Articoli dai giornali carcerari

 

Selezione di articoli da vari giornali carcerari

 

Solo 3 € al giorno per l’alimentazione dei detenuti (Idee Libere)

Carcere e benefici di legge (Idee Libere)

Poche chiacchiere, l’ergastolo è da abrogare (Nonsolochiacchiere)

Mastella: tradizionale voltafaccia (Nonsolochiacchiere)

Poliziotti e magistrati non sono nemici (Il cielo è di tutti)

Là fuori (L’Alba)

Intervista alla psicologa Paola Lenzetti (L’Alba)

Sogno (L’Alba)

Solo 3 € al giorno per l’alimentazione dei detenuti

di Santo Nicotra

 

Idee Libere

Periodico della Casa di Reclusione "Ranza" di San Gimignano

(Anno IV, numero 32, giugno-luglio 2007)

 

Si parla tanto di solidarietà verso i poveri, gli emarginati, i meno fortunati. E, tuttavia, mai si parla dei carcerati e delle loro condizioni di vita. Nessuno, al di là del ceto di origine, è più povero e sfortunato di chi si consuma in galera, magari in custodia cautelare - e sono tanti - in attesa di un giudizio, che molto spesso assolverà perché, "il fatto non sussiste" o perché, in luogo di prove sussistevano soltanto vaghi indizi e parecchie deduzioni "logiche", nello stato di "cattività", vale a dire con la privazione del massimo bene che è la libertà, il cibo assume un ruolo fondamentale, sia per la salute fisica, sia per quella mentale.

Il tempo come per chi sia costretto in un letto d’ospedale non si misura più con le ore ma con gli agognati appuntamenti con la colazione, il pranzo e la cena, rituali in vario modo consolatori e liberatori. Il mangiare, in certe situazioni, produce una felice amnesia, una pausa della sofferenza, un attimo di tranquillità, quasi come una risanante terapia psicologica. Ebbene, tempo fo è uscito fuori dal Ministero che la spesa giornaliera sostenuta dallo Stato per il vitto di un detenuto ammonta, per tutti e tre i pasti, a 3 € e più Iva.

A fronte di tale miseria, pari grosso modo a un chilo di pane e a una bottiglia di acqua minerale, v’è il costo complessivo di quasi 400 € al giorno per detenuto: qualcuno dovrà spiegare come mai una cella in coabitazione venga a costare alla collettività più di una albergo a 3/4 stelle. In attesa di spiegazioni, resta la vergogna dei 3 € per colazione-pranzo-cena, una somma che la dice lunga sulle condizioni della popolazione carceraria e sulla "umanità" dei governanti.

A soffrire, naturalmente, sono sempre i più poveri tra i poveri, perché chi possiede del denaro può farsi acquistare un po’ di companatico, mentre chi non ha nulla deve sottostare alla situazione e covare nuovo rancore. Altro che recupero del deviante! Il Ministero della Giustizia dovrebbe fare subito qualcosa. Per ora, l’unica iniziativa ministeriale che è stata presa è stata di tagliare il capitolo spettante al settore carceri, tagliando nella nuova finanziaria 52 milioni di euro mettendo in crisi tutto il sistema carceri italiane.

Di conseguenza l’Amministrazione Penitenziaria taglia i pochi posti di lavoro disponibili per far sì che qualche detenuto possa lavorare, facendo quel percorso che è scritto nell’ordinamento penitenziario che è il recupero è il reinserimento sociale.

Questi non sono dei buoni segnali che manda lo Stato per il recupero dei detenuti, perché se i detenuti sono un problema o sono uno spreco per la società civile, allora perché tagliare il budget destinato alle carceri italiane? Se si parla di recupero, di reinserimento, ma se questo recupero o reinserimento non avvengono all’interno delle strutture carcerarie, come si possono fare dei tagli proprio in questo settore che è delicato, mentre ci sentiamo dire che il detenuto va seguito e va aiutato e recuperato? Ma se tolgono i fondi per i prodotti, per le forniture, per l’igiene e la pulizia personale e se si tagliano i posti di lavoro, come si può parlare di recupero?

I nostri politici forse non hanno chiara la situazione che esiste nelle carceri, che è insostenibile e che il malumore non è soltanto per i detenuti ma è anche da parte della Polizia Penitenziaria, perché deve fare fronte, con difficoltà, con gli stanziamenti fatti dal ministero. Qualche mese fa è venuto a trovarci un deputato de L’Ulivo e ha visto in che condizioni viviamo noi all’interno delle carceri e che non è come si dice sempre nei vari talk show in base ai quali siamo un hotel a cinque stelle.

Questi signori parlano così perché non conoscono la realtà carceraria e prima di sparare a zero su questi argomenti delicati farebbero meglio a conoscere la realtà di cui parlano o informarsi da chi in questi posti ci lavora e purtroppo ci vive. Questi tagli non riguardano solo il vitto, ma anche il settore sanitario e quindi non solo i posti di lavoro o il vitto giornaliero o i prodotti per l’igiene e la pulizia, ma vanno a toccare anche il settore sanitario che già era carente di suo, figuriamoci ora.

Lo sciopero, indetto dai sanitari proprio per evidenziare questi problemi per la carenza di fondi che vanno a toccare questo settore così delicato, sembra rientrato in base a certe promesse. Ma vedremo se saranno mantenute.

Mi auguro che in futuro queste scelte così nette in settori delicati come il sistema carcerario siano studiate meglio, perché anziché tagliare bisogna investire se si vogliono avere dei risultati positivi nei confronti di un mondo che ha già tante sofferenze senza che ne vengano imposte altre.

Carcere e benefici di legge

La discrezionalità nelle decisioni del magistrato di sorveglianza

di Maria Letizia Venturini (Magistrato di Sorveglianza di Siena)

 

Idee libere

Periodico di informazione e cultura della Casa di reclusione "Ranza" di San Gimignano

(Anno IV, numero 33, agosto-settembre 2007)

 

La magistratura di sorveglianza, come ogni organo giudicante, è demandata a decidere secondo criteri prefissati dal legislatore, che ha fissato regole da rispettare e principi cui ispirarsi nei casi non precisamente previsti dalla normativa. La legge fissa pertanto le soglie, in termini temporali, di accesso ai cosiddetti "benefici" penitenziari, i limiti, i divieti di concessione.

 

Ugualmente nella legge ed in particolare nella Costituzione, si rinvengono i principi ispiratori del sistema, cui attenersi nell’interpretare e nell’applicare le norme. Pertanto, ci sono regole fissate dalla legge, cui il giudice deve attenersi nella decisione, pena il vizio di legittimità del provvedimento.

La legge però non disciplina e non prevede particolari dettagli nel "nostro"settore, quello dell’esecuzione della pena, che, più di altri, si caratterizza per un ampio ambito di discrezionalità lasciato al giudice. La legge sull’esecuzione della pena fissa innanzitutto i tempi di accesso ai benefici, determina specifiche esclusioni in ragione di titoli di reato o, recentemente, di categorie di condannati (i "recidivi reiterati"), impone in alcuni casi al giudice di acquisire pareri o informazioni da altre autorità (Direttore del carcere, Pubblico Ministero, Polizia eccetera), ma l’ambito di scelta della soluzione affidato al giudice è vasto. La discrezionalità del Magistrato di Sorveglianza è senz’altro ampia. Ed è ampia proprio in quanto la legge non assegna particolari e specifici vincoli, oltre a quelli sopra menzionati.

Raggiunti i termini di ammissibilità all’accesso ad un determinato "beneficio" penitenziario e superati i divieti di legge, il condannato aspira pertanto ad ottenere quel "beneficio", a volte anche in termini, errati, di pretesa, di diritto o "quasi diritto", non cogliendo sovente il senso di quella "discrezionalità", a volte ritenuta quasi un arbitrio o magari anche solo non compresa. Tale discrezionalità è assolutamente connaturata al sistema, che impone al Magistrato di Sorveglianza di valutare innanzitutto persone e non fatti, o meglio, persone che hanno commesso certi fatti, magari molti anni prima. Nella mia valutazione parto pertanto dai fatti commessi, per cui vi è stata condanna, ma decido sulla base dell’analisi della persona di oggi. Mi piace ricordare una distinzione spesso presentata da Alessandro Margara, che pone la differenza tra il fatto, cioè il reato, che è come una fotografia, scattata, immutevole e la persona, cioè il condannato, che proprio perché persona, muta, come un film, che si svolge su una trama, con un percorso. Il pensiero che sta alla base della legge Gozzini, cioè dell’Ordinamento penitenziario, è proprio che l’uomo possa e anzi debba cambiare verso il meglio, che debba evolvere, migliorarsi.

Tale idea è una conquista di grande civiltà e assolutamente degna di uno Stato civile, moderno e evoluto, che non sopprime, né isola definitivamente il diverso, il colpevole, l’asociale, ma cerca di reintegrarlo, di reinserirlo, rieducato, nella società. Dovendo valutare in primis la persona, è pertanto comprensibile che la legge non possa fornire regole assolutamente predefinite, data la mutevolezza ontologica dell’essere umano nelle tante sfaccettature ed evoluzioni possibili.

Pertanto il legislatore ha attribuito al giudice la discrezionalità nel decidere, intesa come potere di prendere una decisione piuttosto che un’altra, nel rispetto delle regole e principi prefissati. Il limite di tale discrezionalità e la garanzia fornita alla persona giudicata sta nella motivazione.

La motivazione del provvedimento è quindi espressione del ragionamento condotto dal giudice ed è il suo stesso limite, il mezzo attraverso cui controllare il ragionamento e quindi la decisione del giudice e pertanto la garanzia per l’interessato e per la collettività. Leggendo la motivazione si capisce la ragione del provvedimento, lo si può attaccare, cioè "impugnare" e comunque criticare o magari condividere.

Il rispetto dei criteri di legge, la legalità del provvedimento, deve solo essere dichiarata e potrà essere riscontrata con relativa facilità; le ragioni definitive della scelta, quelle sciolte da vincoli stretti di legge, devono essere ben spiegate e chiarite nella motivazione, che consente il controllo della discrezionalità del giudice.

Tale riconosciuta discrezionalità, controllabile leggendo la motivazione, è fulcro e carattere peculiare soprattutto della funzione del Magistrato di Sorveglianza.

E proprio perché sussiste l’obbligo di motivare, tale discrezionalità non è arbitrio e proprio perché sussiste tale connaturata discrezionalità non è né automatico, né scontato l’accesso ai cosiddetti "benefici". Magari un’altra volta scriverò perché non mi piace utilizzare il termine "benefici".

Poche chiacchiere, l’ergastolo è da abrogare

di Domenico Papalia (Casa di reclusione di Carinola)

 

Nonsolochiacchiere

(Anno IX, numero 3, luglio 2007)

 

Le forze democratiche più volte si sono interrogate se l’ergastolo è compatibile con i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione, e la risposta è stata sempre la stessa, cioè che si è in profondo e radicale contrasto con i suoi principi e in particolare, con quanto stabilito dall’articolo 27 in tema di finalità rieducative della pena.

Purtroppo, le varie proposte di abrogazione non hanno mai superato l’esame dei due rami del Parlamento. Nel 1998 il Senato l’approvò, ma poi si arenò alla Camera, nonostante in precedenza una mozione parlamentare, passata a maggioranza, avesse impegnato il governo in tal senso. Da allora è avanzata sempre di più la cultura forcaiola.

Chi pensa che l’ergastolo o la pena di morte possano servire come deterrente sbaglia. Chi va a commettere un crimine lo fa convinto di non essere scoperto, altrimenti si asterrebbe dal farlo, e ciò anche se rischiasse un solo giorno di carcere. Al contrario, può diventare pericoloso perché rischiando l’ergastolo non si esiterebbe di eliminare eventuali testimoni.

L’ergastolo è una pena terrificante, ancora peggiore della pena capitale. Con l’ergastolo si muore per ogni attimo della giornata ed ogni istante della notte, oltre ad essere una sofferenza perpetua per i familiari dello stesso ergastolano. Mentre con la pena di morte la sofferenza finisce prima, ma con ciò non ammetto la pena di morte, perché uno Stato che la attua si mette allo stesso livello ed ancora con più feroce premeditazione di un criminale.

Come è stato ricordato nella lettera inviata da molti ergastolani al Presidente della Repubblica, Luigi Settembrini sosteneva: "La pena può essere dura, può essere lunga, ma deve avere un fine ed una speranza. Sta scritto che Dio vuole la penitenza; ma non la distruzione del peccatore".

Con il sistema punitivo attuale, il 90% degli ergastolani finirà i suoi giorni in carcere, che equivale alla pena di morte. Tale pena, esemplare quanto infamante, disumana quanto premoderna, fa apparire il nostro Paese quale Stato d’inciviltà giuridica non indifferente, visto che in quasi tutti gli Stati europei l’ergastolo è stato abolito e dove vige ha un termine perentorio per i benefici dopo aver scontato un certo tetto di pena.

Per capire la crudeltà della pena dell’ergastolo, basta considerare come il Codice penale francese del 28 settembre 1791, pur prevedendo la pena di morte, avesse abolito l’ergastolo, ritenuto molto più grave della pena capitale, disumano, illegittimo, inaccettabile nella misura in cui rende l’uomo schiavo, realizzando di fatto una ipotesi di servitù coatta legittimata in nome di una pretesa superiore ed inviolabile ragion di Stato. Ne consegue quindi la necessità, giuridica, politica e morale di abolire una pena contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

È vero che l’ergastolo vigeva nella legislazione penale preunitaria (articoli 3-7 c.p. del Regno delle Due Sicilie; articoli 13-15 del c.p. Toscano; articoli 10-16 codice penale Stati Estensi) e anche nel codice penale Zanardelli del 1889 era previsto. Era però meno crudele perché l’articolo 55 prevedeva per gli imputati di età minore, da 14 a 18 anni, la sostituzione dell’ergastolo con la pena da 12 a 20 anni di reclusione; mentre l’art. 56, per gli imputati da 18 a 21 anni, la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione da 25 a 30 anni. Quindi per gli imputati al di sotto dei 21 anni non veniva applicata la pena perpetua. Già nel 1889, durante i lavori preparatori del codice unico per il Regno d’Italia, emanato il 30 giugno 1889, che ha avuto la sua validità sino al 1 lug1io 1931, vi furono lunghe discussioni sul mantenimento o meno dell’ergastolo, che lo si fece seguire alla pena di morte e con i lavori forzati a vita. Quindi, i legislatori di allora avevano molti dubbi sul l’utilità della pena dell’ergastolo.

A circa 120 anni di distanza i legislatori di oggi non si pongono questo problema di coscienza. Solo qualche decennio fa, la Corte costituzionale (con sentenza n. 168 del 27/28 aprile 1994) ha dichiarato l’illegittimità degli articoli 17-22-69 quarto comma del Codice penale che non ne prevedevano l’esclusione per i minori di 18 anni.

Per il resto è stata sempre respinta dalla Consulta l’eccezione d’incostituzionalità; sostenendo a volte che doveva essere il legislatore a mettere mano a tale modifica penalistica, altre volte invece che la pena perpetua ormai, con i benefici penitenziari applicabili anche ai condannati all’ergastolo, non esiste più di fatto perché dopo l’espiazione di 10 anni si può ottenere il permesso premio; dopo 20 anni la semilibertà; dopo 26 anni la liberazione condizionale, più la liberazione anticipata computabile ai fini dei benefici anzidetti.

Questo è vero, ma è anche vero che è ancora più grave, in quanto rimanda la discrezionalità alla magistratura di sorveglianza competente per l’applicazione dei benefici sopra richiamati. Per cui a seconda della giurisprudenza "al di là del merito" della giurisdizione della magistratura di sorveglianza, che spesso varia la valutazione da Tribunale in Tribunale, si possono o no ottenere i benefici prima citati. Per cui, se due condannati all’ergastolo si trovano detenuti in due giurisdizioni diverse con due Tribunali di sorveglianza che applicano due giurisprudenze differenti, uno più garantita e l’altro più restrittivo, accadrà che due ergastolani con identica posizione giuridica ed identica partecipazione all’opera rieducativa, avranno trattamenti diversi, nel senso che uno può accedere ai benefici ed uno no.

Con il regolamento penitenziario del 1931 (art. 201) l’ergastolano dopo aver espiato 20 anni di carcere veniva proposto per la grazia dalla direzione del carcere, con esito quasi sempre positivo, se il condannato aveva mantenuto buona condotta. Oggi nonostante siamo al Terzo Millennio siamo andati sempre peggio in tema della funzionalità della pena e dell’utilità della pena perpetua.

L’ergastolo inventato come lavoro perpetuo nel codice ecclesiastico si è man mano andato ad affermare come pena perpetua anche nella legislazione recente, come stiamo provando a nostre spese.

Mastella: tradizionale voltafaccia

Si dichiara contrario all’abolizione dell’ergastolo nel nuovo Codice penale

di Gianpaolo Contini

 

Nonsolochiacchiere

(Anno IX, numero 3, luglio 2007)

 

A gennaio di quest’anno di fronte alla Commissione Giustizia della Camera, Clemente Mastella affermò "mi è stato chiesto cosa penso dell’ergastolo. Rispondendo che da cristiano obbediente all’articolo 27 della carta costituzionale sono per l’emenda e per il recupero, entrambi incompatibili con l’ergastolo".

Commentando al tribunale di Bolzano e a Sorrento la bozza del nuovo Codice penale, "io sono contrario all’eliminazione dell’ergastolo. Credo che gli ergastolani in Italia sono pochissimi. Mi suona pesante l’idea che, per chi ammazza qualcuno, non ci sia neppure la pena dell’ergastolo". Memore dello stesso provocatogli della feroci critiche, tra l’altro ingiustificate, per la concessione dell’indulto, ha tenuto a precisare: "Per quanto mi riguarda dico no all’abolizione dell’ergastolo. Questa resta la mia parola e non può essere confusa. Evitando l’idea che ogni atto significa incoraggiare la criminalità".

Salvo informare il Guardasigilli che nelle carceri da lui amministrate ci sono 1.294 ergastolani (l’8% del totale dei condannati: pochissimi?) e che il dato è reperibile su internet anche nel sito "Ministero Giustizia", non appare una novità il suo tradizionale voltafaccia e nemmeno la sua incompetenza nei temi inerenti il dicastero che occupa. Un provvedimento di fondamentale importanza, sociale e politica, quale l’abrogazione dell’ergastolo, meriterebbe un approfondimento da parte di competenti del settore, ad iniziare proprio dal Ministero della Giustizia. Sintomatico di un completo disinteresse è che, nel corso dei dieci mesi di lavoro della Commissione Pisapia, il Guardasigilli Mastella non abbia mai sentito perlomeno la curiosità d’informarsi su quanto si stava facendo. Ora deve documentarsi e consultarsi, prima di giungere ad una responsabile presa di posizione, peraltro non vincolante.

Nell’attesa che giunga, di certo c’è solo che ancora una volta in tema di giustizia la chiarezza non è una caratteristica. Per di più dalla sinistra, sempre pronta a reclamizzare solo a parole un garantismo assoluto e pene più umane, numerose sono state le voci contro l’abolizione dell’ergastolo. Per Enzo Bianco (Margherita): "Sarebbe un brutto segnale". Secondo Massimo Brutti (DS): "Non è un tema prioritario". Cesare Salvi "SDSE" ha commentato: "Sarebbe giusto se ci fosse la certezza della pena". Il raggruppamento dell’ex pubblico ministero Di Pietro ha fatto sentire il suo parere tramite lo storico difensore dei pentiti e attuale sottosegretario alla Giustizia, Luigi Li Gotti: "Consentirebbe a chi è in carcere di dire "comando io perché prima o poi esco".

A quest’ultimo, in particolare, è sfuggito che un’attesa di trentotto anni è lunga e tale da far assistere a cambi generazionali e a mutamenti della vita, senza trascurare che, nel frattempo, uno Stato civile dovrebbe essere in grado di eliminare le cause che permettono una gestione criminale degli interessi dei cittadini. Per di più, anche quando uno Stato non riesce a dotarsi di un carcere effettivamente rieducativo, trentotto anni di pena sono in ogni modo eccessivi. Non solo non hanno molta differenza con l’ergastolo, ma significano pure la resa dello Stato nel garantire la sicurezza sociale e nel rieducare i suoi figli deviati. Nel parlare disinvoltamente di anni ed anni di detenzione da infliggere è la prova che negli addetti ai lavori permane l’ignoranza sugli effetti del carcere, positivi e soprattutto negativi.

Presentando a Roma l’iniziativa" La risultante delle forze", promessa dal periodico carcerario "nonsolochiacchiere" in collaborazione con gli atenei romani, l’ex magistrato Gherardo Colombo ha suggerito la necessità che i Magistrati facciano un tirocinio all’interno delle carceri, proprio per capire cosa stanno combinando quando infliggono delle pene "eterne".

Il "variabile" Ministro Mastella dovrebbe per primo accettare il suggerimento di Colombo. Dovrebbe farlo pure in fretta prima di esaminare il lavoro della commissione presieduta da Giuliano Pisapia, che in solo dieci mesi ha completato l’incarico avendo il coraggio di utilizzare quanto fatto dalle tre commissioni che del nuovo Codice penale si erano già occupate negli anni scorsi, sotto la presidenza di Antonio Pagliaro, Carlo Federico Grosso, Carlo Nordio.

Il nuovo Codice penale ora dovrà passare al vaglio del ministro Clemente Mastella, poi al consiglio dei Ministri e infine al Parlamento, che doveva approvare la legge delega per il varo delle nuove norme, che richiederà tempi lunghi.

Le diverse forze parlamentari, tralasciando le guerre di parte e gli affrettati giudizi "alla Mastella", devono approfittare di questi tempi lunghi per varare un Codice penale che rispetti l’uomo e che sia capace non solo di punire, ma anche di garantire la sicurezza sociale.

Questa non la si assicura riempiendo le carceri, ma svuotando la nazione delle cause che portano alla commissione del reato ed educando i cittadini al rispetto delle regole. Anche il Ministro Mastella, facendo una volta tanto positivamente un voltafaccia, deve rendersi conto che senza una profonda azione di recupero civico della società per ogni ergastolano ci saranno sempre all’esterno perlomeno due "deviati" pronti a sostituirlo nel percorso criminale.

Poliziotti e magistrati non sono nemici

Agente Scelto Nicola Risolo

 

Il cielo è di tutti

Periodico dell’istituto penale per i minorenni Silvio Paternostro di Catanzaro"

(Anno X, numero 3, maggio-giugno 2007)

 

Ore 06.00. La sveglia. Il S. Giovanni è illuminato ancora, un caffè per cercare di svegliarmi. Fuori piove. Arrivo presto al lavoro, do il cambio al collega smontante di notte. Insieme al preposto e qualche altro parigrado, iniziamo il turno di servizio svegliando i ragazzi. Mentre percorro il corridoio della sezione spero che la giornata fili in maniera serena cercando di trovare la tranquillità necessaria per garantire un buon servizio. Finita la sveglia, accompagnata dal fracasso della battitura dei ferri, i ragazzi vengono fatti uscire pronti per scendere alle attività. 17 adolescenti, tutti vestiti alla moda, gelatinati e super profumati. Questo complica le cose perché, si sa, con i ragazzi di questa età è difficile rapportarsi quando si è adulti, figuriamoci quando si è un agente di Polizia Penitenziaria. E poi mi tornano in mente le aspettative di quando mi sono arruolato.

A scuola allievi non facevano altro che parlarci di partecipazione al trattamento rieducativo come compito istituzionale, proprio per questo ho fatto immediatamente richiesta per essere assegnato ad un istituto penale per i minori pensando che la rieducazione in un posto del genere avrebbe avuto ancora più ragione di esistere.

Ogni giorno sono a contatto con i giovani dell’I.P.M., e ogni giorno non è mai uguale all’altro. Tra noi e loro si crea da subito un rapporto complesso: fanno 1000 domande, chiedono qualche consiglio, raccontano le cose che gli sono capitate quando erano ragazzi liberi. È vero, per loro sono uno "sbirro", ma per il tipo di clima che si respira da noi spesso non ci fanno neanche caso. Qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’esperienza dei ragazzi del progetto "Ragazzi dentro ragazzi fuori". Da quello che ho capito sarebbe dovuto essere un progetto a favore della legalità, ma a mio avviso in alcuni passaggi questo messaggio arriva molto distorto.

Si parla della magistratura sottolineando che tra i detenuti e i giudici non corre buon sangue. Dal canto mio mi sembra corretto dire che il ruolo del magistrato è un compito estremamente difficile, in quanto deve applicare leggi e sanzioni che per la teoria del doppio binario, devono tendere alla rieducazione e alla risocializzazione del condannato. Sicuramente il detenuto vede il giudice come un "castigatore", ma come spiegargli che è proprio grazie al "castigatore" che può così fermarsi un momento e pensare: "Che sto facendo? Che strada devo percorrere?".

Si fa menzione ai fatti di Catania, dove un gruppo di balordi ha ammazzato l’ispettore Raciti, e per che cosa? Per una stupida partita di calcio. I poliziotti non sono dei nemici, sono stati descritti nell’opuscolo come delle squadrette fasciste dedite alla violenza dimenticando che si stava parlando di persone che svolgono un compito difficilissimo tutti i giorni per uno stipendio da fame, ma ancora più grave senza nessun tipo di riconoscenza e gratificazione.

Allora il consiglio che vi posso dare da "addetto ai lavori", è quello di capire che un progetto a favore della legalità serve ad avvicinare tutti noi alle istituzioni dello Stato, che siano magistrati o poliziotti, e ancora di più dovrebbe servire a far capire che le regole vanno sempre e comunque rispettate solo per una migliore qualità della vita. Chi sta leggendo questo articolo si ricordi i "no" dei genitori, degli insegnanti che ha ricevuto e tenga sempre presente che in questo caso i "no" dei magistrati e dei poliziotti sono estremamente preziosi: aiutano a crescere e capire che non si può avere tutto e subito, dalla vita, e solo così a mio parere, gli adolescenti di oggi saranno degli uomini in gamba domani.

Là fuori

di Don Luciano Gambino

 

L’Alba

Rivista dei detenuti della Casa circondariale di Ivrea

(Numero aprile-maggio-giugno 2007)

 

Dai don, portami in un centro commerciale, per favore! Questo è l’accorato appello di un allievo amico, appena uscito in semilibertà (dal carcere sì, ma non di Ivrea). Pochi soldi in tasca, una borsa-lavoro in un posto stupendo presso le "aree verdi" del Comune di Torino, un "dopo-lavoro" come volontario in un centro sportivo che ospita una marea di gente attorno all’iniziativa dell’Estate ragazzi, all’attività della piscina e dei campi da calcio, tennis e basket… tanto verde che ti circonda… tutto in regola, intendiamoci: gli educatori del carcere, gli addetti all’esecuzione della pena all’esterno, l’ufficio Matricola.

Tutti intorno ad un bravo ragazzo - educato e gentile - "faccia da seminarista", come dice il prete responsabile del centro sportivo. E il centro commerciale? Sì, certo, per i primi necessari acquisti (dopo quattro anni che non metteva il naso fuori dalla galera): un lucchetto per gli effetti personali sul lavoro, un porta-documenti per "le carte del carcere" con le quali è in regola per la legge esterna, i biglietti per i mezzi pubblici, le sigarette. Tutto pagato regolarmente, niente furti, siamo gente seria, ci mancherebbe! Ma la richiesta spontanea dell’allievo amico (di anni 23) sottintende altro. Che cosa? Ovvio: la gente normale, le ragazze, le vetrine, lo "struscio", le "vasche", i telefonini, la pizza calda, il gelato fresco, la visione dei prodotti commerciali, l’attesa alla cassa… la vita là fuori! Mi dice un altro ex allievo: "Sai, l’errore che facevamo in galera era di pensare che fuori fosse tutto facile, soprattutto se è un bel po’ di anni che sei dentro". Effettivamente il mondo delle bambole "Barbie" "come si diceva una volta" o delle colazioni alla "Mulino bianco", tutti sorridenti e frizzanti, o di quel calciatore milionario che inganna il tempo col ferro da stiro, sono le cose che stranieri e italiani vedono alla tv, ma non ciò che si trova davvero là fuori!

Là fuori trovi tanta prosa e poca poesia; fatiche di ogni genere; difficoltà economica ad arrivare a fine mese; problemi con i figli, sempre più esigenti; nuove e inaspettate fragilità di salute, anche gravi; bollette e affitto da pagare; incomprensioni; orari e ritmi di lavoro disumani (per chi il lavoro ce l’ha); solitudine e incomunicabilità perchè tutti vanno di fretta; illusioni e fregature; anziani abbandonati a se stessi perchè per loro non c’è spazio né tempo; burocrazia e adempimenti formali che ti assillano in ogni campo; dubbi sulle scelte compiute; difficoltà a rimanere nelle decisioni prese, con costanza. Là fuori è così!

Ma là fuori c’è la libertà. Libertà di camminare, lavorare, mangiare e bere ciò che vuoi, divertirti… libertà di scegliere (a volte), libertà di progettare, di studiare, di essere bocciati, libertà di fare promesse e di mantenerle, libertà di essere te stesso, libertà di essere responsabile veramente, cioè di essere in grado di rispondere di ciò che sei e fai, libertà di essere capiti o incompresi, di essere messi alla prova. Il carcere è un mondo chiuso e asfittico - con regole tutte sue, sia quelle ufficiali sia quelle gergali, "dell’ambiente" - che ti opprime e ti strappa il meglio di te. Là fuori c’è un mondo apparentemente aperto, in realtà sempre più egoista, complicato e vuoto dì cose grandi della vita; però alla ricerca di senso, nella miriade di cose da fare! Sono tremendamente realista o -peggio - pessimista? Qualcuno mi può smentire? Prego, si accomodi… lo aspetto. Con speranza dì essere smaccatamente smentito!

Intervista alla psicologa dott.ssa Paola Lenzetti

di Mario Cussarini e Tarik Zatar

 

L’Alba

Rivista dei detenuti della Casa circondariale di Ivrea

(Numero aprile-maggio-giugno 2007)

 

Da quanti anni svolge il lavoro di psicologa in un istituto carcerario?

Sono 15 anni che faccio la psicologa in carcere; i primi 3 anni ho lavorato ad Aosta, ora sono ad Ivrea da 12 anni. Nel carcere di Aosta lavoravo con le donne detenute; avevo molte difficoltà perchè, a mio parere, le donne sono più difficili da gestire. Trovavo che vi fosse molta più emotività libera che sfociava spesso in liti, screzi, urla. Inoltre le donne detenute possono tenere i propri figli con se fino a quando questi non compiono il 3° anno di età; a quel punto il bambino deve essere fatto uscire indipendentemente dal fine pena della madre, e questo mi faceva star troppo male. Gli uomini, invece, si misurano di più, si confrontano, mantengono un ruolo, sono più pragmatici e lineari nei rapporti.

 

Qual è il ruolo della psicologa in un istituto penitenziario?

Il ruolo della psicologa, negli ultimi anni nell’istituzione penitenziaria, è quello soprattutto di far parte del gruppo di osservazione e trattamento (GOT) che è composto anche dall’educatore, dall’assistente sociale e dal direttore dell’istituto. La psicologa ha il compito di fare i colloqui con le seguenti persone: i nuovi giunti (detenuti che arrivano in istituto dalla libertà per la prima volta o che vengono trasferiti da altre sedi, ndr) e i detenuti definitivi sottoposti ad osservazione scientifica della personalità per i quali viene redatta la relazione di sintesi. In quest’ultima sono raccolte le informazioni dell’educatore, dell’assistente sociale (per quanto concerne le relazioni familiari e/o lavorative esterne) e la parte psicologica in cui si cerca di analizzare come si è sviluppato il reato, la personalità del reo e la prognosi, cioè la prospettiva futura dopo la carcerazione.

 

Quali sono i limiti e le difficoltà che trova nel suo lavoro?

Il limite principale è quello riguardante le ore che noi psicologhe abbiamo a disposizione per svolgere il nostro lavoro. Nel carcere di Ivrea siamo in due ed ognuna ha 18 ore mensili suddivise in 4 ore settimanali; al momento, in istituto ci sono circa 160 detenuti, ma le ore erano le stesse anche quando erano presenti 350 detenuti (prima dell’indulto, ndr).

Per quanto riguarda i detenuti definitivi (io al momento ne seguo circa 20) e le conseguenti relazioni di sintesi, riusciamo al massimo a fare 2 o 3 colloqui con ciascuno ed in base a questi pochi incontri, bisogna cercare di stilare una relazione che può essere a favore oppure contro un oggetto. È molto difficile cercare di dare un parere su una persona che si vede poche volte; è una questione di etica professionale perché bisogna più che altro fidarsi del proprio "sesto senso" sviluppato in tanti anni di lavoro in carcere.

Le ore di osservazione e trattamento sono finalizzate a fare una fotografia del soggetto e non a dare una restituzione o ad aiutare il detenuto in un percorso di rieducazione. A questo si aggiungono le riunioni d’equipe, i colloqui con i nuovi giunti e le segnalazioni che vengono fatte dagli educatori su soggetti che hanno difficoltà; queste hanno poco riscontro dal nostro sostegno psicologico poiché il soggetto trova il suo modo di rientrare dalla crisi e non perché il nostro intervento sia così incisivo. Io svolgo il mio ruolo anche per conto del Ser.T., dove invece riesco a vedere i detenuti settimanalmente perché ho molte più ore a disposizione.

 

Secondo lei è fondamentale il ruolo della psicologa all’interno di un istituto penitenziario?

Io penso che sia fondamentale come quello dell’educatore e dell’assistente sociale. Il problema è che l’educatore dovrebbe riuscire ad avere la priorità di organizzare più attività per il detenuto, anziché avere quella burocratica; l’assistente sociale dovrebbe cooperare nell’avere un ruolo di raccordo tra un soggetto e la sua famiglia, anziché avere un ruolo "investigativo" e la psicologa dovrebbe riuscire ad aiutare il detenuto dandogli strumenti per rileggere la propria storia passata e presente ipotizzando insieme un futuro fuori.

Purtroppo nelle istituzioni statali si predilige un recupero di spese, per questo le ore sono pochissime, con il rischio di fare un lavoro approssimativo. Tutto sta a non sbilanciarsi troppo, su persone che non si conoscono, né in positivo, né in negativo. La psicologa sa che nel carcere per il detenuto è difficile mantenere sempre un buon comportamento, non esplodere, essere sempre regolare e portare il meglio di se. Il compito è più difficile quando il soggetto mostra segni di disagio perché bisogna capire se leggerli come parte della personalità, ad esempio come mancata esibizione dell’aggressività o solo come momenti di disturbo transitorio.

 

Quindi. tra gli altri problemi vi è anche quello di instaurare un rapporto tra detenuti più aperti e detenuti più chiusi?

L’essere aperti o chiusi fa parte della personalità di ognuno; ci sono persone più estroverse e persone più introverse. Le prime appaiono più gioiose, ma magari non raccontano niente di se. Le seconde sono più difese rispetto alle proprie problematiche, più segnate dalla vita, e fanno fatica a consegnare le proprie emozioni, persone che non si danno la possibilità di riaprire il canale dei ricordi, perché significherebbe stare troppo male.

Per questo, le motivazioni sono diverse: il problema non è essere troppo aperto o troppo chiuso, ma è che qualcuno si è strutturato in maniera da essere fluido perché ha avuto rapporti significativi espositivi, qualcun altro nei rapporti ha avuto tradimenti, bruciature e tende a chiudersi. Quando si subiscono eventi del genere si tende a chiudersi maggiormente, ad essere più difesi, a non capire chi si ha davanti; sembrano non avere fiducia nelle proprie "antenne" e a non consegnare nulla di se, quindi il ruolo della psicologa sta nel cercare di ricostruire la personalità e nel dare un senso di fiducia.

Io, come psicologa, tendo ad accertare il bene ed il positivo; se ci sono delle cose che non mi convincono nella persona, che sono quelle che segnalerò nella relazione di sintesi, le discuto prima con il detenuto, cercando di avviare un lavoro con lui su alcuni aspetti in modo da confrontarci e permettere che si sviluppino in maniera più positiva.

 

Come vede l’istituto di Ivrea? Cosa pensa che vada migliorato e cosa va bene?

Un grosso problema delle carceri è a livello architettonico: le strutture concedono pochi spazi; anche avendo fondi monetari, i blocchi C (parte delle sezioni in cui vi sono stanze per colloqui eccetera, ce n’è uno per ogni piano detentivo, ndr) sono molto ristretti. Volendo anche aprire piccole aziende per dare più lavoro ai detenuti o fare attività di vario genere, non è sempre possibile. Nelle sezioni, ci sono le salette per la socialità, ma sono ad uso esclusivo dei detenuti.

Per il resto, io credo che un carcere si rispecchi molto nella direzione del momento; il direttore "fa" molto il carcere, perché dà una linea al comandante, dà l’impronta. Noi operatori, a mio parere, ne risentiamo meno, al contrario delle persone che lavorano in maniera più diretta, che fanno più attività, come ad esempio i volontari.

La direzione si riflette anche sui detenuti i quali trovano più o meno ristrettezze: sulla modalità di rapportarsi con i detenuti, nel modo di fare i consigli di disciplina, nelle attività e nella politica in generale; anche il comandante rispecchia molto l’ottica etica e politica del direttore, dandone impronta agli operatori di polizia penitenziaria.

 

Prima ha detto che fa anche la psicologa per il Ser.T. Oltre al problema della distribuzione delle ore, vi sono altre differenze nel modo di lavorare?

Ci sono molte differenze; io per il Ser.T., in una settimana, faccio le ore che come psicologa ministeriale faccio in un mese, infatti lavoro 3 giorni a settimana. La popolazione detenuta tossicodipendente è circa il 30-40%, e ciò vuol dire dare uno spazio maggiore, permette di avere dei progetti sul territorio, la presa in carico è ampia ci sono una serie di figure che ruotano attorno al soggetto e dispongono un raccordo di grado maggiore. Essere seguiti dal Ser.T. può essere un limite per la fruizione dei permessi premio, ma è agevolante rispetto alle misure alternative, quali, ad esempio, l’inserimento presso comunità terapeutiche o l’affidamento in prova ai servizi sociali.

 

Oltre a svolgere il suo ruolo in carcere, lavora anche all’esterno?

Sì, lavoro per il comune seguendo un progetto di educazione alla legalità. Io ed un assistente volontario, sempre del carcere, andiamo nelle scuole; seguiamo, durante l’anno le classi tra terze medie e seconde superiori. Spieghiamo agli studenti cosa vuol dire entrare in carcere e come si vive da detenuto.

 

In pratica informate la scuola sul carcere. Come reagiscono i bambini ed i ragazzi?

Gli alunni portano la propria cultura familiare, nel senso che sono convinti che in carcere si stia bene, perché è comodo, hanno l’idea che avreste voi se foste a casa. Pensano che sia bello poter stare tutto il giorno in camera a guardare la televisione; noi allora gli diciamo di pensare di stare 20 ore chiusi in bagno, perché la loro camera, come paragone, è troppo grande, e capire se la televisione farebbe così la differenza rispetto la perdita di libertà. Per loro la televisione è un bene di lusso, perché devono studiare, andare a scuola eccetera e ne usufruiscono in maniera limitata.

Poi quando capiscono le dimensioni della cella, il fatto di avere sempre qualcuno in stanza (il concellino), di avere anche il bagno in poco spazio, con la conseguenza della poca privacy, la violazione della dignità, il non poter usare il telefono cellulare, non poter avere rapporti con l’esterno e dipendere sempre da qualcuno, si rendono conto della difficoltà di stare in carcere. Poi gli si spiega che uno sta "bene" in carcere solo se ha un po’ di soldi a disposizione, altrimenti non può telefonare, non può scrivere lettere, a questo punto la loro idea si ridimensiona e si scostano dal pregiudizio, dal luogo comune che il carcere sia un Hotel.

Li si aiuta a capire che quando una persona sbaglia, è giusto che sconti una pena detentiva in maniera seria, ma che, una volta usciti dal carcere, non è poi così semplice reinserirsi nella società. È difficile per un detenuto uscire completamente dalla devianza: noi chiediamo agli studenti chi di loro assumerebbe a lavorare un ex detenuto, chi gli affitterebbe una casa e loro si rendono conto che il re inserimento non è poi così immediato. In sintesi, gli si danno degli elementi di dubbio in modo da farli riflettere.

 

Perché ha scelto di fare la psicologa in un istituto penitenziario?

Perché secondo me è un lavoro molto stimolante ed interessante, a volte persino divertente, perché incontro anche persone simpatiche, non lo trovo alienante e non mi pesa. Ho molti ricordi dei detenuti che ho seguito in passato, con cui abbiamo condiviso dei periodi, di cui ho la mia opinione su di loro che però non è mai un giudizio.(sommario)

Sogno

di Falco Neri

 

L’Alba

Rivista dei detenuti della Casa circondariale di Ivrea

(Numero aprile-maggio-giugno 2007)

 

Sono detenuto da oltre dieci anni, da qualche tempo ho ripreso a sognare la notte, forse per il condizionamento che ricevo da certi programmi in tv. Infatti, dalla televisione sento che dal carcere, assassini e rapinatori escono dopo una settimana, che in carcere l’assistenza sanitaria e praticamente perfetta. Se un detenuto ha bisogno di una TAC, il giorno dopo viene accompagnato a fare la TAC, "ultima stronzata sentita". Per quello che ho sentito dire, l’intero servizio sanitario nazionale dovrebbe prendere a modello quello penitenziario. A causa di queste ed altre belle informazioni ho ripreso a sognare, una notte ho sognato che dopo essermi segnato a visita medica, il medico anziché limitarsi al solito colloquio "noi carcerati siamo brutti, sporchi e cattivi, quindi niente contatto fisico, neanche con i guanti!" faceva una scrupolosa visita alla parte del corpo interessata. Usava lo stetoscopio, sentiva le pulsazioni del polso, controllava per bene l’addome, insomma una vera visita medica come quelle che mi venivano fatte quando ero libero. Il sogno, ormai privo di freni inibitori, andava avanti, il medico mi prescriveva la terapia per una grave patologia e le medicine mi venivano date subito, senza aspettare uno o due mesi!!! Ho sognato che puntualmente alla mia famiglia venivano pagati gli assegni famigliari, anziché averli dopo tre quattro o cinque mesi di lotta. Ho sognato che 1’impresa mantenimento "una sorta di negoziante con monopolio che vende ai carcerati" invece di trattarci come i nuovi ricconi d’Italia, mettendo in spesa "per esempio" una confezione da quattro rotoloni di carta igienica a euro 3.99, tenendo in considerazione il fatto che i pochi fortunati che lavorano in carcere, percepiscono uno stipendio mensile di circa 150.00, sostituiva tutti quei generi di marche super pubblicizzate "che in Italia non si possono più permettere neanche le ex classi medie "con altri prodotti meno conosciuti e più a buon mercato. Nei vari sogni veniva fuori l’immagine di un carcere che rieduca, capace di rendere un servizio alla collettivi!à, che restituiva alla società dei soggetti recuperati, contribuendo così a dar maggior sicurezza ai cittadini. Un carcere che sia un luogo dove regna la giustizia "il minimo per un dipartimento che dipende dal ministero della giustizia". A questo punto, mi sono svegliato tutto sudato. Mi sono chiesto se per caso non stavo diventando pazzo, com’era possibile che la mia fantasia volasse così in alto? Ho deciso di non seguire più la disinformazione che viene propinata sul tema sicurezza giustizia, niente più tv giornali e radio. Chiudo la finestra che mi permetteva di rimanere collegato con la società esterna!

 

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