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Giustizia: il tormentone di agosto… sulle "scarcerazioni facili" di Ottavio Amodio (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Potenza) e Alessandro Amodio (Avvocato)
Il Denaro, 27 settembre 2007
Carcerazioni facili, scarcerazioni facili. È stato questo il "tormentone" che ha riempito le pagine dei quotidiani nelle torride giornate di agosto. E come corollario "la certezza della pena", "l’effettività della pena". "Magistrato da bene. Magistrato malvagio... rigoroso, severo: se tu lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati, sottospecie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi della libertà, del progresso, della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vili e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere". Così discorreva Giacomo Leopardi in una delle sue opere meno famose lo Zibaldone. E queste parole sono oggi di estrema attualità ogni volta che i media riferiscono (e amplificano) le notizie intorno a provvedimenti di questo o di quel giudice della Repubblica che arresta o scarcera un cittadino. "Se vi sono partiti ed egli ne favorisce uno, gli uni e gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile o almeno un furbo". Così continua il poeta in un altro punto dell’opera. A leggere i giornali i magistrati o sono faziosi o sono ignavi:non sembra che vi siano alternative. C’è chi ci accusa di essere a rimorchio di parti politiche e c’è chi ci rinfaccia (per avidità o per convenienza) un contegno a dir poco neghittoso o reticente. Tutto ruota intorno al principio del "libero convincimento del giudice". Di un libero convincimento del giudice, agganciato alla motivata e razionale valutazione dei fatti, può palarsi nell’ottica di un sistema attento a configurare le regole di esclusione probatoria ma rispettosa dei confini che delimitano la sfera dell’apprezzamento giudiziale: in quest’area, a sorreggere l’intimo convincimento del giudice può intervenire solo la logica del ragionamento giuridico (logic argomentativa-persuasiva e non meramente dimostrativa), la prova scientifica (collaudata da metodi già sperimentati) e l’esperienza. A ciò si aggiunga l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione delle norme di diritto, elementi che devono connotare immancabilmente l’attività di ogni appartenente all’ordine giudiziario. "Magistrato dabbene, magistrato malvagio": il criterio per distinguerli non può essere certamente quello d affidarsi (come paventava il Leopardi nello Zibaldone) al "sentimento popolare". A questa amara conclusione porta, purtroppo, oggi, la spettacolarizzazione della giustizia. Processi che si fanno in uno studio televisivo e senza contraddittorio in quanto al processo televisivo partecipa solo una parte processuale che offre alla platea televisiva la verità dal suo punto di vista senza che l’altra parte possa dire la sua. Apparizioni strazianti di vittime di reati che sollevano pietà e commozione. Ricostruzioni fantasiose laddove, magari, gli inquirenti brancolano, come si dice, nel buio. Condanne o assoluzioni proclamate a furor di popolo. Giudici buoni o cattivi a seconda che indirizzino i loro provvedimenti nella direzione voluta dalla massa. Oggi le parole d’ordine in tema di esecuzione penale ruotano intorno alla questione "sicurezza" la quale genera, a sua volta, i corollari della "certezza ed effettività della pena" accolti con entusiasmo da una classe politica senza memoria, pronta a rincorrere gli umori e i pregiudizi diffusi invece di darsi il compito, più arduo ma più nobile, di guidarli verso percorsi di civiltà. Si confonde la effettività della pena con il trascorrere del tempo morto in carcere, privo di responsabilità e di contenuti, assurdo e inutile per l’individuo che lo subisce così come per la società che lo impone. Pura perdita di vita. Si tratta di sapere se una pena carceraria senza prospettive, che riproduce il carcere inutile, che fa dimenticare al condannato di essere colpevole o lo induce a percepirsi come vittima, è una pena certa ed effettiva. Mentre è incerta e non effettiva una pena che si esegue con il coinvolgimento del condannato per operare la ricognizione della sua storia, la rilevazione dei suoi problemi, la ricerca e la realizzazione delle sue prospettive. La differenza tra i due tipi di effettività è che quella della pena certa e immodificabile è estremamente semplice e solleva da ogni responsabilità e impegno. Se il detenuto, espiata la pena, non è cambiato pazienza: tornerà a delinquere e ritornerà dentro a consumare altro tempo. La "pena utile" è più difficile e complicata e rende gli operatori (e lo Stato) responsabili di un processo difficile. Il ricorso al tema della "sicurezza" continuamente rivendicato a destra e a sinistra, sembra pulsare la ferma volontà di affermare le responsabilità altrui e di defilarsi dalle proprie: e ciò è tanto più grave da parte di chi ha responsabilità politiche. La società a cui si pensa dovrebbe essere una società educativa che spende i propri danari anche per far fruttare quelli di tutti. Una società che partecipa al dolore delle vittime, si fa carico di esse ma sa che non può ignorare e dimenticare i colpevoli; sa che farsi carico delle vittime è qualcosa di più e diverso e di più responsabile che punire duramente e ciecamente i colpevoli. Invece di rincorrere il tema della "sicurezza" e di accusare i giudici di lassismo di fronte alla criminalità, ci si ricordi che nel nostro ordinamento giuridico esiste la cd. Legge Simeone che, di fatto, impedisce l’esecuzione delle sentenze di condanna per pene inferiori a tre anni. Tutto è rimesso ai Tribunali di Sorveglianza che per la cronica carenza di personale giudiziario e amministrativo non riescono a tener dietro in tempi ragionevoli alla valanga di sentenze di condanna. Ci si ricordi che solo poco più di un anno addietro è stato emanato un amplissimo provvedimento di indulto che ha portato fuori dal carcere oltre ventimila detenuti (condannati anche per reati gravi) e li ha rimessi in libertà senza controllo, senza predisporre strumenti idonei per una doverosa accoglienza fuori dal carcere, aspettando solo che molti rifacciano ritorno in carcere. La finalità generale del carcere consiste (o dovrebbe consistere) nel condurre le persone colpite dalla condanna fuori dall’esperienza del reato per reintegrarle nella società. Uscire dal carcere non significa varcare la soglia del carcere nella direzione che conduce al di là del muro, ma comporta la capacità di lasciarsi alle spalle la scelta dell’illegalità, la mentalità criminale, la condanna silenziosa e perpetua alla recidiva. Nei momenti che precedono il delitto questo viene combattuto da forze e soggetti diversi dal reo. Nel tempo dell’esecuzione il fenomeno criminale continua ad essere oggetto di una battaglia, ma questa battaglia viene combattuta insieme all’autore del reato. Vi è un capovolgimento che non sempre riesce. Realisticamente si parla di sfida, di scommessa, di tendenza. Non sempre la scommessa è vinta: numerose sono le delusioni e costante è la parzialità dei risultati. Ma, in ogni caso, la ricaduta è positiva, è certa, soprattutto in termini di civiltà. La società cresce e migliora se accetta la sfida e riesce a vincere la scommessa. I massimi livelli politici, invece di ribaltarsi addosso le responsabilità, invece di affannarsi a ricercare nella repressione e, quindi, nel carcere la panacea per ogni male, dovrebbero fornire al mondo del carcere una visione futura di compiti ed obiettivi, evitando strategie adattative orientate al paradigma dell’adeguamento alle circostanze. E la comunità civile deve ricordarsi che non vi è ideale più alto di una giustizia che riscatti da ogni istinto di vendetta e da ogni patimento non necessario. Si insegnerà, così, a redimere più che a punire e si trasformerà chi è stato soggetto di violenza non in oggetto di violenza ma in testimone di persuasione. Giustizia: perché Mastella è diventato il capro espiatorio… di Lucia Annunziata
La Stampa, 27 settembre 2007
Mastella prende l’aereo di Stato per andare alla Formula Uno, va in vacanza in barca con famosi e ricchi imprenditori amici, e si fa anche fotografare mentre galleggia sul mare tranquillo, sistema moglie e figli in posti politici, compra una megacasa a costo scontato. Mastella è tutto questo, con in più una caratura, sottile ma non poi tanto. Una caratura che deriva dalla sua attuale posizione politica: è (agli occhi della destra) il padre dell’indulto, nonché (agli occhi della sinistra) l’autore di una richiesta di "punizione" di un giovane giudice che indaga su di lui nonché sul governo di cui è parte. Aggiungiamo la ribalderia delle sue minacce di crisi di governo, in proporzione esattamente rovesciata al peso elettorale del suo partito, e si capisce bene perché Mastella è tutto quello che può essere dato in pasto con gusto all’attuale ondata di antipolitica: il suo esercizio del privilegio senza accortezza, e la sua navigazione a braccio su un crinale di spinto pragmatismo, lo rendono perfetto simbolo di tutto quello che non va nel sistema. Tutte queste ragioni lo rendono però anche perfetto simbolo di qual è la potenziale deriva che la giustissima protesta antipolitica può imboccare: la strada della semplificazione. Dove, puntando il dito sul simbolo più semplice, si permette a molti altri, con uguali responsabilità dentro la nostra società, di rivestire i panni delle vergini. Una plastica rappresentazione di tutto questo si è potuta ammirare l’altra sera in televisione a Ballarò, quando il direttore del Giornale, Belpietro, ha fatto la sua morale al ministro Mastella, con convinzione e coraggio. Lo stesso Belpietro tuttavia, in anni precedenti, non ha applicato la stessa convinzione a un’altra deformazione del sistema da parte della politica, quale il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, leader ben più rilevante (ieri, oggi e domani) di Mastella. Insomma, in un’Italia in cui i salari arretrano, è giusto che il salario e i privilegi dei politici, uomini e donne inviati in Parlamento per rappresentare proprio coloro i cui salari diminuiscono, siano monitorati e ristretti. Ma non vorremmo che le bastonature dei Mastella di tutto il mondo diventassero una sorta di deviazione del traffico. L’Italia è un Paese in cui il 48 per cento circa, cioè quasi la metà, dell’economia è in nero. Quanta illegalità, quanto potere, quanta distanza sociale nutre questa netta divisione del nostro Paese fra chi opera legalmente e chi opera illegalmente? Altro esempio: quante corporazioni in Italia gestiscono con assoluta immobilità il loro potere di controllo di mercato? E quanto contribuisce questo controllo a creare condizioni di lavoro ineguali? Se di privilegi, ingiustizia, incapacità e storture si parla, basta allargare lo sguardo e si vedrà che i favoleggiati 13 mila euro netti al mese dei parlamentari, pur somma importante, impallidiscono rispetto ai guadagni e alle distanze sociali che tale sistema genera ogni giorno. Certo, questo non è un invito a giustificare la politica. Il fatto che, come spesso ripetono ora i politici per difendersi, ci siano tante "caste" non è ovviamente una scusa per i limiti e i vizi della Casta. Basta che ci si ricordi che la politica non è l’unica responsabile, e che la protesta può diventare uno di quei giochi circensi con cui Nerone teneva buona la plebe. Giustizia: basta con le statistiche, servono nuove carceri di Roberto Perotti
Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2007
Dopo l’indulto le rapine in banca sono raddoppiate. Immagino che per il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, questo dato sia parte della "campagna mediatica di rara virulenza e spregiudicatezza, fatta per guadagnarsi gli applausi delle curve" e per accreditare la "faziosa, ingiusta equazione, secondo la quale l’indulto avrebbe significato maggiore criminalità e maggiore delinquenza". Per il ministro e per il sottosegretario Luigi Manconi due dati smentiscono la campagna mediatica: a un anno dal provvedimento la percentuale di recidivi nelle carceri è addirittura scesa, dal 44% al 42%; e solo il 22% degli indultati è tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio tra tutti i reclusi. È bene dirlo con chiarezza, a rischio di passare per un ultras della curva: questi dati non hanno nessun significato, statistico o concettuale, e l’interpretazione del ministro è totalmente destituita di ogni fondamento. Diffondendo un’interpretazione insensata dei dati, il ministro non soltanto ignora (o finge di ignorare) colpevolmente un problema reale, ma ne allontana sempre più l’unica vera soluzione: costruire più carceri. L’indulto abbuonava fino a tre anni di pena; dunque il dato veramente interessante lo conosceremo tra due anni, quando sapremo quanti reati sarebbero stati evitati se gli indultati fossero rimasti in carcere. A quel punto, ognuno potrà dire se il costo sociale dei reati commessi sarà stato superiore o inferiore al beneficio del temporaneo svuotamento delle carceri. Ma contrariamente a quanto dice il ministro, già ora sappiamo che l’indulto ha certamente causato più reati: perché abbia ragione il ministro, ai 6.200 reati accertati commessi finora dagli indultati dovrebbe corrispondere una diminuzione di pari entità di reati commessi da altri soggetti, e questo proprio grazie all’indulto. Il ministro è in grado di suggerire un meccanismo che abbia causato questa straordinaria coincidenza? Il tasso di recidività tra gli indultati è basso rispetto alla media semplicemente perché si sta confrontando la percentuale degli indultati recidivi entro un anno con la percentuale di reclusi recidivi nell’arco di un’intera vita. Oltre al ministro, sono innumerevoli coloro che sono caduti in questa trappola o in qualche sua variante; perfino per il magistrato di Cassazione Luigi Marini i dati di febbraio, con un tasso di recidività del 12% tra gli indultati, facevano giustizia delle "campagne di paura" organizzate da certa stampa "asservita agli interessi politici del momento", considerato che secondo uno studio del 1978 da amnistia e indulto ci si aspetta un tasso di recidività di lungo periodo quasi triplo. Ma come si può confrontare seriamente la percentuale di rientri in carcere dopo sei mesi con la stessa percentuale molti anni dopo il provvedimento? Ecco un indizio: nell’agosto 2007, la percentuale di febbraio era già raddoppiata al 22 per cento. Con questo trend, è molto probabile che tra tre anni il tasso di recidività tra gli indultati sia molto più alto della media. Ma, come abbiamo visto sopra, se anche non lo fosse sarebbe totalmente irrilevante: ciò che contano sono solo i reati commessi dagli indultati durante la vigenza del provvedimento. E per rendersi conto di quanto sia assurdo pensare che l’indulto abbia contribuito a far scendere il tasso di recidività nelle carceri, è facile mostrare come quest’ultimo potrebbe scendere anche se tutti gli indultati fossero incarcerati nuovamente: basta che il tasso di recidività tra i nuovi incarcerati non indultati sia molto basso. Ma come è possibile trattare una questione così fondamentale per la vita (letteralmente) di tutti gli italiani in modo così superficiale, per non dire incompetente? E come è possibile che una interpretazione tanto palesemente assurda venga ripresa così acriticamente dai media? Questa acriticità sembra peraltro smentire l’esistenza di una campagna mediatica denigratoria denunciata dal ministro come fonte di "odio" nei suoi confronti. Il ministro Mastella e lo stesso Presidente Giorgio Napolitano a suo tempo giustificarono il provvedimento con la difficilissima situazione dei detenuti costretti a condizioni spesso inumane in carceri sovraffollate. L’intento era lodevole e ovviamente condivisibile, ma tutti coloro che hanno giustamente a cuore le sorti dei detenuti farebbero bene a prendere atto di un semplice dato, questo sì incontrovertibile. Le carceri italiane sono le più sovraffollate d’Europa nonostante la percentuale della popolazione detenuta sia tra le più basse di tutti i Paesi sviluppati; il motivo del sovraffollamento è dunque un doppio deficit di posti in carcere. L’indulto ha permesso di iniziare lavori di ristrutturazione nelle carceri per aumentarne la capienza di circa 6mila unità. Ma l’Italia ha una carenza così drammatica di posti che necessita di qualcosa di ben diverso: nuove carceri, e molte. Senza di esse e i recenti provvedimenti che allargano i casi di detenzione, e l’intera discussione sul recupero di legalità nelle nostre città, sono destinati a rimanere lettera morta. L’idea di costruire nuove carceri ripugna a gran parte della nostra cultura e non appare in nessun programma politico, perché è considerata reazionaria e punitiva. Ma opporsi a nuove carceri è pura ipocrisia: chi ne va di mezzo sono gli stessi detenuti, e i cittadini più deboli, che sono maggiormente esposti alla criminalità piccola e grande. Giustizia: sciopero della fame per l'abolizione dell'ergastolo di Linda Fineschi
Sette Magazine, 27 settembre 2007
Parte dal 1° dicembre la protesta dei detenuti a vita che chiedono un dibattito serio sulla massima pena. Abolire l’ergastolo o morte. È questo in sintesi il grido disperato, e sicuramente non da tutti condiviso, degli ergastolani italiani, che si leverà forte a partire dal 1° dicembre in diversi carceri del Paese. Parte dal centro di detenzione di Spoleto il provocatorio sciopero della fame - denominata "Mai dire mai" - che vedrà i detenuti a vita rifiutare il cibo ad oltranza con l’obiettivo di stimolare un dibattito pubblico nelle sedi opportune sulla pena più severa prevista dal nostro codice penale: la prigione a vita. Accanto agli ergastolani si schiereranno per solidarietà anche familiari e compagni di carcere che stanno scontando pene minori. Non è la prima volta che i condannati a vita al carcere alzano la voce, suscitando spesso reazioni contrastanti tra la gente comune. Sì, perché, se la pena di morte è una crudeltà largamente condannata dalla cittadinanza italiana, l’ergastolo non suscita la stessa ripugnanza, essendo l’unica sanzione prevista per reati efferati di una crudeltà esemplare. Già all’inizio di giugno qualcosa nelle carceri si era mossa: 310 ergastolani avevano inviato una lettera al Capo dello Stato Giorgio Napolitano per chiedere che la pena del carcere a vita fosse mutato in morte. Una provocazione che aveva lo scopo di far parlare della situazione di questa categoria di detenuti, lanciata all’indomani della presentazione della bozza di riforma del codice penale elaborata da una commissione di esperti giuridici, guidata dall’ex parlamentare Giuliano Pisapia. Era lo scorso 9 giugno quando venne sottoposta all’attenzione del Ministro della Giustizia Clemente Mastella, già bersagliato da tutti i fronti per la concessione dell’indulto, il testo abbozzato della riforma. Tra le modifiche più eclatanti c’era la commutazione dell’ergastolo in una pena massima di 38 anni di carcere. La proposta secondo la Commissione rispondeva ad una visione del carcere ben precisa che vedeva quest’ultimo come strumento di rieducazione e riabilitazione finalizzato al reinserimento nella società, piuttosto che ad una punizione fine a se stessa. Ma se per i reati minori, tale concezione è piuttosto condivisibile, non conquista altrettanto favore se declinata a reati gravi come l’omicidio. La bozza riservava, inoltre, a particolari categorie di condannati, come mafiosi e terroristi, trattamenti differenziati. Le altre novità riguardavano la legittima difesa, applicata solo in caso di difesa della persona e non del patrimonio, come invece aveva sostenuto e ottenuto di inserire nel testo di legge la Lega. Inoltre si suggeriva di ricorrere a verifiche della pena in itinere, dopo un certo numero di anni, mentre si incoraggiava un maggiore ricorso a sanzioni riparatorie e pecuniarie. Nell’accorato appello, gli ergastolani si descrivono come "gente senza futuro, che può solo guardare il tempo che va via e che preferirebbe morire subito piuttosto che morire tutti i giorni". " Pretendiamo che siano rispettate le regole dello Stato di diritto e della democrazia - proclamano nell’appello diffuso dalle carceri -vogliamo il disegni di legge sull’abolizione dell’ergastolo sia discusso in maniera trasparente, mostrando le nostre facce ed il nostro dolore abbiamo deciso, nonostante tutto e tutti, di vivere lottando pur rischiando di morire" Giustizia: ho assistito alla graduale distruzione della legalità di Nicola Marvulli (Magistrato)
www.radiocarcere.com, 27 settembre 2007
Allorquando si è concluso, in forma definitiva, il proprio impegno nell’amministrazione della giustizia, non è difficile ripercorrere, con il prezioso aiuto della memoria, le fasi più importanti di quell’attività e mai nessun bilancio potrà essere più affidabile di quello che si arricchisce della consapevolezza della impossibilità di rivivere le stesse esperienze. Io ho legato il destino della mia vita alla toga e questa, a sua volta, si è incollata sulle mie spalle come la camicia di Nesso: dall’età della ragione ho sempre creduto che rendere giustizia agli uomini non è soltanto un ambizioso e velleitario desiderio che lambisce i confini irrealistici di un sogno, ma è anche e soprattutto una profonda e avvertita necessità, perché laddove si calpesta il diritto e prevale l’arbitrio, trionfano la frode, la violenza, la sopraffazione, e la menzogna si sostituisce alla verità.
La scelta della magistratura
Sin da ragazzo, quando qualcuno mi chiedeva cosa volessi "fare da grande", rispondevo, con rassicurante convinzione, che volevo diventare "un giudice" e quando mi si rimproverava che tale volontà nascondeva un ambizioso desiderio di potere, rispondevo che soltanto se si è umili si può ricercare la verità. Mio padre mi aveva educato al culto della verità e mi aveva fatto capire che la sua ricerca non è compatibile con l’arroganza di chi pretende di potersi sottrarre all’opera paziente, affaticante, di un’accurata ricerca, libera da preconcetti e presunzioni. Orientai i miei studi verso questo obiettivo e preferii la magistratura alla carriera universitaria, benché avessi conseguito, poco dopo la laurea, attraverso l’espletamento di un concorso nazionale, i presupposti per una definitiva sistemazione presso l’Università di Bari. Per questa scelta non fu decisivo il fatto di aver riportato, nelle prove scritte e in quelle orali, il massimo punteggio rispetto a tutti gli altri candidati, ma la profonda soddisfazione di aver realizzato il più grande desiderio della mia vita. Nominato vice-pretore, espletai queste funzioni a Bari e dopo due anni partecipai al concorso per "aggiunto giudiziario", un concorso questo che tendeva a verificare in quale misura la preparazione tecnica contribuiva ad un concreata e corretta applicazione della legge. Anche questo concorso, certamente più difficile del primo, si concluse con lo stesso risultato del primo.
Giudice a Genova
Quindi, dopo una breve permanenza al Tribunale di Bari, fui destinato alla Procura della stessa città, ma dopo breve tempo nel 1961, fui trasferito, per sopravvenute e gravi esigenze di ufficio, a Genova: in questa città per più di diciassette anni ho svolto le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica e qui ho potuto esprimere le mie capacità professionali anche grazie al prezioso ausilio di una guida illuminata che sapeva coniugare la saggezza con l’imparzialità ed il rigore morale: il Dott. Francesco Coco. Lui mi offrì, con molta benevolenza, non solo gratificanti e lusinghieri apprezzamenti, ma soprattutto l’esempio di come la cultura della legalità debba saper ripudiare ogni compromesso; e non fu certamente casuale se, per non aver voluto cedere ad un ricatto, le "Brigate Rosse", dopo una determinata ed abbietta determinazione, lo colpirono alle spalle, secondo quel vile rituale che appartiene solo a chi pratica la cultura dell’arbitrio e della sopraffazione. Il lungo tempo trascorso dalla sua morte non ha dissolto e tanto meno attenuato quel sentimento di profonda gratitudine non solo per quel prezioso bagaglio di esperienze di cui mi ha fatto generoso dono, ma anche per quell’eroico sacrificio che concluse la Sua costante fedeltà alla legge, allo Stato e alle sue Istituzioni. Alla Procura di Genova ben presto mi cementai con indagini e processi particolarmente complessi, tra i quali ricordo, per l’eccezionale impegno richiesto, quello a carico di Giacomo Tubino, per contrabbando e corruzione, quello relativo al sequestro di Giovani Schiaffino, le indagini per l’uccisione del Procuratore della Repubblica di Palermo, Dott. Scaglione, e quelle relative all’uccisione del nipote di Mariano Giuseppe, i tre processi a carico degli autori dei gravi disordini verificatisi a Genova il 5 ottobre 1966, il processo a carico di Faccin Maria Rosa ed altri quattordici imputati, per detenzione e commercio di stupefacenti, nonché quello svoltosi a carico di Lorenzo Bozano per il sequestro e l’uccisione di Milena Setter, e quello a carico di alcuni armatori per il naufragio di una nave-ombra, la "Seagull". È facile immaginare quanto vasta sia stata la mia esperienza professionale presso quell’ufficio di avanguardia, dal 1961 al 1978: ho vissuto momenti felici, rassicuranti, in un periodo nel quale anche la più feroce delinquenza rispettava alcune regole fondamentali, spesso preferendo, di fronte all’impossibilità materiale di contestare la prova della colpevolezza, la confessione al silenzio e questo alla menzogna, quando nessuno osava denigrare la magistratura e quando il culto della legalità giustificava il doveroso rispetto dello Stato e delle sue istituzioni.
L’assalto delle Brigate Rosse
Ma dopo il 1968 il clima cambiò ed i fermenti di libertà nelle loro esasperate manifestazioni finirono per esaltare la ribellione e per giustificare la violenza. E fu allora che al sovvertimento dell’ordine si candidò il terrorismo che a Genova dedicò molta, troppa della sua attenzione. Terrificante è, ancor oggi, per me, il ricordo delle numerose vittime genovesi delle "Brigate Rosse": una lunga interminabile scia di sangue fu sparsa in questa città e accumunò, nel martirio, umili servitori dello Stato ed autorevoli esponenti delle Istituzioni; e fu molto gravoso il mio personale impegno nella ricerca dei colpevoli. Fui tra coloro che, pur in assenza di un’adeguata normativa, intuirono la necessità di uno stretto collegamento non solo con tutte le forze di polizia che si dedicavano a quelle indagini, ma anche e soprattutto con tutte le procure interessate e coinvolte in quel drammatico fenomeno. Per questo nessun attentato sfuggì alla mia attenzione e nei miei frequenti spostamenti a Torino, dove il Generale Dalla Chiesa aveva costituito un reparto formato da eccellenti investigatori, partecipai attivamente alla raccolta di ogni utile informazione per il proficuo sviluppo delle indagini, e fui a fianco del Procuratore Coco nel rifiutare il ricatto proposto dalle "Brigate Rosse" per la liberazione del collega Sossi. E fu proprio in quegli anni che fui testimone e protagonista di un episodio che rientra, a pieno titolo, tra i più felici.
Un caso che ricordo
Nella sua abitazione era stata uccisa, con un colpo di pistola, una prostituta ed era stato tratto in arresto il suo convivente, perché nulla di più logico era sospettare di colui che aveva la disponibilità di quella casa, tanto più che si era accertato che la sera precedente il delitto la donna aveva avuto con lui un violento litigio, per il suo ostinato rifiuto a consegnarli gran parte del denaro, provento della sua attività. Delle indagini se ne occupava un altro collega, convinto assertore della colpevolezza di quell’uomo. Sennonché pochi giorni dopo fui raggiunto in ufficio da una telefonata: era un giovane che, con molto garbo, mi pregava di recarmi sul marciapiede antistante i giardini della piazza antistante la stazione di Genova - Principe, perché doveva farmi delle importanti ed urgenti rivelazioni. Non senza qualche ovvia preoccupazione per la mia incolumità, mi recai all’appuntamento, e, una volta raggiunto il luogo prestabilito, mi si presentò un giovane, mi disse il suo nome ed aggiunse che aveva deciso, dopo una lunga meditazione, di dover salvare un innocente da una prevedibile ma ingiusta condanna. Gli chiesi di spiegarmi meglio e dopo un attimo di esitazione, sbottonatosi la camicia, mi mostrò la canottiera: era sporca di sangue ed alle mie insistenti richieste di chiarimenti, tra le lacrime, confessò di avere ucciso lui quella prostituta. Mi raccontò che era venuto a Genova dalla lontana Trieste per visitare la città e qui aveva conosciuto quella donna, alla quale aveva manifestato il desiderio di compiere con lei la sua prima esperienza sessuale; ma quella donna, dopo avergli rivelato di essere una prostituta di lunga esperienza, lo aveva offeso, rimproverandogli di non essere sufficientemente dotato per esaudire il suo desiderio e, ciononostante, aveva a lui chiesto di essere ugualmente retribuita. Ne era scaturito un litigio: dalle ingiurie si era passati alle minacce e da queste a reciproci atti di violenza, nel corso dei quali si era rovesciato un armadio e da uno dei cassetti era fuoriuscita una pistola calibro 22; lui l’aveva afferrata e quando la donna si era su di lui avventata, aveva esploso quel colpo, quell’unico colpo mortale. Chiesi allora a quel giovane dove avesse nascosto l’arma ed egli esaudì subito questa mia richiesta. Ritrovata la pistola, fu agevole riscontare che non solo il proiettile che aveva ucciso quella donna era stato esploso da quell’arma, ma sulla stessa vi erano le impronte di quel giovane. Quella singolare confessione, resa quando nessun sospetto era stato elevato a suo carico, non solo si caricava di un eccezionale spontaneità, ma aveva salvato un innocente. Apprezzai molto il gesto di quel giovane e seguii il processo a suo carico; più volte, anche durante l’espiazione della pena, andai a visitarlo in carcere, lo convinsi a riprendere gli studi e mi premurai, con la collaborazione della direzione delle carceri, di fargli sostenere gli esami che mancavano al conseguimento della sua laurea. Questo episodio, che ho voluto ricordare, mi ha sempre fatto pensare a tante cose: alla forza del rimorso che può dissolvere ogni residuo istinto di conservazione, ogni naturale resistenza all’accettazione di una pena; al pentimento con tutto il suo bagaglio di solitudine e di disperazione, vissuto attraverso la sofferenza e l’espiazione; al fatto che ad ogni delitto deve seguire il calvario della sofferenza, perché è questa che apre il cuore al rimorso ed al pentimento.
Gli anni della cassazione
Lasciai la Procura quando ormai il terrorismo, dopo l’omicidio del sindacalista Rossa, era sconfitto. Dopo una breve permanenza al Tribunale ed alla Corte d’Appello di Genova, fui chiamato a far parte, nel gennaio del 1984, della Corte di Cassazione. Iniziò così il periodo più felice e più appagante del mio complesso percorso professionale, dapprima come consigliere, poi come Presidente di Sezione ed infine, dall’agosto 2001 all’ottobre 2006, come Primo Presidente della Corte, dopo aver ricoperto per circa due anni l’incarico di Procuratore Generale a Genova. In questo lungo periodo non è difficile immaginare quanto siano stati numerosi i procedimenti penali dei quali mi sono dovuto occupare e non è certamente questa la sede nemmeno per tentare un approssimativo resoconto. Credo che sia soltanto opportuno ricordare, per la prova di assoluta indipendenza offerta dai collegi dei quali ho fatto parte ed ho presieduto, nonché per il gravoso impegno dimostrato, soltanto alcuno di essi: il processo relativo alla strage di Bologna, quello relativo all’uccisione del capitano Basile, quello concernente alcuni episodi di corruzione della Guardia di Finanza di Milano, quelli rispettivamente a carico del Ministro De Lorenzo, del Presidente Carnevale, del Senatore Andreotti, e quello promosso da Berlusconi, Previti ed altri nel tentativo di sottrarre alla competenza dei giudici di Milano il procedimento a loro carico per corruzione. Approdai in Cassazione quando si iniziava a celebrare la fine del codice di procedura penale del 1931, ispirato al rito inquisitorio ed al quale numerosi interventi normativi succedutosi nel tempo, avevano pregiudicato la sua notevole organicità.
L’illusione del nuovo processo
Ero convinto, io tra molti, che un nuovo codice avrebbe eliminato alcuni inconvenienti, alcune contraddizioni e confidavo che una volta introdotto il rito accusatorio, questa conquista di civiltà avrebbe anche arricchito la funzionalità del sistema. Ma la mia e le nostre certezze, mano a mano che le nuove norme si delineavano, cominciarono ad indebolirsi, tanto da tramutarsi in speranze, in auspici, in desideri, ma anche questi svanirono quando fu possibile applicare il codice del 1988. Ci si accorse allora che la funzionalità del sistema era fortemente compromessa e che nessun processo si sarebbe più potuto concludere, al dibattimento, nei tempi nei quali era stato possibile farlo con il sin troppo denigrato "Codice Rocco". Da un temibile ordigno inquisitorio ci eravamo liberati, ma avevamo scelto un vero e proprio labirinto nel quale numerose stravaganze pseudo-garantistiche avevano reso del tutto ingestibile il processo penale. Prova ne sia che dopo l’entrata in vigore di quel codice quasi tutto il contenzioso penale, che impegna la Corte di Cassazione, riguarda l’interpretazione e l’applicazione delle norme processuali. Quando, nel 1995 Franco Corsero avvertiva che quel codice andava rivisitato, perché era diventato "complicato, sovraccarico, verboso", ed esibiva un "legalismo ideologicamente ibrido", esprimeva un benevolo giudizio, se si pensa che a distanza di altri dodici anni i successivi interventi normativi hanno finito per peggiorare la situazione preesistente. E non è certo irrilevante il fatto che ancora oggi, pur dopo le reiterate promesse di riforma, non possiamo che conservare un "primato" in Europa - del quale dobbiamo vergognarci soprattutto se pensiamo come siamo stati poco coerenti con la nostra storia e la nostra civiltà - il "primato dell’eccessiva durata del processo". Se a ciò si aggiunge che le ultime disposizioni hanno finito per dare il colpo di grazia alla certezza della pena e che la riforma dell’ordinamento giudiziario, nata e sviluppatisi alla luce di un tormentato compromesso ideologico ha finito per sacrificare, sull’altare delle convergenze politiche, quello che invece doveva servire per accrescere la funzionalità del sistema, non è certamente pessimistico affermare che mai prima d’ora la crisi dell’amministrazione della giustizia aveva toccato livelli così drammatici e così negativi.
La mia amarezza
Oggi, più di ieri, possiamo ben dire che Schiller aveva ragione nell’affermare che "la giustizia si incontra soltanto a teatro". È per questo che, al termine della mia attività, quando la vecchiaia - questa incurabile ed incensurabile malattia - ha sancito la fine del mio impegno nell’amministrazione della giustizia, il bilancio pur carico di successi professionali, si colora di amarezza profonda, quella di aver dovuto assistere, impotente, alla progressiva distruzione della funzionalità, ed alla compromissione del culto della legalità. Non mi resta che la speranza della vecchiaia, quella di augurare ai giovani tempi migliori, tempi in cui l’amministrazione della giustizia, pur con i suoi ineludibili limiti, ritrovi la capacità di recuperare quell’efficienza che io ho conosciuto e che tutti i giusti invocano, invano, da troppo tempo. Bisogna che tutti si convincano che, se non si ha la volontà e la capacità di far rispettare la legge e se non si vuole o non si sa far sì che ogni violazione sia prontamente ed efficacemente punita, si produce il trionfo dell’arbitrio e questo è l’anima della tirannide. Giustizia: un’intervista al Capo del Dap, Ettore Ferrara di Antonio Di Raimondo
www.poliziapenitenziaria.it, 27 settembre 2007
Se dovesse indicare in estrema sintesi i problemi essenziali con cui si trova a misurarsi il Dipartimento, quali porrebbe in cima ad un’ideale classifica? Il sovraffollamento delle carceri? "In questo momento non abbiamo un problema di sovraffollamento, siamo nei limiti di quella che è la capienza ordinaria dei nostri istituti. Abbiamo però una progressiva crescita delle presenze, che per qualche tempo si è attestata in maniera preoccupante su un ritmo di circa 1.000 detenuti al mese. La qual cosa significa che se non si interverrà sul nostro sistema legislativo, nel giro di un anno, un anno e mezzo, avremo nuovamente problemi di sovraffollamento".
Qual è la sua previsione? "Da questa prospettiva si ricava l’esigenza di interventi strutturali che vadano nella direzione già delineata nel programma del Governo e avallata anche dal Capo dello stato nel suo intervento a Rebibbia: il ricorso alla pena detentiva deve rappresentare la estrema ratio da riservare solo ai casi di effettiva pericolosità sociale. È questa la via per combattere il rischio del sovraffollamento, escludendo la presenza all’interno degli istituti penitenziari di soggetti per i quali non vi è necessità della pena detentiva, mentre risulta efficace il ricorso a sistemi di esecuzione penale esterna".
Quando parla di interventi strutturali mi sembra che non si riferisca al tradizionale problema della costruzione di nuove carceri. Come procede il programma previsto? "Quel programma non si è assolutamente interrotto. Un conto è la prospettiva di evoluzione del nostro sistema, ma, ovviamente noi, come amministratori, dobbiamo parametrarci sul sistema esistente; e il sistema esistente è quello che ci fa intravedere fra un anno o un anno e mezzo condizioni di sovraffollamento che se non saranno adeguatamente e tempestivamente affrontate, potrebbero dar luogo agli inconvenienti con cui ci siamo misurati non più di un anno addietro. Da qui la necessità di ampliare gli spazi di detenzione. Ma a questo riguardo, piuttosto che pensare alla costruzione di nuove strutture penitenziarie che richiedono tempi estremamente lunghi e disponibilità economiche che non ci sono, stiamo operando per recuperare, attraverso ristrutturazioni, i locali rimasti inutilizzati, nonché per ampliare alcuni istituti. Quindi il programma va avanti".
Esiste comunque una problematica legata agli Uffici per l’Esecuzione penale esterna, su cui si è aperto un dibattito anche con le rappresentanze sindacali. Questo discorso rientra in questo ambito? "Rientra pienamente, e infatti ne ho fatto cenno poco fa. Quando noi pensiamo alla sanzione detentiva come estrema ratio, è chiaro che dobbiamo comunque garantire un altro sistema di esecuzione, ed è quello che facciamo pensando allo sviluppo delle misure alternative alla detenzione. Il disegno di legge di riforma del Codice di procedura penale di recente approvato da consiglio dei ministri, ed il disegno di legge di riforma del Codice penale, che è in queste settimane all’attenzione del Consiglio dei Ministri, vanno in questa direzione attraverso la previsione dell’istituto della messa alla prova, che fino ad oggi trovava applicazione soltanto nel processo minorile, nonché con altri tipi di sanzioni alternative al carcere. A questo riguardo, si tratta comunque di costruire un sistema che risponda alle esigenze di sicurezza della società ed è in questa prospettiva, che noi pensiamo di rafforzare i nostri Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna con l’inserimento della polizia penitenziaria che può svolgere attività di controllo sulle misure alternative, che nel sistema attuale dovrebbe essere assolta dalle altre Forze di Polizia, ma che in concreto incontra notevoli difficoltà".
È fiducioso sul fatto che le problematiche sindacali si potranno superare? "Sono certamente fiducioso. La dialettica che si è sviluppata ha interessato la polizia penitenziaria e parte del personale che attualmente opera negli Uepe, ma non c’è un contrasto interno tra le diverse forze sindacali. Credo che alla base ci sia un equivoco sul ruolo e sui compiti della polizia penitenziaria. Noi immaginiamo che la Polizia Penitenziaria debba svolgere un ruolo ed assumere competenze che in nessun modo, vanno a sovrapporsi o a sostituirsi a quelle svolte sino ad oggi dal personale del Servizio Sociale. Anzi, io dico che se oggi possiamo pensare ad un ampliamento, ad una espansione dell’Esecuzione Penale Esterna, è grazie ai buoni risultati che questo segmento dell’Amministrazione ha conseguito. Siamo quindi consapevoli del buon operato di chi ha agito sino ad oggi".
Questo ruolo della polizia penitenziaria negli Uepe presuppone una formazione superiore, un livello di maturità superiore. È un salto di qualità, rispetto ai compiti tradizionali? "Non parlerei di salto di qualità, quanto piuttosto di un’estensione naturale. Ritengo che la legge istitutiva del corpo di polizia penitenziaria prevedesse che questo tipo di competenza, con altre competenze che sono andate nel tempo sviluppandosi. Oggi i tempi sono maturi perché anche questa parte della Legge sia attuata. La cosa importante è che la legge del 1990 ha concepito la Polizia Penitenziaria come Polizia dell’Esecuzione Penale, oggi noi abbiamo un sistema penitenziario che si va sviluppando nella direzione dell’ampliamento dell’Esecuzione Penale Esterna. È giusto quindi che la polizia penitenziaria, per espletare compiutamente la sua funzione, si occupi anche dell’Esecuzione Penale Esterna. Giustizia: curerò la mano al killer; se potessi gliela taglierei di Graziano Cetara e Paolo Crecchi
Secolo XIX, 27 settembre 2007
"Se non fossi legato al giuramento di Ippocrate gli taglierei entrambe le mani. Invece dovrò intervenire per guarirgli quella ferita che s’è procurato nell’omicidio. Anche se sarà difficile trovare nella mia équipe infermieri disposti a farlo con me. Sono quasi tutte donne e mi hanno già fatto sapere che non intendono partecipare all’operazione". È un caso clinico e di coscienza quello che Igor Mario Rossello, primario nel centro di chirurgia della mano dell’ospedale di Savona, è costretto in queste ore ad affrontare. È il caso di Luca Delfino, l’assassino di Maria Antonia Multari, la giovane sgozzata nel centro di Sanremo. Nella foga di quelle quaranta coltellate il killer, che è indagato per l’omicidio di Luciana Biggi avvenuto a Genova un anno prima, si ferì a un tendine della mano sinistra. Ed è per ricucirlo che presto il professor Rossello dovrà operarlo. "Ma io sono obbligato a guarire una mano assassina? E se un giorno la stessa mano dovesse tornare a uccidere, come ha già fatto e senza apparente rimorso, io avrò fatto il mio dovere?". Alla fine il primario si è risposto di sì: "Lo devo alla mia coscienza, al giuramento di Ippocrate, al fatto che lavoro in una struttura pubblica e a questa struttura rispondo. Punto. Però, psicologicamente sarà durissima". La decisione è arrivata al termine di un confronto teso, per certi versi drammatico, all’interno del centro,che è un fiore all’occhiello della sanità ligure e nazionale. Sulle prime, i venticinque paramedici del reparto hanno detto "no, non ce la facciamo". Sono quasi tutte donne. Poi hanno riflettuto, si sono confrontate e si sono allineate: "In corsia faremo come sempre il nostro dovere". In sala operatoria anche. Luca Delfino è già stato all’ospedale San Paolo, qualche giorno fa, inviato dal medico del carcere di Sanremo. La stessa visita ha fatto discutere. Le guardie penitenziarie hanno scortato l’omicida all’interno del reparto "senza preavviso", avverte il professor Rossello: "Il mio assistente è stato costretto a spostare i pazienti in attesa in un altro locale del centro chirurgico. Spero che per la prossima visita, quella in preparazione dell’intervento, abbiano il buon senso di avvisarmi per tempo". Luca Delfino non muove quasi più la mano sinistra. "La mia équipe - sospira Rossello - gli ha riscontrato la lesione di un nervo e di due tendini perché nella foga dell’omicidio il ragazzo sferrava fendenti con la mano destra, e intanto teneva la vittima per la spalla con la mano sinistra. Si è colpito da solo". In due mesi, la ferita è peggiorata: "Sto preparando un’istanza al direttore del carcere perché organizzi visita e intervento chirurgico al più presto - avverte il legale del killer, Riccardo Lamonaca - Delfino è un detenuto sì, accusato di fatti gravissimi, ma come in ogni paese civile ha diritto alle stesse cure di tutte le altre persone". Non sarà un’operazione di routine, al di là della durata che si risolverà in non più di un’ora. Delfino dovrà restare in ospedale parecchi giorni e la convalescenza potrebbe durare anche tre, forse quattro mesi. "Uno dei problemi maggiori è dove metterlo. Bisognerà trovargli una stanzetta tutta per lui. Il piantone lo sorveglierà, di certo nessuno andrà a disturbarlo, - spiega il primario - ma gli altri pazienti lo verranno comunque a sapere. E non sarà semplice convincerli che anche lui, il mostro, ha diritto a essere curato". Il centro di chirurgia della mano è al terzo piano dell’ospedale San Paolo. Dalle finestre si vedono le navi da crociera ancorate in porto. Passa un’infermiera: "La pietà e la carità si riconoscono a tutti. - dice chiedendo l’anonimato - Poi, certo, a una verrebbe voglia di gridargli in faccia qualcosa e andare via. Ma non sarebbe giusto". Quando ha saputo che avrebbe dovuto operarlo, addirittura, il primario si è lasciato andare: "Gliele taglierei tutte e due, le mani...". Poi ha riflettuto. E ha detto no, "no alla giustizia sommaria e all’indignazione popolare. Ci sarà chi dovrà esprimersi sul futuro di quella persona. Il nostro dovere è curarlo. Non è il primo carcerato che ci tocca".Certo un assassino no, non era mai entrato nella sala operatoria che è al primo piano seminterrato. Ci sono tre infermiere e un’ex caposala che parlano a bassa voce, oggi: hai sentito? Hai visto? Prima infermiera: "Quando uno sceglie questa professione sa a cosa va incontro. - ammette la donna, unendosi alle colleghe nella richiesta di non comparire con nome e cognome - Deve curare chiunque. Se no sarebbe troppo facile". Seconda infermiera: "L’obiezione di coscienza è consentita solo per le interruzioni di gravidanza". Terza infermiera: "Dire no, non lo facciamo, è stata soltanto una prima reazione. Noi non diremo mai no a nessuno". Luca Delfino forse è passato davanti a qualcuno, in lista d’attesa, per esigenze di sicurezza. Anche questo può fare storcere il naso. Ma per il centro di chirurgia savonese, tremila interventi l’anno dei quali un terzo di pazienti che arrivano da fuori Liguria, non ci sono alternative. Rossello: "Con me lavorano otto medici. Tutti allievi del professor Renzo Mantero, il nostro direttore scientifico, un mago. Siamo tutta gente che si entusiasma ancora, per un intervento difficile riuscito, e si commuove quando riattacca un dito a un bambino. A me accade ancora adesso che ho 50 anni e 24 di professione. Perché, sapete? La chirurgia della mano è tutta particolare. Si vede qualcosa di fermo, di inceppato, di morto che ritorna a vivere. Poche operazioni come le nostre danno il senso dell’intervento che serve, che guarisce. Certo, guarire una persona che potrebbe un domani ammazzare di nuovo, con le stesse mani... Dio non voglia. Ma io lo opererò". Giustizia: i medici curino… e non si sostituiscano ai giudici di Mauro Barberis (Ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Trieste)
Secolo XIX, 27 settembre 2007
Ecco un bel problema per i prossimi test di accesso alla facoltà di Medicina. Invece di chiedere l’altezza dell’Everest, o il colore del cavallo bianco di Garibaldi, si potrebbe domandare ai candidati: nel caso foste un medico pubblico e l’amministrazione penitenziaria vi mandasse un famoso assassino perché lo operiate alla mano che ha commesso il crimine, come vi comportereste? Il candidato può scegliere fra tre risposte: 1) Operare l’omicida senza batter ciglio. 2) Rifiutarsi di operarlo allegando le ragioni più diverse (problemi di coscienza, sicurezza del reparto, allarme fra i pazienti, e simili). 3) Traccheggiare per un po’ e infine dire che sì, come si fa a rifiutarsi? Il caso non è di fantasia: pare si sia effettivamente verificato al famoso Centro di chirurgia della mano di Savona, fondato dal professor Renzo Mantero e attualmente guidato dal suo allievo prediletto, il professor Igor Rossello. Al Centro si è indirizzata l’amministrazione della giustizia quando ha scoperto, dopo due mesi di detenzione, che l’omicida Luca Delfino, durante il raptus che lo ha portato ad accoltellare l’ex fidanzata con la mano destra, si era reciso un nervo e due tendini della mano sinistra. Un detenuto, anche sospettato del crimine più efferato, ha ovviamente diritto all’assistenza medica e all’integrità fisica, e le strutture pubbliche hanno il dovere di fornirgliele. La risposta giusta, dunque, era la numero 1: operarlo senza batter ciglio. Invece, in prima battuta, sono circolate dichiarazioni ("Non privilegeremo il paziente Delfino in alcun modo, seguirà le liste di attesa; se non avessimo fatto il giuramento di Ippocrate e potessimo seguire la nostra coscienza, gli taglieremmo entrambe le mani, altro che operargliele; le infermiere hanno già fatto sapere che non intendono partecipare all’intervento, e anche per noi medici operarlo è un bel problema") che lasciavano addirittura ipotizzare la risposta numero 2: non operare l’omicida, e non per paura o per non sconvolgere gli altri pazienti, che sarebbero ancora state giustificazioni rispettabili, ma come una sorta di pena accessoria per il crimine, non prevista dal codice penale. Fortunatamente, come doveva avvenire, e non solo in base a quel giuramento di Ippocrate con il quale ogni medico si impegna a "curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza", la vicenda ha preso una piega diversa. Infatti, oltre ai profili morali e deontologici del caso, che avrebbero potuto portare a sanzioni disciplinari da parte dell’Ordine dei medici, i sanitari potevano anche incorrere in responsabilità legali: se non penali (omissione d’atti d’ufficio), almeno disciplinari (nei confronti della struttura pubblica di appartenenza). La soluzione prescelta, alla fine, è stata dunque la numero 3: traccheggiare, mostrare scrupoli di coscienza a curare la mano lorda di sangue, che però disgraziatamente era l’altra, e infine impegnarsi ad adempiere ai propri doveri - morali, deontologici e giuridici - come si sarebbe dovuto fare subito, senza tante storie. La faccenda lascia in bocca un sapore amaro. Il fatto è che in questo Paese le cose andrebbero meglio se ognuno facesse semplicemente il proprio mestiere: se gli industriali e i comici non si mettessero a fare i politici, ad esempio, ma anche se i medici non pretendessero di fare i giudici. Giustizia: G8 Genova; per Perugini c'è una questione morale di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova)
Liberazione, 27 settembre 2007
Caro direttore, ti scrivo sull’onda dell’emozione che provo ogni volta che la cronaca mi costringe a ripensare a come uscii dalla scuola Diaz in una famosa notte di oltre sei anni fa: sanguinante e in stato d’arresto. Da quel giorno mi batto, con tanti altri, per ottenere un risarcimento morale da parte del mio paese. È un obiettivo che mi pare sempre più lontano. Mi hanno riferito oggi dell’interrogatorio in tribunale a Genova di Alessandro Perugini, imputato al processo per i maltrattamenti sui detenuti nella caserma di Bolzaneto. Sembra che abbia risposto di non avere assistito ad alcuna violenza né di avere sentito persone che si lamentavano dentro la caserma. Può anche darsi che sia così, non ho elementi per smentirlo. Ma non è questo il punto: Perugini deve difendersi e la legge gli concede anche il diritto di mentire. Io mi domando un’altra cosa: com’è possibile che un funzionario si presenti in aula, a rispondere di accuse così gravi e infamanti, con un grado più alto di quello ricoperto all’epoca dei fatti? Perugini era vice capo della Digos nel 2001, oggi è vice questore. È stato promosso. E dire che deve rispondere anche di altre accuse, in un procedimento a parte, quello per l’arresto e il pestaggio di un minorenne fermato sulla base di false accuse e picchiato dagli agenti. L’episodio è fra i più noti del G8, per via di una ripresa che mostra il funzionario - in borghese, con una maglietta gialla - mentre colpisce o tenta di colpire (ma cambia qualcosa?) con un calcio in faccia il ragazzino inginocchiato, circondato dagli agenti e con il volto già coperto di sangue. Un coimputato di Perugini ha patteggiato la pena, ‘cavandoselà con diciotto mesi. Diciamo la verità: in un paese che avesse a cuore la custodia della propria Costituzione, tutti i funzionari imputati nei processi scaturiti dal G8 sarebbero stati sospesi, nell’interesse supremo dello stato e delle forze dell’ordine. Da noi no, nonostante abbiamo da oltre un anno un "governo amico". Da noi un ex vice capo della Digos arriva in aula come vice questore, quindi con l’incoraggiamento avuto nel frattempo dai suoi superiori e in definitiva dallo Stato, e dice di non avere notato nulla di strano (Non ho assistito a episodi di violenza e non ho sentito persone che si lamentavano" ha dichiarato ieri al processo per i pestaggi da parte delle forze dell’ordine nella caserma di Bolzaneto durante il G8 ndr ) in quelle due celle dove una ventina di detenuti stavano in piedi con le mani in alto e il volto verso il muro. Racconta di gas urticanti spruzzati sui detenuti e di fermati messi inutilmente in manette e non sembra provare né sdegno né preoccupazione: all’epoca si limitò a mettere un carabiniere di guardia alle grate delle celle e ordinò di togliere i ferri ai detenuti. Mi viene in mente uno dei romanzi di Camilleri, "Il giro di boa", che noi "reduci di Genova" citiamo spesso. In quel libro il commissario Montalbano ascolta alla televisione la notizia del rinvio a giudizio degli agenti implicati nell’irruzione alla Diaz e ha una crisi di coscienza. Pensa di dimettersi. Per trovare un agente di polizia pubblicamente indignato per il G8, dobbiamo tuttora ricorrere a un poliziotto che non esiste... Caro direttore, come sai anche i dirigenti di grado più alto imputati al processo Diaz sono stati promossi. La notte della Diaz erano nel cortile della scuola e li ricordo bene: li osservai mentre passavo in barella. Spiccavano, fra tanti uomini in divisa, per le giacche e le cravatte. Al processo non sono venuti. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, come imputati qualsiasi, e nessuno ai vertici dello stato sembra avere niente da obiettare. Io ne sono amareggiato e ti confesso che sarei curioso di incrociare i loro sguardi. Quando ci incontrammo la prima volta, il 21 luglio 2001, io avevo i piedi in avanti e loro giravano impettiti. Ma solo io e gli altri 92 che erano con me dentro la scuola, siamo usciti a testa alta dalla Diaz. E se davvero ci incontrassimo, non saremmo noi ad abbassare lo sguardo. Ecco perché, caro direttore, i processi di Genova, l’interrogatorio di Perugini e le mancate testimonianze degli altri imputati, sono soprattutto una questione morale. Giustizia: la Cassazione; occupare una casa non è un reato di Francesca Angeli
Il Giornale, 27 settembre 2007
L’occupazione abusiva di una casa popolare non costituisce reato se chi la compie agisce perché spinto da uno stato di reale e grave indigenza. L’occupazione si configura come una sorta di "legittima difesa". La Cassazione emette una sentenza destinata a sollevare un polverone, rimettendo in qualche modo in discussione norme di diritto acquisite anche se con questa decisione non appare sancito il diritto all’occupazione ma solo il diritto, se poveri, a non essere condannati penalmente. La Suprema Corte infatti ha annullato con rinvio la condanna per occupazione abusiva di una casa dello Iacp a una donna di 39 anni, Giuseppa D.A., donna che viveva sola e con figlio minore a carico. Prima il tribunale e poi la Corte d’Appello avevano invece condannato la donna a pagare 600 euro di multa per quell’occupazione abusiva. La donna ha deciso di ricorrere in Cassazione e i giudici della Seconda sezione penale di Piazza Cavour hanno accolto il rilievo della donna. Giuseppa contestava il fatto che non fosse stato tenuto conto delle sue condizioni di indigenza che non le lasciavano "alcuna possibilità di rivolgersi al mercato libero degli alloggi". Ai giudici di Cassazione poi la donna faceva notare che né in primo né in secondo grado era stato preso in considerazione il fatto che aveva agito "in stato di necessità" con riferimento "al diritto all’abitazione e al diritto alla salvaguardia della salute sua e di suo figlio". I giudici della Suprema Corte hanno quindi deciso di tenere conto di questi elementi e hanno ritenuto che il reclamo della donna fosse fondato. "Rientrano nel concetto di danno grave alla persona non solo la lesione della vita o dell’integrità fisica ma anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona: pertanto, rientrano in tale previsione anche quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, tra i quali deve essere ricompreso il diritto all’abitazione in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari della persona". Adesso conclude la Cassazione toccherà ai giudici della Corte d’Appello svolgere una "più attenta e penetrante indagine giudiziaria" per capire se effettivamente lo stato di povertà della donna giustificava l’occupazione. La sentenza comunque non avalla un diritto all’occupazione in caso di necessità, come sottolinea ad esempio Confedilizia. La Corte di Cassazione non ha sancito "nessun particolare principio" dice il presidente della Confedilizia, Corrado Sforza Fogliani, aggiungendo che l’unico concetto stabilito dai giudici è che "lo stato di necessità può essere un’esimente" in casi come questo. E la Cassazione , conclude il presidente, ha rinviato alle corti il caso per la verifica della sussistenza di tale esimente. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 27 settembre 2007
Gianni e Augusto, dalla Casa di Reclusione Rebibbia di Roma "Cara Radio Carcere, pur essendo detenuti siamo iscritti alla facoltà di Giurisprudenza e frequentiamo il corso di laurea triennale in Scienza Giuridiche. Come puoi vedere dal foglio che ti inviamo abbiamo già fatto molti esami, ma ora abbiamo un problema. Abbiamo finito i soldi e non sappiamo come fare per comprarci i libri necessari per superare gli ultimi 5 esami. Inoltre dobbiamo, come tutti, anche pagare le tasse universitarie per l’anno 2007. Abbiamo calcolato che sia per i libri che per le tasse ci servirebbero circa mille euro. Siamo certi che Radio Carcere saprà divulgare la nostra richiesta".
Tony, dal carcere di Livorno "Cara Radio Carcere, seguo con attenzione la vicenda giudiziaria di Don Gelmini, sacerdote impegnato con la sua comunità terapeutica e personaggio pubblico, che è indagato perché accusato di presunti abusi sessuali su ragazzi a lui affidati. Mi fa piacere constatare che nel caso dell’indagine di Don Gelmini, o meglio Gelmini Pietro, sia assolutamente rispettato il principio di presunzione di non colpevolezza. E dalla mia cella, mi fa ancora di più piacere pensare che tale rispetto del principio di non colpevolezza, se pur per reati odiosi, sia garantito anche a tutti quei migliaia di casi che riguardano il signor Qualunque, disoccupato e senza fissa dimora, magari senza documenti e privo di abito talare!".
Dino, dal carcere di Brucoli "Carissimo Riccardo, per quanto riguarda la vita qui nel carcere di Brucoli, sono costretto a dirti che va male. Ci razionano l’acqua della cella, che possiamo usare solo poche volte al giorno, e con il caldo che fa ti assicuro che è una tortura! Le docce sono solo 3 e devono servire 50 detenuti, ed è un calvario andarsi a lavare. Devi sapere che sono circa 16 ani che sto in carcere e ne devo scontare ancora 14. Avevo 23 anni quando ho fatto il reato ora ne ho 38. In questi anni di detenzione ho fatto di tutto per comportarmi bene. Ho studiato, ho lavorato, e la mia condotta è ottima. Ora ho chiesto al magistrato di sorveglianza un permesso premio. Ma lui me lo ha rigettato perché dice che sono pericoloso in base al reato che ho commesso 16 anni fa! E tutta la mia condotta in carcere non conta nulla? Vorrei essere trasferito da qui, vorrei andare in un carcere fuori dalla Sicilia. Ho fatto mille domandine ma non mi hanno mai risposto". Droghe: Torino; raccolta di firme per istituire una narco-sala
Notiziario Aduc, 27 settembre 2007
Raccolta di firme, domani, a Torino, presso la sede universitaria delle facoltà umanistiche, organizzata dai radicali, per chiedere una narco-sala nel capoluogo piemontese. La raccolta firme è promossa da Associazione Radicale Adelaide Aglietta, Forum Droghe e Malega 9 Produzioni. Ogni settimana, fino almeno novembre, vi saranno due postazioni di raccolta firme fisse. "L’inizio della raccolta firme è stato promettente - osservano Domenico Massano, dell’Associazione Aglietta e Giulio Manfredi, esponente radicale - in due tavoli abbiamo raccolto oltre 100 firme, provenienti da cittadini torinesi delle più diverse età ed estrazioni sociali. È la prova che, nonostante campagne di stampa terroristiche, è possibile spiegare a chiunque si fermi al banchetto che la narco-sala è uno strumento socio-sanitario non solamente di riduzione del danno per i cittadini tossicodipendenti ma anche, nello stesso tempo, di riduzione dell’insicurezza, della paura, della violenza, che andrebbe a vantaggio di tutti gli altri abitanti della strada, del quartiere, della città". Portogallo: convegno su pene e misure alternative al carcere
Il Cannocchiale, 27 settembre 2007
Il 24 e 25 settembre si è tenuto a Lisbona un importante seminario "Penas e medidas alternativas à prisao". Tale iniziativa, inserita nel programma della Presidenza portoghese di turno dell’Unione Europea, si è svolta su iniziativa del Ministro della Giustizia del Portogallo Alberto Costa. Il seminario ha avuto l’obbiettivo di favorire lo scambio di esperienze, di idee e di studi, al fine di favorire la diffusione sul territorio europeo di misure alternative al carcere che siano in grado di favorire il reinserimento del condannato e di far diminuire il tasso di recidiva. L’intenzione dell’Unione Europea è di generare meccanismi di facilitazione dell’applicazione delle misure alternative dei cittadini condannati. Il seminario, destinato ai professionisti di tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea, ai sindacati, agli operatori della giustizia e del reinserimento sociale, ha visto la partecipazione di maggiori esperti europei del settore, oltre che delle maggiori autorità portoghesi impegnati nel settore della giustizia e del reinserimento sociale. Il Ministro della Giustizia del Portogallo, intervenendo all’apertura dei lavori ha sottolineato il forte interesse dell’Unione europea per tali tematiche. Il Ministro Alberto Costa ha evidenziato come sia oggi un obbiettivo comune dei Paesi Membri ripensare la strategia europea per l’ottimizzazione del sistema delle misure alternative al carcere. Sempre secondo il Ministro della Giustizia del Portogallo è responsabilità dell’Unione Europea, definire una concreta politica criminale tesa al rispetto della dignità umana, al reinserimento sociale e alla protezione delle vittime. Se si desidera un’Europa capace di nuove risposte, sempre secondo il Ministro Alberto Costa, l’attenzione deve essere concentrata nella ricerca dei meccanismi che permettano di poter affermare l’applicazione di pene efficaci. Si è soffermato inoltre sull’esperienza portoghese in materia di applicazione delle misure alternative e della sempre maggiore applicazione del controllo elettronico e del lavoro di comunità, resasi possibile grazie ad una recente Riforma del settore. Ha inoltre evidenziato l’impegno del Consiglio d’Europa teso a rendere possibile nel futuro un comune trattamento penale - tra i vari Stati Membri - sia rispetto alla pena detentiva che alle misure alternative al carcere.
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