|
Giustizia: Pd; il 41-bis deve essere inasprito con nuova legge
Dire, 1 agosto 2008
Negli ultimi sei mesi 37 boss hanno lasciato il regime del carcere duro e sono tornati detenuti comuni, nonostante la condanna all’ergastolo. Sono cose che non devono accadere", denuncia il segretario del Pd. Walter Veltroni raccoglie "le sollecitazioni dei magistrati che si occupano di mafia" e annuncia una proposta del Pd per l’inasprimento del regime 41 bis. Tra i boss "condonati" di recente, spiega, "c’era uno dei mafiosi che uccisero Borsellino, due dei responsabili degli eccidi del ‘93, il boss Graziano ed altri... la mafia ha una particolare sensibilità per questo tema - aggiunge Veltroni - e non a caso ci vedono come uno dei loro principali nemici, come si evince da recenti intercettazioni. Di questo noi siamo lusingati". Poi Veltroni l’impegno preso in campagna elettorale: "Non dicevamo per scherzo quando spiegavamo che noi vogliamo annientare la mafia. E ora, con la proposta di legge che inasprisce il regime del carcere duro per i mafiosi, ribadiamo quell’impegno". E lancia su questo un invito al Ministro della Giustizia Angelino Alfano: "lui ha annunciato una misura simile con una Circolare. Crediamo che non sia quello lo strumento più idoneo ma che un tema del genere meriti un intervento legislativo più profondo: stimoliamo quindi il governo a fare sua la volontà di inasprire il contrasto alla mafia attraverso l’inasprimento del 41 bis".
Fare sul serio
"Quando in campagna elettorale dicevamo che vogliamo annientare la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta e quando lo abbiamo ripetuto a Casal di Principe non dicevamo per scherzo e questa proposta di legge va proprio in quella direzione". Con queste parole, il segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, affiancato dal ministro ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia e dal senatore Giuseppe Lumia, ha presentato alla stampa, dopo la riunione del governo ombra del PD, la proposta di legge sul rafforzamento della legge 41-bis. "Da molto tempo ormai - sottolinea Veltroni - da parte dei magistrati c’è stato un richiamo su questo tema e negli ultimi mesi è accaduto qualcosa che non sarebbe dovuto accadere". In effetti, sottolinea il senatore siciliano Lumia, da sempre impegnato nella lotta alla mafia, "la stabilizzazione del 41-bis attuata dal governo Berlusconi nel 2002 ha portato dei frutti amari". Guardando ai dati si nota che, sul totale dei detenuti sottoposti al regime carcerario del 41-bis - quello che vieta loro il contatto con l’esterno e quindi ai boss mafiosi di proseguire la propria attività criminale dal carcere - si nota che il numero di detenuti declassati rimane comunque inspiegabilmente alto: 60 nel 2003, 35 nel 2005, 499 nel 2005, 87 nel 2006, 64 nel 2007 e 43 nel primo semestre del 2008. "Dalle ultime intercettazione pubblicate sul Corriere della Sera - fa notare Veltroni - è emersa una cosa già chiara: la mafia odia il 41-bis e dagli stessi boss sono stati assicurati anche dei voti politici in cambio di modifiche che vadano ad alleggerirlo". Insomma, il Pd sfida il governo su questo campo. Emblematico, ancora una volta, il commento del leader democratico: "Il ministro Alfano ha emesso una circolare ministeriale, ma di certo non è la circolare lo strumento adeguato. Serve un intervento legislativo". Con la proposta di legge del Pd, spiega il ministro ombra Tenaglia, "cerchiamo di eliminare quelle falle che si sono venute a creare nel sistema del 41-bis". Una più rigorosa attuazione della norma, incalza Lumia, "non basta più, va cambiata la legge". E allora si parte da un maggiore ruolo della procura nazionale anti-mafia e dalle diverse procure distrettuali e si dà una stretta alle diverse tecniche di aggiramento della legge. A partire dalla durata che, spiega il senatore del Pd, "dovrà partire come primo passo da 4 anni di detenzione per poi essere rinnovato di due anni in due anni". Altro capitolo importante sarà quello della copertura dei buchi che si vengono a creare all’interno del carcere, facendo in modo per esempio "che tutti i colloqui che i detenuti effettuano all’interno del carcere, ad eccezione di quelli con gli avvocati difensori, vengano videoregistrati. Così come - prosegue Lumia - va impedito che i momenti di socializzazione all’interno del carcere diventino delle riunioni tra boss in cui vengono decise le strategie mafiose". Anche per questo, si legge sulla proposta di legge del Pd, "i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituiti a loro esclusivamente destinati, collocati preferibilmente in regioni insulari". Giustizia: Vizzini (Pdl); contento per scelta dura Pd sul 41-bis
Agi, 1 agosto 2008
"Sono molto contento che anche il Partito Democratico abbia deciso di presentare una proposta per rendere più severo il 41 bis. Essa si aggiunge a quella già presentata da me, come primo firmatario, e firmata anche dal senatore Gasparri Capo gruppo Pdl al Senato. Abbiamo già previsto il prolungamento della durata, l’inversione dell’onere della prova che deve passare in capo ai mafiosi detenuti e per evitare interpretazioni contrapposte la competenza del Tribunale di sorveglianza di Roma per i ricorsi. Siamo disponibili a lavorare in Parlamento per pervenire ad un testo unificato ed a farlo in tempi brevissimi. I siciliani, come me, fanno tutto questo assumendosene anche sul territorio la responsabilità non lieve per liberare la nostra società dalle mafie, ma per cortesia, per una volta smettiamola con questi atteggiamenti di primato che non solo non giovano ad uccidere il cancro mafioso ma sono spesso figli di una politica parolaia che non ha mai intimorito nessun mafioso al mondo". Lo dice Carlo Vizzini, Presidente della prima Commissione Affari Costituzionali del Senato e Rappresentante speciale Osce contro le mafie transnazionali in riferimento al disegno di legge presentato dal Pd sull’inasprimento del 41bis. Giustizia: lodo Alfano; l’ultimo verdetto spetta alla Consulta di Alfonso Celotto
www.radiocarcere.com, 1 agosto 2008
Le polemiche che hanno accompagnato l’approvazione del c.d. lodo Alfano sono squisitamente di carattere politico. Infatti è soltanto una questione politica aver scelto di esaminare e approvare - in tempi insolitamente rapidi per il Parlamento italiano - una legge ordinaria sulla sospensione dei processi penali relativi le più alte cariche dello Stato e soprattutto aver scelto di approvarla in questo preciso momento storico. L’approvazione di questa immunità di carica è avvenuta, come tutti sappiamo, proprio nelle settimane in cui è in corso un processo penale per questioni "ordinarie" (cioè non connesse alla funzione) a carico del Presidente del consiglio dei ministri. Per intenderci, se una legge analoga fosse stata approvata un anno fa, molto probabilmente non ci sarebbero stata alcuna polemica. Ad ogni modo non è mio compito disquisire dell’opportunità politica del c.d. lodo Alfano. Posso solo spendere qualche considerazione di carattere giuridico. Già con la legge n. 140 del 2003 (c.d. lodo Schifani) era stato approvato un meccanismo di sospensione dei processi penali in corso per le massime cariche dello Stato. Già allora si trattava di una immunità di carica e non di funzione. Mi spiego. Le immunità di funzione riguardano le prerogative relative all’attività svolta: ad esempio, l’immunità parlamentare, che copre gli onorevoli per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (art. 68, 1° comma, Cost.). Le immunità di carica invece rendono non perseguibili i titolari di una data carica politica, nel periodo in cui sono titolari della carica stessa. Ma il lodo Alfano è costituzionale o incostituzionale? Nel nostro sistema costituzionale, la conformità delle leggi alla Costituzione può essere giudicata soltanto dalla Corte costituzionale. La Corte costituzionale è stata chiamata ad esprimersi sul lodo Schifani, dichiarandolo incostituzionale con la sentenza n. 24 del 2004 per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. In particolare tale sentenza osserva come la sospensione dei processi prevista nel lodo Schifani fosse generale (relativa a tutti i reati ipotizzabili), automatica (senza possibilità di derogarvi o rinunciarvi) e di durata non determinata (senza limiti di tempo, anche in caso di incarichi reiterati), per cui ne discendeva una violazione della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione. Ora, nel lodo Alfano, si è cercato di "correggere" tali vizi, prevedendo che la sospensione si applica solo ai processi nel corso della durata della carica; che la sospensione è rinunciabile da parte dell’imputato, che non è reiterabile in caso di assunzione di ulteriore carica e che per la parte offesa possa trasferire l’azione in sede civile, godendo di una specie di corsia preferenziale per il processo civile di risarcimento. Nessuno può dire se questa legge sia conforme o meno alla Costituzione. I parlamentari, i giudici, il Csm, i professori, i cittadini possono solo esprimere la propria convinzione al riguardo, più o meno avveduta ed autorevole che sia. L’unica a potersi esprimere ufficialmente al riguardo è la Corte costituzionale, la quale tuttavia non può pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge se non investita specificamente della questione. Salva la violazione di competenze regionali (non è certo il nostro caso), la Corte può essere adita soltanto in via incidentale, cioè deve essere un giudice nel corso di un processo in cui la norma di dubbia costituzionalità debba essere applicata a sollevare la questione di costituzionalità e rimettere il giudizio ai giudici di palazzo della Consulta. Solo a quel punto la Corte costituzionale sarà legittimata a pronunciarsi e a dirimere - una volta per tutte - il dubbio di costituzionalità. Va chiarito che nemmeno il Presidente della repubblica ha il potere di giudicare la conformità a Costituzione di una legge. È si vero che il Capo dello Stato ha il potere di non promulgare una legge ordinaria e di rinviarla alle Camere per un nuovo esame (art. 74 Cost.). Tuttavia, questo potere - esercitato in maniera giustamente poco frequente dai Presidenti della repubblica - non costituisce assolutamente un surrogato del controllo di costituzionalità. È piuttosto una forma generale di controllo e verifica del Capo dello Stato sulle leggi, valutandone in via generalissima la regolarità formale, l’opportunità e la legittimità - in casi macroscopici - rispetto alla Costituzione. Si tratta di una forma di verifica, ampia e generale, precedente all’entrata in vigore, che assolutamente non si sovrappone al controllo - specifico, concreto e su leggi già vigenti - della Corte costituzionale. Spetterà quindi alla Corte costituzionale, se e quando sarà investita di una questione sul lodo Alfano, valutarne la conformità alla Costituzione. Giustizia: la "riforma d’autunno" dovrà cominciare dal Csm di Franco Colasanti
Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2008
Come risolvere il problema del cortocircuito nei rapporti fra politica e giustizia? Un ritorno al vecchio istituto dell’autorizzazione a procedere non farebbe che peggiorare le cose, perché accentuerebbe lo scontro maggioranza-opposizione. Molto meglio, invece, cominciare con la riforma del Csm, suggerisce Renato Schifani. Parlare perciò di una rimodulazione dell’istituto "non può essere considerato uno scandalo", avverte il Presidente del Senato confermando la decisione (sua e di Fini) della convocazione a oltranza della Commissione di vigilanza Rai a partire dalla ripresa autunnale. Sempre che neppure la prossima settimana riesca a spuntare il nome del nuovo presidente. Incontrando la stampa parlamentare per l’annuale consegna del "ventaglio", Renato Schifani ricorda alle forze politiche la necessità di abbassare i toni e di evitare il muro contro muro con la magistratura: è amareggiato per la caduta del dialogo fra Berlusconi e Veltroni, che aveva felicemente inaugurato il nuovo Parlamento, ma continua a ben sperare sulle sorti della legislatura. Che sarà "una legislatura costituente", nonostante tutto, conferma. Per parte sua, il presidente del Senato tiene a precisare di essersi impegnato ad affrontare il nodo dei rapporti fra politica e giustizia "in una logica squisitamente tecnico-politica e nel rispetto dell’autonomia della magistratura". Gli spiace, perciò, che "qualcuno pensi che il presidente del Senato parla della riforma del Csm in chiave di conflitto". Lo spirito è tutt’altro, precisa. Ma intanto si preoccupa di ricordare che della revisione dell’organo di autogoverno della magistratura si parla sin dai tempi della Bicamerale di D’Alema. Come dire che la questione è assai annosa. Rispettoso del suo ruolo di seconda carica dello Stato e pur convinto dell’urgenza di tornare al dialogo pacato fra le istituzioni e fra i poli, Schifani non rinuncia per questo a rivendicare il primato della politica di fronte a posizioni non sempre "equilibrate" ai vertici della magistratura. E non è forse casuale che il riferimento del Presidente al Csm sia avvenuto a ridosso di alcune dichiarazioni del segretario generale dell’Anm, Giuseppe Cascini, persuaso che la politica voglia aumentare il controllo sui giudici invece di migliorarne l’efficienza. Schifani non trascura peraltro i problemi strettamente connessi al suo incarico parlamentare: da settembre, ha promesso, chiederà alla conferenza dei capigruppo di prolungare al venerdì "lattina i lavori dell’aula di Palazzo Madama. Si tratta, in definitiva, di dare un po’ di spazio alle iniziative legislative dei singoli senatori di fronte alla pressione dei decreti d’urgenza e più in generale dell’iniziativa governativa. L’apertura ai progetti senatoriali non assomiglia certo allo statuto dell’opposizione. E meno che mai alla riforma dei regolamenti parlamentari che all’inaugurazione delle Camere sembrava a portata di mano. Ma è pur sempre qualcosa. Giustizia: storia di un indagato, perquisito e poi prosciolto… di Emile
www.radiocarcere.com, 1 agosto 2008
Il 26 marzo 2004 il pubblico ministero di una piccola cittadina Campana dispone la perquisizione dell’abitazione e degli uffici dell’ingegner Marco Bianchi (la storia e vera i nomi sono di fantasia). Il 2 aprile 2004 solerti ufficiali di polizia giudiziaria alle sei e mezza del mattino bussano alla porta dell’ingegnere per eseguire il provvedimento ispettivo. Il malcapitato ovviamente dorme e con lui moglie e due figlie. Impossibile descrivere la reazione di fronte all’irruzione. L’imbarazzo di fronte alla prole che si è vista invasa la casa da ben cinque agenti. L’ingegnere viene messo al corrente del fatto che si sta dando attuazione ad un ordine della Procura della Repubblica. Numerosi sono i pezzi di carta consegnati all’Ingegnere. Avviso di garanzia e decreto di perquisizione. Gli agenti lo avvertono che si può fare assistere da un avvocato. L’ingegnere non capisce e la confusione è aggravata dal fatto che la Procura che procede è situata in una cittadina della quale sino ad oggi non conosceva neppure il nome. I reati contestati si dovrebbero ricavare dal provvedimento, il quale indica solo dei numeri: gli articoli di legge che prevedono le fattispecie delittuose. L’avvocato lo illumina sul punto. L’invasione dell’abitazione perdura sino all’ora di pranzo. Dopo avere rovistato dappertutto gli operanti si trasferiscono nell’azienda, sede dell’attività lavorativa del signor Bianchi. Il rituale si ripete. Tutto viene rovistato: armadi, cassetti, archivi. L’imbarazzo avuto con i figli è nulla rispetto a quello che prova nei confronti di segretarie e colleghi di lavoro. 1 aprile 2008. Quattro anni dopo la perquisizione. Quattro anni dopo quella visita mattutina che ha cambiato la vita della famiglia Bianchi. Quattro anni passati in attesa che l’indagine si chiudesse e che un giudice decidesse se le accuse fossero fondate o meno. Quattro anni nei quali il pubblico ministero è riuscito a portare a compimento due gravidanze. 1 aprile 2008 l’udienza preliminare: il giudice deve verificare la fondatezza delle accuse. Il signor Bianchi dopo essersi consultato con l’avvocato decide di non partecipare. Il difensore spiega che accusa e difesa argomenteranno le loro tesi, le quali saranno giudicate dal giudice. Inutile pertanto la presenza. Difficile capire per il razionale ingegnere come si possa fare un processo a qualcuno senza che questo sia presente. Assente anche il pubblico ministero titolare dell’indagine, colei che ha firmato il fatidico provvedimento. Assente giustificata da motivi di maternità. È sostituita da una collega la quale apre le danze chiedendo che Marco Bianchi venga processato. La discussione è stringata. Segue il difensore che arringa motivando la richiesta di riconoscere innocente il suo assistito. L’avvocato chiede pure che il processo venga trasferito nella capitale non capendo il motivo che ha portato a far nascere il processo in un luogo dove il Bianchi non si è mai recato. Il giudice prende il corposo fascicolo e si ritira nella sua stanza. Avvocato e pubblico ministero attendono nel cortile. Dopo circa un’ora il cancelliere avvisa i due che il giudice sta scendendo. Entra nella stanza. Nonostante gli anni un certo nervosismo prima della lettura del provvedimento la si prova sempre. Si alza. L’avvocato capisce che la causa è vinta. L’udienza preliminare può terminare con due differenti epiloghi. Il decreto che dispone a giudizio o la sentenza di proscioglimento. Solo in quest’ultimo caso il giudice da lettura del provvedimento in piedi. Marco Bianchi è prosciolto perché il fatto non sussiste. Bianchi è euforico, fa ripetere all’avvocato l’esito più volte. È convinto che sia uno scherzo. La fiducia nella giustizia era ormai svanita. Innocente ripete. È la fine di incubo. Un incubo che però ha lasciato segni indelebili, causati soprattutto dall’ingiusta perquisizione. Da una giustizia che senza nessuna giustificazione ha fatto convivere Marco Bianchi per quattro anni con un ingiusto male: il processo penale, che costituisce, per chi lo subisce, una vera e propria pena, che nel caso di proscioglimento risulta del tutto ingiusta. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 1 agosto 2008
Il mio ragazzo detenuto, di Laura Cara Radio Carcere, in realtà il mondo del carcere è una realtà che non avevo mai conosciuto fino a un paio di mesi fa. Quando è stato arrestato il mio ragazzo, che è in carcere a Monza. Il mio ragazzo è stato arrestato appena dopo aver subito un intervento chirurgico al braccio, durante il quale gli hanno impiantato dei ferri nell’osso. Il fatto è che uno dei ferri impiantato nel braccio avrebbe bisogno di essere disinfettato quotidianamente con una siringa, per arrivare fino all’osso. In più, necessiterebbe di fisioterapia. Dal carcere il mio ragazzo è stato portato a fare una prima visita all’ospedale di Monza, dove gli hanno detto che avrebbe dovuto essere curato solo dai medici che l’hanno operato. È stata fatta una istanza di arresti domiciliari, ma è stata rigettata. Poi il mio ragazzo è stato di nuovo visitato, ma con 3 settimane di ritardo. La diagnosi: rottura di un tendine. Dopo innumerevoli domandine, finalmente è arrivata in carcere un’infermiera a disinfettare la ferita. Ma di fisioterapia o di portarlo dai medici che l’hanno operato non se ne parla. In più, mi racconta che nel carcere di Monza devono convivere con un sacco di scarafaggi, e che la sua situazione non è diversa da quella degli altri detenuti. Mi sento impotente, e piena di rabbia. Non tanto per la detenzione ma per il modo in cui è eseguita. E questo vale per il mio ragazzo come per tanti altri detenuti.
Giandonato, dal carcere di Nuoro Caro Riccardo, sono di Bari, ma da 9 anni mi trovo detenuto a Nuoro. Il fatto è che spesso ho delle udienze al Tribunale di Bari e di conseguenza faccio il pendolare. Ma questo sarebbe nulla. Il problema è che mio figlio è molto malato. Ha una malattia degenerativa e soffre particolarmente la mia lontananza. Per mio figlio il fatto che non mi possa vedere è una sofferenza in più rispetto alla sua malattia. Come vedi non chiedo la libertà, ma solo di poter stare in un carcere di una città che sia vicina a quella di mio figlio, in modo da poterlo vedere ai colloqui. Tra l’altro sono 9 anni che sto in un carcere lontano da casa e credo che possa bastare, soprattutto in considerazione del fatto che è sempre stata ottima la mia condotta. Inoltre, il giudice di sorveglianza di Taranto già mi ha dato diversi permessi per uscire dal carcere e poter stare un po’ con mio figlio. Credo di meritare un po’ di fiducia. Chiedo solo un po’ di umanità per me e per mio figlio. Chiedo troppo? Un caro saluto.
Francesco, dal carcere di Piacenza Caro Arena, anche noi in carcere abbiamo capito che questo Governo a settembre vorrà innalzare le pene e limitare la discrezionalità del magistrato nell’applicazione della pena al caso concreto. Loro la chiamano "certezza della pena", ma significa invece ritenere il giudice non capace di fare il proprio lavoro. Sia chiaro io non voglio difendere i giudici. Sto in carcere per colpa loro! Però ritengo anche sbagliato togliere al giudice la discrezionalità sulla pena, che è giustizia nel caso concreto. Ho letto anche che vogliono escludere la liberazione anticipata per i detenuti recidivi. 45 giorni in meno di pena ogni 6 mesi, è l’unico beneficio di cui godono i detenuti recidivi. Escluderla significa alterare tanti equilibri dentro al carcere. Non ultimo il rapporto con gli agenti e la buona condotta in carcere. Molti detenuti si comportano bene proprio per poter avere la liberazione anticipata. Quante e quali violenze si svilupperebbero in carcere senza questa speranza? Già oggi il carcere produce, non rieducazione, ma nuovi recidivi e recidivi perenni. Non serve altro danno. A te Riccardo un saluto e ricordati che per noi detenuti sei importante. Non mollare mai. Cassino: detenuti accedono con difficoltà ai servizi del Ser.T.
Dire, 1 agosto 2008
Possibilità, per il personale del Sert, di accedere in carcere una sola volta a settimana per la terapia farmacologia, spazi per i colloqui psicologici e sociali ad di fuori del circuito carcerario, locali inadeguati utilizzati per l’attività medico-infermieristica e di erogazione dei farmaci. Sono questi i problemi che il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni ha segnalato ad Irma Civitareale, direttrice del carcere di Cassino, provincia di Frosinone, chiedendone l’immediata soluzione. Ad evidenziare le problematiche, la direzione generale della Asl di Frosinone, cui il Garante si era rivolto, nelle scorse settimane, per segnalare le difficoltà incontrate dai detenuti tossicodipendenti del carcere di Cassino per accedere ai servizi erogati dal Sert. "In particolare i detenuti "lamentavano lunghe liste di attesa per sostenere i colloqui preliminari, disponibilità ridotte di personale sanitario a fronte di carichi di lavoro in aumento, difficoltà legate alla turnazione delle equipe e al monte ore mensile ridotto a fronte di una popolazione detenuta tossicodipendente pari quasi ad un terzo dei presenti nel carcere, circa 170 unità". Nella sua lettera di risposta al Garante, il direttore generale della Asl di Frosinone Giancarlo Zotti scrive che "il lavoro dell’equipe Sert non è mai stato di facile attuazione nel carcere di Cassino, in considerazioni dei vincoli e delle difficoltà poste negli anni dalla direzione dell’istituto. I detenuti e il personale del trattamento del carcere di Cassino hanno segnalato al mio ufficio queste difficoltà nell’accedere ai servizi del Sert. Si tratta di un problema da risolvere velocemente non solo perché siamo in un momento delicato, legato al passaggio delle competenze sanitarie in carcere dal ministero della Giustizia alle Asl, ma soprattutto perché i reclusi hanno diritto all’assistenza sanitaria come tutti i cittadini. Il fatto che ci si trovi in carcere non vuol dire aver perso la titolarità di diritti fondamentali, come quello alla salute". Padova: 45 soldati di pattuglia... ma la Polizia ha meno fondi di Giuliana Beltrame (Cons. Comunale ind. Prc-Se)
Comunicato stampa, 1 agosto 2008
Pare certa la notizia che a Padova "sarà impegnato l’esercito con funzioni di sicurezza" e la notizia è già di per sé inquietante e inaccettabile. Cercherò di spiegarne i motivi a partire dal fatto che, se si pensa di mandare l’esercito per affrontare i problemi legati alla sicurezza, il Governo deve spiegare ai cittadini perché taglia i fondi alle forze di polizia, incaricate esattamente del mantenimento della sicurezza! Anche solo questo dato fa emergere con tutta evidenza la pericolosa strumentalità della manovra: non serve l’esercito, serve che passi l’idea del territorio controllato anche dall’esercito, esattamente come nei paesi dittatoriali, ma da noi si comincia in maniera leggera (a Padova 45 militari vogliono dire 4 militari per turno!); quello che conta è che la cosa entri nell’abitudine, come normale! È un colpo alla democrazia ancora più pericoloso perché subdolo e probabilmente dai più non percepito come tale. Mentre il ministro Maroni e la Lega esaltano a ogni piè sospinto il diritto delle comunità di autodeterminarsi, i famosi "padroni a casa propria", ecco che cala dall’alto del peggior centralismo una decisione né sollecitata né auspicata da chi governa questa città. È un puro atto di imposizione del Governo e io penso che sarebbe auspicabile e necessaria, oltre alle chiare prese di posizione del Sindaco e di alcuni Assessori, una formale posizione di opposizione a questa decisione calata sulla testa di una intera comunità. Per la vanagloria di un deputato della destra, Padova è costretta ad essere considerata una città più insicura e pericolosa ad esempio di Palermo, Reggio Calabria o Genova. O forse è stata adottata la linea dell’ex ministro Lunardi che "con la mafia bisogna convivere" e che il pericolo della delinquenza viene solo dagli immigrati (tutti indiscriminatamente per maggior sicurezza, peggio se clandestini!) Rasentiamo il ridicolo. Purtroppo penso invece che ci stiamo incamminando, passetto dopo passetto sulla strada del dramma per la convivenza civile, la legalità e la nostra democrazia. Treviso: agenti indagati per pestaggio di un detenuto romeno
La Tribuna di Treviso, 1 agosto 2008
Cinque agenti di polizia penitenziaria del carcere Santa Bona sono indagati per lesioni e abuso d’ufficio. La denuncia è partita dal rumeno Lucian Elwis Andricsak, 25 anni. Gli agenti avrebbero pestato il detenuto pochi giorni dopo il suo ingresso in carcere. Vi era giunto il 12 ottobre scorso per aver stuprato, quasi un mese prima, il 16 settembre una quarantenne sul sagrato della chiesa di Spregiano. L’episodio è emerso in sede di udienza di convalida, quando il rumeno, togliendosi la maglietta di fronte al giudice Umberto Donà, gli mostrò lesioni. Il sostituto procuratore Giuseppe Salvo acquisì la denuncia aprì il fascicolo per indagare sui cinque agenti. In sede di incidente probatorio, il rumeno indicò certezza tre degli autori dei pestaggi avvenuti all’interno del carcere. Ora cinque agenti di polizia penitenziaria in servizio al carcere Santa Bona rischiano di essere processati con l’accusa di lesioni personali ai danni di un detenuto e abuso d’ufficio. Si tratta di P. P., 42 anni, F. A., 36, G. C., 43, M. V., 45, e L. P., 33. Tutti sono ancora regolarmente in servizio all’interno della casa circondariale. I pestaggi sarebbero avvenuti il 12 ottobre all’ora di pranzo e di cena. Mentre il giorno successivo il rumeno sarebbe stato colpito dopo la conta e prima del buio. Il pubblico ministero ha aperto un’inchiesta ipotizzando i reati di lesioni personali e di abuso d’ufficio. L’avvocato Francesco Murgia, uno dei legali dei cinque agenti è certo che gli indagati potranno dimostrare la loro assoluta estraneità ai fatti contestati". Perugia: indagine sulla morte di Aldo Bianzino non si chiude
Liberazione, 1 agosto 2008
La famiglia di Aldo Bianzino avrebbe ottenuto dal Gip la continuazione delle indagini, nonostante che il Pm sostenga che la morte è avvenuta per cause naturali. Ci sono novità sull’inchiesta per la morte di Aldo Bianzino nel carcere di Perugia. Il giudice per le indagini preliminari, Massimo Ricciarelli, avrebbe dichiarato ammissibile l’istanza con la quale gli avvocati della famiglia del falegname di Pietralunga si sono opposti all’archiviazione del caso. Ad otto mesi di distanza si potrebbe dunque riaprire il caso di Aldo Bianzino. L’uomo è stato trovato morto in una cella, in cui era detenuto da due giorni dopo essere stato arrestato per aver coltivato due piante di marijuana nel giardino di casa; per il Pm si sarebbe trattato di morte per cause naturali, determinata da aneurisma. Ma l’autopsia parlò di fratture di costole e di distaccamento del fegato che per il Pm sarebbero state determinate da un maldestro tentativo di massaggio cardiaco. Per la famiglia Bianzino sono invece la prova di un pestaggio. Diritti: un giornale, per la "voglia di riscatto" degli homeless
Dire, 1 agosto 2008
Nell’Asilo Notturno del Comune di Padova circa 80 persone: si esce alle 8 si rientra alle 17. Convivono italiani e stranieri, a volte con problemi di dipendenza o di ordine psichico. In via del Torresino, al civico 4, ogni notte trovano rifugio decine di persone. È questo l’indirizzo dell’Asilo Notturno del Comune di Padova, dove opera la cooperativa Cosep, da tempo impegnata in attività per i senza tetto. In questi giorni si contano 82 presenze. Ci sono gli stranieri, ma crescono anche gli italiani, che spesso diventano senza fissa dimora perché hanno alle spalle situazioni familiari difficili. L’Asilo ha delle regole ben precise che gli ospiti devono rispettare, e lo sanno: alle 8 tutti fuori, con qualsiasi tempo e condizione di salute. Dalle 17 si può rientrare, fino alle 23. D’estate gli ospiti tendono a "rincasare" sempre più tardi, per non dover restare troppo nelle camerate dove con il caldo si soffoca. Già alle 22 i corridoi sono vuoti: chi non è fuori per la città è disteso a letto, con le porte aperte infischiandosene della privacy pur di respirare un po’. Gli italiani e gli stranieri sono in camerate distinte, ma condividono tutti lo stesso lungo corridoio. Delle volte la convivenza è davvero difficile, soprattutto perché si deve vivere in sei per stanza e i caratteri, le problematiche, le storie di vita possono portare a litigi, che vengono placati, in caso di necessità, dalle forse dell’ordine. Il fatto che convivano problemi di dipendenza o di ordine psichico spesso non aiuta. All’ingresso sono gli operatori ad accogliere chi rientra, scambiando un saluto, qualche battuta, chiedendo notizie della giornata. Un momento per socializzare, al di fuori delle serate organizzate dagli operatori del Cosep, che a suon di karaoke, giochi e altre attività di animazione cercano di lavorare per l’integrazione degli ospiti. Al primo piano si snoda il reparto maschile, mentre al piano terra, superando altre camerate destinate agli uomini e varcando una porta, si accede al settore femminile, dove le donne (una dozzina sul totale degli attuali 82 ospiti) sono stese a letto combattendo l’afa. Le loro storie sono un po’ diverse rispetto a quelle degli uomini: sono caratterizzate perlopiù da alcol/tossicodipendenza. Alcune sono straniere che una volta arrivate in Italia non sono riuscite a trovare lavoro né casa. In genere gli ospiti, segnalati dai Servizi sociali comunali, possono restare dai 3 ai 5 giorni, garantendo così un turnover continuo. Ma alcune facce le si possono vedere anche per mesi, a causa del perdurare della loro condizione di senza fissa dimora. Gli stranieri che vengono segnalati, comunque, hanno tutti un regolare permesso di soggiorno. Durante il giorno tutte queste persone si riversano in città. Alcune, le più motivate, continuano nella loro ricerca di lavoro o si recano in uno dei centri diurni della città. Altre passano da un luogo all’altro, magari facendo l’elemosina. Ma questo è un argomento tabu all’Asilo, perché chi la fa non vuole che si sappia. Una cosa garantiscono gli operatori: la voglia di riscatto è comune a molti.
Raccontare i "pensieri senza tetto"
Dare voce a una realtà nascosta e spesso volutamente ignorata: questo è l’obiettivo di "Pensieri senza tetto", la voce dell’Asilo notturno di Padova, dove si raccolgono idee, opinioni, storie di ospiti e volontari che ogni sera convivono, discutono e si confrontano. Il giornale, il cui nuovo numero è fresco di stampa, esce mensilmente e le 200 copie stampate vengono distribuite generalmente da ospiti e volontari insieme. Adesso però c’è una novità: a partire da questo numero saranno i soli senza tetto a farsi carico della diffusione, cercando di vendere le copie a un prezzo simbolico. Una parte del ricavato, quindi, resterà a loro. "Sono stati loro stessi a chiederci questo cambiamento" spiega Simone, volontario della cooperativa Cosep e impegnato nella realizzazione del progetto. "Pensieri senza tetto" è rinato circa un anno fa dalle ceneri di "Il brontolo", precedente esperienza che coinvolgeva gli ospiti del Torresino. E da allora ogni mese diventa megafono dell’Asilo, permettendo agli ospiti di esprimersi liberamente, di farsi conoscere e, come in questo numero, di alzare un po’ la voce. L’edizione dell’agosto 2008 infatti parla direttamente al Comune di Padova mettendo i puntini sulle "i" ed evidenziando ciò che non va o che dovrebbe essere migliorato nella struttura. "Vivere anche solo per una settimana all’asilo notturno è semplicemente… difficile - scrivono infatti gli ospiti - Troppe diversità tra noi, troppe diverse difficoltà, troppe differenti problematiche sulle nostre spalle". E continuano: "Tanti di noi arrivano qua con il peso e il dovere di ricominciare daccapo o almeno di trovare la strada per farlo. Ma ricominciare è qualcosa di estremamente complesso. Spesso sono i nostri fallimenti a non permettercelo o la nostra poca forza di voltare pagina, ma a volte forse una maggiore comprensione delle nostre reali problematiche ci aiuterebbe". La mancanza di tempo per confrontarsi e raccontarsi agli assistenti sociali diventa per molti un vero problema, afflitti dall’incapacità di spiegarsi adeguatamente e con calma. Il giornale comunque è una delle attività della Cosep, che dedica anche una serata fissa all’animazione attraverso cui favorire l’integrazione. Una volta al mese, inoltre, viene organizzato il "Cerca lavoro" che trova spazio anche nell’ultima pagina del giornale. E continua senza sosta anche l’impegno al di fuori di via del Torresino per far conoscere alla città la vera situazione dei senza tetto. Un esempio è il recente progetto "Lenti urbane", che si è concluso in vista dell’estate con una mostra nella quale sono stati esposti i lavori di operatori e volontari insieme agli ospiti. Immigrazione: inapplicata la norma su espulsioni dei detenuti
Dire, 1 agosto 2008
Il 70% dei migranti senza documenti nei Cpt sono ex-detenuti. Un anno fa una direttiva interministeriale prevedeva rimpatri direttamente dal carcere. Ma è ancora lettera morta. Identificati e espulsi senza passare dai Cpt. Lo prevedeva la direttiva interministeriale sulle espulsioni per i detenuti immigrati non comunitari, firmata il 30 luglio 2007 dagli allora ministri dell’Interno Giuliano Amato, e della Giustizia,Clemente Mastella. L’identificazione sarebbe dovuta avvenire durante la permanenza in carcere. Poi, lo straniero detenuto avrebbe dovuto essere trasferito in un penitenziario quanto più possibile vicino al luogo di partenza, per essere rimpatriato al momento della scarcerazione. È passato un anno esatto, e quella direttiva è ancora lettera morta. "Il 70% degli stranieri presenti nei nostri Centri sono ex detenuti" - spiega a Redattore Sociale Elena Muscaglione, consulente legale della Cooperativa Albatros, che gestisce in appalto il Cei di Caltanissetta. K.B. è uno di loro. È tunisino, classe 1970. In Italia è arrivato su una barca partita clandestinamente da Sfax, in Tunisia, nell’agosto del 2002. Lo sbarco a Lampedusa, un mese di detenzione nel vecchio Cpt di Agrigento e poi il solito foglio di via con cui migliaia di uomini e donne sono rilasciati ogni anno sul territorio italiano, senza identità né diritti. A Bologna K. inizia a spacciare hashish. Nel 2004 la prima condanna a 11 mesi. Una volta uscito dal carcere trova lavoro come imbianchino. La sua professione in Tunisia. Lavora in nero. Prova a regolarizzarsi. Ma con un ordine di espulsione alle spalle e un precedente penale, tutte le porte sono chiuse. Alla fine del 2006 un altro arresto. Di nuovo per spaccio. Fa quattro mesi a Bologna e quattro a Castelvetrano, in provincia di Trapani. A fine pena lo hanno portato al Cie di Caltanissetta, a Pian del Lago. Di stare in gabbia non ne può più. "Perché non mi hanno espulso dal carcere? - chiede - La Questura ha il mio nome, perché devo stare chiuso altri due mesi?". In carcere, dice, nessuno lo ha mai sottoposto a pratiche di identificazione. Né ha mai visto funzionari del Consolato tunisino. La sua è una storia come tante, di pene aggiuntive. Anche Said è appena uscito dal carcere. Rapina e furto. A Catania. Al Cie di Caltanissetta è arrivato cinque giorni fa, dopo una condanna di un anno. Said ha 22 anni. Viene da Khouribga, in Marocco. Ma del Marocco non ricorda niente. Perché quando è arrivato in Italia, nel 1987, aveva appena dodici mesi. A Catania vivono i genitori, le tre sorelle maggiori, di 30, 28 e 23 anni. E il fratello più piccolo di diciassette, che in Italia c’è nato e che al compimento della maggiore età potrà chiedere la cittadinanza italiana. Said rischia di essere rimpatriato in un Paese, il Marocco, di cui non sa niente. I documenti li ha persi con la maggiore età. Colpa della precedente condanna, sempre per rapina, nel 2004. Anche lui dice di aver provato a ottenere il permesso di soggiorno, tramite il decreto flussi. Ma con il precedente penale e l’espulsione è semplicemente impossibile. Poco importa che la sua famiglia e la sua vita siano ancorate a Catania, dal tempo in cui iniziano i suoi ricordi. Immigrazione: inchiesta su Cpt di Caltanissetta Pian del Lago
Redattore Sociale, 1 agosto 2008
Visita al centro polifunzionale di Caltanissetta. Due sezioni dedicate all’accoglienza dei richiedenti asilo e alla detenzione dei migranti senza documenti. Presenti 571 persone su 600 posti disponibili. In arrivo 70 militari. Tra ospiti e detenuti ci vivono 571 persone, su una capienza di 610 posti disponibili. Il centro polifunzionale per gli immigrati di Pian del Lago, a Caltanissetta, è una piccola città. Nei primi sei mesi del 2008 ci sono transitati 2.166 migranti e richiedenti asilo. Qua lavorano 90 operatori sociali, 19 medici, e poi avvocati, psicologi, assistenti sociali e mediatori culturali. Sono assunti dalla Cooperativa sociale Albatros 1973, che dal 2002 gestisce in appalto i servizi del centro. La cooperativa riceve un’indennità giornaliera per ogni persona ospitata o trattenuta, per un totale che, a pieno regime, in un anno può raggiungere i dieci milioni di euro. Il centro all’esterno è sorvegliato da polizia e carabinieri, che non hanno accesso alle strutture dove si trovano i migranti. A vigilare il campo, presto si aggiungeranno 70 militari, come previsto dal pacchetto sicurezza. Pian del Lago è insieme un luogo di detenzione e di accoglienza. Accoglienza dei richiedenti asilo; detenzione dei migranti senza documenti. Questi ultimi sono detenuti, per un massimo di 60 giorni, nel centro di identificazione e espulsione (Cei), in attesa del rimpatrio. Il centro, che altro non è che il vecchio Cpt (centro di permanenza temporanea), consiste in una serie di terra tetto, appena riverniciati, con camerate di sei letti, aperti su un cortile di cemento nel mezzo del quale si trova la mensa. All’interno del cortile i migranti detenuti sono liberi di spostarsi. Ma tutto intorno si leva una gabbia di tubi d’acciaio alta sei metri. Alla sommità i tubi sono ripiegati in basso, verso l’interno, in modo da rendere impossibile ogni tentativo di fuga. Il Cie ha una capienza di 96 posti. Al 30 luglio, i detenuti sono 79. Soprattutto tunisini e marocchini, ma anche albanesi e sudanesi. In media il 70% è costituito da ex detenuti, portati qua a fine pena per l’identificazione e il rimpatrio. Poi ci sono le persone senza documenti e con un precedente ordine di espulsione a cui non hanno ottemperato, arrestate dalla polizia durante controlli dei documenti. E infine quelli che sbarcano a Lampedusa, ma che dal controllo delle impronte digitali risultano essere già stati in Italia. La percentuale dei rimpatri è bassa. Meno di un terzo. Un dato che già emergeva dalla Commissione De Mistura che nel 2006 visitò i Cpt italiani, stimando che soltanto 6.000 dei 22.000 migranti che ogni anno transitano nei Cpt (oggi Cie) venivano espulsi. Ma a Pian del Lago si fa anche accoglienza. Il centro per i richiedenti asilo (Cara) può ospitare fino a 110 persone, nelle casette dietro l’alta rete metallica. Poi c’è il centro d’accoglienza, che ha 400 posti e ospita sia richiedenti asilo che uomini e donne appena trasferiti da Lampedusa, indipendentemente dalla loro nazionalità. È costituito da una serie di container grigi, con aria condizionata e riscaldamento, disposti in fila su un piazzale di cemento. In ogni container dormono da sei a otto persone. Le donne stanno in container a parte. Stesso discorso per le famiglie. Queste due sezioni, dedicate all’accoglienza, sono aperte dalle 10 del mattino alle 21. Chiunque può uscire e rientrare a suo piacimento. E la statale è disseminata di pedoni africani, che sotto il sole raggiungono la città, dopo un’oretta di cammino. Rimangono a Pian del Lago fino alla fine dell’iter della domanda d’asilo. Poi li accompagnano alla stazione del treno. E ognuno prende la sua strada. L’accoglienza in circuiti protetti, ovvero nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), è garantita soltanto ai soggetti vulnerabili: donne incinte, famiglie, ragazze madri. Le ultime quattro donne con bambini sono state inserite in uno Sprar a Catania lunedì scorso. Per gli altri semplicemente non c’è posto. Non è un segreto: lo Sprar conta 3.000 posti letto, di cui 450 per categorie vulnerabili. Il fabbisogno è cinque volte tanto, visto che solo nel 2007 le richieste d’asilo sono state 14.050.
Un mese fa la morte di un ospite a Pian del Lago. Polemiche sulla gestione
Yussuf Abubakr morì un mese fa. Era la notte tra il 29 e il 30 giugno. Il diciannovenne ghanese era ospitato nel centro di accoglienza di Pian del Lago, a Caltanissetta. Dopo forti dolori al petto ricevette una prima visita alle 22.00, da parte dei medici della Cooperativa Albatros 1973, che presidiano il centro 24 ore su 24. Intorno a mezzanotte venne portato in ospedale e lì morì. Ma questa è soltanto la versione ufficiale dei fatti, raccontata a Redattore Sociale dai medici del centro. Il racconto degli ospiti è diverso. Sin dal giorno dopo la morte del ragazzo, i richiedenti asilo del centro denunciarono un’omissione di soccorso, dicendo che Abubakr aveva iniziato a lamentare forti dolori al petto sin dal primo pomeriggio, mentre la prima visita del medico di turno sarebbe stata effettuata alle 22.00. Il cinque luglio, l’eurodeputato Prc Giusto Catania, dopo un’ispezione al centro denunciava: "Il ragazzo due giorni prima di morire era già stato male. Il giorno della morte si è sentito nuovamente male alle 18. Gli hanno dato un farmaco non identificato e alle 19 si è messo a piangere per il dolore chiedendo soccorso". Sei ore prima del ricovero in ospedale e del decesso. Sul corpo del giovane è stata disposta un’autopsia. Entro un mese il risultato sarà noto. Se la versione dei fatti degli immigrati dovesse essere confermata, non sarebbe la prima volta che il centro polifunzionale di Pian del Lago finisce al centro di polemiche per la sua gestione. La notte tra il 31 dicembre 2005 e il primo gennaio 2006, moriva in circostanze misteriose il cittadino tunisino Mehdi Alih, classe 1975. M.A. allora aveva accusato un malessere dopo avere appreso per telefono della morte di un parente. Il personale sanitario del centro di Caltanissetta avrebbe quindi provveduto a sedarlo. Gli stessi sanitari, soltanto dopo una seconda crisi cardiaca, ne disponevano il trasferimento in ospedale, visto l’aggravarsi delle condizioni. M.A. moriva quindi in ambulanza durante il trasporto in ospedale. Nell’ottobre del 2006 inoltre il centro di Pian del Lago era finito al centro di un’inchiesta del giornalista Giovanni Maria Bellu, che dalle pagine del quotidiano Repubblica denunciava un sistema di corruzione per cui mediatori e interpreti del centro prendevano soldi per permettere la fuga degli immigrati nordafricani. Denunce che allora vennero prontamente smentite dai dirigenti della cooperativa Albatros 1973. Due anni dopo, il centro rischia di trovarsi di nuovo nell’occhio del ciclone.
Quelli che al Cpt... ci vogliono andare!
Dormono fuori dal Cpt. Ma non sono scappati. Al contrario: sono in lista d’attesa per entrarci. Succede a Pian del Lago, in provincia di Caltanissetta. Una struttura capace di ospitare a pieno regime 600 persone, di cui 510 nelle sue sezioni dedicate all’accoglienza. Una struttura pensata per i richiedenti asilo sbarcati a Lampedusa, ma che ora deve far fronte anche agli afgani che arrivano qui da mezza Italia, indirizzati - dicono - dal passaparola. Il piazzale di fronte al cancello di ingresso è coperto di cartoni, buste di plastica e stracci. In uno spiazzo poco distante, all’ombra di un albero, tre ragazzi dai tratti asiatici dormono sopra i cartoni, i piedi scalzi, alle tre del pomeriggio. E i resti dei bivacchi sono ancora a terra sotto le piante dell’oliveto a fianco del centro. Un anno fa il centro era un luogo di restrizione della libertà. I richiedenti asilo erano chiusi dietro le gabbie del Centro di identificazione, ospitati dentro container, in attesa della risposta della Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato. E i migranti senza documenti erano detenuti fino a sessanta giorni nel centro di permanenza temporanea (cpt) in attesa del rimpatrio. Oggi per i richiedenti asilo la situazione è totalmente diversa. Dalle 10 alle 21 possono uscire liberamente. E l’accoglienza è garantita loro anche in caso di ricorso contro la decisione della commissione, che viene presentato direttamente dagli assistenti legali della Cooperativa Albatros che gestisce il centro. Così è successo che il passaparola ha portato alle porte di Pian del Lago decine di afgani, arrivati in Italia nascosti sui ferry e le navi cargo partite dalla Grecia e dalla Turchia. A.B. è uno di loro. È afgano, parla hazara. Lavorava come autista per l’esercito inglese, a Helmand. Per raggiungere l’Italia ha pagato 3.500 dollari a un passeur turco perché lo nascondesse su una nave cargo ancorata nel porto di Istanbul e diretta a Gioia Tauro, in Calabria. Nascosti nella stanza dei motori erano in quattro. Lui e tre kurdi. Ogni giorno portavano loro da bere e da mangiare e li accompagnavano alla toilette. Al porto sono arrivati alle diciotto. Verso mezzanotte li hanno fatti uscire dalla nave, nascosti in due macchine, due a due. E li hanno scaricati alla stazione del treno. A. non ricorda il nome della stazione. Sa soltanto che il kurdo con cui viaggiava ha chiesto consiglio a un connazionale. E quello gli ha fatto acquistare due biglietti del treno per Caltanissetta, dicendo loro che per chiedere asilo si doveva passare dal centro. Ha dormito fuori per una settimana. Poi si sono liberati dei posti, e l’11 giugno 208 lo hanno fatto entrare. Stessa storia per A.F., anche lui afgano, arrivato a Bari nascosto su un camion imbarcato a Patrasso, in Grecia. A lui di prendere il treno per Caltanissetta glielo ha consigliato "one black man", un africano, incontrato a Bari, per strada. Né A.B. né A.F. dicono di aver pagato qualcuno per venire qua. Solo il passaparola dicono. Gli ultimi 24 afgani sono entrati lo scorso 25 luglio. Si erano liberati dei posti nel centro di accoglienza e la Prefettura ha disposto che fossero accolti gli afgani fuori dal centro, anche se normalmente la priorità è data agli sbarchi. Fuori dai cancelli altri afgani aspettano il proprio turno. Droghe: Giovanardi; guerra a "smart drugs" vendute sul web
Notiziario Aduc, 1 agosto 2008
Si è svolto ieri mattina, a Palazzo Chigi, presso gli Uffici del Sottosegretario di Stato con delega alla famiglia, alla droga e al servizio civile, Carlo Giovanardi, una visita di cortesia del Generale di Corpo d’Armata Edoardo Esposito, Comandante dei Reparti Speciali della Guardia di Finanza, cui ha partecipato anche il Capo del Dipartimento per le Politiche Antidroga, Giovanni Serpelloni. Nel corso dell’incontro - si legge in una nota - è stata particolarmente apprezzata l’attività che la Guardia di Finanza svolge per il contrasto al traffico di sostanze psicotrope e stupefacenti non solo con i Reparti territoriali ma anche con la componente specialistica del Nucleo Speciale Frodi Telematiche. Al termine, è emerso l’auspicio che le reti telematiche siano sempre più e meglio monitorate anche per contrastare il fenomeno delle cosiddette farmacie on-line così come della distribuzione delle sostanze smart drugs, che pur non essendo droghe in senso legale lo sono spesso sotto il profilo farmacologico. Giovanardi auspica, altresì, un’azione decisa di contrasto della propaganda pubblicitaria attraverso i siti web delle sostanze stupefacenti e delle loro modalità di produzione, coltivazione, somministrazione e vendita. India: per i detenuti italiani un viaggio trasformato in incubo
News Italia Press, 1 agosto 2008
Un viaggio in India finito in incubo. Trovato con 250 grammi di hashish ha subito un mese di carcere e da un anno e mezzo si trova in un albergo di Curro senza la possibilità di tornare in Italia nonostante le gravi condizioni di salute Dopo la vicenda di Angelo Falcone e Simone Nobili, cittadini italiani attualmente detenuti nel carcere di Mandi con l’accusa di possesso di stupefacenti, in attesa di un giudizio dal 10 marzo del 2007, News Italia Press ha raccolto la testimonianza di un’altra vicenda giudiziaria, anch’essa verificatasi in India, ai danni di un cittadino italiano. I.D.B. (utilizziamo le iniziali per espressa richiesta di riservatezza, ndr) ha raccontato di essere stato arrestato "nel dicembre del 2006, in seguito ad una soffiata. Ero diretto a Delhi - ha spiegato - e mi hanno trovato 250 grammi di hashish, un quantitativo non elevato". Il viaggio in India iniziato in settembre si trasforma così in un calvario giudiziario. Trascorre un mese nelle carceri di Mandi, proprio quelle in cui sono detenuti anche Angelo e Simone, finché non paga "8.000 euro di cauzione" e viene liberato. "Il processo in primo grado - ha aggiunto - l’ho vinto, ma non mi è stato restituito il passaporto", perché l’accusa ha fatto ricorso e quindi vi dovrebbe essere una seconda sentenza, la cui data, però, I.D.B. non ha saputo indicare. Da allora è costretto a risiedere in una pensione di un piccolo paese nei pressi di Mandi. Secondo la lettera che Angiolo Marroni, garante dei detenuti del Lazio e coordinatore della Conferenza Nazionale dei garanti dei reclusi, ha inviato all’Ambasciatore italiano in India, Antonio Armellini, la vicenda sarebbe differente: "Condannato in India per uso e detenzione di sostanze stupefacenti, un cittadino italiano di 54 anni di Conegliano Veneto si trova attualmente agli arresti domiciliari in una piccola e fatiscente pensione, in condizioni igieniche precarie che mettono addirittura a repentaglio la sua vita". La permanenza in albergo non sarebbe quindi dovuta al ricorso dell’accusa ed alla mancata restituzione del passaporto, ma alla condanna subita da I.D.B., tramutata in arresti domiciliari dopo il pagamento della cauzione. Al di là di questa divergenza, si devono però sottolineare le gravi condizioni di salute di I.D.B., testimoniate dalla fotografia della giornalista free lance, Maria Grazia Coggiola, recatasi in visita sia dal cinquantaquattrenne di Conegliano Veneto sia da Angelo Falcone. Nella stessa lettera di Marroni si fa presente la sua difficile situazione: "Il caso del signor I.D.B. - si legge - mi è stato segnalato dall’anziano padre, che mi ha chiesto un aiuto dal momento che il signor I.D.B. è gravemente malato. Le sue condizioni si sono aggravate per il decorso della malattia, che già in Italia lo costringeva a sottoporsi a trattamento retro virale, e per l’impossibilità di cure adeguate oltre che per le scarse condizioni igienico-sanitarie del luogo in cui risiede. Le sue condizioni di salute - ha continuato Marroni - sono così delicate che impongono tempestive cure per salvargli la vita. Mi appello quindi alla sua sensibilità affinché, nel rispetto delle leggi e delle procedure, si possa, con un suo intervento a nome del governo Italiano, far si che il signor I.D.B. venga trasferito e curato nel nostro Paese". I.D.B. ha precisato meglio la sua condizione spiegando che ha avuto "un incidente, cadendo in un buco. Mi si è paralizzata la parte sinistra del corpo, anche se ora mi sto riprendendo abbastanza bene". L’intervistato ha aggiunto che "la permanenza in albergo la devo pagare con i miei soldi ed è piuttosto cara. Inoltre ho dovuto trovarmi da solo un assistente senza il quale non so come farei, ma anche questo è stato compito mio, le autorità indiane non mi hanno dato nulla, se non un mese di carcere in condizioni pessime". Per quanto riguarda l’assistenza da parte delle autorità italiane I.D.B. non ha lanciato pesanti accuse limitandosi a riferire che "dall’Ambasciata non ho avuto aiuto perché di fronte alle autorità indiane sono impotenti".
Intervista a Fabio Porta (Pd), neo-relatore per le problematiche legate ai detenuti e agli ostaggi italiani all’estero
In occasione della prima riunione del Comitato per i diritti umani istituito dalla commissione Esteri della Camera dei deputati, News Italia Press ha intervistato Fabio Porta, deputato eletto nella circoscrizione Estero ripartizione America meridionale, a cui è stato affidato il compito di presentare una relazione sui detenuti italiani all’estero: numeri, condizioni e aree di interesse per poi individuare una linea di azione condivisa dal comitato stesso. Il comitato - ha dichiarato Porta - si occuperà anche dei tanti italiani sequestrati in ogni parte del mondo.
On. Porta, oggi si è riunito il Comitato per i Diritti Umani istituito dalla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, e a Lei è stata affidata una relazione, da presentare nei prossimi mesi, sulle problematiche che riguardano i detenuti e gli ostaggi italiani all’estero. Quali saranno le priorità che vorrà affrontare? "I detenuti italiani all’estero per una serie di motivi, finiscono per essere detenuti penalizzati rispetto sia a chi si trova a vivere le stesse situazioni in Italia, ma a volte anche rispetto ad altri detenuti delle carceri di quei paesi dove loro sono trattenuti, spesso anche con situazioni ai limiti del rispetto dei diritti umani. Questo per numerosi motivi, perché in alcuni casi - come succede ad esempio in Brasile - i detenuti stranieri non hanno gli stessi diritti - come ad esempio la riduzione di pena - che sono concessi ai cittadini di quel paese. Spesso avviene in Asia o in Sud America, che nelle carceri non vengano rispettati i criteri d’igiene, il rispetto di quel minimo di privacy che pure il detenuto deve avere, perché per problemi di lingua spesso non riescono a comunicare, e quindi anche a far valere i propri diritti. Il presidente della Commissione ci ha chiesto, a me in particolare, di preparare una relazione che intanto parta da una verifica della situazione: raccogliere i dati per capre quanti sono i detenuti italiani all’estero, dove sono, se possibile sapere anche per quali motivi, per quanto tempo sono stati condannati ecc. Poi, una volta fatto questo censimento, verificare se esistono situazioni particolari e se c’è la possibilità di intervenire per andare incontro a queste situazioni abbastanza complesse".
Per intervenire su alcuni casi particolari, proverete a fare pressione sulle Ambasciate? "Dopo l’intervento del Comitato, quindi del Parlamento - coinvolgeremo anche il Ministero degli Esteri, della Giustizia, i Consolati e le Ambasciate - che poi di solito sono quelle che si interessano direttamente ai problemi -. Vogliamo naturalmente farlo anche in accordo con le associazioni che esistono, che si occupano di questi casi, sapendo poi che ci sono alcune realtà - mi riferisco al Sud America ma anche in Asia - abbastanza critiche. Oltre a questo ci occuperemo anche degli ostaggi, dei sequestrati, un caso che riguarda sempre i nostri connazionali all’estero, ovviamente non in prigione per colpe commesse, ma per altri motivi. È un’altra faccia della medaglia di una situazione abbastanza critica".
L’On. Marco Zacchera (Pdl), ha proposto l’istituzione di un numero verde per le problematiche dei detenuti italiani all’estero, come giudica quest’iniziativa? "Tutte le proposte che vanno incontro anche a una semplificazione dell’accesso all’informazione, che spesso è il primo muro cui si trovano di fronte le famiglie, vanno benissimo. Che sia un numero verde o un altro sistema, l’importante è affrontare il problema".
Come Comitato quindi cosa farete? "Abbiamo deciso innanzitutto di partire da una relazione, il che significa individuare i dati e la situazione, ma anche fare una prima verifica di cosa si può fare, e delle proposte già avanzate che vanno assolutamente analizzate sul caso. Su questi temi non credo che ci saranno problemi di appartenenza politica, ci sarà un interesse anche dai colleghi della maggioranza". Bolivia: una suora a Palmasola, il carcere di Santa Cruz… di Goffredo Palmerini
Italia Estera, 1 agosto 2008
Solo nel 1993 suor Alessandra Carosone, missionaria della Dottrina Cristiana, riuscì a rispondere all’insistente voce interiore che la chiamava in Bolivia, dove già da sette anni alcune sue consorelle operavano. Il desiderio le era scoppiato dentro nel 1985, quando all’Aquila - la città capoluogo d’Abruzzo dove lei è nata - aveva ascoltato dalla voce di padre Remo Prandini l’invito alla Congregazione ad aprire una missione in quel Paese. Vari motivi non le avevano consentito di partire con il primo gruppo in quella terra meravigliosa, dove il salesiano bresciano, in pochi anni d’apostolato aveva seminato in sperduto villaggio nella foresta amazzonica - Hardeman - dignità umana, istruzione, progresso civile e tanta fede, prima della sua tragica scomparsa a soli 44 anni d’età. Testimonianza esemplare ed intensa, quella di padre Remo, che stava man mano cambiando il volto di Hardeman, specie dopo la sua morte, attraverso l’opera delle Missionarie che ne avevano raccolto l’eredità, comprese tante vocazioni del luogo. Altre due missioni, intanto, le religiose avevano aperto nella città di Santa Cruz, dal momento del loro arrivo in Bolivia. Una casa d’accoglienza nel barrio Victoria, ed un’altra opera avviata nel ‘90 in una splendida villa in centro città, già dimora di Georges Suarez, detto "Testa di paglia" per via dei capelli chiari, noto narcotrafficante cruceño a quale era stata sequestrata dopo l’arresto e dalla Prefettura affidata per opere sociali proprio alle Missionarie. In questa struttura madre Alessandra cominciò la sua missione verso poveri ed emarginati. La incontro di domenica, il solo giorno per lei un po’ tranquillo, in questa magnifica villa con parco, piscina e muro di cinta. All’ingresso l’insegna "Hogar Maria Inmaculada". Mentre giriamo nella casa - gli arredi firmati da noti stilisti - rimasta tal quale per precisa consegna d’inventario e dove nulla l’autorità consente di cambiare, madre Alessandra mi racconta come il boss avesse celato le attività criminose con una vita "normale", tenendo persino alcuni cavalli in quell’isola dorata, e come alla polizia non fosse finora riuscito, nonostante le minuziose ricerche, di trovare il "tesoro" del criminale. Ma io non son venuto per ascoltare storie del genere. Voglio invece conoscere la storia di questa religiosa abruzzese, mite all’apparenza, di cui al contrario so già d’una determinazione e d’un vigore eccezionali. "Incominciai il mio lavoro apostolico - mi dice suor Alessandra - in questa città dove i raggi solari ti bruciano la pelle e i 40 gradi del mezzogiorno ti prostrano, togliendoti fame e sonno. Però, in compenso, gli occhi vivi di tanti bambini, la sofferenza di tanti anziani e l’anelito di tante mamme disperate per gli innumerevoli problemi economici e familiari mi facevano dimenticare le avversità della vita". Finché un giorno una insegnante non l’invitò a visitare Palmasola, il carcere di Santa Cruz, per portare conforto alle tante persone castigate prima dalla società e poi da quella vita dannata. "Un’esperienza per me unica - continua suor Alessandra - una realtà inconcepibile, una povertà materiale e spirituale che mette paura. Centinaia di mani tese che chiedevano aiuto, il volto sofferente di tanti bambini che mi afferravano il vestito per avere un gesto d’affetto e tante altre scene mi tolsero il sonno per giorni, facendo dare alla mia vita una svolta inimmaginabile. Prima di quel fatto mai avrei pensato d’esser in grado di vivere una simile esperienza, tutti i giorni. Da quel momento cominciai a rubare un po’ di tempo alle mie giornate per dedicarlo a loro. Un via vai di persone che vedono morire la speranza fu lo sconvolgente impatto nell’entrare nel carcere di Palmasola". La struttura "penitenziaria", se così si può definire, costruita per 500 detenuti, ne ospita quasi quattromila in condizioni disumane. Una volta registrati, entrano in un mondo dove si perdono tutti i diritti. "Mi piace raccontare questa mia esperienza di vita - aggiunge la religiosa - perché la sento come una missione straordinaria. Avvicinarsi a queste persone che desiderano prendere una nuova strada e vederle buttate come stracci vecchi aspettando che la "ingiustizia umana" possa un giorno toccare la loro porta, è una realtà dura da accettare. Un giorno chiesi il perché di tanta tristezza ad un giovane di 25 anni. Mi rispose che erano tre anni che stava in carcere, che ancora non riusciva a svegliarsi da quel sonno eterno. Stava ammanettato e seminudo, in una cella di tenebre. Mi rispose: "Vivo con tre figli e non so che dar loro da mangiare, mia moglie me li ha lasciati come si lascia un sacco di patate e non l’ho più vista". Come ci si può sentire tranquilli - continua la missionaria - entrando in un carcere dove convivono persone innocenti, ladruncoli e criminali, assassini, sequestratori, spacciatori? Dove si vedono camminare liberamente persone con coltelli, punte di ferro e pistole nascoste nella cintura? Dove drogati, alcolizzati, malati di Aids, tossicodipendenti si avvicinano per chiederti quel pizzico d’amore e di comprensione che da anni non ricevono?". Già, perché Palmasola è un carcere particolare, dove trafficanti di droga e criminali danarosi si permettono ogni libertà, dal cibo alla sistemazione in alloggi decenti, con visite giornaliere di familiari ed amici. Mentre i poveri disgraziati vi marciscono senza speranza. Delle drammatiche condizioni all’interno di Palmasola ha lasciato in un libro (El carcel) una lucida testimonianza un italiano, Marco Marino Diodato, che vi è stato detenuto cinque anni e ne ha descritto lo squallore, il degrado e la corruzione che vi regna. Diodato, in Italia ex poliziotto dei corpi speciali e paracadutista, emigrato dall’Abruzzo in Bolivia, divenne ufficiale istruttore dell’esercito boliviano. Ben introdotto nel mondo politico, aveva sposato la nipote dell’ex Presidente boliviano Hugo Banzer Suarez. Arrestato nel ‘99 e condannato a dieci anni per narcotraffico, nel 2004 si diede alla fuga da una clinica dov’era ricoverato per problemi cardiaci, eludendo la stretta sorveglianza. Ma la sua vicenda giudiziaria - che coinvolse persone di spicco della comunità italiana di Santa Cruz - dai contorni politici controversi, un complesso intrigo internazionale, è ancora tutta da chiarire. Dichiaratosi sempre innocente, tale è ritenuto dall’opinione pubblica boliviana che ha seguito il caso passo passo sui mezzi d’informazione. Dunque, tornando al carcere, ancor peggio si stava quando suor Alessandra vi entrò per la prima volta. Ma da quel lontano 1993 qualcosa cominciò ad illuminare la speranza. Dapprima per i bambini che le donne tenevano in cella e che condividevano una drammatica condizione di detenzione. La prima preoccupazione di suor Alessandra fu rivolta subito a loro, chiedendo alle autorità, poi ottenendo e quindi organizzando una scuola materna per i più piccoli, poi la primaria per i più grandi. Accompagnato da madre Alessandra anch’io sono entrato nel carcere di Palmasola. Non ho spazio ora per le mie impressioni, sarà per un’altra occasione, anche per raccontare l’incontro con l’unico detenuto italiano. Negli anni questa tenace missionaria è riuscita, con il credito che si è guadagnato all’interno delle istituzioni boliviane, e grazie agli aiuti giunti dall’Abruzzo e dall’Italia, a mettere in piedi nel carcere di Santa Cruz tutti i cicli di formazione scolastica, fino all’università. Vi studiano i figli dei reclusi, ma anche i detenuti, donne e uomini, coltivando una dignità nuova ed una speranza nel futuro, quando la reclusione avrà termine. Vi insegnano docenti esterni, ma anche - dice suor Alessandra - "detenuti ingegneri, professori e avvocati". Poi, con legittimo orgoglio, aggiunge: "Quest’anno escono i primi 18 laureati in giurisprudenza dalla nostra sezione universitaria, con laurea regolarmente riconosciuta dallo stato". Ma non è ancora tutto. La sua preoccupazione, dopo l’infanzia, fu rivolta alle donne detenute, investendo sul loro desiderio di cambiare, di sperare in un futuro per sé e per i propri figli. Soprattutto pensando per loro a laboratori di mestiere. Nel 1994 le venne in soccorso l’approvazione d’un progetto presentato dalla Congregazione alla Conferenza Episcopale Italiana, finanziato con i fondi dell’8 per mille. Il progetto prevedeva l’acquisto di macchinari ed attrezzature per un laboratorio di sartoria e ricamo. Tuttavia, diversi mesi erano passati dall’approvazione del progetto senza però che i numerosi tentativi di suor Alessandra sulle autorità boliviane portassero a far finanziare e realizzare i locali per il laboratorio, con il rischio di veder perso il contributo della Cei. Fu così che in autunno, andando a La Paz per tenere degli esercizi spirituali, suor Alessandra riuscì in un’incredibile quanto proditoria operazione, nel palazzo presidenziale. Ci vorrebbero molte pagine per descriverla in dettaglio, come me l’ha raccontata. Qui mi limito a riassumerla brevemente, perché non solo illustra l’indomito carattere di questa religiosa, come pure talvolta la fortuna assista gli audaci. Fatto gli è che la suora, con atteggiamento da turista un po’ svagata e digiuna della lingua, fa capire a gesti di voler dare un’occhiata al palazzo presidenziale. Vuoi per l’abito che per l’atteggiamento dimesso, supera il primo livello di sicurezza. Prosegue l’impresa, salendo al piano della residenza presidenziale, dove continua ad alimentare l’equivoco anche alla seconda barriera. Anzi, il servizio di sicurezza la munisce perfino d’un contrassegno di "visitatore" che le consenta di girare nel palazzo. È qui che la religiosa inizia a muoversi con perizia, sgusciando tra i posti di blocco della sicurezza fino ad arrivare alla residenza del Presidente della Repubblica. Vi s’infila, accolta da un’esclamazione. È la voce di Gonzales Sanchez de Losada - Capo di Stato dal 1993 al ‘97 e poi dal 2002 al 2003, Goni per i boliviani - che le chiede: "Madrecita, de donde viene". E la religiosa: "Signor Presidente, sono italiana, vengo da Santa Cruz dove lavoro nel carcere di Palmasola". Ella espone dunque al Presidente la ragione che l’ha condotta fin lì, tutte le difficoltà incontrate con le autorità di Santa Cruz per realizzare i locali per il laboratorio, il rischio di perdere gli aiuti dall’Italia per l’acquisto delle attrezzature. Il Presidente si fa chiamare la Prefettura di Santa Cruz, al telefono si dice sorpreso di quanto sta accadendo per il laboratorio nel carcere. Congeda quindi suor Alessandra, invitandola a recarsi appena possibile agli uffici della Prefettura. Fatto sta che quando lei vi si reca, le porte si spalancano, i sorrisi si sprecano, le soluzioni subito si trovano. In un mese a Palmasola vengono realizzati i locali per il laboratorio, vi vengono montati gli arredi, le macchine da cucire e le altre attrezzature intanto acquistate con i fondi della Cei. A gennaio del ‘95 la struttura s’inaugura. Da allora, molte donne vi si sono formate. Uscite dal carcere, quel mestiere è stato utile per una vita nuova. Anche molti detenuti hanno poi frequentato altre strutture per imparare un mestiere messe su dalla madrecita italiana che nel carcere gode d’una autorità morale indiscussa e di forte credibilità. La sua parola è un’assicurazione. Ormai l’autorità carceraria non fa obiezioni, avendone verificato la concretezza. Certo, Palmasola è sempre un carcere con molti e gravi problemi. Ma in questi anni è tanto cambiato da quell’inferno che suor Alessandra vide nel ‘93 quando vi entrò per la prima volta. Se non altro è tornata ad esistervi la speranza, grazie ad una coraggiosa e sorridente missionaria abruzzese.
|