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Indulto: cifre e leggende di Luigi Manconi e Andrea Boraschi (Associazione A Buon Diritto)
L’Unità, 30 settembre 2007
Le cronache di questi giorni rilanciano la "questione sicurezza". E, con essa, la questione della criminalità. In conclusione, sempre lì si torna a battere: l’indulto. Così che viene da pensare "ah! Quanto sarebbe bello questo paese se l’indulto non ci fosse mai stato. E quanto si vivrebbe meglio...". Certo, il discorso pubblico sulla questione talvolta, grazie al cielo, si fa argomentato e documentato. E non per questo meno approssimativo. Un buon esempio viene dall’articolo di Roberto Perotti pubblicato sul Sole 24 Ore di giovedì. "Ma come è possibile - scrive l’autore - trattare una questione così fondamentale per la vita (letteralmente) di tutti gli italiani in modo così superficiale, per non dire incompetente?". Ce lo chiediamo anche noi, già a leggere l’incipit dell’articolo: "Dopo l’indulto le rapine in banca sono raddoppiate". E la causa è, appunto, quel provvedimento di clemenza. Non è certo nostra intenzione sostenere che, sul fronte della criminalità, tutto vada bene. Non siamo ciechi. Ma è, altresì, nostra intenzione informare sulle dimensioni di un fenomeno - quello criminale, appunto - che va duramente combattuto; ma che non presenta, oggi, nei suoi tratti generali e statistici, i caratteri dell’emergenza. Basterebbe, in tal senso, analizzare i dati dell’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza: nel 2006 gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nei 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne registrano in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, assai lungo e altrettanto sorprendente. Solo per dire: possiamo assumere le rapine in banca a esclusivo e, comunque, dominante indicatore della situazione criminale in Italia? Forse no. Perché, altrimenti, giocando spericolatamente con i dati, potremmo affermare che dopo l’indulto - e, dunque, grazie all’indulto? - in Italia il numero di infanticidi è crollato (come confermano le statistiche criminali). Poi Perotti contesta il significato e l’interpretazione dei dati sulla recidiva forniti dal ministero della Giustizia, secondo i quali "a un anno dal provvedimento la percentuale di recidivi nelle carceri è addirittura scesa, dal 44% (dal 48%, per la verità - NdA) al 42%; e solo il 22% degli indultati è tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio tra tutti i reclusi". Secondo Perotti, si tratterebbe di stime che "non hanno nessun significato, statistico o concettuale". Perché? "L’indulto - sostiene l’autore - abbonava fino a tre anni di pena; dunque il dato veramente interessante lo conosceremo tra due anni, quando sapremo quanti reati sarebbero stati evitati se gli indultati fossero rimasti in carcere". Il ragionamento è interessante ma scivoloso: i detenuti di cui parla Perotti sarebbero comunque usciti: non, in blocco, tre anni dopo; bensì, ognuno in virtù e al ritmo del suo residuo di pena da scontare. Che poteva essere di una settimana, di un mese, di un anno. Fino, appunto, a un massimo di tre. Allora, e infine, quei reati sarebbero comunque stati commessi. Solo, un po’ più in là e un po’ alla volta. O forse Perotti suggerisce che qualche mese o qualche anno in più di galera avrebbe dissuaso quegli stessi soggetti dal tornare a delinquere? Così fosse, il suggerimento è più che discutibile: come dimostra una ricerca condotta da Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Vertova, pubblicata dal Sole 24 Ore nel luglio scorso. Scrive poi Perotti: "Già ora sappiamo che l’indulto ha certamente causato più reati: perché abbia ragione il ministro, ai 6.200 reati accertati commessi finora dagli indultati dovrebbe corrispondere una diminuzione di pari entità di reati commessi da altri soggetti, e questo proprio grazie all’indulto". Ma qualcuno ha mai sostenuto che l’indulto potesse dissuadere la popolazione dal delinquere? O qualcuno ha mai affermato che una parte di quei detenuti liberati non potesse reiterare i reati? Non ci risulta proprio. "Il tasso di recidività tra gli indultati - scrive Perotti - è basso rispetto alla media semplicemente perché si sta confrontando la percentuale degli indultati recidivi entro un anno con la percentuale di reclusi recidivi nell’arco di un’intera vita". Non è così. La media è tarata su un periodo di cinque anni dall’uscita dal carcere; e il primo anno è "fisiologicamente" - così sembrano suggerire le poche statistiche disponibili - quello che fa registrare un tasso di recidiva più alto. Dato confermato anche nel caso in questione: il tasso di recidiva, negli ultimi mesi, si va assestando su valori decrescenti. In tal senso, gli effetti dell’indulto li potremo misurare da qui a cinque anni; al momento possiamo solo ricorrere a proiezioni, in buona misura confortanti. Anche perché quella percentuale (22%) ad oggi include anche il rientro in carcere di chi godeva delle così dette "misure alternative": ovvero di chi stava scontando la sua pena fuori dal perimetro carcerario. Così ancora Perotti: "Per rendersi conto di quanto sia assurdo pensare che l’indulto abbia contribuito a far scendere il tasso di recidività nelle carceri, è facile mostrare come quest’ultimo potrebbe scendere anche se tutti gli indultati fossero incarcerati nuovamente: basta che il tasso di recidività tra i nuovi incarcerati non indultati sia molto basso". Ma di cosa stiamo parlando? Non esiste penalista, giurista, sociologo o politico che abbia mai detto, in stato di sobrietà, che l’indulto dovesse servire a diminuire i tassi di recidiva. Piuttosto, l’indulto è servito a sanare una situazione di gravissima illegalità e (questa sì) di emergenza: 62.000 detenuti stipati in strutture che ne possono accogliere (al massimo) 42.000. Una situazione di palese violazione delle leggi e dei regolamenti penitenziari, tale da determinare condizioni intollerabili per agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale, oltre che per i reclusi. La soluzione che infine Perotti suggerisce (niente condoni, costruiamo più carceri), rispetto all’emergenza di un anno fa, risulta semplicemente impraticabile. Per costruire un carcere e renderlo operativo, dal reperimento dei fondi al progetto, dalla messa in opera alla sua ultimazione, passano, di norma, tra i 10 e i 14 anni. Nel momento in cui l’indulto è stato varato, i tassi di carcerizzazione lasciavano prevedere che nel giro di tre anni, i detenuti, nel nostro paese, avrebbero superato le 80.000 unità. E di lì, poi, sarebbero cresciuti ancora, sino a cifre ancor più abnormi: un disastro. Oggi, invece, siamo ben lontani dai dati pre-indulto e le carceri non sono affatto nuovamente "quelle di prima": quasi 20.000 unità in meno di un anno fa (si consideri che con l’indulto dei ‘90 gli effetti di deflazione furono riassorbiti e annullati in capo a un solo anno). Il punto è che senza la riforma del codice penale e delle leggi che producono carcere non necessario (la "Bossi-Fini" in primo luogo), quello sconto di pena - lo abbiamo scritto per primi - rimane una misura straordinaria, i cui effetti sono destinati a essere progressivamente annullati. Spetta alla politica operare per non vanificare questa occasione. E, a tal proposito, un’ultima noticina: la si smetta di parlare dell’indulto come del parto maligno del genio criminale del governo e del ministro della Giustizia. Quella misura è stata approvata dal Parlamento con una maggioranza superiore all’80%: e con il voto di Forza Italia e dei Ds, dell’Udc e della Margherita, di Prc e di esponenti dell’Italia dei Valori, del Pdci e del capogruppo di Alleanza Nazionale al Senato. E il Capo dello Stato ha pronunciato, su quel provvedimento, parole assai sagge. Promemoria. Indulto: non piacerà, ma i recidivi sono calati di Giorgio Vittadini (Presidente Fondazione per la Sussidiarietà)
Il Giornale, 30 settembre 2007
Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha reso noto che dai 38.847 detenuti dell’agosto 2006 (vale a dire subito dopo il varo dell’indulto), si è arrivati ai 46.118 attuali, mentre la capienza regolamentare complessiva delle carceri è di 43.140 posti. Il coro contro l’indulto è stato largo: dal sociologo à la page, che ha ripetuto le solite ovvietà, come il fatto che un Paese cattolico come il nostro non può che cedere a una cultura del perdono contro la fermezza; a chi ha ricordato l’"inciucio" giudiziario bipartisan; a chi si è semplicemente scagliato contro quella che è sembrata l’ingiustizia del non punire i colpevoli. Peccato si siano dimenticati di ricordare che un anno prima del provvedimento la percentuale dei recidivi si attestava al 48%, mentre un anno dopo è pari al 42%; che, a testimonianza della crisi di efficienza della giustizia, ben due terzi dei detenuti sono in attesa di giudizio e che solo un terzo (17.369) sono definitivi; che, secondo quanto dichiarato dal sottosegretario Manconi, senza indulto ci sarebbero oltre 70mila reclusi. Soprattutto fanno finta di ignorare il vero problema: le carceri nel loro complesso sono sempre più dimenticate. Per quanto riguarda le condizioni di sicurezza (L. 626) e le autorizzazioni sanitarie per ambienti come cucine e lavanderie, le norme, tranne che per alcuni casi, rimangono del tutto disattese; i circa 130 milioni di euro della Cassa delle ammende, a disposizione per progetti di inserimento lavorativo, sono fermi da anni; vi sono sessantamila dipendenti dell’amministrazione penitenziaria (1,5 per detenuto), mentre, per la quasi totalità delle carceri italiane, il personale che lavora dentro al carcere è decisamente insufficiente. In particolare, il recupero umano dei detenuti non interessa quasi a nessuno: a fine luglio su circa 30.000 detenuti usciti dal carcere per effetto dell’indulto ci sono state 158 borse lavoro che hanno portato a 8 assunzioni, mentre lo sviluppo di attività lavorative all’interno del carcere è quasi inesistente: a dicembre 2006 solo 609 detenuti lavoravano veramente all’interno delle carceri italiane. Eppure alcuni dati mostrano come la recidiva scende all’1% nei casi in cui la Costituzione e le normative sull’avviamento al lavoro, prima all’interno del carcere e poi all’esterno, vengono applicate. Nella stessa direzione si colloca un’indagine sulla situazione americana curata dall’Ucla (Università della California, Los Angeles) che mostra come ogni dollaro investito nei programmi di reinserimento ha permesso di risparmiare 2,5 dollari di spesa per le carceri, che arrivano a 4 dollari nel caso di completamento del programma. Occorre perciò, una volta per tutte, sfatare un grave equivoco: il tentativo di attuare il dettato costituzionale che considera la pena come uno strumento per una redenzione umana non si contrappone alla necessità di garantire la sicurezza e di punire i colpevoli. Anche perché a poco può servire l’inasprimento delle pene, se non cresce un serio desiderio di educare e di essere educati a valori e ideali come l’amore per la vita, la gratuità, la pace, il rispetto dell’altro. Sicurezza: Finanziaria; il governo ascolta i bisogni dei cittadini di Paolo Pombeni
Il Messaggero, 30 settembre 2007
Forse questa volta la notte (della Finanziaria) ha davvero portato consiglio. Il premier Prodi ha snocciolato cifre che suonano confortanti per un nuovo impegno in materia di sicurezza: 200 milioni di euro in più per questo settore, 4.500 militari da impegnare in operazioni di controllo del territorio, la promessa di togliere gli agenti dagli impieghi impropri (autisti e quant’altro) per rimetterli a fare il mestiere per cui erano stati reclutati. È un impegno che, come auspicato ieri da Paolo Grandi, consola questo giornale che sulla sicurezza ha fatto una battaglia civile, sicuro che questo è quanto gli chiedevano i cittadini, ma anche quanto ormai viene riconosciuto necessario da tutte le autorità responsabili, dal ministro degli Interni Amato, al prefetto di Roma Mosca, al nuovo capo della polizia Manganelli. "Ridare serenità ai cittadini" sta diventando una parola d’ordine dell’autorità pubblica a tutti i livelli. Non c’è che da compiacersi di questi impegni, sperando che per una volta tutti capiscano che questa non è una politica di destra o di sinistra, ma è semplicemente la risposta al preciso dovere del Paese in questo campo. Perché siamo sempre più convinti che allo Stato e alla sua capacità di controllo effettivo del territorio spetti di garantire il bene primario della sicurezza, senza il quale la convivenza civile viene messa a rischio, in concorso con le amministrazioni delle grandi aree metropolitane, dei Comuni e di tutti i soggetti ai quali compete, a vario titolo, una funzione di ordine pubblico o anche, non meno rilevante, di controllo sociale. Su questo problema è bene evitare di fare del sociologismo spicciolo e delle statistiche emozionali. Inutile dire che ci sono situazioni in cui si sta peggio e che è il male connaturato alle grandi metropoli o ai territori soggetti ai traumi delle migrazioni. Ad un uomo malato non si dice, lasciandolo nella sua situazione, che è statisticamente inevitabile che possa morire e che anche la sua malattia è naturale per cento buone ragioni: si cerca con tutti i mezzi di guarirlo. L’esempio può essere un po’ troppo semplificatore, ma lo troviamo calzante. Ecco allora che l’emergenza della criminalità diffusa va affrontata alla radice e senza mettersi a filosofeggiare sui crimini grandi, piccoli e medi. Si deve sapere, vorremmo scrivere si deve "vedere" che il territorio è tenuto sotto il controllo della forza pubblica (prevenzione e dissuasione) e che chi delinque paga dovendo scontare effettivamente le pene previste (repressione e punizione). Non si tratta di inventarsi cose terribili e drastiche, ma semplicemente di far capire a tutti che non c’è un Paese abbandonato a se stesso dove delinquere comporta pochi rischi, sia perché è difficile che ti prendano, dati i controlli relativi, sia perché una volta presi ci sono mille scorciatoie a disposizione per cavarsela con poco. La ricetta è semplice, ma ha funzionato bene dovunque sia stata applicata con serietà ed impegno. Il problema allora è, come altre volte in questo Paese, quello di far seguire alle parole i fatti e di impedire che i messaggi vengano annebbiati da mille fumose distinzioni. Dunque bisogna rendere operative le parole, sempre nel rispetto dell’aureo principio che la responsabilità penale è personale e che dunque non ci sono presunzioni di colpevolezza verso nessuno, men che meno per ragioni etniche o razziali. Questo bisogna dirlo forte e chiaro ed applicarlo con il massimo rigore, perché consente davvero la credibilità dell’azione preventiva e repressiva, che non correrà mai dietro a dei "predestinati", ma sempre si occuperà di colpire chiunque offenda e violi le leggi di questo Paese. Il governo deve naturalmente sapere che ha preso degli impegni e che sarà tenuto sotto osservazione dalla pubblica opinione circa il loro rispetto. Questo giornale, che dei cittadini e delle loro ragioni vuole essere portavoce e strumento efficace di difesa, non si tirerà certo indietro nell’assolvere questo compito di verifica costante, seguirà passo passo il governo, verificheremo in profondità la concretezza e l’efficacia delle misure assunte. Va però aggiunto che spetta anche al Parlamento difendere gli impegni che l’esecutivo ha preso in questo campo. In vista di una battaglia sulla Finanziaria che vedrà, come è inevitabile, più di un assalto alla diligenza del Tesoro, ci deve essere un vasto e trasversale accordo che... non si spara sul pianista, cioè non si erode quanto stanziato per la sicurezza per coprire altre esigenze (semmai lo si incrementa). Assistenti Sociali Casg: presentato pdl sul "lavoro usurante"
Blog di Solidarietà, 30 settembre 2007
La lettera inviata dal Casg e le tante lettere appello, con centinaia di adesioni, hanno finalmente prodotto la risposta dei parlamentari che hanno presentato il pdl sul lavoro usurante delle professionalità che operano in carcere.
Camera dei Deputati Alla cortese attenzione del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia Cari assistenti sociali, l’idea di predisporre un pdl che si occupi dei reali problemi vissuti da chi opera nel mondo penitenziario, nasce dall’esigenza di ricomprendere nei benefici stabiliti dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 11 agosto 1993 n. 374, tutte le figure professionali che orbitano nel sistema carcerario, ivi compresi gli assistenti sociali. Siamo perfettamente consapevoli che il ruolo attribuito al Servizio Sociale dall’Ordinamento Penitenziario è fondamentale, tanto che le visite effettuate presso le carceri d’Italia e le relative riunioni con i direttori delle stesse, sono state testimonianza lampante di come, nonostante la carenza di organico, gli assistenti sociali lavorino con professionalità ed in situazioni veramente difficili e spesso angoscianti. L’istituzione carceraria è nella realtà sociale un’organizzazione molto complessa, in cui operano diverse figure professionali, le quali meritano complessivamente, a nostro modesto giudizio, lo stesso rispetto e la stessa attenzione. È nostro obiettivo pertanto nel corso dell’iter parlamentare, eseguire diverse audizioni in Commissione, al fine di giungere all’approvazione di un provvedimento esaustivo che qualifichi come usurante, qualunque attività espletata sia all’interno che all’esterno delle carceri ma che siano in stretta correlazione con il mondo penitenziario, come appunto avviene per gli assistenti sociali che assolvono l’imprescindibile funzione di controllo e riabilitativa di cui al 3° comma dell’articolo 27 della Costituzione.
Roma lì, 26 settembre 2007 On. Silvio Crapolicchio Assistenti Sociali Casg: a volte i cattivi pensieri ritornano….
Blog di Solidarietà, 30 settembre 2007
Era il 1997 quando il Casg raccolse 2025 firme tra assistenti sociali, operatori socio sanitari, educatori, operai e professionisti, imprenditori, volontari, docenti universitari e ricercatori, politici e sindacalisti, artisti e poliziotti penitenziari, filosofi e sociologi, scrittori e giornalisti nonché semplici cittadini, contro la creazione di quelli che allora furono denominati "Centri di custodia territoriale" in pratica gli ex Cssa. Anche allora ci fu la mobilitazione delle associazioni professionali degli assistenti sociali, degli ordini regionali, dei sindacali quali la Cgil, ma anche di associazioni del volontariato, quali: il gruppo Abele, la Caritas, il gruppo Exodus, i Coordinamenti carcere e territorio, l’Opera San Fedele, l’Apas e tante altre cooperative sociali impegnate nell’inserimento dei soggetti in esecuzione di pena. Allora, l’Amministrazione Penitenziaria nella persona del Capo del Dap il Consigliere M. Coiro (l’allora Ministro della Giustizia era G.M. Flik), bloccò il progetto e rispose con un comunicato inviato all’associazione Assnas - in cui diceva: "…è cura di quest’Amministrazione valorizzare l’operatività dei Cssa. A seguito della prossima approvazione del progetto di legge c.d. "Simeoni" che prevede l’ampliamento delle misure alternative e lo snellimento delle connesse procedure, è intendimento dell’Amministrazione penitenziaria rafforzare strutturalmente gli uffici di servizio sociale. Allo stato si sta prevedendo un aumento dell’organico degli AA. SS. e un incremento di altre figure di supporto, affinché questi operatori siano posti in condizione di sviluppare pienamente tutte le valenze dei loro compiti istituzionali. Infatti, come è noto, l’attuale assetto ordinamentale demanda all’A.P. la definizione e la realizzazione di una progettualità complessiva, che deve consentire ai Cssa di svolgere precise e qualificate funzioni volte alla promozione di processi di reinserimento sociale dei soggetti loro in carico, in stretta collaborazione con i servizi del territorio e con gli enti locali, all’interno di una metodologia del lavoro fondata sui principi e fondamenti del servizio professionale. Quanto poi alla possibilità di inserire personale di polizia penitenziaria nei Cssa, si sta determinando l’insorgenza di un vivo dibattito culturale (condotta da forze sindacali e associazioni di categoria); di tale dibattito l’A.P. ne prende atto". Vedremo questa volta come andrà a finire! Aversa: una denuncia dall’Opg; "siamo trattati come bestie" di Antonio Mangione
www.internapoli.it, 30 settembre 2007
Nonostante le numerose denunce di varie associazioni che si occupano della tutela delle persone affette da malattie mentali, non accenna ad arrestarsi il dramma che coinvolge oramai da anni l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Anzi, paradossalmente, la situazione non fa altro che peggiorare. Infatti, dopo la scia di polemiche scaturite dai vari decessi che si sono succeduti, nei primi sei mesi di quest’anno, presso la struttura ospedaliera normanna, continua l’incuria verso uno dei più affollati e importanti istituti giudiziari per malati mentali del sud Italia. Reso famoso negli anni ottanta dall’eclatante evasione del capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, che fece piazzare dai suoi fedelissimi una carica di tritolo tale da far saltare il muro di cinta dell’istituto di Aversa, il "Filippo Saporito" oggi ospita al suo interno oltre 350 detenuti-internati, costretti a vivere spesso nell’abbandono e nella sporcizia più totale. La legge Basaglia, che ha abolito i manicomi trasformandoli in centri ospedalieri, ha come scopo primario quello della cura, del recupero e soprattutto del reinserimento sociale di quelle persone che spesso delinquono solo perché vittime di seri problemi psichici. Ma più che recuperati e reinseriti, spesso gli internati dall’Opg non ne escono affatto. Molti, una volta entrati, passano lì il resto della loro vita. Molti, trattate come bestie. Alcuni, se escono, è per finire al cimitero. Alcuni, sani di mente, finiscono con l’ impazzire davvero dopo intere giornate passate con mani e piedi legati 24 ore su 24 ai letti di contenzione. Una testimonianza diretta delle condizioni disumane che si vivono all’interno dell’Opg ci è resa da uno stesso detenuto-internato, Maurizio, che ha inviato al sito www.radiocarcere.com questa toccante lettera, ripresa anche dal quotidiano "Il Riformista": "Trecentocinquanta detenuti malati, sei piccole palazzine per ospitarli e dentro quelle palazzine, celle con cinque, sei, otto brande. E su quelle brande i detenuti malati ammucchiati come bestie, chiusi dentro quelle celle anche per 24 ore al giorno. Sono Maurizio e scrivo a Radio Carcere da una di queste celle. Qui c’è sporcizia, disordine, tutto è vecchio e tutto puzza. Ogni tanto qualcuno di noi viene messo sui letti di contenzione. Lì legato, mani e piedi, stai per giorni e giorni. Legato puoi essere menato, oppure ti fanno potenti siringhe, che quando ti slegano non capisci più chi sei o dove sei. Nelle celle dell’Opg di Aversa c’è gente malata e abbandonata che non si lava da mesi e mesi. Magari li vedi che stanno buttati lì per terra ed è difficile ricordarsi che sono persone. Chi ha un po’ di lucidità si impicca e non sono pochi a farlo anche se non lo fanno sapere fuori. Ogni giorno vedo tanti miei compagni cadere piano piano. Cadere lì dove è più buio". Genova: Marassi, in un anno detenuti sono quasi raddoppiati di Marco Menduni
Secolo XIX, 30 settembre 2007
I numeri parlano chiaro, al di là di ogni differenza di interpretazione. Il carcere di Marassi, la cui popolazione di detenuti era stata più che dimezzata dall’indulto, sta rapidamente tornando al numero originario. Erano 670, sono scesi a 300, sono già 530. E, ammette il direttore della casa circondariale Salvatore Mazzeo, "le nostre stime dicono che, a questo ritmo, a fine anno saremo di nuovo a quota 600". La curva del fenomeno viene letta diversamente. Mazzeo parla di "boom di nuovo ingressi, ma i recidivi sono relativamente pochi". Non è la stessa percezione vissuta da chi, a Marassi, lavora. "In realtà - spiegano gli agenti della polizia penitenziaria - vediamo sempre le stesse facce. E il rientro in cella sta seguendo dinamiche sempre più tumultuose, con un ritmo impressionante". Indice puntato sull’indulto? Più che altro, sulle dinamiche che hanno accompagnato questo provvedimento di clemenza. Così, all’interno delle mura del carcere, se ne parla con Domenico Filippone, segretario nazionale del Siapp, con Cristian Marongiu, vicesegretario regionale dell’Osapp, con Salvatore Coico, segretario locale del Sappe. Sindacalisti ma soprattutto lavoratori. Poliziotti a tutti gli effetti, là dove, quotidianamente, questo lavoro è difficile. Dove bisogna anche essere "un po’ diplomatici, un po’ psicologi, oltre a indossare una divisa". Qual è il quadro? "L’indulto, ideato e realizzato com’è stato fatto, ha rappresentato un’occasione fallita. Ora la situazione è destinata a complicarsi ancora di più. Perché hanno solo aperto le porte del carcere, senza pensare a null’altro". Risultato: chi è uscito da Marassi non ha trovato alcuna alternativa ed è tornato a delinquere. "La complicazione ulteriore è che, ora, queste persone non solo dovranno finire di scontare la pena precedente, perché il provvedimento imponeva di non commette nuovi reati per tre anni almeno, ma hanno nuove condanne sulle spalle". Senza contare l’incremento dei reati nelle città, il lavoro cui sono state costrette le forze dell’ordine per arginare un’ondata "predatoria" con cifre allarmanti, l’aumento dell’insicurezza dei cittadini. Per ritrovarsi, alla fine, ad aver risolto ben poco. D’altronde, era difficile che l’opinione pubblica potesse apprezzare l’indulto in una città in cui, come accade a Genova, negli ultimi quattro anni, le rapine sono cresciute del 23,3 per cento, gli scippi del 93,5, i furti d’auto del 22,7, i furti di moto del 150,6. In tutta la regione un abitante su quattro considera la zona in cui vive "a rischio criminalità". In città la percentuale sale ancora. E adesso? "Adesso è tardi - spiega Filippone - perché l’indulto è stato varato senza tener conto del parere di chi, in carcere, ci vive e conosce le dinamiche. Noi avevamo presentato un progetto, si pensava a un’opera di socializzazione e di lavoro dei detenuti al di fuori del carcere con la possibilità di tornare in cella la sera. Questo per mantenere anche un controllo sociale per chi usciva. Nessuno ci ha dato retta. Hanno aperto le porte e stop. Senza programmazione, senza una rete di supporto. Adesso scontiamo i risultati. E la situazione, secondo le nostre stime e la percezione di chi vive qui, è destinata a peggiorare ulteriormente". Peccato. Marassi era finalmente tornata sotto il numero standard di detenuti, 400. Anche se, ricorda il direttore Mazzeo, "i momenti di grande crisi è arrivato a ospitarne anche 900". Una serie di interventi (la nuova caserma per il personale, il campo di calcio, le attività e i laboratori) raccolgono unanimi pareri positivi. Le difficoltà vengono da fuori. Dal personale che non viene adeguato alle esigenze alle difficoltà logistiche: "Non hanno nemmeno accolto una domanda semplice, come spostare la fermata del bus alla fine delle partite dal piazzale qui davanti. Per la sicurezza, è una situazione allucinante". Poi l’appello: "L’ex sindaco Giuseppe Pericu, in tanti anni, non si è mai fatto vedere qui. Nell’ottobre 2003 il consiglio comunale si riunì in carcere, per discutere dei nostri problemi. Il risultato? Il solito: parole, parole e non è mai successo nulla. Marta Vincenzi sembra ben disposta ad ascoltare con attenzione le istanze di chi lavora in questa città. Per questo ci permettiamo di lanciarle un appello: sindaco, venga a trovarci. La invitiamo a pranzo con noi, magari nella nostra mensa". Monza: apre una biblioteca con libri, cd, dvd, vhs e giornali
Asca, 30 settembre 2007
L’inaugurazione della biblioteca del carcere di Monza si terrà lunedì primo ottobre alle 10.30 alla presenza di Sergio Castelli, direttore dell’Area carceri della Provincia di Milano, del sindaco di Monza e dell’Assessore alla cultura, di rappresentanti del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria e di autorità degli altri comuni che aderiscono al Consorzio bibliotecario della Brianza. La Provincia di Milano e il progetto per la costituzione delle Provincia Monza Brianza hanno promosso l’incontro tra Carcere e Consorzio Bibliotecario e finanziato l’avvio del progetto. La riorganizzazione della Biblioteca interna alla Casa Circondariale di Monza ha comportato la scelta e la catalogazione del materiale disponibile e il suo arricchimento con acquisti mirati di libri in lingua, particolarmente richiesti a causa della presenza crescente di detenuti stranieri, e anche con donazioni dell’Associazione Cuminetti. I servizi forniti da Brianza Biblioteche riguardano la catalogazione, la gestione del prestito interbibliotecario degli oltre 850.000 documenti presenti a catalogo (non solo libri, ma anche cd musicali, vhs, dvd, giornali e riviste), lo sviluppo e la promozione di attività culturali nei comuni, che in buona parte si identificano con la Brianza. Venezia: diciotto politici in carcere... ma per giocare a calcio
Il Gazzettino, 30 settembre 2007
Diciotto politici veneziani in carcere, per la precisione: un senatore, un consigliere regionale, un consigliere provinciale, quindici consiglieri comunali. Di destra e di sinistra. Ma non per aver commesso un reato, piuttosto per giocare a calcio. A entrare nella Casa Lavoro della Giudecca, dove si trova la "Sezione a custodia attenuata", saranno Carlo Pagan, Paolino D’Anna, Claudio Borghello, Fabio Muscardin, Patrizio Berengo, Giuseppe Toso, Giorgio Chinellato, Franco Ferrari, Felice Casson, Giuseppe Caccia, Michele Mognato, Giorgio Reato, Sebastiano Bonzio, Raffaele Speranzon, Alberto Mazzonetto, Danilo Corrà, Andrea Causin e Diego Vianello: questi, infatti, i politici veneziani che hanno accettato a partecipare al torneo quadrangolare "Carcere e Politica in Rete". L’appuntamento è per oggi alla Casa Circondariale Sat alla Giudecca, dove, in occasione della conclusione dei progetti regionali per le attività sportive, educative e ricreative, si terrà un torneo quadrangolare di calcio a 5 promosso dalla Cooperativa Coges e dalla Asd Veneto Sport Uisp. Le due associazioni da anni organizzano negli istituti di pena veneziani attività sportive ed educative a favore della popolazione detenuta. Le squadre che parteciperanno al quadrangolare saranno: una rappresentativa dei detenuti, una rappresentativa della Uisp, una rappresentativa degli operatori sociali e infine una rappresentativa di 18 tra consiglieri del Comune e della Provincia di Venezia e della Regione Veneto. "Questa eccezionale partecipazione politica - recita una nota degli organizzatori - vuole essere una testimonianza di solidarietà e di attenzione alle problematiche della detenzione e dell’integrazione post detentiva. Si spera che con questo evento il mondo politico possa comprendere maggiormente la realtà carceraria veneziana e nel contempo aumentare e potenziare gli sforzi verso coloro che oggi sono detenuti, ma che domani dovranno reinserirsi nella società". Immigrazione: violenze nel Cpt, 5 anni a don Cesare Lodeserto di Stefano Milani
Il Manifesto, 30 settembre 2007
La condanna del tribunale di Lecce per le violenze infette alle immigrate ospiti del centro "Regina Pacis" di San Foca. Minaccia, calunnia, estorsione, sequestro di persona, violenza privata, lesioni, abuso dei mezzi di correzione. Stavolta per don Cesare Lodeserto le accuse sono davvero pesanti. Ma il "sacerdote di frontiera" è uno di scorza dura. Ben voluto e ben protetto dalla sua gente (ha perfino una scorta privata che lo scorazza in lungo e in largo per l’Italia) e poi, nonostante tutto, qualche santo in paradiso continua ad averlo, lui che è arrivato alla terza condanna in due anni ed è ancora a piede libero. L’ultima, giovedì sera, emessa dal giudice per l’udienza preliminare di Lecce, Nicola Laricchia che, dopo quattro ore di camera di consiglio, gli ha inflitto una pena di cinque anni e quattro mesi. I fatti. Don Cesare, che per questo processo ha chiesto il rito abbreviato, venne arrestato nel marzo del 2005 dopo varie denunce mosse da alcune donne straniere del suo centro, il famigerato "Regina Pacis", il Cpt da lui diretto a San Foca, nel leccese, e in seguito chiuso a causa delle violenze perpetrate al suo interno e riconosciute durante i vari processi. In particolare dodici ragazze extracomunitarie lo avevano additato, cinque quelle che secondo il giudice avrebbero effettivamente subito la privazione della libertà. Secondo le accuse, don Cesare le obbligò a lavorare presso la fabbrica di mobili "Soft Style" di Carmiano. Assunte in modo irregolare erano costrette a rimanere in servizio al mobilificio per otto ore al giorno, dal lunedì al venerdì, e ulteriori cinque ore il sabato, per soli 25 euro giornalieri. Se rifiutavano scattava l’intimidazione: nessuna possibilità di uscire dal centro, anche per diverse settimane. E, nel peggiore dei casi, scattavano pure le botte. Insieme al sacerdote è stato condannato anche un suo nipote, Giuseppe Lodeserto (tre anni e due mesi), più due collaboratori, Natalieu Vieni (due anni e otto mesi) e Armando Marra (pena pecuniaria di 30mila euro). La nuova accusa non lo ha sconvolto più di tanto perché don Cesare a tutto questo è abituato. Negli ultimi anni infatti sembra aver frequentato di più le aule giudiziarie che le sedi ecclesiali. Tre le condanne in due anni. La prima il 23 maggio 2005 quando il Tribunale di Lecce lo riconobbe colpevole di simulazione di reato condannandolo ad otto mesi di reclusione, pena che sarà poi sospesa. La seconda due mesi dopo e l’accusa è violenza privata e lesioni (pena di 16 mesi anche questa sospesa) ai danni di otto maghrebini che tentarono la fuga dal suo Cpt. Allora i carabinieri lo andarono ad arrestare a Quistello, un paesino vicino Mantova, mentre era in visita all’altro Cpt da lui diretto, gemello a quello di San Foca. Passò qualche giorno in carcere e, una volta uscito, tornò ai suoi affari. Chiuso il centro in Puglia ha esportato il suo "modello" all’estero, nei paesi dell’Est. Tre nuovi centri sono sorti nel giro dì pochi mesi in Romania, Moldavia e in Ucraina, tutti e tre tuttora funzionanti. Grazie alla ragnatela di conoscenze, ben radicate nel suo territorio, continua ad essere un personaggio di spicco, ben voluto e rispettato dai suoi concittadini. Uno in particolare, l’arcivescovo di Lecce monsignor Cosmo Francesco Ruppi che gli è sempre stato vicino dopo ogni condanna. E così è capitato anche questa volta. "Perché non si può dimenticare - ha detto il monsignore - l’immenso lavoro fatto da don Cesare e dai suoi preziosi collaboratori nell’accoglienza di migliaia e migliaia di profughi e immigrati, come anche per i tanti bambini di strada e per la moltitudine di poveri". Tre condanne in due anni dicono però l’esatto contrario. Droghe: sondaggio Sky; 42% italiani favorevoli a narco-sale
Notiziario Aduc, 30 settembre 2007
La maggioranza degli italiani non è favorevole alle narco-sale, ma c’è una forte percentuale, pari al 42%, che le ritiene invece utili. È quanto emerge da un sondaggio effettuato da Sky Tg 24, dal quale emerge, appunto, che quasi la metà dei votanti, il 42%, è favorevole alle narco-sale, gli spazi dedicati alla somministrazione controllata di droghe a tossicodipendenti mentre il 58% non è d’accordo con questa proposta. Il canale All News attraverso il sito www.skytg24.it e gli sms consente quotidianamente, a chi lo voglia, di dare la propria opinione su una fra le principali notizie del giorno. I sondaggi non hanno alcun valore statistico, in quanto rilevazioni aperte a tutti e non basate su un campione elaborato scientificamente; hanno quindi l’unico scopo di dare la possibilità di esprimersi sui temi di attualità. Droghe: Turco; bene narco-sale, ma decisione spetta a Torino
Notiziario Aduc, 30 settembre 2007
"Non ho competenze in materia. Ho espresso un’opinione. Queste sperimentazioni appartengono alla discrezionalità del Consiglio Comunale di Torino". Così il ministro della Salute Livia Turco ha risposto ai giornalisti che, oggi, a Torino, a margine del convegno "Partito Democratico e salute: pronti al decollo" sollecitavano un ulteriore parere sulla vicenda della "narco-sale" in discussione nel capoluogo piemontese e approvate dallo stesso ministro della Salute nei giorni scorsi. "Ho espresso un’opinione. Credo che sia una forma di intervento per le persone che sono abbandonate, che non ce la fanno. Si tratta di un intervento di riduzione del danno, di salva-vita. Da questo punto di vista non c’entra nulla l’antiproibizionismo. È una forma di intervento sanitario che, ovviamente, non deve essere isolato perché la lotta alla droga richiede una mano fermissima contro tutte le droghe, una forte azione educativa, servizi che funzionino. Dentro questo contesto se si può salvare la vita ad una persona io credo che debba essere fatto. Ma la mia, ripeto, è stata una opinione, perché queste sperimentazioni appartengono alla discrezionalità del consiglio comunale di Torino". Il progetto torinese delle narco-sale, proposta da una mozione di venti consiglieri comunali del centrosinistra, conquista il segretario nazionale dei Socialisti Democratici Italia (Sdi), Enrico Boselli. "È un esperimento interessante, sono favorevole", ha detto oggi a Torino a margine dell’assemblea pubblica "Per un Partito Socialista in Italia come in Europa". "È normale che una simile proposta susciti dibattito. Ma di fronte alla solitudine e al dramma di tanti giovani tossicodipendenti che rischiano di morire per strada è senza dubbio una scelta interessante, da valutare e da sostenere". Droghe: anche a Crema "kit" antidroga gratuiti alle famiglie
Notiziario Aduc, 30 settembre 2007
Ha avuto il via libera della giunta comunale di Crema (Cremona), la campagna di prevenzione della droga voluta dall’assessore alla famiglia Maurizio Borghetti che prevede anche la distribuzione del kit gratuito antidroga ai genitori di ragazzi adolescenti. Per promuovere la battaglia contro gli stupefacenti prestano il loro volto, che campeggerà sui manifesti murali in città, Riccardo e Giacomo Ferri, calciatori di Inter e Torino. Entro un paio di settimane, saranno in distribuzione gratuita nelle farmacie di Crema, assicura Borghetti che è medico ospedaliero, eletto assessore lo scorso giugno nella giunta di centrodestra ed esponente di Alleanza Nazionale. Li potrà ritirare, senza alcuna spesa, chi ha figli tra i 13 e i 17 anni. Il Comune ha già programmato l’acquisto di circa trecento kit: sono strisce reagenti da porre a contatto con saliva, urina o sudore: rivelano l’assunzione recente di stupefacenti. "L’obiettivo resta la prevenzione". I costi della sperimentazione saranno attorno ai cinquemila euro. E intanto, c’è già chi ha chiesto il kit in farmacia. Usa: Corte Suprema solleva dubbi su crudeltà iniezione letale
La Repubblica, 30 settembre 2007
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha fermato l’esecuzione di un condannato in Texas, Carlton Turner di 28 anni, che doveva essere messo a morte per aver ucciso i suoi genitori nel 1998. Il provvedimento è giunto dopo che martedì scorso la stessa Corte ha accettato di esaminare se il metodo dell’esecuzione per iniezione non violi la Costituzione, che proibisce le punizioni "crudeli". L’ordinanza della Corte Suprema darà agli avvocati del condannato il tempo di presentare un ricorso al supremo tribunale del Paese. In precedenza, il governatore dell’Alabama Bob Riley aveva concesso un rinvio di 45 giorni per l’esecuzione di un altro killer per consentire alle autorità carcerarie dell’Alabama di riesaminare le modalità delle esecuzioni tramite iniezione. È la prima volta in oltre un secolo, che la Corte Suprema degli Stati Uniti accetta di pronunciarsi direttamente sulla legittimità costituzionale di un metodo per la pena capitale. Il massimo organo giudiziario americano negli ultimi anni ha messo più volte nel mirino il cocktail di veleni utilizzato in quasi tutti gli stati che prevedono la pena di morte (su 38 stati, solo il Nebraska mantiene come metodo principale la sedia elettrica). Ma si è sempre trattato di sentenze su aspetti tecnici. Stavolta invece i nove giudici di Washington hanno accettato di valutare la richiesta di due detenuti del Kentucky che hanno chiesto alla Corte di stabilire esplicitamente se le iniezioni violano o meno l’Ottavo emendamento alla Costituzione, che vieta punizioni "crudeli e inusuali". Un paio di casi in Florida e in Ohio in cui i detenuti hanno tardato a morire, insieme ad alcuni studi scientifici eseguiti su cadaveri di condannati, hanno sollevato in questi anni dubbi sempre più consistenti sulla possibilità che dietro l’apparente "serenità" della morte chimica si nasconda invece una sofferenza atroce. La Corte Suprema da tempo mandava segnali che indicavano una disponibilità a pronunciarsi in modo chiaro sulle iniezioni. I giudici adesso hanno colto l’opportunità offerta loro da David Barron, un avvocato del Kentucky che assiste due condannati, Ralph Baze e Thomas Clyde Bowling. La data dell’udienza in cui verrà discussa la causa non è stata ancora decisa e una sentenza arriverà solo tra mesi. Ma le basi sono state poste per una decisione storica, che dovrebbe far chiarezza su un terreno controverso. Usa: popolazione carceraria invecchia, i costi sanitari crescono
Apcom, 30 settembre 2007
Il filo spinato che circonda i muri dei penitenziari maschili negli Stati Uniti sembra quasi una barzelletta, considerato il panorama crescente di detenuti in sedia a rotelle o che utilizzano supporti per camminare. Le dure leggi sul crimine passate negli anni ‘80 e ‘90 hanno fatto si che il numero di carcerati in età da pensione sia ormai superiore a quello della crescita della popolazione carceraria. Tutto questo porta ad un incremento dei costi per le cure mediche dei detenuti, un problema soprattutto per gli stati con scarsa liquidità. "Alcuni di loro sono troppo vecchi per alzarsi da letto. Molti moriranno dietro le sbarre. I tribunali hanno stabilito che siamo noi a doverli assistere e lo facciamo. Ma ci costa parecchio", ha detto Alan Adams, direttore dei servizi medici per il dipartimento correzionale dello stato della Georgia. Le statistiche del dipartimento della giustizia americano mostrano che il numero di detenuti nelle prigioni di stato e federali sopra i 55 anni è cresciuto del 33% dal 2000 al 2005, mentre la crescita complessiva è stata del 9 per cento. La tendenza è molto pronunciata negli stati del sud, dove vigono alcune delle leggi sulla criminalità più dure del paese. Le crescenti spese sanitarie sono state un fattore determinante nell’aumento del 10% delle spese dei penitenziari di stato registrata tra il 2005 e il 2006. Il costo stimato annuale per mantenere un detenuto è stimato tra i 18.000 e i 31.000 dollari all’anno e, benché non esiste una statistica che separi i costi in base all’età, è opinione condivisa che questi siano significativamente più alti per i carcerati più anziani Myanmar: sciopero fame di 30 monaci in carcere di Banmaw
Adnkronos, 30 settembre 2007
Oltre 30 monaci detenuti nella prigione di Banmaw a seguito delle proteste contro la giunta militare hanno iniziato uno sciopero della fame. Lo scrive il sito "Mizzima News" vicino all’opposizione in esilio, ricordando che martedì scorso la polizia aveva fatto irruzione in numerosi monasteri della città, arrestando 108 monaci, divisi fra la prigione di Banmaw e le caserme di Momauk e Mansi. "Li trattano in modo molto crudele", ha raccontato un parente di uno dei monaci arrestati.
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