto alla sicurezza - sono un grande tema del mondo attuale. La sicurezza, dal latino "sine cura" senza preoccupazione o affanno, vuol dire che ogni essere umano, in quanto nasce, ha diritto ad una vita dignitosa: nella quale non si muore sul lavoro per l’incuria, o l’avidità di profitti, di chi lo dirige; non si resta precari, interinali, sottopagati, super sfruttati per metà della propria giovinezza; non ci si dispera per la spesa da fare, o il mutuo da pagare, non si va a scuola in strutture pericolanti o fuori norma; non si va a farsi curare solo da un certo censo in su; non si mangiano e non si bevono schifezze a buon mercato; non si respirano smog e polveri sottili tutto il giorno; non si è indotti al suicidio per la vergogna di una fotografia diffusa su Internet.

Provate a rovesciare le sicurezze di cui ogni persona ha bisogno, e scoprirete che forse il tema vero è ancora e sempre quello del bisogno di una società che fa della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà le sue autentiche "mete finali". Forse, una società nella quale la politica si occupa di tutto questo potrebbe contrastare con successo la violenza e le mille violenze che ci opprimono. Fino a consentire a chiunque di poter tranquillamente dormire dove vuole, e con chi vuole, sotto le stelle.

Giustizia: carceri scoppiano di nuovo, servirebbe altro indulto

 

La Nazione, 26 agosto 2008

 

A due anni dall’indulto ne servirebbe già un altro. Se nel 2006, fra ferocissime polemiche (che si riaprono di continuo) furono fatti uscire 27mila detenuti, già oggi il livello di affollamento è tale da superare di migliaia di presenze la capienza degli istituti di pena della penisola.

È evidente che di indulto, in questo Paese, non si parlerà più per anni, ma proprio per questo diventa ancora più urgente mettere mano ad un piano che scongiuri problemi seri. "Siamo sull’orlo dell’emergenza" avvertono i rappresentanti delle guardie carcerarie. Eppure le carceri italiane non hanno fatto notizia (per fortuna) questa estate. Incidenti eclatanti non ce ne sono stati, ma sono le cifre e la progressione delle carcerazioni, praticamente inarrestabile, a rendere realistiche le denunce e preoccupanti gli allarmi.

Non è bastato, insomma, svuotare le patrie galere liberando con l’indulto un terzo dei detenuti. "Dopo quella decisione, nulla più è stato fatto - denuncia Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo Sappe -. Oggi, a fronte di una capienza regolamentare di circa 43mila posti nei 205 istituti penitenziari italiani, abbiamo più di 55mila detenuti".

Ad alimentare il flusso continuo delle carcerazioni concorre in gran parte l’immigrazione: fra quelli che finiscono in cella, la metà sono stranieri. Le stime del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) valutano la crescita media al ritmo di 800 detenuti al mese. Si fa presto a fare i conti: con questo ritmo si tornerà in meno di sei mesi alla stessa soglia di affollamento (62mila presenze) ritenuta non sopportabile tanto che fece scattare due anni fa l’indulto.

Per questo, fra gli addetti ai lavori, si torna a chiedere un piano di edilizia carceraria. E torna ad affacciarsi l’ipotesi di lavorare su quello che già c’è: le strutture carcerarie dell’Asinara e di Pianosa, ad esempio, potrebbero venire riaperte.

La questione solleva funghi atomici di polemiche solo a citarla. Ma di recente anche voci autorevoli l’hanno riproposta. Come Ignazio De Francisci, procuratore di Agrigento, magistrato di lungo corso nel pool antimafia di Falcone e Borsellino. "Riapriamo i penitenziari dismessi come Pianosa e l’Asinara - ha dichiarato - facciamone delle case di lavoro dove mandare i clandestini, che lavorino durante la detenzione.

Anche perché costruire nuovi carceri costa, ci vogliono tanti soldi". Un parere, una proposta recentissima, ma che si riallaccia alle ipotesi di stesso segno fatte quattro anni fa dall’allora capo del Dap, Giovanni Tinebra. E alle "aperture" dei ministri Castelli e Matteoli.

La questione è tutt’altro che specialistica o ristretta allo specifico carcerario. Se il sistema non funziona, son inevitabili le ripercussioni negative su tutte le azioni intraprese per la sicurezza dei cittadini. Giova ricordare, per evitare polemichette all’italiana, che quello del sovraffollamento nelle carceri è un problema europeo. In Italia, in aggiunta, c’è il problema degli organici degli agenti di polizia penitenziaria, insufficienti di fronte a questa situazione. Nel "tour" di ferragosto dei deputati radicali nelle carceri, è emerso che mancano oltre duemila guardie rispetto agli organici previsti.

Giustizia: Maroni; "tolleranza zero", no ad indulti e sanatorie

 

Adnkronos, 26 agosto 2008

 

Il ministro degli Interni Roberto Maroni promette tolleranza zero e mai più indulti e sanatorie per garantire la sicurezza. Poi si dice convinto che "se i militari fossero stati impiegati dal governo Prodi, forse la signora Reggiani a Roma non sarebbe morta". "Dico che i militari servono - ha spiegato Maroni nel corso di un dibattito di Cortina Incontra - perché danno percezione di maggiore sicurezza e liberano forze dell’ordine che possono operare sul territorio". Maroni, più volte applaudito dalla platea cortinese, si è detto convinto che "questa sia la strada giusta e non c’entra nulla la militarizzazione".

Per il ministro tuttavia il Governo non dimentica la grande criminalità organizzata. "Il problema dei nostri critici - ha osservato - è che non vogliono vedere né sentire: nel decreto sicurezza vi sono norme efficaci come quella ideata da Giovanni Falcone sulla mafia, che voleva distinguere la misura personale dal patrimonio. Se quest’ultimo arriva da azioni criminali, lo sequestro anche se è intestato a un bambino".

La tolleranza zero "va applicata fino in fondo". "Vogliamo - ha detto il responsabile degli Interni - applicare una direttiva europea dimenticata da Prodi: i cittadini europei possono circolare ma non possono fermarsi a vivere in un Paese senza un reddito adatto al luogo in cui vivono". Maroni ha sottolineato che chi vuole vivere in un certo posto "deve avere un regolare contratto di lavoro e una casa. Ciò vale anche per i romeni: anche se sono cittadini europei dovranno sottoporsi a una verifica dei requisiti".

"Sulla sicurezza non dovrebbero esserci divisioni tra le forze parlamentari", ha poi sostenuto il ministro degli Interni. "La sicurezza - ha aggiunto il ministro - non ha colore politico come può essere per il Welfare. Non ci devono essere divisioni: è interesse di tutti far rispettare le regole e intervenire con il massimo rigore possibile". Maroni ha definito i fatti di Roma "gravissimi". Per il ministro pensare di impedire il 100% dei reati è impossibile, "ma importante è colpire subito".

Non servono azioni eclatanti. Per il ministro degli Interni inoltre "se c’è chi pensa a qualche azione eclatante per aumentare il senso di sicurezza dei cittadini sbaglierebbe". Secondo il responsabile del Viminale "garantire ai cittadini il massimo della sicurezza è interesse del Governo" e l’obiettivo si raggiunge "con il contrasto all’immigrazione clandestina e il controllo del territorio per prevenire i reati predatori". Per Maroni, fondamentale sarà il già annunciato censimento del prossimo ottobre "per verificare i clandestini". "Combattere l’immigrazione clandestina prevedendola e rispedendo a casa gli irregolari - ha concluso - è una delle misure che vogliamo attuare per aumentare la sicurezza".

"Mai più indulti quotidiani o permanenti, mai più sanatorie", ha poi garantito Maroni. "Dobbiamo modificare il sistema giudiziario - ha aggiunto - per garantire la certezza della pena. In Inghilterra, dove c’è un governo di sinistra tengono in galera i delinquenti. Perché la sinistra italiana non critica l’Inghilterra dove gli accattoni vengono espulsi?".

Il ministro ha quindi annunciato che "si batterà a tappeto il territorio, banca per banca, ufficio postale per ufficio postale", perché le risorse confiscate alla mafia "vadano a a confluire in un fondo destinato alla sicurezza". Non utilizzare i patrimoni sequestrati alla mafia è infatti per Maroni "una sconfitta dello Stato". Il responsabile degli Interni ha sottolineato che "i mafiosi si considerano potenti perché lo Stato non riesce a utilizzare i loro ex patrimoni. Oltre agli immobili si tratta di un patrimonio di denaro liquido di oltre un miliardo di euro". Il responsabile del Viminale ha spiegato che la costituzione del fondo per la sicurezza sarà previsto in Finanziaria. "Daremo un segnale alla mafia - ha detto ancora Maroni - perché il bene confiscato non lo vedrà più, perché sarà entrato nel patrimonio dei cittadini onesti".

Giustizia, Alfano; ok dialogo, ma a un certo punto decideremo

 

La Repubblica, 26 agosto 2008

 

La riforma della giustizia "si farà dialogando". Ma, se non sarà possibile trovare un punto d’incontro, il governo andrà avanti e assumerà le sue decisioni. Il ministro Angelino Alfano, di fronte alla platea di Comunione e Liberazione al meeting di Rimini, ha ribadito che la riforma della giustizia è una "priorità".

Nessun passo indietro sull’agenda politica d’autunno: verrà affrontata al termine della pausa estiva e "sarà una sfida, un banco di prova tra chi vuole cambiare e chi vuole conservare". Il Guardasigilli ha detto che nei prossimi giorni parlerà con la Lega, che ieri ha rilanciato la proposta di elezione diretta dei pm. E poi ha annunciato i punti chiave dell’agenda giustizia.

La riforma. "La faremo dialogando - ha spiegato il Guardasigilli - perché decidere senza dialogare è come una dichiarazione di guerra unilaterale". Però ha aggiunto: "Parlare senza poi decidere è l’esatto contrario di una cultura di governo che vuole dare risposte al nostro Paese". Insomma dialogo sì, ma alla fine il governo comunque andrà avanti.

"Parleremo con la Lega". Alfano è intervenuto anche sulla proposta del Carroccio di elezione diretta dei pubblici ministeri: "Il rapporto tra pm e giudici fa parte del discorso sulla giustizia, parleremo con la Lega nei prossimi giorni".

L’agenda. Il ministro della Giustizia ha elencato i temi su cui, nei prossimi giorni, discuterà con gli alleati: le "misure di contrasto contro la mafia e la criminalità organizzata"; le soluzioni per il processo penale e per quello civile; "le sedi disagiate delle Procure e le sedi di frontiera"; i modi per rendere la giustizia "più rapida". "I cittadini - ha spiegato - meritano un processo più veloce e una giustizia più rapida per risolvere le loro controversie. Noi daremo un ventaglio di risposte sull’efficienza".

Indulto fallito. "Le nostre carceri oggi sono di nuovo piene, l’indulto è fallito perché c’è stata la recidiva, perché i detenuti non sono stati messi nelle condizioni di poter non delinquere ancora", ha spiegato Alfano, annunciando "una grande agenzia di collocamento per i detenuti affinché abbiano una missione nella vita".

Misure per i detenuti. Alfano si è detto deciso a "incentivare il lavoro all’interno delle carceri" e "a fare di tutto perché diventi la regola": "È un modo per far crescere la persona e disincentivare a tornare a delinquere", ha osservato. Via libera anche al braccialetto elettronico: "Che motivo c’è per chi non ha commesso reati gravi di non dotare i detenuti di un braccialetto e mandarli a casa?".

I mafiosi. Il ministro ha spiegato che "ai mafiosi che dicono no allo Stato e al cammino di recupero, noi non abbiamo nulla da offrire".

"Mai più bimbi nelle carceri". A Rimini c’è stato spazio anche per parlare delle condizioni di vita dei bambini che sono in carcere con le loro madri: "Ci stiamo attrezzando affinché i bimbi possano essere bimbi anche sotto i 3 anni e non subiscano il trauma del carcere", ha detto il Guardasigilli. Il piano è di "costruire con i fondi confiscati alla mafia dei luoghi per non fare stare i bambini dietro le sbarre".

Giustizia: Berselli (Pdl); depenalizzare reati da giudici di pace

di Marcella Cocchi

 

Quotidiano Nazionale, 26 agosto 2008

 

Depenalizzare i reati ora destinati ai giudici di pace e affidare a questi ultimi quelli di minor allarme sociale ora di competenza dei tribunali. È il disegno di legge che il presidente della commissione Giustizia del Senato in quota An, Filippo Berselli, presenterà non appena riprenderanno i lavori parlamentari e su cui, giura, ancora non si è confrontato con nessuno. Nemmeno con i colleghi forzisti più inclini a sveltire la lumaca giustizia ("il vero problema" insiste Berselli) eliminando l’obbligo del pm di procedere su qualunque reato.

 

Senatore Berselli, lei invece parte da tutt’altro presupposto.

"Infatti. Chi propone di togliere l’obbligatorietà dell’azione penale vuole che si proceda per alcuni reali e per altri no. Ma questa soluzione lascia una grossa lacuna: come finiranno i reati per cui non si procederà in tribunale?".

 

Ampia depenalizzazione.

"Appunto, io vorrei evitare che si arrivasse a questa azione drastica che, ira l’altro, è in contrasto con altre scelte del nostro governo (si pensi all’introduzione del reato di clandestinità del pacchetto sicurezza) e genererebbe il caos. Inoltre, se togliessimo l’obbligo a procedere del pm avremmo un’altra grave conseguenza".

 

Quale?

"Ma è naturale: si perderebbe l’effetto di deterrenza sui criminali".

 

Si renderà conto che la sua proposta è molto in linea con le idee di An su questo punto e poco con quelle di gran parte di Forza Italia (Ghedini escluso).

"Io ragiono come esponente della commissione Giustizia del Senato".

 

Sì Berselli, ma lei è anche un esponente di An.

"Noi ci stiamo arrovellando sull’azione penale ma anche i forzisti devono rendersi conto che superare l’obbligatorietà vuol dire modificare la Costituzione e poi, ripeto, resterebbe il problema pratico di prima. Mi aspetto che Forza Italia mi risponda nel merito, punto per punto".

 

Quali reati perderebbero i tribunali?

"Non spetta a me stabilirlo. Si dovrà fare una cernita accurata, ma la questione è delicata e tocca all’ufficio legislativo del ministero della Giustizia".

 

Per esempio, il reato di corruzione passerebbe ai giudici di pace?

"Sarebbe meglio che rimanesse di competenza del tribunale. Anche per quanto riguarda i reati ambientali, io non giudicherei in base alle pena edittale, ma, l’ho già detto, non spetta a me...".

 

E che ne sarà dei reati ora spettanti ai giudici onorari?

"Anziché trasferire il rapporto a un giudice di pace, sarà destinato al prefetto che potrà decidere se archiviare o comminare una sanzione amministrativa. Mi riferisco però solo a quei reati perseguibili d’ufficio".

 

Ma i giudici di pace che dicono?

"Non si lamentino anche loro! So che molti vorrebbero estendere le proprie competenze. È chiaro però che tutti (nuovi arrivi e chi già c’è) dovranno sottoporsi a corsi preparatori per i nuovi incarichi".

Giustizia: Alfano; una "banca-dati" per dare lavoro ai detenuti

 

www.ilsussidiario.net, 26 agosto 2008

 

Il ministro della Giustizia Angelino Alfano approda al Meeting di Rimini. Ma per una volta l’agenda del ministro è diversa da quella che ci aspetteremmo. La priorità non sono le polemiche sulla giustizia: il primo tassello della giornata del ministro in Fiera è invece la visita alla mostra dal titolo "Libertà va cercando ch’è sì cara. Vigilando redimere": una mostra dedicata alle esperienza di recupero dei carcerati attraverso il lavoro.

Il ministro segue la mostra, parla con i carcerati e le guardie presenti. E trova il tempo per guardare il video-inchiesta curato dal giornalista Enrico Castelli, con interviste ai carcerati che parlano delle loro esperienze di "rinascita" attraverso incontri, amicizie e, soprattutto, attraverso la possibilità di imparare un lavoro. Il ministro guarda attento, e prende appunti. Al termine della visione, ilsussidiario.net lo ha intervistato per raccogliere le sue impressioni a caldo.

 

Ministro, ha seguito con attenzione, e ha preso anche appunti: che cosa l’ha colpita di questa mostra?

La cosa che sorprende è che il carcere non è il luogo dove tutte le speranze muoiono; queste attività, al contrario, dimostrano che il carcere può essere il luogo dove una persona ritrova se stessa, ricostruisce il proprio io e si prepara ad affrontare una nuova vita. Sentire alcuni detenuti dire frasi come "da soli non ci si salva", "ti aiutano gli amici, la compagnia, un incontro", vuol dire sentire un uomo che ha capito non solo che ha sbagliato e dove ha sbagliato, ma anche come ci si può salvare.

 

Elemento centrale di questa mostra è documentare l’importanza del lavoro per i carcerati. I dati parlano di un bassissimo livello di recidiva tra gli ex detenuti che in carcere hanno appreso un lavoro: un dato come questo quali riflessioni suscita, anche dal punto di vista politico?

Questo dato è la prova non solo che occorre favorire il lavoro nella carceri, ma che è anche necessario attuare modalità di detenzione che consentano l’attività lavorativa.

 

Nelle carceri la permanenza media è di 11 giorni: cosa si può insegnare a chi sta in carcere così poco?

Occorre capovolgere le dinamiche di ingresso e uscita nelle carceri, perché è assolutamente patologico che nelle carceri ci siano più detenuti in attesa di giudizio rispetto a quelli che stanno scontando la pena. Questo è il sintomo che non ci sono i crismi per dire che la certezza della pena è fatta salva nel nostro Paese.

 

Quando si parla di detenuti ci si scontra con una parte dell’opinione pubblica che vuole solo essere rassicurata sul fatto che chi è colpevole sconti la pena: come rassicurarli che l’attenzione ai detenuti non è un venir meno della certezza della pena?

Semplicemente dicendo che non vogliamo buttare fuori dalle carceri nessuno. Noi non abbiamo una volontà né "buonista", né "indultista". Noi siamo dell’idea che dentro l’istituto di pena un uomo può ritrovare se stesso e, scontata la pena, può evitare di tornare a delinquere. Questo è un elemento di sicurezza del Paese. Non vorrei che si confondesse il lavoro nelle carceri con le scarcerazioni. Qui si parla di detenuti che lavorano dentro le carceri, e il lavoro serve a far sì che, scontata la pena e quindi espiata la colpa, possano evitare di delinquere, perché hanno costruito per loro stessi una prospettiva professionale.

 

Per fare questo è indispensabile la formazione di chi lavora con i carcerati.

È sicuramente importante la formazione e la valorizzazione dei volontari, ed è fondamentale sostenere l’attività delle tante associazioni no profit, che nelle carceri possono offrire occasione di incontro e di compagnia ai detenuti. È proprio tramite questo incontro che i detenuti stessi possono ricostruire loro stessi.

 

Si sente dunque di dire che il governo investirà su questo aspetto?

Noi dobbiamo investire molto sul lavoro nelle carceri. Questo investimento deve muoversi su tre binari: migliorare le condizioni di lavoro dei detenuti all’interno; garantire la formazione degli operatori che devono andare a favorire il lavoro dei detenuti; e infine creare una banca dati riguardante la professionalità dei detenuti, che diventi una vera e propria banca dati di offerta al mercato del lavoro. Questi sono pezzi di un sistema che può agevolare il crollo della recidiva.

 

Sul versante politico, dopo l’estate si entrerà nel vivo del dibattito sulla riforma della giustizia: ci si può attendere una riforma condivisa?

Siamo al lavoro per questo. La riforma della giustizia è una priorità della ripresa dell’attività politica parlamentare. La faremo e sarà una grande sfida, un grande banco di prova tra chi vuole cambiare e chi vuole conservare. Così com’è la giustizia non ci piace. La vogliamo cambiare e lo faremo dialogando, perché decidere senza dialogare somiglia troppo a una dichiarazione di guerra unilaterale. E parlare senza decidere è l’esatto contrario di una cultura di Governo che vuole dare risposte al nostro Paese.

 

Quali saranno i contenuti essenziali della riforma?

La nostra riforma terrà al centro i cittadini che non ne possono più di un sistema giustizia che non dà loro risposte o che le dà dopo dieci anni, e per di più incerte. I cittadini meritano un processo più veloce e una giustizia più rapida per risolvere le loro controversie. E noi daremo un ventaglio di risposte sull’efficienza.

 

Quali?

Risposte che riguarderanno le sedi disagiate delle Procure e le sedi di frontiera, sia per risolvere il processo penale che quello civile. Inoltre ci saranno misure di contrasto a mafia e criminalità organizzata. Di questo parleremo con gli alleati nei prossimi giorni.

 

C’è sul tavolo anche la proposta della Lega di avere pm eletti dal popolo?

Il rapporto tra pm e giudici è un tema in agenda. Con la Lega parleremo.

Giustizia: Alfano; "braccialetti" elettronici e stranieri espulsi

 

Apcom, 26 agosto 2008

 

Braccialetti ai detenuti, fuori i bambini dalle prigioni, sconto della pena per stranieri espulsi dal proprio paese. Sono alcune delle proposte che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha in mente per "svuotare le carceri" e renderle sempre più un luogo in cui si forma il detenuto e gli si dà la possibilità di "redenzione". Proposte, che il ministro anticipa al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, che saranno introdotte nella riforma della Giustizia alla quale sta lavorando il governo.

"Nelle nostre carceri italiane - spiega Alfano - vi sono alcune patologie e alcune condizioni di vita che non consentono" un reale reintegro delle persone che devono scontare la pena. Per questo motivo occorre introdurre novità nel sistema carcerario. "A partire dalla introduzione del braccialetto elettronico - continua il ministro - che non produce la recidiva e nemmeno la fuga; in Francia ha funzionato e funziona tuttora. Che motivo c’è di tenere occupati dei posti con persone che non hanno compiuto reati gravi?".

Stesso concetto, per il Guardasigilli, vale anche per quegli stranieri portati in prigione, ai quali manca di scontare una pena di due anni. "Se ne vadano a scontarla a casa loro questa pena - continua il ministro -. Abbiamo difficoltà a recuperare soldi per costruire nuove carceri; se questi 4.330 stranieri tornassero al loro paese si liberebbero posti nelle carceri e abbastanza risorse per costruire otto nuovi istituti di media grandezza".

La riforma della giustizia dovrebbe contenere anche un progetto per il reinserimento dei detenuti nel mondo lavorativo. Alfano ha in mente di "creare una grande agenzia di collocamento per detenuti, che curi l’incontro tra domanda e richiesta di lavoro e crei effettive opportunità di impiego". Capitolo a parte per quanto riguarda le mamme e i figli dentro agli istituti carcerari.

"Le mamme che hanno figli sotto i tre anni attualmente se li portano con sé in carcere. È ora di dire basta - aggiunge il ministro - perché non importa di chi siano figli, ma che siano bambini, e i bambini non possono stare in prigione. Noi ci facciamo promotori di un progetto che confischi i beni ai mafiosi e crei luoghi che non assomiglino a carceri, dentro ai quali le mamme possano scontare la pena con i propri bambini". Occorre infine "valorizzare la funzione della mamma" all’interno degli istituti.

Giustizia: Osapp; più attenzione a carceri, no a "braccialetti"

 

Agi, 26 agosto 2008

 

"Confidiamo che il ministro Alfano non perda la fiducia in un istituto fondamentale come quello del carcere, e non si affezioni troppo all’idea dei braccialetti elettronici, che a parer nostro, non risolve completamente il problema del sovraffollamento". Così il segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia Penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, risponde in questo modo alle dichiarazioni che il ministro della Giustizia ha rilasciato oggi al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini.

"Siamo d’accordo con Alfano - rileva Beneduci - quando illustra le linee guida per affrontare l’emergenza carceri, senza però far il minimo accenno alle criticità di coloro che sono incaricati di gestire l’emergenza. E questo solo per ribadire il grave problema delle aggressioni in carcere, e ricordare come anche oggi tre dei nostri agenti siano stati aggrediti a Frosinone".

Per quanto riguarda poi il lavoro come "strumento di redenzione", continua l’Osapp, "esortiamo il ministro a dare nuovo impulso per una politica che parta proprio dalla figura dell’agente di polizia penitenziario. Se anche il presidente della Compagnia delle opere, che l’Osapp ringrazia, ha inteso sottolineare, nel suo intervento, come sia utile tra le altre cose una riforma del ruolo e della funzione della Polizia Penitenziaria, qualcosa significherà pure".

Al Guardasigilli, dunque, il sindacato di polizia penitenziaria chiede una riforma che "guardi alle funzioni e all’attività’ che viene svolta all’interno delle sezioni: un’attività’ - ricorda Beneduci - che non deve più intendersi come quella di 40 o 50 anni fa, ma che con il tempo ha assunto sempre più importanza laddove, come ha tenuto a ribadire il ministro, non esiste la certezza per la redenzione del detenuto".

L’Osapp ricorda quindi di aver sempre puntato sul "lavoro come strumento di riabilitazione, ed è per questo motivo - sottolinea - che abbiamo criticato ultimamente iniziative, come quella di Ferragosto (con una spesa non inferiore ai 10 mila euro per pagare le spese al personale), che non mettono nella giusta correlazione il detenuto con la responsabilità del risultato".

Il lavoro, infatti, "è riabilitante - osserva Beneduci - se resta come possibilità per chi è dentro, anche a pena scontata. Il rischio è che, una volta uscito dal carcere, il detenuto, solo per il suo passato n cella, non risulti affidabile per chi lo deve assumere. Ad oggi, però, gli educatori non svolgono più servizio nelle sezioni, ed il poliziotto penitenziario rimane l’unico in grado di interagire con la popolazione che è dentro, e di garantirne il futuro".

Giustizia: la Compagnia delle Opere scrive al ministro Alfano

 

www.ilsussidiario.net, 26 agosto 2008

 

Caro Ministro, nell’ambito della complessa riforma della giustizia a cui il Governo sta per mettere mano, riteniamo giusto e doveroso, con la coscienza del tempo molto lungo che occorrerà, avviare da subito un percorso di riforma strutturale anche del sistema carcerario italiano, che tocchi uno ad uno i diversi punti critici emersi in questi anni.

L’obiettivo è quello di creare una sorta di devoluzione o di federalismo anche nel campo penitenziario, sgravando l’apparato burocratico centrale di tutte quelle funzioni che in modo più efficace e incisivo possono essere svolte a livello locale e favorendo in modo particolare la capacità dei cittadini stessi e delle loro formazioni sociali di rendersi protagonisti nella risposta ai propri bisogni di giustizia e di sicurezza, nel rispetto dei principi costituzionali di solidarietà e di sussidiarietà.

 

Il lavoro nelle carceri

 

Il primo e più evidente dato di fatto è che il lavoro rimane oggi la misura più efficace di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. È provato che senza un vero lavoro secondo le regole del mercato la recidiva si attesta su percentuali altissime (90%), mentre in caso contrario, con un vero lavoro, la recidiva registra abbattimenti molto significativi (riducendosi all’1%). Riteniamo perciò indispensabile favorire, sostenere e incentivare le attività lavorative dei detenuti approvando tutte quelle misure che possano spingere le imprese a investire nel mondo carcerario.

 

Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

Va avviata urgentemente la riforma del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria introducendo l’esecuzione penale regionale attraverso gli attuali provveditorati regionali, ai quali va concessa una reale autonomia organizzativa e gestionale in ordine a risorse economiche, gestione del personale e rapporti sindacali.

Alcune misure concrete: collegare la distribuzione delle risorse economiche al numero e alla tipologia di detenuti effettivamente presenti in una certa area; stabilire le dotazioni organiche degli istituti (agenti, psicologi, educatori, assistenti sociali, personale amministrativo e tecnico) in base al numero e alla tipologia dei detenuti presenti; affidare l’esecuzione penale ai provveditorati regionali istituendo macro-aree.

 

La Polizia Penitenziaria

 

Va recuperata la responsabilità della Polizia Penitenziaria nell’attività di rieducazione dei detenuti ("Vigilando redimere"); la Polizia Penitenziaria oggi è impegnata quasi esclusivamente in attività di sorveglianza e di mantenimento dell’ordine interno degli istituti, ma è necessario che, com’era in origine e come è tuttora in altri paesi europei (Spagna e Germania su tutti), recuperi anche una funzione attiva e decisamente propulsiva sul terreno della rieducazione, restituendo dignità alle persone impegnate in questo duro lavoro.

 

Magistrati di Sorveglianza

 

L’azione del Magistrato di Sorveglianza è un elemento fondamentale per il recupero dei detenuti e l’abbattimento della recidiva (che vuol dire più sicurezza e meno costi). Bisogna stabilire rapidamente un giusto rapporto tra i Magistrati e i detenuti, equamente distribuiti.

 

Signor ministro, queste proposte nascono dall’esperienza di Compagnia delle Opere e in particolare dal lavoro di tante nostre imprese sociali impegnate direttamente con il mondo delle carceri. Siamo convinti che quella indicata sia un strada percorribile e che possa generare benefici per tutto il sistema carcerario italiano, favorendo e sostenendo il recupero e la reintegrazione dei carcerati, e in questo modo rispondendo anche alla crescente domanda di sicurezza da parte dei cittadini.

 

Bernhard Scholz

Presidente Compagnia delle Opere

Puglia: Sappe a Vendola; preoccupazione su sanità in carceri

 

Il Velino, 26 agosto 2008

 

"Il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria- aveva scritto alla fine di luglio al presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, all’assessore alla Sanità Tedesco, a tutti i gruppi consiliari della Regione, a Prefetti e Magistrati di Sorveglianza, esprimendo la grande preoccupazione per quello che potrebbe accadere nelle carceri pugliesi (e nazionali) a partire dal primo settembre, data in cui verrà completato il passaggio della Sanità penitenziaria a quella Pubblica previsto dal d.p.r. 1 aprile 2008". Lo comunica una nota del Sappe.

"Nessuna risposta, eppure i motivi di preoccupazione sono tanti, a partire da possibili interruzioni dell’assistenza sanitaria nelle carceri pugliesi, con risvolti che potrebbero sfociare in manifestazioni di protesta drammatiche. Infatti a partire dal primo settembre, tutto il personale infermieristico che lavora a parcella negli Istituti penitenziari (la maggioranza) già dipendente delle Asl, dovrebbe (così è stato detto) essere incompatibile con l’attività svolta nei penitenziari. Se ciò accadrà, come e dove si troverà in così breve tempo, il personale paramedico necessario per coprire le esigenze dei penitenziari pugliesi, considerato che l’assistenza sanitaria nelle carceri deve essere garantita 24 ore al giorno?

Come si potrà rinunciare a conoscenze e professionalità acquisite in tanti anni considerata la delicatezza di tale settore, la cui criticità è confermata dagli innumerevoli atti di autolesionismo, e violenza che si consumano nei penitenziari? Stesso discorso per il personale medico; inoltre lo stesso verrebbe individuato attraverso turnover comunicato dalle Asl competenti ai penitenziari, e non in base a dei parametri rigorosi (previsti dall’Amministrazione penitenziaria) inerenti non solo la professionalità,ma anche verificando parentele o frequentazioni con appartenenti alla criminalità organizzata, poiché bisogna anche garantire la sicurezza delle carceri; che fine faranno le professionalità e conoscenze acquisite nel tempo?".

"Altra seria preoccupazione, che potrebbe creare grande allarme sociale, è data dal rischio che la nuova gestione soprattutto nella fase di avvio, per la scarsa conoscenza delle condizioni operative da parte del personale sanitario incaricato dalle Asl, determini un forte accentuazione del numero dei detenuti ricoverati oppure tradotti per visite specialistiche presso nosocomi esterni, a tutto discapito della sicurezza e del carico di lavoro della Polizia penitenziaria, già in grave crisi di organici.

Infine verrà meno la figura del medico del corpo che non potrà più seguire l’iter delle varie pratiche di carattere medico-legale presso l’Ospedale militare, collegate alla pericolosa attività lavorativa svolta dalla Polizia Penitenziaria,fino all’impossibilità di rientrare in servizio dopo la malattia L’attività sanitaria penitenziaria del medico e dell’infermiere è specifica e complessa, e non può essere paragonata a quella offerta nelle strutture sanitarie esterne poiché sono diverse le condizioni operative e la tipologia dei malati, e l’aver accomunato tali specificità, riteniamo sia stato irresponsabile poiché non si è pensato alle conseguenze che potrebbe provocare sia sul sistema penitenziario, che alla sicurezza della comunità. Nelle carceri pugliesi quasi la metà della popolazione detenuta è affetta da varie patologie, dalla sieropositività, alle malattie infettive (persino alla tubercolosi), malattie psichiatriche ecc. ecc., come si potranno soddisfare tali esigenze?

Lo sa il presidente Vendola così attento al problema delle carceri che se a un detenuto viene ritardata o non viene somministrata la terapia, anche poche gocce di antidolorifico o ansiolitico sfascia la cella e indirizza la sua rabbia contro il personale?".

"Lo sa il presidente Vendola che già adesso al carcere di Lecce con 1.200 detenuti lavora con un solo infermiere, e questa emergenza che si sta estendendo anche agli altri penitenziari? In questo contesto potranno le Asl con i loro problemi strutturali, di bilancio, di conoscenze specifiche del sistema penitenziario, offrire un servizio migliore ai detenuti, tenendo presente che non stiamo parlando di Ospedali ma di Strutture carcerarie molto complesse e delicate.

Il Sappe crede proprio di no, e il disorientamento e la grande preoccupazione che serpeggia presso le strutture Penitenziarie purtroppo, lo sta a dimostrare. Il Sappe ritiene che una fase transitoria, riguardo l’incompatibilità degli operatori sanitari, sia necessaria e indispensabile, al fine valutare e approfondire, con la massima serenità e serietà l’impatto che tale passaggio scatenerà nelle carceri pugliesi (e nazionali).

Sarebbe una prima risposta alle preoccupazioni di tutti gli operatori penitenziari che prevedono il diffondersi di atti violenza e illegalità con gravi rischi per l’incolumità sia ai lavoratori penitenziari che ai detenuti, con risvolti preoccupanti anche per l’ordine e la sicurezza pubblica. Aspettiamo risposte presidente Vendola, poiché sarebbe difficile trovare, poi, parole atte a giustificare le responsabilità per una possibile tragedia annunciata".

Milano: un detenuto ghanese muore per leucemia fulminante

 

Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2008

 

Si chiamava Nana Mensah Okyere e proveniva (per quanto è dato sapere) dal Ghana, mentre sono certi il luogo e la data della sua morte: Ospedale Niguarda di Milano, 23 agosto 2008. L’uomo era detenuto dallo scorso aprile a San Vittore dove, in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni di salute, alcuni operatori dell’area educativa si erano anche prodigati per ottenerne l’incompatibilità con il carcere, ma evidentemente senza risultato.

Come sia, il 30 luglio il "detenuto" Nana Mensah Okyere è stato ricoverato in Ospedale, prima al "San Paolo", poi al "Niguarda", dove appunto è deceduto sabato scorso.

Trento: un detenuto muore d’infarto, i compagni protestano

 

Adnkronos, 26 agosto 2008

 

Protesta in atto al carcere di Trento, proprio nel giorno in cui è attesa la visita del ministro della giustizia Angelino Alfano. A innescarla, a quel che traspare dalle prime informazioni, sarebbe stata la morte, nella notte, di un recluso extracomunitario, deceduto per infarto. Il carcere di Trento, al 30 giugno scorso, aveva 100 detenuti; quindi, secondi i dati del ministero della giustizia, era al limite della capienza regolamentare.

Perugia: morte Aldo Bianzino; Gip dice "no" all'archiviazione

 

Il Velino, 26 agosto 2008

 

Come morì Aldo Bianzino, l’ebanista di Pietralunga entrato in perfetto stato di salute in carcere il 12 ottobre dell’anno scorso e uscito senza vita dalla casa circondariale di Perugia due giorni dopo? La domanda, cui la richiesta di archiviazione del Pm Giuseppe Pietrazzini, sembrava aver dato una risposta definitiva con la richiesta di archiviazione, rimbalza adesso nuovamente su una vicenda sin dall’inizio apparsa oscura e piena di misteri. Il Gip Massimo Ricciarelli, cui diverso tempo fa i famigliari presentarono opposizione in sede civile, ha deciso di accogliere adesso anche l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata in luglio dall’avvocato dei genitori di Aldo - Giuseppe e Maura - e di Roberta Radici, la compagna di Bianzino con lui arrestata e poi rilasciata senza che nemmeno le fosse stato detto, se non all’uscita dal carcere, che Aldo era morto.

Si deve alla caparbietà dei famigliari dunque se il caso non si chiude in uno scaffale degli uffici giudiziari perugini e se le eccezioni sollevate dal legale, l’avvocato Massimo Zaganelli, ricostruiscono un percorso di dubbi e interrogativi non ancora sciolti che il magistrato ha evidentemente considerato validi, quantomeno a non far diventare la storia di Aldo un semplice faldone di carte polverose. La ricostruzione della parte civile mette in fila tutte le contraddizioni di quelle terribili ore a cominciare dalla mattina di domenica 14 ottobre quando Aldo è rinvenuto, inanimato, sulla branda superiore del suo letto.

I suoi indumenti si trovano, ordinati, su quella inferiore. La finestra della cella è aperta seppure sia ottobre inoltrato e Aldo indossi solo una maglietta a maniche corte. Per il resto è nudo. Il corpo viene prelevato dagli agenti, trasportato subito fuori della cella e deposto sul pavimento del corridoio dell’infermeria, sita a pochi metri. Viene innalzato un lenzuolo così che gli altri detenuti nulla possono vedere. Si tenta la rianimazione, effettuando il massaggio cardiaco sul corpo inanimato. Uno dei medici dirà che "… non so spiegarmi per quale motivo il detenuto sia stato portato sul pianerottolo davanti alla porta dell’infermeria ancora chiusa poiché (in altri casi) il nostro intervento avveniva direttamente in cella".

Le indagini riveleranno "…lesioni viscerali di indubbia natura traumatica (lacerazione del fegato) e a livello cerebrale una vasta soffusione emorragica subpiale, ritenuta al momento di origine parimenti traumatica…".

Ma poi le ricerche si esauriscono con l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere dell’istituto di pena mentre viene aperto procedimento penale nei confronti di una guardia per omissione di soccorso. La richiesta di archiviazione per il reato di omicidio viene formulata dal Pm nel febbraio scorso con la conclusione che Aldo è morto non per trauma ma per un aneurisma cerebrale; la lesione epatica viene ritenuta estranea all’evento letale facendo eslcudere "... l’esistenza di aggressioni del Bianzino".

Motivazioni "assertive e generiche" che, secondo i legali della famiglia, sono "insostenibili" e frutto di un’"istruttoria lacunosa". Valga per tutto una perizia medico legale secondo cui "...la lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido trauma occorso in vita e certamente non può essere ascrivibile al massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo".

Il commento, che Roberta Radici ha affidato al quotidiano "La Nazione", è lapidario: "Una scheggia di luce per il mio piccolo Rudra", il figlio di Aldo e Roberta rimasto orfano del padre a soli 13 anni. Nessuno in famiglia si è mai arreso all’archiviazione: non gli altri due figli, Aruna Prem ed Elia con la madre Gioia (che hanno presentato l’altra istanza di opposizione), né i genitori e il fratello di Aldo.

Il padre, Giuseppe, domenica scorsa è salito sul palco del Goa Boa, il festival per i diritti umani organizzato dalla Tavola della pace a Genova: di fronte a 15 mila persone, convenute anche per il concerto di Manu Chao e quello di Tonino Carotone, Bianzino ha ricordato il valore anche civile della difesa dei diritti umani. Aveva rivolto un suo personale appello al giudice perché non archiviasse il caso. Appello accolto.

Frosinone: Uil; quattro agenti aggrediti, la situazione è grave

 

Asca, 26 agosto 2008

 

"Sentiamo il bisogno di formulare ai colleghi feriti, ma all’intero contingente di polizia penitenziaria di Frosinone, i nostri sentimenti di viva solidarietà e vicinanza dopo l’esecrabile episodio di violenza avvenuto ieri a causa del quale quattro agenti di polizia penitenziaria hanno dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso". Non usa mezzi termini Daniele Nicastrini, coordinatore Uil Penitenziari del Lazio, nel denunciare la situazione del carcere di Frosinone. Ieri pomeriggio, infatti, un detenuto comune in evidente stato di ubriachezza ha aggredito dapprima l’agente addetto alla sorveglianza e successivamente gli altri agenti accorsi. Uno di loro ha riportato una frattura al braccio con prognosi di 40 giorni.

"Forse il caso con questi episodi di violenza c’entra poco - prosegue Nicastrini -. Credo sia necessario accertare le condizioni e le ragioni per le quali detenuti ristretti possono assumere sostanze alcooliche, al punto di ubriacarsi, quasi in totale libertà. È evidente che Frosinone paga lo scotto di non avere un Direttore effettivo. Nonostante i pregressi e gravi episodi di violenza accaduti nel recente passato né il Provveditore regionale tantomeno il Dipartimento hanno ancora assegnato un Direttore titolare. Di recente è stato assegnato un Comandante effettivo, che da solo non può certo cantare e portare la croce. Va anche detto- continua il segretario regionale- che a norma vigente alcune disposizioni sono di esclusiva competenza del Direttore".

La Uil denuncia anche le carenze organiche nei ruoli della polizia penitenziaria: "A fronte di un organico di circa 250 agenti - sottolinea Daniele Nicastrini - ad oggi ne contiamo, ma solo sulla carta, circa 215. Anche l’elevata età media del personale è un fattore che aggrava la difficoltà. È necessario un monitoraggio delle unità distaccate presso altri enti prevederne l’immediato rientro. Non possiamo più tollerare che il personale si sobbarchi quotidianamente carichi di lavoro eccessivi e sia esposto al rischio di violenze quotidiane".

Rimini: incontro al Meeting… essere "liberi" anche in carcere

 

www.ilsussidiario.net, 26 agosto 2008

 

Cos’è la rieducazione, se non il tentativo di offrire un’opportunità al cambiamento? Lo possono testimoniare le storie dei detenuti che non si sono rassegnati ad attendere la fine della pena, ma che hanno intravisto la possibilità di cambiare. E l’hanno presa sul serio, decidendo di imparare o di accettare il lavoro che veniva loro proposto. Lo racconta la mostra "Libertà va cercando che sì cara. Vigilando redimere", allestita al Meeting di Rimini, che presenta l’esperienza di lavoro tra le sbarre dei detenuti di alcune carceri italiane (tra cui Padova Due Palazzi, Milano San Vittore e Como). È la testimonianza che un cambiamento è possibile perché è la persona a volerlo. Deve scattare qualcosa, e i detenuti lo raccontano bene. Non basta il desiderio di cambiare, o di essere altrove; serve la consapevolezza della colpa. Un cancello rosso, come quelli che si chiudono alle spalle di chi è entrato in carcere, porta il visitatore dentro la straordinaria esperienza che vivono alcuni detenuti grazie al consorzio Rebus e alla cooperativa Giotto.

Il lavoro per riconquistare dignità e il rapporto con la realtà - Le cooperative offrono ai detenuti un lavoro per aiutarli a reinserirsi nella società una volta terminata la pena da scontare. Le testimonianze proposte dalla mostra rivelano come, e vista nell’ottica della prevenzione e del reinserimento, la pena può diventare non un parcheggio in attesa di tornare a delinquere - come testimoniano purtroppo i dati, drammatici, relativi alla recidiva: solo il 5% circa di chi lavora in carcere, una volta fuori torna delinquere, contro il 90% di chi non aderisce ad una proposta di rieducazione - ma l’inizio di un cammino di presa di coscienza della colpa commessa e della riscoperta, da parete dei detenuti, di poter essere davvero liberi anche tra le sbarre. "Il mio cuore batte per le stesse cose per cui batte il cuore degli altri uomini", dice Joshua Stencil, detenuto in un carcere americano.

Le testimonianze - La mostra, curata da Paola Bergamini, Nicola Boscoletto, Alberto Savorana e Giorgio Vittadini, offre le straordinarie esperienze di libertà, concetto che associato al carcere può sembrare paradossale, di uomini che hanno riscoperto il rapporto con se stessi, la loro esistenza, le loro famiglie, attraverso l’incontro con persone che non li ha giudicati, ma, al contrario, li ha saputi riscattare valorizzare attraverso l’esperienza semplice del lavoro. Nella parte finale i visitatori sono accolti dai carcerati che svolgono la professione di cuochi e offrono i loro dolci ai visitatori. Indossano una maglietta con la scritta "24082008 (la data di inizio del Meeting ndr) vale la pena".

Rimini: saper ascoltare, anche la "lezione" di chi ha sbagliato

di Giorgio Vittadini

 

www.ilsussidiario.net, 26 agosto 2008

 

Già il Meeting del 2007 aveva puntato i riflettori sull’ambiente "carceri". Quest’anno lo rifà con una mostra e un incontro in cui interverrà, tra gli altri, il ministro Alfano. Non si tratta di una reazione alla mentalità giustizialista e tanto meno un impeto buonista che è lecito aspettarsi da dei cattolici.

Si tratta invece, come spesso capita di documentare al Meeting, del frutto di incontri, attraverso le più disparate occasioni: commenti scambiati su articoli di giornale che diventano rapporti epistolari di amicizia molto intesi, attività di volontariato svolto nelle carceri, il lavoro di cooperative realizzato con i carcerati.

Le testimonianze dei detenuti che si possono leggere nella mostra "Libertà va cercando che si cara. Vigilando redimere" impressionano per la responsabilità verso il male fatto - che viene chiamato per ciò che è, male - e per la sensazione di libertà che, anche dietro le sbarre, chi incontra qualcosa di vero ricomincia ad avere. Come è stato sottolineato più volte in questi giorni, protagonista non è il divo o personaggio di successo, ma chi è cosciente di sé, soddisfatto e rispettoso delle proprie esigenze profonde, anche in situazioni proibitive.

Perché? Il carcere è una situazione limite in cui viene messa a nudo la natura umana, sempre in costante confronto con i suoi limiti e il suo insopprimibile desiderio di vita e di verità. È come vedere su grande schermo quello che nella vita "normale" si vede nel chiaro-scuro. Soprattutto chi sbaglia tanto - ogni uomo che sbaglia - non può smettere di sentire la sua natura che desidera il perdono e di svoltare nella vita. E questa è un’esigenza innanzitutto di fronte a se stessi.

Contro il giustizialismo deprimente che non ritiene di poter recuperare il male e contro l’impunità irresponsabile, che pensa al male come ad un problema sociale, un cristiano sa che un uomo è così grande da essere responsabile del male fatto e sa che però può cambiare, che un incontro può cambiare la direzione di una vita.

È d’altronde quanto indicato dal dettato costituzionale che sottolinea l’intento riabilitativo della pena carceraria e dà cosi il segno della sanità di una società che cerca di recuperare forze positive al suo interno.

Una possibilità di cammino verso il cambiamento in carcere è data dal lavoro che, oltre a ridare un ruolo positivo nel contesto sociale, permette ai carcerati il sostentamento economico, consente di non sottrarre più risorse alla società, ma di produrne di nuove. Infatti, mentre la recidiva nel nostro Paese è normalmente del 90%, laddove venga offerta la possibilità di imparare un mestiere e praticarlo, la recidiva scende addirittura all’1%. Il 70% dei detenuti in Italia è un cittadino straniero: sarebbe bello se queste persone, tornate al loro Paese, potessero "portare via" i valori della nostra civiltà, come un bene per tutti.

Saluzzo: in carcere apre un micro - birrificio con 3 dipendenti

 

Ansa, 26 agosto 2008

 

"Il progetto del micro - birrificio è già iniziato - ci dicono dall’ufficio educatori - la volontà è di avviare nel nostro carcere una produzione di birra che sarà gestita dalla cooperativa torinese Pausa Caffè. Coinvolgerà 3 detenuti che saranno assunti secondo le regole specifiche dell’art.21. Il progetto prevede in questa fase l’adattamento di un capannone interno al Morandi, per installare le macchine necessarie alla produzione della birra. Speriamo nell’arco di due mesi di poter avere i primi fusti e bottiglie prodotte qui a Saluzzo."

La birra del Morandi sarà commercializzata di certo a Eataly al Lingotto di Torino, ma si prevede anche la distribuzione a pub e birrerie della provincia di Cuneo, quantomeno nelle intenzioni della cooperativa ed in base alle quantità di produzione. "Occorre ringraziare il comune di Saluzzo - concludono dall’ufficio educatori - che è sempre molto attento a queste iniziative di reinserimento sociale delle persone presenti da noi, un merito di questo ente in specifico".

Roma: Alemanno; basta polemiche, estenderemo uso militari

 

Corriere della Sera, 26 agosto 2008

 

Si estende l’uso dei militari in città. Saranno impiegati i soldati anche per presidiare il Centro rifugiati di Castelnuovo di Porto. Ma le polemiche sulla sicurezza non si placano, il sindaco Gianni Alemanno dal meeting di Rimini le ha definite "strumentali, di bassissimo livello", ricordando il "Patto per la sicurezza" e dichiarandosi favorevole sia a un "censimento degli stranieri a 360 gradi" sia alla proroga della presenza dell’esercito.

"Si sono accampati in un posto abbandonato da Dio e dagli uomini", aveva detto Gianni Alemanno. Scatenando polemiche. "Il Giornale" in un editoriale di ieri ha attaccato il sindaco titolando "Non è colpa degli olandesi", mentre in sua difesa è sceso Francesco Giro: "È la risposta più logica a una similitudine assurda come quella con il caso di Giovanna Reggiani".

Replica il Pd con Marco Minniti: "La destra quando governa non ha un piano strategico". Ieri l’assessore Sveva Benriso è andata a trovare i due turisti olandesi, che sono stati operati e sono in netto miglioramento. n neo questore Giuseppe Caruso ha replicato indirettamente al sindaco: "Chiunque ha il diritto di sostare dove vuole. Violenze come quelle di Ponte Galeria non devono ripetersi mai più".

Ancora polemiche infuocate sulla sicurezza in città. Oggi Alemanno farà un sopralluogo nella zona di Ponte Galeria. "Polemiche strumentali, di bassissimo livello". Taglia corto Gianni Alemanno di fronte alle accuse piovute, anche da destra, sulla sua dichiarazione: i turisti olandesi "si sono accampati in un posto abbandonato da Dio e dagli uomini Sono stati imprudenti". Oggi il sindaco tornerà a Roma dopo il meeting di "Comunione e liberazione" a Rimini e andrà a Ponte Galena, teatro dell’aggressione.

"Ho parlato con l’ambasciatore olandese - fa sapere - per chiedere le condizioni di salute. dei due turisti e per verificare se ci sono le condizioni per andarli a trovare". Se sarà possibile, Alemanno lo farà in giornata, mentre da Cortina il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha annunciato che domani firmerà "il decreto di espulsione dei due rumeni: se dovesse succedere che per un cavillo escono - ha spiegato - li rispediremo in Romania".

Le polemiche continuano a infuriare. Ieri "D Giornale", controllato dalla famiglia Berlusconi, in un editoriale firmato da Mario Cervi ha stigmatizzato la frase del sindaco, sottolineando come quello che è avvenuto "non sia colpa degli olandesi". Alemanno, però, ha incassato la solidarietà del sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro: "La frase era la risposta più logica a chi insisteva nel porre una similitudine assurda fra il caso di Giovanna Reggiani accaduto a Tor di Quinto e quello che ha drammaticamente colpito la coppia olandese.

Negare che vi sia stata una certa imprudenza sarebbe ipocrita e stupido, la frase di Alemanno è un risposta a chi voleva buttarla in caciara". Replica a distanza del ministro dell’Interno del governo ombra, Marco Minniti: "È inaccettabile trasformare le vittime in concorrenti nella responsabilità di un delitto gravissimo. È una forma di cinismo che non mi sarei aspettato dal sindaco della Capitale. Quando la destra è all’opposizione cavalca gli eventi, quando governa prosegue la politica degli annunci senza un piano strategico".

"Come sempre i nodi vengono al pettine - incalza Enzo Foschi, consigliere regionale del Pd -. Alemanno dovrebbe finalmente rendersi conto che non si può governare con la demagogia e che è finito il tempo della propaganda. La verità è che il tema della sicurezza si deve risolvere anche con iniziative a carattere sociale".

Ieri a trovare i due turisti Paul e Wilma (le cui condizioni migliorano, e ieri sono stati operati: per Wilma l’intervento ha riguardato la frattura della mandibola, mentre per Paul quella al polso) è andato l’assessore comunale ai Servizi sociali, Sveva Belviso. "Le polemiche? Sterili - ha osservato -, il Campidoglio sta facendo di tutto per dare più sicurezza alla città".

Alemanno ha poi ricordato il "Patto per la sicurezza" e si è detto favorevole a "un censimento degli stranieri a 360 gradi" e alla proposta del suo collega di partito Maurizio Gasparri di prorogare la presenza dell’esercito. E Fabio Sabbatani Schiuma (La Destra) ha proposto per Roma il "numero chiuso" di stranieri.

Immigrazione: Cie; inchiesta sul Serraino Vulpitta di Trapani

 

Dire, 26 agosto 2008

 

Primo Centro aperto in Italia dopo la Turco-Napolitano, nel 1998. In seguito all’incendio del 1999, la capienza è passata da 180 a 57 posti. Nei primi sei mesi del 2008 ha ospitato 94 persone.

Sorge nel centro di Trapani il primo centro di identificazione e espulsione aperto in Italia. Venne inaugurato nel luglio del 1998. La legge Turco-Napolitano, che istituiva i centri di permanenza temporanea (cpt), era stata appena approvata, e il capo della polizia Fernando Masone, assieme al sottosegretario di Stato per l’interno Giannicola Sinisi inauguravano la struttura, ricavata in una sezione dell’istituto geriatrico Rosa Serraino Vulpitta, che un anno dopo sarebbe andata a fuoco provocando sei vittime.

Il centro è disposto su tre piani in un’ala dell’ospizio. Al piano terra si trovano l’ufficio immigrazione della questura e gli uffici amministrativi dell’ente gestore, la cooperativa Insieme. Salendo le scale, al primo piano c’è l’infermeria h 24 e l’assistente sociale. I detenuti invece stanno al secondo piano.

Dalle sbarre del cancello si intravedono le porte delle celle aperte sul ballatoio. Le balaustre sono circondate da reti metalliche. Sotto, le palme del giardino del Vulpitta. Il ballatoio è chiuso sui due lati da cancelli grigi di ferro. I lucchetti si aprono quattro volte al giorno. Per i pasti, e per l’ora d’aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, sotto la vigilanza della polizia.

Lungo lo stretto corridoio del ballatoio, si affacciano due sezioni, per un totale di 57 posti. Dall’inizio del 2008 ne è attiva soltanto una. I trattenuti sono ex detenuti, lavoratori migranti fermati sul territorio senza documenti, oppure tunisini respinti alla frontiera dopo essere sbarcati sull’isola trapanese di Pantelleria. In comune hanno una sola cosa: l’assenza di un documento di soggiorno e un ordine di espulsione non rispettato.

Ricevono una scheda telefonica ogni dieci giorni, sigarette e assistenza medica e sociale. In ogni cella ci sono quattro brandine. Una delle camere è stata adibita a moschea. Nel primo semestre del 2008 sono transitate dal Vulpitta 94 persone, soprattutto tunisini e marocchini. Al momento i presenti sono 29. Con questi numeri, le condizioni del trattenimento sono più vivibili. E a malapena si riesce a immaginare come nei primi anni di apertura, nel 1998 e 1999, il centro potesse contenere fino a 180 persone, con 12 o 13 persone per ogni stanza.

Furono anni di ribellioni e tentativi di fuga. Il più drammatico si concluse con la morte di sei persone. Era la notte tra il 28 e il 29 dicembre 1999. Alcuni ragazzi appiccarono il fuoco ai materassi nella propria cella. La porta sul ballatoio era chiusa a chiave. Il fuoco divampò e prima che arrivassero i soccorsi morirono tre persone tra le fiamme.

Altri tre si spensero nelle settimane successive, ricoverati al Centro grandi ustioni. Il prefetto in carica Leonardo Cerenzìa, fu imputato di omissione di atti d’ufficio, incendio colposo e concorso in omicidio colposo plurimo, per poi essere assolto con formula piena il 15 aprile del 2004.

Droghe: De Corato; 10 anni... per chi uccide guidando ubriaco

 

Dire, 26 agosto 2008

 

"Chi causa incidenti mortali in stato di ebbrezza, di alterazione psicofisica per l’uso di sostanze stupefacenti, oppure senza patente commette un omicidio volontario e non solo colposo. Dunque va punito molto più severamente, con almeno dieci anni di reclusione". La pensa così il deputato del Pdl, che è anche vicesindaco e assessore alla Sicurezza del Comune di Milano, Riccardo De Corato.

"Il decreto sicurezza - spiega De Corato - è intervenuto con un giro di vite contro gli ubriachi al volante, prevedendo anche il sequestro dei veicoli e innalzando le pene per chi causa incidenti mortali. Ma su questo punto bisogna andare fino in fondo". Di recente, infatti, De Corato ha presentato una proposta di legge alla Camera che prevede delle modifiche all’articolo 585 del codice penale, che consentano, spiega, "di innalzare la pena a chi causa morte per strada guidando ubriaco o sotto l’effetto di droghe o senza patente ad almeno dieci di reclusione". A Milano, sottolinea il vice sindaco, i dati sul consumo di alcol alla guida continuano a essere allarmanti. Su 370 accertamenti della polizia municipale eseguiti lo scorso luglio nell’arco della settimana e con intensificazione nei weekend, 79 sono risultati positivi ai test etilometrici, praticamente 1 su 5.

Cina: un attivista per i diritti umani costretto ai lavori forzati

 

Asia News, 26 agosto 2008

 

Hu Jia, detenuto nel carceri cinesi con l’accusa di "sovversione contro lo Stato", non può ricevere cure mediche né comunicare con la famiglia: le guardie gli sequestrano lettere e libri e proibiscono i colloqui con parenti e avvocato. Provvedimenti restrittivi anche nei confronti della moglie.

Costretto a lavorare per sette ore al giorno sotto il sole cocente, nonostante la grave cirrosi epatica di cui soffre da tempo: è quanto deve affrontare l’attivista per i diritti umani Hu Jia, detenuto nelle carceri cinesi, al quale sono state inoltre confiscate le lettere destinate ai familiari e un libro sui diritti dei prigionieri speditogli dalla moglie.

Lo denuncia la Chinese Human Rights Defenders (Chrd), secondo la quale "le guardie carcerarie costringono Hu a ramazzare la sporco e i resti della prigione durante le ore più calde della giornata". Il provvedimento nei suoi confronti è stato adottato dopo che egli ha denunciato "certe forme di punizione utilizzate nel carcere di Chaobai - dove egli è attualmente detenuto - in aperta violazione dei principi di base della dignità umana". Le sue condizioni di salute restano "critiche" (la cirrosi epatica ne sta minando il fisico), per questo egli ha bisogno di "cure mediche specifiche e di assoluto risposo", entrambe negate da parte dai vertici del carcere.

Dallo scorso primo agosto tutte le lettere, a cadenza settimanale, che Hu Jia scrive alla famiglia vengono puntualmente confiscate dai responsabili della prigione di Chaobai. I secondini hanno anche scoperto e sequestrato un libro che l’attivista aveva ricevuto dalla moglie, nel quale si parla dei "diritti dei prigionieri", mentre vi è stata imposta una "restrizione" alle visite dei parenti. La polizia cinese addetta alla sicurezza, che supervisiona le sporadiche visite concesse ai familiari di Hu, usa la possibilità di accesso al carcere come "arma di ricatto": nel caso in cui i parenti decidano di denunciare soprusi e angherie, vi è la risposta degli agenti che bloccano ogni contatto con l’attivista. Nemmeno l’avvocato gode di libero accesso al carcere: dal 3 aprile scorso, quando è avvenuto l’ennesimo arresto ai danni di Hu, sono stati assai "sporadici" i momenti di confronto fra il detenuto e il suo legale. Per impedire l’accesso e le visite, i carcerieri avanzano motivazioni pretestuose, fra le quali non meglio specificate "regole di sicurezza interna" alla prigione.

La polizia ha infine riportato la moglie i figli di Hu nella loro casa di Pechino. Il 7 agosto scorso gli agenti l’avevano prelevata dalla loro abitazione, portandola prima nella prigione di Chaobai e poi in un hotel a Dalian, sotto il controllo delle forze di sicurezza. Pur facendo ritorno nella capitale, la donna è costretta agli arresti domiciliari ed è sottoposta a una continua sorveglianza.

Hu Jia è noto in tutta la Cina per il suo impegno contro l’Aids e per i diritti umani ed è in carcere con l’accusa di "sovversione contro lo Stato"; per lui si è mosso anche il Parlamento europeo, che all’inizio dell’anno ha "condannato con forza la detenzione" e ha chiesto "l’immediata liberazione di lui e di tutti i dissidenti detenuti per delitti d’opinione".

 

 

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