Rassegna stampa 2 ottobre

 

Giustizia: i medici penitenziari; il carcere è la nostra Africa

 

Comunicato Simspe, 2 ottobre 2007

 

Scarica l'indagine della Simspe e di GfK-Eurisko (pdf)

 

Il "Terzo Mondo" italiano dove la salute non è un diritto rispettato. Malattie mentali, aids, tbc e suicidi, questi i mali storici. L’epatite C è la nuova emergenza: colpisce un detenuto su tre, un virus che esce dal carcere insieme al detenuto. Per la salute pubblica, un pericolo in più. La denuncia del carcere malato arriva dai medici penitenziari della S.I.M.S.Pe. Un’indagine GfK-Eurisko fotografa l’emergenza Epatite C in 25 istituti di pena italiani.

Il carcere è la nostra Africa. È il nostro "terzo mondo". E non solo perché è forte la presenza degli extracomunitari. È la terra dove alcuni diritti fondamentali sono solo astratti principi. Primo fra tutti il diritto alla salute. Malattie mentali, Aids, Tbc, suicidi, tossicodipendenza: i "mali storici". Adesso esplode l’Epatite virale C. Un dato è allarmante: colpisce un detenuto su tre. La malattia non si fa fermare dalle sbarre ma esce con il detenuto scarcerato o in licenza premio. E diventa un ignorato problema di salute pubblica. In un carcere che l’indulto ha soltanto provvisoriamente alleviato e che già vede i primi segnali di un ritorno "all’ acqua alla gola" , la salute è la prima delle emergenze.

L’allarme viene dai medici che tutti i giorni lavorano nella terra dei diritti disattesi: i medici di medicina penitenziaria della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria che, per rompere il silenzio, su questa drammatica realtà e per confrontare con le Istituzioni possibili soluzioni si riuniscono in un Congresso a Roma dal 4 al 6 ottobre. Congresso anticipato in una conferenza stampa dove è stata presentata un’indagine, proprio sull’emergenza Epatite C in carcere, condotta da GfK-Eurisko in 25 Istituti penitenziari in tutta Italia.

"I detenuti aumentano e, con loro, le malattie. L’unica cosa che proprio non cresce, anzi viene drasticamente ridotta, è il finanziamento. Dobbiamo dire grazie ad alcune Regioni che si sono fatte carico negli ultimi quattro - cinque anni della spesa farmaceutica e, in parte, di quella specialistica e ospedaliera. Peccato che, a fronte di Regioni "virtuose", ce ne sono alcune che il grido d’allarme che viene da dietro le sbarre proprio non lo vogliono sentire". È forte la denuncia di Giulio Starnini, Direttore del Reparto di Medicina Protetta-Malattie Infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo.

 

Le cifre dell’emergenza sanitaria nelle carceri italiane

 

Il 62 per cento dei detenuti ha una patologia che necessita di un intervento medico. Il 43,5 per cento di questi ha problemi psicologico-psichiatrici e il 28,3 per cento ha una malattia virale cronica. Tra le malattie virali croniche l’Epatite C è al primo posto: coinvolge circa un quarto dei detenuti di quelli presenti negli Istituti penitenziari analizzati dall’indagine.

L’Epatite C dilaga ma non sempre i detenuti ricevono le cure adeguate: infatti, solo la metà dei detenuti viene messo subito in terapia e, fra questi, un quarto dei pazienti non accetta la terapia. Un terzo dei pazienti in trattamento sospende la cura prima del previsto. Questo significa che su cento detenuti con Epatite C sono 74 quelli che non seguono alcuna terapia o la interrompono prima.

Eppure, nonostante il detenuto sia un paziente "difficile", la metà dei medici coinvolti dall’indagine GfK-Eurisko affermano che i risultati della terapia dell’Epatite C ottenuti in carcere sono migliori di quelli ottenuti in comunità grazie al fatto che c’è la possibilità di seguire meglio il paziente/detenuto. Il carcere, quindi, è "un’occasione" mancata di terapia.

 

Ecco perché dilaga l’Epatite C in carcere

 

"L’Epatite C (HCV) è la malattia infettiva più diffusa nel carcere - dice Roberto Monarca, Presidente dell’VIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (S.I.M.S.Pe) e Dirigente Medico I° livello - Centro di riferimento AIDS - Ospedale "Belcolle" di Viterbo -. Colpisce oltre il 38 per cento della popolazione detenuta, in pratica più di un detenuto su tre è contagiato dal virus. Nelle donne la prevalenza si attesta sul 30 per cento. La prevalenza più alta si registra nei detenuti tra i 35-40 anni e questo è, per quanto riguarda la terapia, un elemento favorevole perché un malato più giovane e con minore durata di malattia si cura meglio.

Fuori dal carcere l’età di maggiore prevalenza di Epatite C è fra i 55 e i 60 anni. L’Epatite C è una malattia ad altissimo rischio nel carcere perché nel luogo di detenzione ci sono condizioni che ne favoriscono la diffusione. In primo luogo la concentrazione di tanti soggetti a rischio, in modo particolare tossicodipendenti, il sovraffollamento, tanti detenuti chiusi in un’unica cella; e poi l’uso in comune di oggetti taglienti come rasoi, tagliaunghie e di spazzolini da denti. C’è anche il rischio di trasmissione, pur se in minor misura, con rapporti omosessuali. Un problema a sé è quello dei tatuaggi.

In carcere farsi un tatuaggio è una specie di rito. Molti detenuti, soprattutto quelli che sono in carcere per la microcriminalità ma anche per la criminalità organizzata, utilizzano il tatuaggio come un segno di riconoscimento. Non avendo a disposizione aghi idonei al tatuaggio, i detenuti usano spesso metodi primitivi come aghi "rimediati", addirittura iniettandosi l’inchiostro delle penne a sfera. "Strumenti" primitivi che vengono passati di mano in mano diventando, quindi, fonte di trasmissione del virus. Il detenuto ha tutte le caratteristiche di un "paziente difficile". Non mancano, purtroppo, persone refrattarie a qualsiasi autorità, con un problematico rapporto medico-paziente.

Ci sono poi detenuti con problematiche psichiatriche e di dipendenza. Non bisogna dimenticare che ci sono detenuti, il discorso vale in modo particolare per l’Aids ma in larga parte anche per l’Epatite C, che rifiutano le cure perché vogliono usufruire di una Legge che concede il trasferimento in ospedale o la libertà a chi è malato in una forma grave.

Quindi, per un medico penitenziario la cura è particolarmente impegnativa. La terapia oggi più utilizzata è la combinazione interferone peghilato e ribavirina. Con questa terapia che è d’elezione, si ottengono percentuali di guarigione che vanno dal 50 all’80 per cento. Quindi la cura c’è ed è efficace. Se fosse possibile curare tutti i malati durante la loro detenzione e garantire loro la continuità terapeutica nel circuito penitenziario e dopo la scarcerazione, certamente l’Epatite C non sarebbe più un’emergenza per la sanità penitenziaria e si ridurrebbe il rischio di trasmissione alla popolazione fuori dal carcere".

 

La ricetta per il carcere malato

 

"Nessuno ha la bacchetta magica - dice Giulio Starnini. Credo che il carcere così come è oggi non sia la risposta idonea alla detenzione sociale. La riforma dei codici penali e dei codici di procedura penale è l’occasione per pensare ad una gradualità di misure sanzionatorie più efficaci ed anche meno dispendiose del carcere. Certamente l’assenza di politiche chiare e definite nel settore dell’assistenza sanitaria in carcere e a volte anche di semplici indicazioni da parte del Palazzo non ha giovato a nessuno. Per quanto ci compete comincerei, quindi, da qui, da una seria riforma che orienti il passaggio al Sistema Sanitario Nazionale e alle Regioni e che non sia subordinata a tristi criteri di carattere finanziario ma piuttosto orientata ad investire su uno sviluppo "sostenibile" che passi attraverso l’integrazione e l’ottimizzazione dei Servizi esistenti.

Va valorizzato l’enorme patrimonio di organizzazioni non governative che già operano negli istituti, razionalizzando i loro interventi, integrandoli con quelli pubblici, evitando sovrapposizioni. Bisogna dare all’attuale personale sanitario certezze e motivazioni: spesso è personale precario, posto all’ultimo gradino nella scala delle professionalità, costretto a rincorrere i propri diritti e quindi, alla lunga, desideroso solo di trovare una nuova collocazione.

Occorre riconvertire i Centri Clinici esistenti all’interno degli Istituti penitenziari di Day Hospital e Day Surgery evitando così di ingolfare ambulatori e servizi esterni già sovraccarichi. In questi ultimi anni sono stati aperti tre reparti per detenuti presso Ospedali pubblici (Milano - Azienda Ospedaliera San Paolo, Roma - Presidio Ospedaliero "Pertini" e Viterbo- Presidio Ospedaliero "Belcolle") che si aggiungono a quello del " Civico" di Palermo.

Il principio ispiratore è stato l’esatto opposto di quello che aveva orientato la realizzazione dei Centri Clinici e cioè "attenzione agli aspetti della sicurezza in ambito sanitario " piuttosto che " attenzione agli aspetti sanitari in ambito di sicurezza". La ricetta è semplice eppure, me ne rendo conto, estremamente complessa. La volontà politica c’è ma i ritardi aumentano.

La medicina penitenziaria è pronta per fare la sua parte. Pronta ad essere accolta nel Servizio Sanitario Nazionale e a collaborare con il Ministero della Giustizia. Non vogliamo però continuare ad essere, per i nostri stessi pazienti, la cenerentola dei servizi né il paravento per le inefficienze di altri. Nel nostro Congresso lo chiederemo ai Ministri pronti a metterci a disposizione con progetti chiari. La nostra esperienza di medici del carcere è vastissima. Vorremmo che venisse utilizzata come merita".

 

Medico penitenziario: una figura da rivisitare

 

"L’attuale incertezza normativa - dice Andrea Franceschini, presidente della S.I.M.S.Pe. e Direttore Sanitario C.C. Regina Coeli a Roma - rende necessaria ed urgente la rivisitazione della figura del Medico Penitenziario nel suo complesso. Diventa oramai necessaria la ridefinizione di tale ruolo con autonomia organizzativa e progressione di carriera ed economica; in quanto sono, di fatto e nell’attività svolta, Dirigenti Medici a tutti gli effetti e già impegnati a più livelli all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria.

Considerare come una risorsa quegli Operatori sanitari che si sono distinti per impegno e professionalità è un elemento indispensabile per favorire la buona riuscita della configurazione di un nuovo assetto nell’ attività assistenziale in carcere. Il Documento di indirizzo della SIMSPe 2007-2008 è chiaro e si pone numerosi obiettivi fra i quali si ritiene indispensabile la riattivazione dello staff sanitario presso la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di supportare la stessa Amministrazione con un indispensabile strumento tecnico in campo sanitario.

E passiamo alle Regioni. Le Unità Operativa di Sanità Penitenziaria hanno raggiunto una buona efficienza operativa e sono state riconosciute valide innovazioni amministrative anche dalla Corte dei Conti. È necessario però definirne con decreto interministeriale loro attribuzioni e relative funzioni. Le "Unità Operative di Sanità Penitenziaria" rappresentano, di fatto, il luogo ideale di incontro con gli Assessorati alla Sanità per disegnare le nuove realtà assistenziali locali".

 

Parla il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio

 

"La persona è malata spesso per stili di vita sbagliati precedenti la detenzione: per la tossicodipendenza, per esempio - dice Angiolo Marroni,Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio -. Spesso il carcere è il luogo dove si viene informati della malattia o dove se ne prende conoscenza in modo realistico. Già questo è un elemento importante che dev’essere colto. Ma ancora il carcere , per la conseguenza stessa della perdita della libertà è il luogo che può evidenziare, rinforzare aspetti patologici.

Infine, non lo scordiamo ci si ammala in carcere. L’aumento della popolazione ristretta, le condizioni igienico - sanitarie, la promiscuità, il passare 20 ore in celle spesso anguste , comporta un quadro psicologico e fisico fragile. Non è un caso che dal 1973 si è creata una voce nuova dentro il trattamento intramurario: il "nuovo giunto", non è un caso che il periodo dei primi giorni è il più delicato. Ma accanto a questo ci sono nuove problematiche: il detenuto anziano, il detenuto parzialmente autosufficiente, la persona senza fissa dimora. Ho la percezione che spesso il carcere , nella crisi del welfare, è una delle poche risposte ad un disagio crescente. Credo che il carcere debba essere una estrema ratio, per reati rilevanti invece spesso diventa una risposta all’emergenza".

 

La denuncia di Antigone

 

"La Salute nelle carceri italiane non è un diritto rispettato. E questo non è degno di un Paese civile". È molto forte la denuncia di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’Associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. "La salute in carcere è causale- dice Gonnella- e non è assicurata a tutti e in misura adeguata.

Ci sono emergenze che vanno immediatamente affrontate e che, se trascurate, creano maggiori rischi non solo fra la popolazione detenuta ma anche fra quella fuori del carcere. La salute psichica, l’Epatite virale e anche altre malattie apparentemente banali, come la scabbia, sono ormai largamente diffuse dentro le sbarre. Le possibilità di contagio sono molte. Inoltre, una volta che il detenuto viene rimesso in libertà o gode di un permesso premio non lascia certo nella cella i suoi problemi medici".

 

Il carcere in cifre

 

In Italia gli Istituti penitenziari sono 205 dei quali: 37 sono case di reclusione, 160 sono case circondariali (e contano la stragrande maggioranza di detenuti) e 8 sono Istituti per le misure di sicurezza. Al 18 settembre 2007 negli Istituti di pena si trovavano 46.118 detenuti (la capienza regolamentare è di circa 43.140 posti), di questi quasi il 37 per cento è di nazionalità straniera.

I detenuti usciti grazie all’indulto sono stati 6.194 e di questi il 22 per cento sono rientrati nuovamente in carcere per aver commesso un reato. A luglio 2006 le carceri sfioravano quota 60mila detenuti, ad agosto 2006 e quindi ad un mese dall’indulto si è scesi a quota 38.847 per risalire, in un solo anno, a quota 46.118 (al 18 settembre 2007).

Gli stranieri. Ogni cento detenuti negli Istituti di pena italiani 37 sono stranieri. La presenza maggiore è quella dei marocchini (20 per cento), seguita dai romeni (15 per cento), dagli albanesi (12 per cento) e dai tunisini (10 per cento).

In carcere, nel cuore della vita. La fascia d’età più presente nelle carceri italiane è quella tra i 30-34 anni, seguita da quella tra i 35 e i 39 anni e da quella tra i 25 e i 29 anni. Quasi la metà dei detenuti ha, dunque, tra i 25 e i 39 anni.

Aids, suicidi e tossicodipendenza antichi mali. Gli atti di autolesionismo in carcere sono sempre molti. Nel 2006 sono stati 4276, in calo rispetto all’anno precedente (5481). La punta massima negli ultimi dieci anni si è avuta nel 2000 quando si sono registrati 6788 episodi.

Alto anche il numero dei suicidi. Nel 2006 sono stati 50, sette in meno rispetto all’anno precedente. La punta massima nel 2001 quando 69 detenuti si sono tolti la vita. I detenuti tossicodipendenti sono il 26,35 per cento dei detenuti.

Giustizia: Amato; garantire ai cittadini il diritto alla sicurezza

di Giuliano Amato (Ministro dell’Interno)

 

Il Messaggero, 2 ottobre 2007

 

Ieri "Il Messaggero" ha sottolineato positivamente l’attenzione di questa Finanziaria verso la sicurezza. Credo anch’io che alla fine sia stato raggiunto un buon risultato. Ed è importante che una stampa attenta al problema della criminalità, come questo giornale ha dimostrato di essere con le sue inchieste, sappia anche evidenziare con equilibrio quanto viene fatto in positivo da chi ha la responsabilità di garantire la sicurezza dei cittadini.

Questo non per i consensi maggiori o minori di cui può godere un Governo, ma perché aiuta a creare un clima più sereno tra i cittadini e dà forza alle donne e agli uomini della polizia che tutti i giorni lavorano sulle strade per fermare i criminali.

I dati sull’andamento dei delitti in questi anni non sono univoci. Ci sono crimini che diminuiscono, altri che aumentano. Ma di sicuro la percezione della sicurezza va peggiorando. E questo avviene per il diffondersi di una criminalità/illegalità che ha tipologie nuove, che invade spazi fino ad oggi ritenuti sicuri, che ha sempre più spesso come protagonisti - questo va detto - soggetti provenienti da lontano, che colpisce le persone comuni, quelle più deboli, le donne, gli anziani, i bambini. Vent’anni fa in Italia ci si ammazzava molto di più, ma oggi abbiamo più paura.

È dunque un fenomeno nuovo quello che abbiamo davanti e per contrastarlo dobbiamo individuare strumenti nuovi e aggiornati. Non leggi draconiane, non slogan minacciosi e vuoti come "tolleranza zero", ma risposte razionali, concrete, applicabili alla domanda di sicurezza che oggi viene dai cittadini. Questo, non altro, sono le misure previste dai Patti siglati con i Comuni italiani; questo sono le migliaia di unità di polizia in più e le risorse che la Finanziaria ci mette a disposizione; questo sarà il pacchetto di norme che il Governo sta per varare per assicurare più certezza della pena e più legalità.

Lo Stato, dunque, c’è e fa la sua parte. La fa il governo e la fanno le forze di polizia. Così come la fanno i sindaci, che stanno collaborando nel migliore dei modi per contrastare i fenomeni di illegalità e criminalità urbana.

Il Messaggero ha evidenziato che anche in una città come Roma, che continua comunque ad essere una delle metropoli più sicure dell’Occidente, negli ultimi mesi si è assistito a un deterioramento del tasso di sicurezza. Ciò è avvenuto soprattutto per l’afflusso di crimine esogeno. Ed ha ragione il sindaco Veltroni quando denuncia che con l’ingresso della Romania in Europa si è registrato un forte afflusso di criminalità romena.

È evidente, e va sempre ribadito, che gran parte dei rumeni in Italia lavorano duramente e si comportano più che bene. Così come va detto che la collaborazione del governo e della polizia rumeni è ottima e produce importanti risultati in termini sia di prevenzione che di arresti.

Ma questo è il tipico esempio di problemi nuovi che vanno affrontati con strumenti nuovi. In quanto comunitari, infatti, i rumeni possono entrare liberamente in Italia (non c’è moratoria che possa impedirlo, al contrario di quanto sostengono i poco informati). E questo và benissimo per coloro che vengono per lavorare. Ma io ministro dell’Interno devo trovare strumenti adeguati per non lasciare campo libero a chi viene per delinquere. Perciò in questi giorni ho dato incarico ai miei uffici di studiare l’attribuzione ai prefetti del potere di espulsione di cittadini comunitari quando questi costituiscono un pericolo per la sicurezza pubblica.

È uno strumento nuovo, che può aiutare ad alleggerire situazioni di particolare pressione in alcuni quartieri e in alcune città. E può cosi anche contribuire a contrastare il diffondersi dell’intolleranza che vorrebbe "fuori tutti", senza distinguere tra chi lavora onestamente e chi delinque. E questa la duplice faccia del lavoro che abbiamo davanti: garantire il diritto dei cittadini alla sicurezza con risposte adeguate ed evitare che cresca la tigre dell’intolleranza.

Giustizia: Frattini; la sicurezza è una questione prioritaria

di Franco Frattini (Vice Presidente della Commissione Europea)

 

Il Tempo, 2 ottobre 2007

 

Il tema sicurezza entra finalmente nell’agenda politica dell’attuale governo dopo aver guidato per mesi le classifiche dei sondaggi di opinione e dunque le concrete preoccupazioni dei nostri concittadini. Non è stato un percorso facile perché si tratta di un tema che il dibattito politico italiano - ancora intossicato dagli ideologismi - ha confinato tra le idee "di destra", quindi non meritevoli di attenzione o di valore (semmai di ironia).

E sono state le preoccupazioni anche elettorali dei suoi sindaci a far cambiare idea al centro-sinistra consentendo al ministro Amato di percorrere una strada finora preclusa. E che l’attuale maggioranza non solo non affronta compatta ma interpreta quasi con vergogna: si interviene - si dice - per evitare che il non-intervento produca un imbarbarimento dei cittadini nei confronti dei gruppi o delle appartenenze culturali delle persone arrestate.

Utilizzando così un argomento solo "negativo". Il tema dell’ordine sociale è, infatti, ancora considerato una prerogativa delle politiche conservatrici che lo affronterebbero e affiderebbero ad una gestione robusta delle forze di polizie, mentre le filosofie progressiste amano pensare che la nostra convivenza non sia mai in pericolo, che la tolleranza la possa al contrario nutrire e che la violenza occasionale sia comunque figlia della disuguaglianza e delle ingiustizie sociali.

Seguendo il filo di questo ragionamento la sicurezza rappresenterebbe l’altra faccia, negativa e repressiva, della medaglia di una società fondata naturalmente sulla tolleranza. Ma è stata proprio questa cecità a consentire ed alimentare la diffusione di una violenza assai colpevolmente definita "minore": la cosiddetta "microcriminalità" di cui troppo spesso sono vittime proprio le persone più indifese, vittime quindi di una nuova, ulteriore forma di ingiustizia.

Dalle città e dal territorio, dunque, è partito un nuovo allarme che si alimenta ora anche dei cambiamenti che attraversano il tema sicurezza. Cambia la composizione sociale e la provenienza di coloro che mettono a rischio l’ordine sociale e cambia anche in ragione del cambiamento europeo: l’allargamento, la libera circolazione all’interno di questo nostro continente, il bisogno di una nuova e rafforzata sicurezza, esterna ed interna.

Ed esplode in questi giorni la questione Rom, capace di agitare memorie, immagini e stereotipi di una popolazione nomade certo segnata anche dalla sofferenza e dalle persecuzioni. E questo accade in un’epoca in cui il nomadismo si è diffuso, ed è diventato mobilità economica, un’epoca in cui i diritti individuali (e di genere e delle età: bambini, anziani) hanno ormai - per noi europei almeno - un primato sulle appartenenze.

Per quanto la cultura della tolleranza possa quindi anche giustamente mobilitare energie e comprensione per popolazioni in difficoltà, quella stessa cultura non può ignorare il primato dei diritti e dell’uguaglianza di genere che vieta lo sfruttamento delle donne e, peggio, dei bambini. Spesso sfruttandone la tenera età per compiere o aiutare a compiere reati.

Mi auguro quindi che l’Italia, anche ricorrendo ad una normativa urgente - il caso lo richiederebbe -, dia attuazione ad una precisa Direttiva Europea che le consente dal gennaio di quest’anno di rimpatriare chiunque abbia inteso sfruttare la nuova appartenenza europea per esportare delinquenza e violenza.

Lo dobbiamo ai moltissimi cittadini immigrati che vivono nel rispetto delle leggi e nella difficoltà di un percorso di integrazione; lo dobbiamo a quegli stessi Paesi da cui le persone che hanno violato la legge provengono: è semmai l’impunità e una malintesa tolleranza ad alimentare la xenofobia e la cattiva immagine di una nazionalità. Lo dobbiamo infine alla nostra comunità nazionale: è dalla sicurezza che produciamo che discende l’esercizio dei nostri diritti e delle nostre libertà.

Giustizia: Palidda; per la sicurezza spendiamo più di tutti

 

Redattore Sociale, 2 ottobre 2007

 

A Roma seminario organizzato da Libera, Tavola della Pace e Provincia. Per Palidda (Univ. di Genova), le risorse si perdono negli sprechi dell’amministrazione. Per Ruggiero (Middlesex University) l’Italia è già terra di illegalità.

L’Italia è il paese che in proporzione spende di più per la sicurezza pubblica e privata, ma secondo Salvatore Palidda, docente dell’università di Genova, intervenuto oggi a Roma al seminario dal titolo "+ diritti = + sicurezza x tutti" organizzato da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Tavola della pace e Provincia di Roma, sono risorse che si perdono negli sprechi dell’amministrazione della giustizia, e che vanno a garantire i privilegi di pochi a fronte di alcune carenze anche molto gravi. È noto infatti il caso di alcune prefetture che non possono lavorare perché mancano i mezzi minimi di sussistenza, come la benzina per le auto di pattuglia.

"Esiste nel nostro paese una speculazione sull’insicurezza che porta a situazioni drammaturgiche e a una sorta di neofascismo in cui si invoca solo la tolleranza zero e un regime di autorità", ha continuato ancora il professore dell’università di Genova, secondo cui sarebbe interessante aprire un dibattito sulla produttività dei mezzi per cui si spendono tante risorse, come ad esempio gli strumenti di video-sorveglianza. Tecnologie che richiedono un costo elevato di installazione e manutenzione, ma che non sempre danno buoni risultati, e che secondo il suo parere andrebbero sostituiti piuttosto con operatori sociali sul territorio.

Guardando alle statistiche, poi, Palidda ha ricordato come dal ‘90 ad oggi il numero totale dei reati commessi in Italia sia rimasto sostanzialmente lo stesso, anche se il numero delle denunce è aumentato. A finire in carcere però sono soprattutto i cittadini stranieri (il rapporto è di sei a uno), nella maggior parte dei casi per delitti minori.

"Si sta delineando un processo di carcerizzazione dei migranti spaventoso, ma non si parla mai di ciò che c’è dietro, che produce marginalità, disagio e devianza. Secondo la relazione della Corte dei conti 2004-2005 tutti i soldi nel nostro paese in termini di immigrazione vengono spesi per l’80% in politiche di contrasto e solo per il 20% nel sostegno. A fronte di questi dati - ha concluso Palidda - raccogliamo soltanto ciò che abbiamo seminato".

Anche Vincenzo Ruggiero sociologo e docente alla Middlesex University di Londra ha affrontato il problema dell’immigrazione sottolineando come la legislazione in materia sia volta più che a impedire l’ingresso degli stranieri, a renderlo più difficile, e a creare tutti gli ostacoli che portano il migrante a dover subire quello che egli definisce un lungo "tirocinio della sofferenza" una volta arrivato nel nostro paese.

"Il dibattito sull’illegalità riferita al migrante è un’ipocrisia - ha poi continuato -, l’Italia è attraente per gli stranieri perché è un paese dove l’illegalità è diffusa e dove convivono diverse forme di illegalità". E Roberto Morrione, presidente di Libera, ha sottolineato come spesso quando si parla di illegalità in Italia, si deve parlare anche di connivenza tra organizzazioni criminali e istituzioni. Il problema della sicurezza e della legalità allora si delinea come una questione che riguarda la riorganizzazione delle strutture e il riequilibrio dei costi, con un impegno concreto delle istituzioni nella realizzazione piena dei diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti.

Giustizia: Mastella; sulla Finanziaria un giudizio positivo

 

www.giustizia.it, 2 ottobre 2007

 

"L’efficienza della giustizia, volano dell’economia del paese, è una delle priorità del governo e le decisioni prese dal Consiglio dei ministri, che in nottata ha approvato la Finanziaria, lo dimostrano, perché hanno tenuto fede, nei limiti delle compatibilità economiche, al programma dell’Unione". Giudizio positivo del Guardasigilli, Clemente Mastella, sulla manovra che ora passa all’esame del Parlamento.

"Destituita di fondamento, alla luce delle decisioni prese - sottolinea il ministro Mastella - l’ipotesi di portare a settant’anni l’età pensionabile dei magistrati, che io stesso ho definito ingestibile e sicuramente onerosa, con la Finanziaria è stato razionalizzato il settore delle intercettazioni, attraverso l’introduzione di un sistema unico nazionale su base distrettuale, che consente un notevole risparmio di spesa. Non solo, è stato possibile dotare la giustizia di uno strumento fondamentale quale è l’informatizzazione del registro generale del casellario giudiziale, che con la prevista autorizzazione di spesa di 20 milioni consentirà di avviare quel processo necessario di comunicazione a distanza tra i diversi uffici giudiziari, che finalmente avranno in tempo reale un quadro completo delle pendenze a carico di indagati e di imputati".

Con la legge finanziaria 2008, rileva ancora il Guardasigilli, "i debiti, ereditati dal passato, vengono, anche se solo parzialmente, sanati. 25 milioni di euro sono stati previsti, infatti, per coprire quanto dovuto alle Poste per gli stipendi degli ufficiali giudiziari. Oltre 200 milioni, poi, sono stati stanziati per il fondo di investimento dell’edilizia giudiziaria, penitenziaria e minorile. L’incremento, rispetto alla passata manovra, è di 100 milioni di euro, perché è stato ripristinato uno stanziamento già disposto e poi congelato. Il Consiglio dei ministri ha previsto pure degli accantonamenti che servono alla copertura di nuove iniziative legislative che consentiranno l’avvio dell’azione di recupero dell’arretrato; e il contenimento delle spese della giustizia militare, con il passaggio dei magistrati militari eccedenti nei ruoli ordinari e quello conseguente del personale di cancelleria e di segreteria al ministero della Giustizia". "La Finanziaria - conclude Mastella - ha anche affrontato la questione della costruzione di nuove carceri e dell’adeguamento degli edifici esistenti attraverso le opportune intese tra i ministri delle Infrastrutture e della Giustizia".

Giustizia: il ministro Mastella e il "mistero di Catanzaro"

di Giancarlo Ferrero

 

L’Unità, 2 ottobre 2007

 

Se veramente si vuole dare un segnale di svolta alla politica ed alle istituzioni è necessario depurare subito gli eventi più rilevanti da ogni risvolto spettacolare e conflittuale che li circonda e li trasforma in "notizia" da lanciare in pasto all’opinione pubblica con molta evidenza e poca serietà. Tanto più quando si tratta di delicate questioni giuridiche, già di per sé complesse e di non facile comprensione per i non "addetti ai lavori". Come in quasi tutti i casi del genere la via maestra è offerta dall’uso intelligente ed oggettivo del sillogismo logico: i fatti e le leggi che agli stessi si applicano.

A Catanzaro un sostituto procuratore della Repubblica, cioè un magistrato inquirente, ha avviato delle indagini di eccezionale rilevanza per i soggetti implicati e per i contenuti, annotando negli appositi registri i nominativi di molte persone, in diversi casi per mero obbligo processuale prescritto a fini garantistici. Come tanti altri, anche l’ufficio giudiziario calabrese è vittima delle solite fughe di notizie e delle dietrologie che ne seguono, strumentalizzate ad arte da chi direttamente ed indirettamente vi ha interesse (anche non strettamente giuridico). Inutile dire che gli atti d’ufficio andrebbero più seriamente tutelati e la diffusione non consentita di notizie più severamente punita.

I cattivi rapporti tra il sostituto procuratore ed il procuratore titolare dell’ufficio sono di dominio pubblico e provocano inevitabili reazioni da più parti. Il ministro di giustizia, pur non potendo assolutamente interferire con l’azione degli organi giudiziari, ha facoltà (ed il dovere) di assumere informazioni, avvalendosi degli ispettori ministeriali, ed eventualmente di dar inizio all’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti.

A seguito di una recente modifica legislativa, quando sussistono gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e l’addebito è punibile con una sanzione diversa dall’ammonimento, può essere richiesto in via cautelativa anche l’immediato trasferimento coattivo del magistrato. Sussistono fondati dubbi che la predetta istanza possa essere presentata prima dell’inizio del procedimento disciplinare.

Nel caso di Catanzaro, come è noto, il ministro ha formulato anche questa richiesta, dimostrando così di considerare molto gravi e fondati gli addebiti mossi al sostituto procuratore. Poiché Mastella non è certo uomo sprovveduto, deve ritenersi che abbia preso la clamorosa iniziativa sulla base delle analitiche relazioni degli ispettori ministeriali che di norma hanno il supporto motivazionale proprio degli atti giudiziari, redatti da magistrati. Per rispetto del sacrosanto principio del contraddittorio l’indagato ha diritto di prendere visione degli atti e di controdedurre per iscritto e oralmente.

Per le stesse ragioni il ministro ed il Procuratore generale presso la Cassazione hanno diritto di esaminare le difese ed eventualmente far conoscere la propria opinione. Competerà poi esclusivamente alla sezione disciplinare del Csm, che ha natura di organo giurisdizionale e non amministrativo, emettere in piena autonomia la propria decisione, impugnabile in Cassazione. Come sia possibile, prima di conoscere gli atti, soprattutto le relazioni degli ispettori, stabilire se l’iniziativa di Mastella sia seria o pretestuosa costituisce un mistero spiegabile solo con l’enorme superficialità che caratterizza la nostra società civile e politica, validamente coadiuvata dai "mass media".

Va aggiunto che il clamore suscitato e la tensione provocata, oltre alla debolezza razionale che rivela, dimostra un ben scarso rispetto dell’autonomia e coscienza dei magistrati chiamati a risolvere il delicato caso (fenomeno purtroppo tutt’altro che infrequente nel nostro costume, come recenti, terribili fatti di cronaca pongono ogni giorno in agghiacciante evidenza). Poiché per questo giornale è tempo di appelli alla serietà ed alla tutela del pubblico interesse, aggiungiamo anche l’invito a non assumere mai giudizi frettolosi prima di conoscere bene i fatti, nella loro interezza ed obbiettività.

Ciò non vuol certo dire che gli organi di in formazione debbano subire etero od autocensure né che i cittadini non siano liberi di farsi delle proprie opinioni, ma solo che ciò avvenga con un minimo di consapevolezza del caso in discussione e senza cedere alla squallida seduzione della logica da bar. Al momento è consentito unicamente effettuare dei collegamenti sillogici tra ipotesi verificabili e soluzioni conseguenti; a) i risultati delle istruttorie sono chiaramente contrari al sostituto procuratore che, quindi, è venuto meno ai suoi doveri di magistrato, commettendo uno degli illeciti disciplinari tassativamente previsti dalle recenti riforme dell’ordinamento giudiziario; b) i risultati sono completamente a suo favore; e) i risultati non sono univoci e si prestano a diverse interpretazioni.

Nel primo caso il dr De Magistris deve essere disciplinarmente sanzionato e trasferito dal suo ufficio. Nel secondo caso il ministro ha il dovere di assumersi le sue responsabilità politiche e dimettersi, allontanando contemporaneamente gli ispettori che hanno redatto le negative relazioni. Nel terzo caso andrà letta attentamente la decisione adottata dalla sezione disciplinare del Csm, dopo di che i cittadini potranno liberamente farsi le loro opinioni ed i mezzi di divulgazione diffondere i loro commenti positivi o negativi.

Comunque sia è certo che al ministro della giustizia in carica non mancherà il lavoro da farsi presto e, possibilmente, bene. In primo luogo potenziare realmente gli uffici giudiziari del sud per renderli idonei a combattere la diffusa criminalità, particolarmente quella più agguerrita, come le organizzazioni mafiose ed assimilate. In proposito il ministro dovrà dare subito prova del suo impegno contribuendo alla istituzione dell’Agenzia Straordinaria per la gestione dei beni confiscati, senza la quale la lotta alla criminalità organizzata è destinata a sicuro fallimento.

Inoltre non si potrà più continuare ad ignorare la gravissima malattia da cui è affetta la nostra giustizia, la sua estrema lentezza che offende i cittadini e causa all’erario una vera e propria emorragia di denaro pubblico per le continue condanne risarcitone dello Stato a favore degli utenti del servizio giustizia (oltre ai reiterati richiami dell’Unione Europea che hanno indotto il ministero a programmare una massiccia assunzione di magistrati attraversi concorsi che si susseguono a pioggia).

Da ultimo, non certo per importanza, il ministro ha il dovere di occuparsi del contenzioso tributario al suo vertice, Cassazione e Commissione Centrale Tributaria, soffocate da ricorsi ed arretrati (come è stato più volte, sinora inutilmente, segnalato con specifiche relazioni), organi ormai in stato di vergognosa semi paralisi. La politica delle istituzioni è fondamentale per l’ordinata vita del paese, continuare a non decidere è un suicidio per la politica ed un enorme danno per lo Stato e la sua credibilità.

Giustizia: è colpevole o innocente?... il "valzer" di Garlasco

di Fabio Lattanzi

 

Il Riformista, 2 ottobre 2007

 

Due affermazioni. La prima: "il quadro, da indiziario, è diventato probatorio". La seconda: "non ci sono sufficienti indizi per mantenere Stasi in carcere" e neppure il pericolo di fuga paventato dalla Procura sarebbe fondato. Due affermazioni situate su poli opposti. Due affermazioni caratterizzate da contenuti antitetici. La prima del procuratore della Repubblica, la seconda del giudice delle indagini preliminari. Due affermazioni che hanno condotto la vita di Alberto Stasi in un valzer frenetico.

La prima è del 24 settembre 2007. Il giorno in cui il biondo ventiquattrenne è stato dapprima fermato, poi condotto nella caserma dei carabinieri e infine trasferito nel carcere di Vigevano. La seconda del 28 settembre 2007. Poche parole che hanno riaperto i cancelli del carcere e restituito la libertà al pallido boccononiano.

La prima ha cucito addosso ad Alberto l’etichetta di colpevole. Assassino e bastardo urlava la folla all’uscita dalla caserma di Vigevano. Nessun commento. La seconda gli ha scucito l’etichetta di colpevole e l’ha sostituita con quella recante la scritta innocente. Etichetta, quest’ultima, suggellata dal grido della madre di Chiara: "trovate il colpevole". Un valzer frenetico, quasi assassino, dove il giovane fidanzato è stato catapultato, di cui arresto e scarcerazione non sono che i violenti giri finali. L’inizio della danza è datato 13 agosto 2007, giorno in cui Alberto ha trovato il corpo di Chiara in una pozza di sangue. Il ritmo ha subito una vistosa accelerazione il 20 agosto.

La polizia giudiziaria non rispettosa del dolore ha consegnato al pallido fidanzato un avviso di garanzia. Difficile comprendere la giustificazione giuridica e non mediatica. Omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà: questa la contestazione. I successivi giri di valzer si sono snodati attraverso accertamenti tecnici, sequestri, lunghissimi interrogatori ed infine carcerazione-scarcerazione. La terribile danza ha attirato la morbosità dei mass media. Giornali e tubo catodico hanno offerto una documentazione giornaliera, che inevitabilmente aumentava il ritmo.

Numerose le diapositive. Alberto ai funerali. Alberto inseguito dalla telecamere dopo l’interrogatorio. Alberto che si barrica in casa, quasi autocondannatosi agli arresti domiciliari. Alberto che reagisce con rabbia all’ingerenza del tubo catodico, quando si reca al cimitero con la madre di Chiara. Alberto nell’alfa blu all’uscita della caserma destino carcere di Vigevano. Diapositive tutte con a margine un resoconto dello stato delle indagini. Resoconto, riportante notizie non del tutto veritiere, talvolta del tutto errate.

Un valzer la cui violenza ha calpestato la vita di un giovane ventiquattrenne. Un valzer dal ritmo ingiustificabile, in particolar modo se il suo epilogo sarà costituito da un verdetto di non colpevolezza. Epilogo che peraltro oggi non sembra essere altamente improbabile. Un valzer che non andava suonato. Un valzer che doveva avere altre cadenze, quali quelle che rispettano l’indagato e sono finalizzate all’accertamento della verità.

Un valzer che non doveva essere sottoposto alla pressione dei mass media, bramosi di un volto da esporre su carta stampata e video. Un volto tale da giustificare le apparizioni televisive di criminologi, psicologici e tuttologici nei talk show di seconda serata. Un valzer che forse non doveva dare valore decisivo alla prova scientifica. Che non doveva considerare una prova o un indizio il ritrovamento di un residuo organico.

Ritrovamento che non sembra poi provare molto e che soprattutto, per le modalità con cui è stato trovato, non sembra avere molto di scientifico. Un valzer che ha avuto il suo momento peggiore nel fermo di Alberto Stasi. Un provvedimento del quale si fa molta difficoltà a trovare la sua giustificazione logica-normativa. Un provvedimento di natura altamente eccezionale disponibile in rarissimi casi e di cui il concreto pericolo di fuga è condizione essenziale. Pericolo di fuga che nel caso di Stasi appare inesistente.

Il biondo giovane infatti da quel maledetto giorno non si è mosso dalla Lombardia e per evitare i mass media si è volontariamente consegnato alla detenzione domiciliare. Un provvedimento che i maligni sostengono era giustificato dalla speranza che l’interrogatorio e la paura del carcere facessero partorire un’agognata confessione.

Un valzer che doveva seguire la sua partitura. Partitura che vuole che le indagini siano compiute in completa segretezza, nel rispetto dei diritti dell’indagato, e che una volta concluse, qualora vi siano sufficienti di prova, approdino ad un processo che stabilirà innocenza o responsabilità. Un partitura scritta per evitare processi sommari e caccia alle streghe. Una partitura che per essere suonata con efficienza abbisogna di eccellenti orchestrali.

Siena: arrestato ex Br semilibero, scoppiano le polemiche

 

Corriere della Sera, 2 ottobre 2007

 

Ex Br preso dopo rapina in banca. Amato: "Per i giudici enorme responsabilità". Cristoforo Piancone era in semilibertà, la sera doveva rientrare in carcere. Fuggito un suo complice.

Carcerato di notte, rapinatore di giorno. È un ex terrorista delle Brigate Rosse il bandito arrestato dalla polizia a Siena dopo la rapina messa a segno lunedì in pieno centro ad una filiale del Monte dei Paschi di Siena insieme ad un complice che è riuscito a fuggire. L’uomo, Cristoforo Piancone, 57 anni, era stato ammesso al regime di semilibertà, dopo aver scontato 25 anni di carcere, e ogni sera doveva rientrare nel penitenziario di Vercelli. Piancone, condannato all’ergastolo per concorso in sei omicidi, partecipò anche all’assassinio del maresciallo di polizia Rosario Berardi avvenuto il10 marzo 1978. Non si era mai pentito né dissociato.

Il Ministro Amato - Sul caso Piancone, destinato a sollevare un vespaio di polemiche, è intervenuto anche il ministro dell’Interno, Giuliano Amato: i giudici devono essere "consapevoli di esercitare una responsabilità enorme", ha detto Amato, intervistato da Sky sull’arresto di Cristoforo Piancone, e sullo stato di semilibertà di cui godeva l’ex Br. "Non dirò mai che deve essere esclusa qualunque possibilità per i giudici di tener conto del comportamento tenuto in carcere da un detenuto e di modulare la pena di conseguenza - ha detto il responsabile del Viminale - però certo i giudici debbono essere consapevoli di esercitare una responsabilità enorme".

Verifica ministeriale - Sul caso della semilibertà concessa all’ex Br ergastolano, il ministero della Giustizia "provvederà a verificare che la decisione di concedere il beneficio a Cristoforo Piancone siano state assunte previa attenta e completa valutazione delle condizioni richieste".

La rapina - I due malviventi sono entrati a volto parzialmente coperto nell’istituto bancario, e tenendo sotto la minaccia delle pistole i dipendenti, si sono fatti consegnare 170mila euro. Qualcuno è riuscito però ad avvertire il 113, e i due banditi sono fuggiti in moto. Uno di loro è sceso dal mezzo e ha proseguito la fuga a piedi, ma è stato arrestato dai poliziotti nella zona di Fontegiusta. Uno degli agenti ha sparato un colpo di pistola in aria a scopo intimidatorio dopo che il rapinatore, arrestato successivamente, aveva cercato di sparare contro i poliziotti, ma la sua arma si era inceppata. La polizia ha recuperato sia la refurtiva sia tre pistole, due calibro 9’ e un’altra a tamburo calibro 38’, tutte con matricola abrasa. Una quarta pistola, sempre calibro 9’, è stata recuperata dai carabinieri. L’altro bandito è ricercato in tutta la zona.

L’interrogatorio - Dopo l’arresto Piancone non ha voluto dire chi era, né ha dato indicazioni sul suo complice. Ha spiegato solo che il colpo era stato preparato con cura e che la via di fuga avrebbe dovuto essere un’altra rispetto a quella poi scelta. Secondo quanto spiegato nel corso di una conferenza stampa tenutasi in questura, la polizia ha impiegato due ore per identificare Piancone, che non ha voluto rivelare il suo nome. In questo modo, secondo gli investigatori, avrebbe avvantaggiato la fuga del complice, di cui non ha voluto rivelare l’identità. L’ex Br non ha poi nominato un avvocato di fiducia. La polizia di Siena ha spiegato che oltre alle ricerche del complice, sono state avviate indagini per verificare se il colpo in banca sia stato una rapina da criminalità comune o se si trattasse di una rapina a scopo di autofinanziamento politico. È stato anche precisato che il motorino usato per la fuga è risultato rubato in provincia di Massa Carrara, non di Siena come inizialmente emerso.

La sua storia - L’ex brigatista rosso, aveva ottenuto la semilibertà dal carcere di Vercelli all’inizio del 2004. Il beneficio gli era stato concesso dal tribunale di sorveglianza di Torino. Piancone, che ha scontato 25 anni di carcere, apparteneva alla direzione strategica delle Brigate rosse. Non si è mai pentito né dissociato e ha definito la sua militanza "una vicenda storicamente chiusa" Anni prima era già stato ammesso al lavoro esterno presso una cooperativa cittadina, ma fu trovato all’interno di un supermercato con merce non pagata per 27 mila lire.

Accusato di rapina impropria per avere spintonato due dipendenti, fu condannato a due anni, risarcì la direzione del market che ritirò la costituzione di parte civile e donò un milione al "Fondo assistenza del personale di Ps vittime del dovere". A seguito di quell’episodio, attribuito dall’ex brigatista ad un momento di grave tensione per le non buone condizioni di salute di un familiare, gli fu sospeso il beneficio. A distanza di anni ha presentato la richiesta per poter andare a lavorare durante il giorno e avvicinarsi a Torino, città dove vivono l’anziana madre e altri familiari. Il beneficio gli venne concesso anche perché la sua condotta penitenziaria fu definita ottima.

"Artefice della morte di mio padre" - "È stato uno degli artefici della morte di mio padre. La magistratura, le infiltrazioni del governo, i giudici, stanno facendo di tutto per tutelare gli ex terroristi". È con queste parole che Bruno Berardi, presidente dell’Associazione vittime del terrorismo "Domus Civitas" e figlio del maresciallo Rosario Berardi, ha commentato l’arresto di Cristoforo Piancone: "Vorrei ricordare che Piancone è l’uomo che sparò alle spalle a mio padre e lo finì con un colpo alla nuca", ha detto ai microfoni di Sky Tg24.

La semilibertà - "Non mi risulta vivesse in condizioni di particolare disagio - ha raccontato il legale di Piancone, l’avvocato Riccardo Vaccaro - Ci stavamo preparando per chiedere di nuovo la libertà condizionale". Un beneficio negato dal tribunale di Sorveglianza di Torino, la scorsa primavera, mantenendo invece per l’ex militante della lotta armata la semilibertà concessa nel 2004. "Piancone - ha spiegato ancora il legale - viveva la semilibertà come un supplemento di pena. Tutti i giorni doveva spostarsi da Vercelli a Torino, dove lavorava come bidello in una scuola, per poi tornare a Vercelli in carcere". L’ex brigatista non poteva essere trasferito nella casa di detenzione di Torino, "perché - ha detto ancora l’avvocato - è intitolata a Lorenzo Cotugno, la guardia uccisa da Piancone".

Reggio Calabria: nuova visita On. Caruso al penitenziario

 

Calabria Ora, 2 ottobre 2007

 

Dopo la visita dello scorso visita dello scorso venti settembre, Francesco Caruso è tornato a visitare la casa circondariale di San Pietro. Accompagnato da Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus, il deputato ha di nuovo oltrepassato i cancelli del carcere reggino per monitorare la situazione del detenuto Andrea B., venticinquenne con gravi problemi di salute e da tre anni e mezzo in attesa di giudizio. "Andrea - spiega Caruso - è un invalido al 100% costretto su sedia a rotelle, quindi è in condizioni di salute incompatibili con la carcerazione, nonostante i giudici dicano il contrario".

Una visita conclusasi senza l’incontro con Andrea, assente a causa di un processo, ma che ha comunque permesso all’esponente no-global di tenere viva l’attenzione sul caso sollevato qualche tempo fa da Franco Corbelli: "il detenuto vive in una cella angusta, solo da una settimana può utilizzare esclusivamente la carrozzella, la tazza posta su un gradino non gli consente di andare in bagno se non assistito da un piantone.

Inoltre - prosegue Caruso - dorme in un letto a castello dal quale cade frequentemente a causa di continui tremori che lo portano anche a sbattere contro la rete metallica superiore e ha difficoltà a mangiare perché, non riuscendo a mettere le gambe sotto il tavolo, si sporca. Chiediamo - conclude il deputato insieme alla Berardi - che Andrea venga inserito in un centro clinico specializzato o sottoposto agli arresti domiciliari, seguendo la sua volontà di vivere la carcerazione con dignità senza sottrarsi al giudizio ". Berardi che non dimentica gli altri carcerati: "oltre a problemi strutturali, c’è carenza di attività formative-lavorative-culturali, che fanno perdere alla carcerazione il suo carattere rieducativo".

E denuncia la situazione del carcere di Palmi, raccontando come "dal 10 settembre i detenuti protestano pacificamente contro l’assenza di qualsiasi riqualificazione interna, l’assenza di percorsi di recupero, assurde restrizioni inesistenti altrove, le continue minacce di trasferimento e il girone dantesco dell’Elevato indice di vigilanza: Caruso ha presentato la terza interrogazione parlamentare al ministro Mastella, sperando questa volta di ottenere finalmente una risposta".

Genova: i detenuti tornano in scena al Teatro della Corte

 

Il Giornale, 2 ottobre 2007

 

I detenuti del carcere di Marassi tornano per il secondo anno sul palcoscenico con il nuovo spettacolo: "Sono felice per te" che verrà rappresentato il 5 e 6 ottobre alle 20.30 al Teatro della Corte.

Dopo il successo di "Scatenati", opera andata in scena il maggio scorso presso il Teatro Modena, i carcerati continuano ad esprimersi con una nuova storia ancora una volta ideata da loro stessi e rappresentata per la regia di Sandro Baldacci. "Siamo molto soddisfatti di questo risultato - racconta il dott. Salvatore Mazzeo, direttore del carcere di Marassi - perché rappresenta un importante momento di espressione, di crescita e di recupero personale. L’esperienza del teatro, nonostante il grande sforzo organizzativo per far uscire, per le serate delle rappresentazioni, i detenuti, fa parte ormai da tre anni del nostro trattamento di recupero".

"Sono felice per te" mantiene la struttura corale e musicale dello spettacolo dell’anno scorso e nasce dal lavoro svolto in più di un anno di laboratorio teatrale nel quale undici studenti-detenuti si sono preparati lavorando fianco a fianco sia con professionisti dello spettacolo sia con studenti del Dams (Dipartimento per l’Arte, la Musica e lo Spettacolo) dell’Università di Genova. Nell’ambito di quest’iniziativa i detenuti hanno partecipato a tutte le fasi della realizzazione del progetto: dalla drammaturgia alla scenografia, dalla progettazione del manifesto pubblicitario alla costruzione (avvenuta in buona parte in carcere) delle scene.

"Quest’iniziativa rappresenta un autentico momento di integrazione tra il mondo della reclusione e il tessuto sociale - sostiene Dino Bonaccorsi, presidente del Dams - soprattutto nel momento della rappresentazione dello spettacolo, quando detenuti e pubblico s’incontreranno a teatro. È sicuramente un occasione importante per vivere il carcere non solo come "corpo estraneo", ma anche come risorsa di positivo recupero". "Sono felice per te" verrà replicato negli stessi giorni alle ore 11 per permettere ad intere scuole o singole classi di assistere allo spettacolo a cui seguirà un dibattito sia insieme ai carcerati sia con la coordinatrice del progetto, la prof. Mirella Cannata. Per prenotazioni 010.5342302, costo biglietto euro 12. Riduzione studenti euro 6.

Como: sport; i detenuti si dedicano al sollevamento pesi

di Sara Bracchetti

 

La Provincia di Como, 2 ottobre 2007

 

Il tempo del carcere è lento e monotono. "Ma tu - osa Eduard spontaneo e discreto - non sei venuta qui l’anno scorso?". Tralascia terze persone inutili, ma ha fare educato e buona memoria: era la fine di luglio, però. Due mesi fa, soltanto. Il volto nuovo si guarda, indaga e ricorda, quando le giornate sono ripetitive e i luoghi pure: cella, palestra, cortile.

L’altra volta, quella della partita di pallone contro le vecchie glorie, i detenuti erano tanti e agitati, al bordo di un campo di calcio fatto di polvere, sabbia e porte senza reti. Mancavano perfino le linee bianche, a far sembrare perfetta una sfida attesa e importante. "E le telecamere, quando arrivano? Ma se andiamo in televisione, ci pagano? Come no, all’Olindo invece quanti soldi hanno dato?".

Tutti passione e allegria, mani che si aggrappavano al braccio del funzionario per supplicare un ultimo incontro con la fidanzata "prima che se ne esca di prigione", finalmente, almeno lei. Dove sono "Canale 5" e "Italia 1", chiede qualcuno a voce alta anche stavolta, guadagnata una sedia in sala. Si schierano compatti sul fondo, poi si spostano nelle file davanti, una cinquantina fra spettatori semplici e iscritti alla gara di sollevamento pesi, che da lontano esaminano e ammirano i muscoli del campione.

Il primo applauso è per lui, Marco Lingua; ne segue uno per ciascun ospite, dall’onorevole Rosalba Benzoni agli organizzatori Ivano Bianchi e Carlo Zambra. Qualcuno si accorge presto della scortesia: solo un fischio dimesso di maschile compiacenza per Ester Balassini, donna e testimonial dell’attività sportiva in carcere, primatista italiana di lancio del martello e prima anche nelle presentazioni alla platea che brama di iniziare la gara.

Una voce dà il via agli altri, parte il battimano anche per lei. La curiosità ha finito in fretta per averla vinta sulla diffidenza, l’ordine si scompone, una battuta di scherno al compagno si leva: "No, stai seduto oppure oggi arrivano le pompe funebri: tu devi uscire vivo da questo carcere".

Il ragazzo è piccolo e smilzo, ride e si avvia comunque verso il centro a riscaldarsi, per sollevare più volte possibile tanti chili quanti quelli che pesa. Autocertificazione per tutti e sedici gli aspiranti alla medaglia d’oro, che per non sfigurare a volte bluffano. "Settantotto chili", proclama Michelangelo Chindamo, il solo con le scarpe e i pantaloni eleganti fra gli atleti in tenuta sportiva. Pochi riconoscono il suo nome di battesimo, letto dall’elenco.

"No, Michele", rettificano i compagni, vent’anni almeno più giovani. Lui si anima e scherza: "Con i vestiti, però: altrimenti sono 75". Sandy Burgos, pantaloni neri e canottiera bianca, fascia ad allontanare dagli occhi i capelli lunghi e ricci, è confuso. "Centoquattro chili - annuncia, poi discute e corregge - No, novanta". Entra una bilancia dal fondo, ma ormai è tardi. Si prendono per buoni i numeri dei ragazzi e si comincia, in ordine di peso: Petre Covaci, Antonio Reccia, Eduard Dyellari, che, in piedi accanto agli attrezzi, pochi istanti prima si era voltato due volte a scusarsi, nel timore di aver coperto la vista altrui.

Venticinque anni, albanese, jeans, maglietta senza maniche e tatuaggio sulla spalla destra, è in Italia da quattro anni e al Bassone da uno, si allena da sei mesi e spera di uscire prestissimo, "perché due ore alla settimana di palestra sono troppo poche". Sogna di emulare il cugino in patria, che si è distinto nella disciplina di lancio del martello, lascia intendere mimando con le braccia, e ora è famoso e gira il mondo.

"Di solito ne faccio anche diciassette", si vanta alludendo ai sollevamenti del bilanciere che ha appena fermato a dodici. "E lui è il mio concellino: stesso paese e stessa cella", introduce poi Kequy Erion. L’amico ha al collo un rosario con i grani grossi e la croce in legno: coordina le attività e il gruppo di ginnasti, che terminata la prova fanno il tifo per i rivali.

Tanto alla fine una medaglia l’avranno tutti: fa niente se è soltanto "argento", come quella di Francesco Bertucci. Categoria medio massimi, quando si allontana dopo la prestazione, 80 chili alzati e riabbassati sul petto dodici volte, medita fra sé e inizia a spiegare agli altri: "Dodici validi. Posso farne anche di più perché...". Lo interrompe il fragore delle risa alle quali si unisce mentre torna al posto e cova le domande che ha da rivolgere a Marco Lingua.

"Sii sincero - lo stuzzica schietto - Prodotti non ne usi?". Il campo ora è suo, fra attenzione e invidia esibisce i suoi talenti: forza fisica e quel po’ di pancia che guasta. "Non sei in forma, eh?", osserva e prende in giro Teodoro D’Amato, che con il bodybuilding ha visto cimentarsi gli altri e ora si diverte a schernire i difetti.

"Hai il fiatone", non gli mandano a dire. "Ti piace la pasta", insinua un altro. Marco sta al gioco, esprime un desiderio: "Un po’ di musica non c’è?". Potrebbero cantare loro in coro, magari, ma "non sarà una scusa per perdere tempo, visto che non ce la fai più?". I chili sono più di cento. "Pulisci terra e aggiungi tutti quelli rimasti", suggerisce Teodoro, ormai lanciato nel suo personale show.

Sandy si preoccupa, premuroso si porta alle sue spalle per prestargli le braccia qualora le sue non gli bastassero. Termina qui, con centoventi chili riaccompagnati al pavimento e la promessa di tornare ancora. Perché "Ragazzi, mi trasmettere un entusiasmo che fuori ritroverò a fatica".

Salerno: multe agli homeless e "foglio di via" a chi non paga

 

Correre della Sera, 2 ottobre 2007

 

Quando aveva firmato la delibera che prevedeva una multa fino a cinquecento euro per chi imbratta le strade della città e per chi bivacca in luoghi pubblici - peggio ancora se ubriaco o fatto di droga -, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca (Ds) aveva parlato di provvedimento "contro i cafoni". La sua tolleranza zero, però, forse avrà anche colpito qualche cafone, ma di certo sta colpendo i più deboli, quelli che in strada ci bivaccano non perché sono sfaccendati ma semplicemente perché non hanno nessun altro posto dove andare.

Lo testimoniano le ultime contravvenzioni emesse dalla polizia municipale (quella che De Luca in un altro dei suoi provvedimenti ha dotato di sfollagente) che nei giorni scorsi ha multato prima un giovane che dormiva sul lungomare e poi quattro senzatetto - due persone anziane e due giovani - trovati nei pressi di un’area verde.

Duecentocinquanta euro per ogni contravvenzione, e figuriamoci se i quattro destinatari del provvedimento potranno pagare. Non hanno una casa, non hanno da mangiare, non hanno niente in tasca. E buon per loro che non stavano chiedendo l’elemosina, altrimenti sarebbero stati multati anche per accattonaggio e magari la cifra riportata sul verbale raddoppiava addirittura. Ma il vero problema, per chi finisce in queste situazioni, è che il provvedimento di De Luca prevede, alla seconda contravvenzione, la segnalazione al questore per l’espulsione dalla città per un periodo che va da uno a tre anni.

È quindi probabile che tra non molto a Salerno ci saranno cittadini salernitani con il foglio di via in tasca. Perché il sindaco è stato chiaro, a lui non interessa da dove vengano i "cafoni", gli interessa che se ne vadano. Chiunque si comporta senza rispetto per la città, non è gradito. Perché, sostiene il sindaco, "gli atti incivili non creano soltanto problemi di decoro e igiene urbana, ma anche di sicurezza e ordine pubblico".

Immigrazione: "fuori i Rom"... è il nuovo grido di battaglia

di Oreste Pivetta

 

L’Unità, 2 ottobre 2007

 

"L’invasione dei nomadi", titolava l’altro giorno il Corriere della Sera l’articolo di fondo di Alberto Ronchey. E l’impressione che dava era di una minaccia più che incombente ormai presente, come nella storia degli "ultracorpi", dal film di Don Siegel, dove gli ultracorpi non erano che quei baccelli giganti che espellevano alieni dalle sembianze umane. Tutti comunisti peraltro, mostruose creature che sotto false spoglie si insinuavano nel nostro sistema per abbatterlo. Nel caso di Ronchey gli ultracorpi sono i rom, in particolare gli zingari che vengono dalla Romania.

La Romania è ormai un paese comunitario, in modo tale che anche i suoi migranti lo sono: comunitari con tutte le facoltà e le libertà che spettano loro di diritto. Ronchey aggrediva la questione dal punto di vista solo della criminalità e spiegava: c’è già la nostra (e non si scherza tra mafia, camorra e imprecisate "sacche d’illegalità urbane e suburbane"), figuriamoci se ci possiamo permettere anche "quella d’importazione". Dopo aver citato Montanelli e un suo viaggio a bordo di un carrozzone attraverso Macedonia e Tessaglia (sarà vero?) citava avvicinandosi ai nostri tempi l’ex prefetto di Roma Achille Serra, che raccontava delle sue visite nei campi rom, riserve indiane di scippatrici e di svaligiatori notturni d’appartamento.

Ovviamente Ronchey si diceva preoccupato assai, insieme con l’ex prefetto, temendo che questo mondo diviso tra scippatrici e svaligiatori motivasse l’altrui violenza intollerante e xenofoba. Concludeva Ronchey: "Fino a che punto, in Italia come altrove, si può davvero integrare oltreché ospitare qualsiasi flusso d’immigrazione?".

Ieri il Corriere tornava in argomento, impegnando un altro tra i suoi editorialisti, il banchiere Salvatore Bragantini, che tra gli argomenti sensati dava un numero: novantamila. "L’inva-sione" (parola di Bragantini) era tutta in quel numero e aggiungeva: "numeri simili l’Italia dovrebbe essere in grado di gestirli".

Non solo però un aggiustamento (nelle proporzioni) dell’invasione, ma subito dopo l’ammissione che vi possano essere rom (e albanesi o maghrebini) onesti e se comunque i rom padri non sono onesti, i figli dovrebbero aver la possibilità di frequentare una scuola, primo passo per non cadere nel vizio dei padri. Vizio che va sanzionato, sulla base del principio che "è giusta la durezza verso chiunque delinqua", ma è giusta "anche l’apertura verso l’immigrato onesto: non deve pagare colpe che non ha".

Non deve pagare per un pregiudizio ad esempio, per la brutta fama che avvolge chiunque non viva come noi: "La responsabilità dei comportamenti è individuale". Come tale appartiene a tutti: italiani e rom, comunitari ed extracomunitari. Per questo si dovrebbe colpire l’abuso o il crimine ovunque sia.

Cominciamo dagli abusi. Che cosa lascia credere che un lavavetri sia più molesto di un automobilista che parcheggia in seconda fila, paralizzando il traffico? È capitato anche a noi di scriverlo. Peccato che il caso del lavavetri diventi una sorta di emergenza nazionale, mentre quello del parcheggiatore in divieto venga tollerato, anzi diventi la regola o una simpatica divagazione dalla regola.

La "tolleranza zero" non funziona a senso unico. Legalità e illegalità non sono pedine di un puzzle che si compone e si scompone a piacere. Sono valori e disvalori universali, senza colore. Ha ragione Bragantini (meno nel titolo, "L’intolleranza non ci appartiene", perché di intolleranza abbiamo dato mostra nel passato e nel presente: basterebbe riguardarsi la nostra storia degli anni fascisti).

Soprattutto ci richiama alla nostra cultura dell’emergenza perenne e della sorpresa perenne: l’immigrazione la conosciamo ormai da decenni, dovremmo aver imparato a fare i conti con l’immigrazione e con tutto ciò che rappresenta nel bene e nel male e dovremmo soprattutto aver capito che si tratta di qualcosa di incoercibile, dettato dagli insopportabili squilibri del nostro mondo.

Un paese cresce se impara a "governare" repressione e umanità con tutti, mentre Ronchey amerebbe a distinguere tra flusso e flusso. Come quel vescovo che voleva immigrati solo cristiani e possibilmente cattolici e magari "santi". Gli altri lasciamoli alla loro fame o ai loro barconi. È vero che la fatica dell’integrazione dovrebbe essere reciproca, ma noi saremmo tenuti a dare l’esempio. Almeno in virtù di quei privilegi che non ci facciamo mancare.

Droghe: Veltroni; raddoppiare le pene per spaccio a minori

 

Notiziario Aduc, 2 ottobre 2007

 

Il sindaco di Roma e candidato leader del Pd, Walter Veltroni, propone di "raddoppiare le pene per chi spaccia droghe pesanti davanti alle scuole o ai ragazzi con meno di 18 anni". Lo ha detto ieri lo stesso Veltroni a Brescia al convegno "Governare l’immigrazione, sicurezza, diritti, legalità" organizzato dal Comitato per Veltroni.

"La pena prevista oggi per chi spaccia droga va da 6 a 20 anni di reclusione. Se lo spaccio è indirizzato ai minori, essa aumenta già da un terzo fino alla metà. Il "mite" Veltroni propone da Brescia il raddoppio della sanzione: cioè che si arrivi a una pena massima di... 60 anni di reclusione!

Complimenti! Peccato che limiti il rilancio all’eroina e alle "droghe pesanti". Lo afferma Alfredo Mantovano (An). "E chi vende ai minori hashish o marijuana, magari col 20% di principio attivo? Peccato, ancora, che la sua richiesta sia rivolta a quello stesso governo che vuole demolire la legge sulla droga e che approva le narco-sale, per il tramite della sua collega del Pd Livia Turco". Ma non sarebbe meglio, conclude Mantovano, "far applicare le norme in vigore, senza ansie abrogazioniste e senza furie punitive?".

Droghe: Torino; Lega e An protestano contro le narco-sale

 

Notiziario Aduc, 2 ottobre 2007

 

Un secco no alla realizzazione delle narco-sale a Torino arriva dalla Lega Nord che oggi pomeriggio ha dato vita ad una manifestazione di protesta davanti a Palazzo Civico, in concomitanza con la riunione del consiglio comunale. "È inaccettabile - ha detto l’europarlamentare del Carroccio Mario Borghezio - che da una parte poliziotti e carabinieri di questa città siano malmenati nei parchi cittadini dagli spacciatori e dall’altra il Comune pensi a delle sale per drogarsi in libertà".

Molto dura anche la posizione di Roberto Cota, vice capogruppo della Lega Nord alla Camera e segretario nazionale della Lega Nord Piemonte: "Bell’esempio di irresponsabilità quello del sindaco sulle narco-sale. I torinesi sono stufi di vedere la città in mano agli spacciatori e ai clandestini, altro che "stanze del buco". Con oggi lanciamo un referendum tra la gente per sapere da che parte stanno realmente i torinesi sulla questione droga: ogni sabato, presso i nostri gazebo sparsi per le circoscrizioni cittadine, si potrà votare sulle narco-sale".

Durante il consiglio comunale il capogruppo della Lega Nord Mario Carossa ha consegnato alla giunta una grande siringa in segno di protesta, poi è stato allontanato dall’aula.

Consiglieri Comunali An espulsi dall’aula per protesta - È cominciata con un sit in davanti a Palazzo Civico a Torino, oggi pomeriggio, la protesta di Alleanza nazionale contro la proposta del sindaco Sergio Chiamparino di sperimentare in città le narco-sale. Il no alle cosiddette "stanze del buco" è stato poi ribadito in Sala Rossa dove è in corso il consiglio comunale: il capogruppo Agostino Ghiglia, Roberto Ravello, Ferdinando Ventriglia ed Ennio Galasso hanno inscenato un singolare gesto di protesta esponendo in aula alcune grandi siringhe di cartone. I consiglieri di An sono stati quindi espulsi dall’aula dal presidente del consiglio comunale Beppe Castronovo.

 

 

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