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Giustizia: serie azioni di reinserimento, o un altro indulto
Il Manifesto, 18 ottobre 2007
I dati del Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) segnalano che la popolazione di detenuti in Italia è di nuovo oltre i limiti dei posti disponibili: 47.000 detenuti per 43.000 posti. Prima del provvedimento di indulto (votato dai due terzi del parlamento, quindi da destra e da sinistra, e firmato dal ministro della Giustizia) c’erano 63.000 detenuti per 43.000 posti. Una situazione insostenibile che stava conducendo al collasso il sistema penitenziario italiano. Il rischio è che l’anno prossimo si torni alla stessa situazione, cioè al sovraffollamento. L’indulto ha sostanzialmente cancellato tre anni di pena ai detenuti italiani. Ricordo bene il 1 agosto 2005, il giorno in cui è stato applicato. Ero al carcere di Pisa, ricordo la gente che usciva a getto continuo. Per lo più tossicodipendenti, i famosi "ergastoli bianchi", gente che entra in carcere con piccole condanne, esce e rientra, e a botte di piccole condanne in carcere ci passa quasi tutta la vita. Quelli a più alto rischio di recidiva, perché il carcere non disintossica dalla droga, esci e commetti di nuovo reati per procurartela. E rientri. Lo temevo, che molti di loro non sarebbero rimasti fuori a lungo. Temevo che il problema del sovraffollamento, in assenza di nuove carceri, di un’applicazione più efficace delle misure alternative alla detenzione, sarebbe tornato presto. Sovraffollamento che non è un problema solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di polizia penitenziaria, per i medici, gli educatori, tutti coloro che in carcere ci lavorano. 63.000 detenuti per 43.000 posti, immaginate di che stiamo parlando ? Le celle doppie devono diventare triple, quadruple. Il personale non riesce a diventare triplo e quadruplo. Si arriva al paradosso che i carceri devono rifiutare nuovi ingressi perché non sanno fisicamente dove mettere la gente, come è successo da più parti in Italia. Senza parlare del fatto che tentare strade di rieducazione attraverso lo studio ed il lavoro diventa difficilissimo. Allora l’indulto era necessario, forse indispensabile. Ma non da solo. Andava accompagnato da altre misure, e tuttavia queste misure sono costose, in un paese in cui ci si lamenta continuamente delle troppe tasse e di soldi ce ne sono pochi per tutti gli ambiti, anche i più importanti come scuola, sanità, ricerca. Ora, costruire nuove carceri costa. Assumere nuovo personale costa. Organizzare esperienze lavorative su grandi numeri costa, fra le altre cose, in termini di sorveglianza, è più facile ed economico sorvegliare tutta questa gente tenendola in cella per venti ore al giorno, e le rimanenti in un cortile chiuso. Le misure alternative alla detenzione vengono usate con parsimonia, perché è possibile andare in semilibertà o affidamento ai servizi sociali solo se si ha un lavoro esterno (e nel caso dell’affidamento, che richiede ai detenuti di essere ad un minimo di tre anni dal fine pena, anche un domicilio abitativo), se si danno quindi delle garanzie sul fatto di non tornare a delinquere, e non sono molti i detenuti con queste caratteristiche, soprattutto i tossicodipendenti. Eppure sono costi che andranno sostenuti prima o poi, altrimenti l’indulto non avrà in effetti avuto altra ricaduta che di alleggerire la situazione per un paio d’anni. Tanti interrogativi restano aperti, come trovare i soldi, come risolvere il problema dei detenuti tossicodipendenti ad alto rischio di recidiva, come gestire inserimenti lavorativi, lavoro all’esterno quando ci sono le condizioni, e non esistono risposte facili. Ma qualche risposta bisogna trovarla.
Don Ciotti: è mancato un "piano di accompagnamento"
"Se si fossero creati progetti di accompagnamento a chi è uscito dal carcere con l’indulto si sarebbe potuto diminuire il numero delle situazioni di recidività". Lo sostiene Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, la rete di organizzazioni impegnate nella lotta alla mafia, in riferimento all’allarme lanciato dal Dap per un possibile nuovo sovraffollamento delle carceri. Il sacerdote è intervenuto a Cagliari alla presentazione di "Strada facendo 3", manifestazione in programma nel capoluogo sardo dal 19 al 21 ottobre con la presenza, tra gli altri, dei ministri Turco, Bindi e Ferrero. "Non basta fare un provvedimento - ha sottolineto Don Ciotti - se poi è tutto assegnato alla buona volontà di qualcuno. La società civile organizzata aveva fatto la proposta chiara di affrettare i tempi e creare percorsi di accompagnamento per chi usciva dal carcere, ma i fondi sono arrivati solo ora. Ad agosto, invece, siamo stati invasi da coloro che uscivano per l’indulto e non avevano punti di riferimento, ma si è fatto quello che è stato possibile". Citando Norberto Bobbio, Don Ciotti ha quindi chiesto "buone leggi" allo Stato e alla società civile di fare la propria parte. Giustizia: Mastella; "giro di vite" contro i killer della strada di Nicoletta Cottone
Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2007
Il giro di vite contro i killer della strada potrebbe far parte del pacchetto sicurezza che il Governo si appresta a varare nel prossimo consiglio dei ministri. Lo ha annunciato il Guardasigilli Clemente Mastella rispondendo al question time alla Camera. Gli interventi, spiega il ministro della Giustizia, sono in avanzata fase di studio da parte del suo ministero, che intende proporli alle altre amministrazioni interessate in vista di una possibile introduzione nel cosiddetto pacchetto sicurezza. Mastella ha sottolineato che "condotte sconsiderate e intollerabili" di chi guida in stato di alterazione vanno "inquadrate con decisione ai livelli più alti e odiosi di criminalità". Una consapevolezza che sta già ispirando i lavori della commissione per la riforma del codice penale, dove é all’esame la possibilità di "sanzionare con la necessaria severità" l’omicidio realizzato da chi guida dopo aver bevuto o sotto l’effetto di droghe. L’intento é quello di adeguare la risposta punitiva, "che non dovrà mai più essere equivoca o addirittura incomprensibile ai cittadini di fronte a tanto scempio". Interrogato sull’indulto Mastella ha sottolineato che la percentuale dei recidivi è diminuita del 6 per cento. "Dei 26 mila soggetti beneficiari dell’indulto - afferma Mastella - soltanto circa 6mila sono rientrati in carcere in un arco di tempo di un anno e tre mesi. La recidiva si attestava al 48% prima dell’indulto, mentre un anno dopo la presenza di recidivi in carcere era pari al 42% del totale. Inclusi in tale dato i detenuti usciti dal carcere a seguito dell’indulto e poi successivamente arrestati". Altri dati sono in fase di elaborazione rispetto alla recidiva e alla revoca delle misure e benefici per aver commesso nuovi reati: l’obiettivo di compararli con i dati di altri Paesi europei. Rispondendo a una interrogazione sull’edilizia penitenziaria Mastella ha evidenziato che la Finanziaria per il 2008 stanzia più di 200 milioni di euro per il fondo d’investimento dell’edilizia giudiziaria, penitenziaria e minorile, con un incremento di 100 milioni di euro rispetto alla Finanziaria per il 2007. Sui problemi di alcuni uffici giudiziari per la mancanza di fondi per il funzionamento delle auto di servizio, Mastella ha segnalato che "tali difficoltà sono state causate dall’applicazione di alcuni limiti previsti nelle procedure contabili e che la situazione negli uffici é in fase di normalizzazione e i problemi segnalati sono in via di risoluzione". Giustizia: Pecorella (Fi); incostituzionali... e controproducenti di Gaetano Pecorella
www.radiocarcere.com, 18 ottobre 2007
È cosa ardua, di questi tempi, difendere le garanzie poste a tutela dei diritti della persona, sia essa colpevole o innocente, allorché lo Stato chiede la sua punizione. Così come è cosa ardua, e soprattutto impopolare, cercare di far salvo il principio secondo cui al carcere si deve ricorrere in casi estremi, se nessun altra misura è adeguata, ovvero tentare di fare appello alla ragione intervenendo sui comportamenti criminali con misure efficaci, e non secondo la logica della piazza. La domanda di sicurezza è più che giustificata. Ciascuno di noi vive in un clima di tale incertezza rispetto alla violenza quotidiana da farci temere, ormai, persino di lasciare le nostre case. Ogni giorno si legge, e talora si è vittima, di rapine, scippi, atti di violenza sessuale, furti e danneggiamenti, per non parlare di reati più gravi come gli omicidi perpetrati in famiglia, o tra vicini, o nelle ville isolate, e a scopo di rapina. Comprendo bene, perciò, che disegni di legge che portano il titolo: "Disposizioni in materia di misure di prevenzione, tutela della sicurezza dei cittadini, ordinamento giudiziario e di contrasto alla illegalità diffusa" siano accolte dal Paese con soddisfazione e con generale plauso, prima e a prescindere dal loro contenuto. Sono convinto, anch’io, che le garanzie si debbano estendere, o si possano comprimere, a seconda dei momenti storici e sociali, della necessità di un intervento repressivo più forte, stante che è venuto meno il rispetto di talune norme essenziali per una tollerabile convivenza sociale. Le norme in tempo di guerra non posso essere le stesse che in tempo di pace, ed oggi, per più ragioni, vi è una specie di disgregazione sociale e di attacco diffuso alla tranquillità delle persone. Vi sono però alcuni limiti che debbono comunque essere rispettati: il primo è che non si intacchino le norme costituzionali e internazionali che riconoscono e tutelano, comunque, i diritti dell’uomo, compresi i diritti dei detenuti; il secondo è che l’intervento, su fenomeni criminali, abbia effettivamente la forza di contenerli, o di stroncarli, e non, per una forma di isteria sociale, possa determinare gli effetti opposti alzando il livello della devianza sociale. Bisogna guardare, perciò, sotto il titolo rassicurante cosa contiene, in realtà, il disegno di legge del Governo. Prendiamo ad esempio l’articolo 4, che esclude l’ammissione al gratuito patrocinio nei confronti di soggetti imputati per il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso. La norma nasce dal fatto che spesso costoro risultano nullatenenti, benché abbiano alle spalle una "presunta" carriera criminale. Ma, in questo modo, e di fronte alla incapacità dello Stato di risalire alle condizioni patrimoniali di alcuni soggetti, si privano tutti, anche coloro che ne avrebbero diritto, della difesa adeguata, com’è imposto dall’articolo 24 della Costituzione. Massiccio, e poco compatibile con la Costituzione, è l’intervento in materia di custodia cautelare. La misura verrà disposta, d’ora in poi, e se la legge sarà approvata, anche quando vi sarà pericolo che il soggetto possa commettere, in futuro, il reato di furto: si badi, non è, evidentemente, l’arresto in flagranza, è l’ordinanza di custodia cautelare basata sui gravi indizi per il reato per cui si procede e su una prognosi, del tutto soggettiva, sul fatto che il soggetto commetterà, nel corso della sua vita, un furto. C’è di più. È introdotta la custodia cautelare obbligatoria in carcere, nei casi di scippo o di furto in abitazione. Che ne è della presunzione di innocenza, di cui all’articolo 27 della Costituzione, in virtù della quale la custodia cautelare dovrebbe essere misura eccezionale, ed ancor più eccezionale dovrebbe essere la custodia in carcere, limitata ai casi in cui nessun altra misura appaia sufficiente? L’irrazionalità ha ispirato le disposizioni che vanno sotto il capitolo "Disposizioni per il contrasto della illegalità diffusa". Sarà irrogata la pena del carcere a chi imbratti l’immobile, con pregiudizio del decoro urbano, e cioè sempre; e a chi "al fine di trarne profitto, arbitrariamente occupa, in tutto o in parte, strade ordinarie". Chi sono costoro? I lavavetri, che occupano i marciapiedi ai semafori? O chi dorme all’addiaccio (per chi lo fa per più di 15 giorni la pena è aumentata)? A tutti dà "noia" vedere i mucchi di cartone sotto cui dorme qualcuno, o avere il lavavetri che, a tutti i costi, vuole pulirti il parabrezza. Ma non è con il carcere che si risolvono questi problemi: è intervenendo sulla immigrazione; è eliminando le cause del disagio sociale; è irrogando misure alternative alla detenzione. Ricordiamoci che mettere a contatto piccoli devianti con grandi criminali, spesso fa di loro dei grandi criminali. E poi dove sarebbero le carceri per contenerli tutti? Giustizia: ma così l’illegalità diffusa avrà ben poco da temere di Emile
www.radiocarcere.com, 18 ottobre 2007
Il Ministero dell’interno dopo mesi di travagliata gestazione ha partorito. Il nascituro, un complesso articolato che interviene in più settori del nostro ordinamento. L’intestazione illustra il campo di azione e il fine. "Schema di disegno di legge recante: disposizioni in materia di misure di prevenzione, tutela della sicurezza dei cittadini, ordinamento giudiziario e di contrasto della illegalità diffusa". Un intervento diffuso che si occupa di criminalità organizzata, di organizzazione degli uffici giudiziari, di modifiche al processo penale, d’inasprimento del trattamento sanzionatorio per alcuni reati, di attribuire ai sindaci poteri repressivi e di tanto altro. Una veloce lettura consegna poche certezze. La prima di essere di fronte ad un articolato dalla tecnica legislativa approssimativa. La seconda è di essere di fronte ad un prodotto della legislazione emergenziale, che porterà solamente ad una recrudescenza processuale e trattamentale. La terza è che l’illegalità diffusa avrà poco da temere da questo complicatissimo intervento. La speranza, non poi tanto remota, è che, dopo l’annuncio più volte proclamato, la nuova normativa si spenga miseramente nell’incapacità di questa maggioranza di approvare alcunché e finisca accanto al disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche e a quello finalizzato a riordinare il sistema televisivo. La speranza, invece assai remota, è che, dall’affrontare vecchi problemi con vecchi metodi, si tenti, pure per semplice spirito pionieristico, di intraprendere strade nuove. La sicurezza. Parola che oramai ormeggia sulle bocche dei nostri politici. La sicurezza bene che va sicuramente restituito alla società civile. Un obbiettivo raggiungibile se si individua la causa della lenta crescita di tutti i tipi di criminalità. Non è retorica sottolineare che in un paese dove cresce il tasso di povertà, cala l’occupazione, è fisiologica la crescita dell’illegalità diffusa, così come di quella mafiosa. Crescita che ovviamente si combatterebbe sia con una ripresa dell’economia e dell’occupazione sia con una politica di prevenzione e repressione del fenomeno criminale. Prevenzione che si estrinseca attraverso un capillare controllo del territorio. Repressione che invece si attuerebbe ripristinando la sgangherata macchina giudiziaria, che è ormai addivenuta ad un conclamato collasso. Prevenzione e repressione che non si realizzano esclusivamente mediante un intervento legislativo e soprattutto mediante quello predisposto dal Ministero dell’interno. Prevenzione e repressione che passano anche attraverso una riorganizzazione e riqualificazione del materiale umano. Le forze di polizia devono assicurare un efficace controllo del territorio, in modo tale da rendere quanto meno difficoltoso il delinquere. I magistrati e gli avvocati devono invece restituire, se l’ha mai avuta, efficienza alla giustizia penale. L’effetto intimidatorio della pena va ripristinato. Occorono condanne in tempi ragionevoli e pene effettive. È vero ci vorrebbero delle modifiche legislative che realizzassero un processo garantito dai tempi ragionevoli. Ma è anche vero che pochissimi sono gli uffici giudiziari che nel nostro paese funzionano. Malfunzionamento dovuto in gran parte all’incapacità di gestione dei dirigenti degli uffici. I magistrati che gestiscono procure e tribunali, raramente si sono mostrati all’altezza. I motivi diversi. Il primo: la selezione. Questa non avviene tenendo conto delle loro capacità, ma avviene con criteri che ricordano la bassa politica del consenso, legata alle correnti di appartenenza. Il secondo: la produttività, intesa come quantità-qualità, di coloro che appartengono all’ufficio. Un dato quest’ultimo che non interessa ad alcuno. La volontà di produrre e di produrre provvedimenti giusti è rimessa al buon cuore del magistrato. Uffici il cui malfunzionamento è tollerato dagli addetti ai lavori. Si ha la sensazione che i singoli osservino non curanti. Si tollera il capo ufficio che non gestisce, si tollera il magistrato che non produce, si tollera il magistrato che produce solo provvedimenti sbagliati e ci si stupisce che il sistema non funziona. È dal singolo che si deve iniziare il recupero di efficienza e funzionalità, responsabilizzandolo e incentivandolo. Il singolo che deve essere messo nelle condizioni di lavorare e di lavorare bene. Il singolo che deve potere raggiungere lo scopo per cui lavora. Il singolo che non deve essere condotto all’abbandono da una macchina giudiziaria che non funziona. Il singolo che non deve essere costretto a piegare illegittimamente la norma per tentare di raggiungere un surrogato di giustizia, che con questa non ha nulla a che fare. Giustizia: da Mastella un ddl per i Giudici di Pace e Onorari di Mauro W. Giannini
www.osservatoriosullalegalita.org, 18 ottobre 2007
Il ministero della Giustizia, dopo numerose riunioni con i rappresentanti sindacali dei Giudici Onorari e di Pace, ha approntato uno schema di disegno di legge che detta una disciplina unitaria dell’intera magistratura onoraria, comprensiva degli attuali giudici di pace e di coloro che oggi esplicano attività presso i tribunali e le procure della Repubblica, "così da offrire - spiega una nota - un sistema organico di disposizioni che si affianca all’ordinamento giudiziario". Il sistema si incardina sulle articolazioni dei tribunali, delle procure e relativi uffici distaccati "in modo che i giudici onorari possano operare all’interno della struttura organizzativa esistente anche per contribuire all’eliminazione di quell’arretrato che ritarda la risposta di giustizia, ne amplia i costi umani e sociali, espone il dicastero a consistenti ristori pecuniari per la violazione del principio costituzionale della ragionevole durata dei processi". La magistratura onoraria, infatti, spiega via Arenula "sta esplicando, sia nel settore penale, giudicante e requirente, sia in quello civile, un’attività rivelatasi utile ed importante anche in rapporto alla mole del contenzioso e all’organico reale della magistratura di carriera. La funzione onoraria, tuttavia, manca di una disciplina organica, viceversa necessaria per individuare compiutamente i requisiti ai fini del conferimento dell’incarico, i compiti che possono essere assegnati ai giudici onorari, i compensi unitari per i provvedimenti resi, la durata dell’incarico, i controlli anche disciplinari". L’incarico, di cui nel provvedimento si puntualizzano i requisiti, le modalità di conferimento e le incompatibilità, è previsto di durata "sufficiente per la migliore utilizzazione delle capacità professionali, ma limitato nel tempo secondo conferme quadriennali non superiori a tre, escludendosi ipotesi di stabilizzazione incompatibili con l’onorarietà della funzione attribuita. Il disegno prevede tuttavia norme di articolata conferma, modulata sui tempi, per i magistrati onorari già in carica, al fine di non disperdere esperienze già acquisite". Le funzioni attribuite nell’ambito tabellare, secondo l’articolazione degli uffici giudiziari, comprendono quelle attualmente devolute ai giudici di pace nonché parte del rito monocratico sia civile che penale dei giudici ordinari, con la possibilità di applicazione, entro precisi limiti per materia, anche ai collegi. Il compenso è correlato prevalentemente ai provvedimenti adottati o richiesti, secondo il tipo di funzione, "in modo - sottolinea il ministero - da rimarcare l’esigenza decisionale e la tempestività della risposta di giustizia". Il disegno prevede interventi previdenziali di tipo complementare o implementando contributi già versati o costituendo nuove forme assicurative. Specifiche disposizioni inseriscono adeguati controlli periodici di professionalità e di produttività nonché i rimedi disciplinari fino alla revoca dell’incarico. Il disegno sarà diramato in tempi brevi per l’approvazione del Consiglio dei Ministri e la rapida assegnazione ad un ramo del Parlamento. Occorre ora attendere le reazioni dell’Unione nazionale giudici di pace, che per protesta aveva effettuato fino al 13 ottobre una settimana di astensione dalle udienze, cui non avevano aderito altre organizzazioni di giudici di pace. Il segretario nazionale Unagipa, Luigi Longo, aveva però già affermato che "è singolare che... il Ministero proponga di far fronte alla grave crisi della giustizia civile, esistente nel nostro paese, con l’attribuzione ai giudici di pace di parte del contenzioso che i Tribunali non sono riusciti ancora a smaltire. Tale proposta è stata decisamente respinta dalle assemblee dei giudici di pace in quanto ritenuta incompatibile con le condizioni economiche (sproporzione abnorme tra compenso ed attività richiesta) ed organizzative esistenti". Giustizia: la strage dei "matta-tori", di Beppe Battaglia
Ristretti Orizzonti, 18 ottobre 2007
Come ogni estate, anche questa, ha avuto il suo tormentone mediatico prediletto, con salottiere disquisizioni tanto superficiali quanto sciagurate. A guidare il gioco sono stati i media, con qualche "barone" che negli altri periodi dell’anno non ha audience, e molti "politici" mai contenti del pieno in passerella. Il tema di quest’anno sono stati gli incidenti stradali provocati da persone che hanno fatto uso di alcol e/o sostanze stupefacenti. Come dire: un bubbone in un corpo sano (sic!). La ressa attorno al tema prediletto ha riempito pagine e pagine di giornali… a corto di notizie, come ogni estate. Anche la famigerata "strage del sabato sera" è sparita dalle cronache, per fare spazio alle suggestioni del momento. E dall’estate si passa all’autunno. Il tormentone continua. A me pare che le cose non stiano esattamente come i giornali hanno scritto e scrivono, ospitando i "tromboni" più incredibili. Infatti, basterebbe il semplice dato statistico per confermare come gli autori delle stragi quotidiane sulle strade siano in stragrande maggioranza persone sobrie e non tossicodipendenti, ma questo… non farebbe notizia, non stimolerebbe il basso ventre, non emozionerebbe… Il dato vero è che ogni giorno dalle nostre strade ed autostrade arriva un bollettino di guerra, di cui vengono registrati solo i morti (e non sempre) causati da qualche tossicodipendente o da qualche ubriaco. La gran parte di questi "incidenti mortali" passa sotto il più assoluto silenzio, come avviene per i morti di lavoro. Naturalmente nessuno si sogna di immaginare, oltre ai morti che pure sono tantissimi, quanti disabili permanenti si producono, con quali costi umani, sociali, sanitari e previdenziali tra le lamiere delle automobili. Il coro non concede eccezioni: maleducazione dei conduttori di auto, tendenza all’illegalità, mancanza di controllo e repressione dei trasgressori, specialmente riferiti ai limiti di velocità (e poco importa se, per esempio, ci sono dei Comuni che mettono nel bilancio preventivo la quantità di multe da rilevare, magari disponendo un cartello di velocità massima consentita a 30 km/h abbinato ad un autovelox accuratamente occultato in prossimità. Un esempio di legalità formidabile, specialmente rivolto ai giovani e giovanissimi!). Ma c’è di più e dell’altro, secondo me. Mi chiedo da anni se le automobili sfornate da tutte le case costruttrici non siano più simili ad ordigni micidiali piuttosto che a mezzi di locomozione per il trasporto di persone. Infatti, la più insignificante utilitaria ha prestazioni velocistiche abbondantemente superiori a tutti i limiti di legge. Prestazioni che arrivano al limite della sfida alle leggi della fisica! Prestazioni che l’acquirente paga nel prezzo d’acquisto, ma di cui non deve fruirne! È come dire: ti vendo un chilo di patate o un pacchetto di sigarette, ma almeno un quarto di tale prodotto lo devi pagare ma non lo devi consumare! Lo hai pagato ma non lo devi consumare, altrimenti diventi un ubriacone, un tossicodipendente, un maleducato, un illegale, un delinquente! La sete di carcere, poi, fa venire in mente il vecchio proverbio: la mamma degli imbecilli (e dei pappagalli da salotto) è sempre incinta! Gli acquirenti di automobili, dunque, hanno delle regole da rispettare (limiti di velocità e quant’altro). I produttori no! È come se il produttore di automobili fosse un… battitore libero, al di sopra di tutte le leggi, persino di quelle dettate dalla fisica elementare che regola la… caduta dei gravi (provare per credere: una nuova cinquecento è in grado di raggiungere i 150 km/h, immaginate che un cane attraversi la strada a quella velocità e che perciò bisogna arrestare il veicolo nel più breve spazio possibile. In tal caso, la vetturetta, in ragione del suo peso e del suo volume, se ne va dove vuole e con essa anche i suoi occupanti. Ma pure le auto più grosse, hanno comunque a che fare con le leggi della fisica elementare…). "Ti vendo una bomba a mano e ti dico che è una boccia, ma guai a te se gli togli la sicura…". Tutti, ovviamente, sarebbero pronti a dire che… dipende da come la usi, che dipende da me se schiacciare fino in fondo il piede sull’acceleratore o sollevarlo come una piuma. Io invece credo che… dipende da come la fai una cosa (e in questo caso anche "perché"…). Agli scettici vorrei far presente che dietro al volante di un’automobile c’è un sedile anatomico, fatto, dunque, per accogliere una persona umana, un’entità complessa e multi determinata, dotata di stati d’animo variabili. Una persona è sempre qualcosa di… leggermente diverso da un software! Per cui, non è solo umano, ma persino ragionevole ed auspicabile l’oscillazione continua di tali stati d’animo che accompagnano tutte le persone determinandone i comportamenti. Vale per chi fa uso di alcol o altro, ma vale pure per gli astemi assoluti e che non sanno neppure cosa sono le sostanze stupefacenti. Tutti abbiamo stati d’animo variabili, con o senza alcol, con o senza sostanze stupefacenti. Lo stato di alterazione (rispetto a che cosa?) così disinvoltamente attribuito a chi fa uso e abuso di alcol o stupefacenti, in realtà è estensibile a tutte le persone umane, nessuna esclusa, nei luoghi di lavoro, per strada, in casa, ovunque esse si trovino e quindi anche dietro al volante di una macchina. Chi si sottrae a questa normalità, in realtà è un bugiardo! La verità è semplice: alcuni individui (leggi produttori di automobili) devono… fare i soldi vendendo auto a tutti i costi (e quando si dice "a tutti i costi" vuol dire che anche il costo della vita altrui è compreso!). Ciascuno di loro deve contendere il mercato all’altro e dunque deve sfornare un prodotto più suggestivo, più attraente, più seduttivo. Poco importa dei mezzi adottati (basterebbe pensare alla pubblicità ingannevole), speculando persino sui sogni ancestrali dell’umanità, la velocità, il volo… L’importante è raggiungere lo scopo: fare i soldi, farne sempre di più e soprattutto farne di più degli altri. Se per il raggiungimento di questo scopo è necessaria una strage quotidiana, senza indugio la strage va fatta. Il prezzo di questo business sono i morti ed i disabili prodotti ogni giorno sulle strade? Non importa. Ciò che importa sono gli indici dei dividendi, la quantità di auto vendute di questa o quella marca. La Fiat tira perché quest’anno ha venduto mille auto in più? Questo è universalmente considerato un fatto assolutamente positivo, che indica benessere per tutto il Paese (più occupazione, più tasse, più profitto economico per la Fiat). Si tace il fatto che per vendere più auto la Fiat deve essere più seduttiva di altre marche automobilistiche e perciò deve spendere di più in pubblicità ma pure accrescere - fino al limite e oltre - le prestazioni, trascurando le misure di sicurezza, sia per il guidatore che per gli occupanti della vettura prodotta. È ovvio che questa priorità richiede un sacco di complicità attorno al produttore: tutti gli organi preposti alla sicurezza, al collaudo, all’omologazione, fino a tutta la normativa che regola l’immatricolazione ed il commercio dell’…ordigno prodotto. A tal punto si estendono queste complicità da inibire ogni pensiero attorno ad un dato oggettivo: la quantità di morti e feriti di tutti i giorni sulle strade ed autostrade, per i quali bisogna inventare un capro espiatorio… il tossico, l’ubriacone, la maleducazione dei guidatori, la tendenza alla trasgressione e all’illegalità! Naturalmente questi… mattatori (matta-tori) devono mascherare il loro disegno criminoso; poiché sono i veri depositari del potere, a loro stessi riservano il vuoto delle leggi, oppure -più verosimilmente - una normativa legislativa di complicità, giacché lo scopo è quello di vendere più auto possibili. Potremmo chiamarli "matta-tori con destrezza", solo che al posto dei "tori" ci dobbiamo mettere, purtroppo, le persone. Per cui, si potrebbe tranquillamente sostenere che la gran parte di morti e feriti che tutti i santi giorni si verificano sulle nostre strade sono null’altro che il prezzo pagato per mietere maggiori profitti da parte dei costruttori! Eppure, una strada ci sarebbe, quantomeno per ridurre i morti ed i feriti di ogni giorno sulle strade. Se non c’è una strada nella quale uno possa correre a più di 130 km/h, si potrebbe (pur mantenendo le prestazioni velocistiche di un’automobile, praticabili su piste apposite, magari estendendo e regolamentando e perfino agevolando impianti di questo genere dotati di una normativa apposita) "flangiare" (un riduttore di velocità) all’origine tutte le automobili, un po’ come si faceva un tempo coi motorini. Ossia, impedire meccanicamente che un’automobile possa andare oltre i limiti massimi di velocità consentiti dalla legge, cosa che già avviene in alcuni paesi di questo mondo ammorbato dal business "a tutti i costi". Certo, non si eliminerebbero gli incidenti, ma è sicuro che si ridurrebbero notevolmente. Ma è vero o no che della vita e della morte di una persona che compra un’automobile non frega niente a nessuno? Purtroppo, la risposta è affermativa, a tal punto che io penso, in ultima istanza, che non c’è differenza tra un produttore di automobili e un mercante di carne umana! Altro che alcol e droga! E la strage va… Basta trovare il solito drogato che fa un incidente mortale per riscattare i mercanti di ordigni, o produttori di profitti "a tutti i costi", e tutti quelli che gli reggono il sacco, con buona pace per l’intelligenza minima! Giustizia: sono 40 i bambini che vivono nelle carceri italiane di Davide Varì
Liberazione, 18 ottobre 2007
Sono i figli di donne straniere e rom. Rifondazione chiede la modifica della Legge. Gennaro Migliore difende l’indulto: "Lo rivoterei". E attacca il pacchetto sicurezza. In Italia, nelle carceri italiane vivono, mangiano, dormono e "giocano" 40 bambini sotto i tre anni. Sono figli di donne rom e straniere, quel sottobosco silenzioso, ma a quanto pare pericolosissimo per la sicurezza del Paese, che quotidianamente viene fermato, arrestato e rinchiuso in galera con i propri figli. Non sono donne italiane e quindi non hanno diritto ad una pena alternativa al carcere. Non importa se la loro pericolosità sociale sia praticamente inesistente, la legge del nostro Paese dice che se sei donna, madre e straniera hai meno diritti. Non solo, la legge dice anche che se sei figlio di una donna migrante beccata in fragrante devi passare la tua infanzia dietro le sbarre. Ed è per rimediare a questa barbarie che ieri il gruppo di rifondazione alla Camera, per voce di Gennaro Migliore ed Imma Barbarossa ha presentato un progetto di modifica di quella legge. Un progetto che ha l’intenzione di ristabilire un minimo di diritto all’infanzia in un momento in cui la sicurezza è diventato il cavallo di battaglia di gran parte del ceto politico e della stampa nostrana. Inevitabile, dunque, parlare anche del pacchetto sicurezza che verrà presentato al prossimo consiglio dei ministri. Quella serie di misure securitarie che vanno dal boss mafioso al lavavetri. "Noi quel pacchetto sicurezza così com’è non lo votiamo" ha subito riaffermato Gennaro Migliore capogruppo dei deputati di Rifondazione comunista. "Serve una discussione più approfondita sul pacchetto che porti a una proposta diversa". In particolare, Migliore non ci sta a trasferire sul piano amministrativo questioni che richiedono l’intervento dell’autorità giudicante. Insomma, no ai sindaci sceriffi: "Bisogna garantire i principi costituzionali". Migliore auspica inoltre che il governo "agisca per calendarizzare prontamente la Amato-Ferrero", per superare la legge Bossi-Fini che, insieme alla Cirielli e alla Fini-Giovanardi sono considerate "leggi riempi - carceri". Il capogruppo di Prc a Montecitorio afferma inoltre che la "cosa peggiore sarebbe quella di seguire le tendenze forcaiole e populiste presenti nel dibattito di questi giorni". Sui minori in carcere, Migliore ricorda che il Prc ha chiesto la calendarizzazione di un provvedimento ad hoc già prima dell’estate e, se ci fosse l’accordo di tutti, adesso si potrebbe chiedere una sessione legislativa in aula per tradurre in legge la proposta. L’esponente di Rifondazione parla di "un imbarbarimento della discussione sulle condizioni detentive" e "di campagna contro l’indulto". Su questo è chiaro: "Noi l’indulto lo voteremo ancora, è stata una soluzione giusta a una situazione drammatica". Il rischio di sovraffollamento delle carceri non dipendono dal tasso di recidiva, ma dal fatto che "non si sono abolite le leggi riempi - carcere, come chiedeva il programma". "Si dovrebbe guardare a fondo del cuore di tenebra del sistema giudiziario", insiste Migliore, invece di proporre più soldi per più carceri: "Penso che potremo usare il denaro per altri fini". Giustizia: maschio assassino... e non dite che sono migranti! di Angela Azzaro
Liberazione, 18 ottobre 2007
Le ha puntato la pistola sulla fronte come se niente fosse. Come se quella non fosse vita, non fosse una persona. Non fosse niente. Carta straccia. Ha premuto il grilletto e ha sparato contro la moglie, Vyosa Demcolli, durante l’udienza di separazione nel tribunale di Reggio Emilia. La donna è gravissima, non si sa se ce la farà. Ma Klirim Fejzo non si è fermato e ha ucciso il fratello della donna, ferito un poliziotto e una delle due avvocate della moglie, Giovanna Fava. Poi è stato colpito da un altro esponente delle forze dell’ordine e si è accasciato per sempre. Due morti, tre feriti. Vyosa Demcolli e Klirim Fejzo, entrambi di Durazzo, vivevano a Reggio Emilia. Ma da un anno la donna era ospite della Casa delle donne gestita dall’associazione "Non da sola", dove si era rifugiata insieme alla due figlie per sfuggire alla violenza del marito. In quel contesto è nata la forza di chiedere la separazione, per rifarsi una vita. Ma non è servito. Perché il marito ha preferito tentare di ucciderla, piuttosto che ridarle la libertà. Una storia non di follia, ma di ordinaria violenza, quella degli uomini - di ogni latitudine e cultura - contro le donne che questa volta si è conclusa con un bilancio particolarmente pesante. La gravità non ci deve, né può ingannarci, ma ancora di più ci deve costringere a fare i conti con una situazione che sta diventando sempre più pesante, intollerabile. Niente inganni, allora. A partire dalla nazionalità dei protagonisti. È infatti gioco facile, oggi, dire che il problema sono i migranti, che sono loro i portatori di violenza e che quindi sono loro che devono essere puniti, meglio ancora eliminati. I dati parlano d’altro. Parlano di una violenza maschile contro le donne diffusa, generalizzata, che riguarda i diversi paesi europei e mondiali e che tocca tutte le classi sociali, dai più ricchi a i più poveri. È una violenza senza frontiere, senza limiti, che nasce nel potere di un sesso sull’altro. Lo abbiamo scritto tante volte, ma non ci stancheremo mai di farlo: la violenza maschile e familiare è la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne tra i 16 e i 44 anni in Europa. Lo sanno bene tante donne, italiane, che vanno nei tribunali per separarsi, accompagnate spesso dalle avvocate dei centri antiviolenza. Parlateci, fatevi raccontare la loro paura, la loro rabbia, la loro voglia di urlare. Anche in questo, Vyosa Demcolli non è l’unica. Come lei tante altre arrivano al momento della separazione dopo una storia di violenza che trovano la forza di affrontare. Davanti allo sgomento, resta la domanda sul che fare. Domanda delicata, importante, perché deve sfuggire alle risposte facili, giustizialiste. Ma le risposte non mancano e sono risposte che vengono anche dalla storia di Reggio Emilia. La violenza degli uomini contro le donne non si combatte con l’aumento delle pene, né mettendo le donne sotto tutela, come voleva fare la brutta legge Pollastrini, serve invece un grande slancio politico e culturale, che chiami a una presa di parola maschile: dalle più alte cariche dello Stato a quella dei nostri compagni, mariti, amici, colleghi di lavoro. Il testo di legge scritto da Pollastrini il cui iter parlamentare si è fortunatamente bloccato, con lo stralcio solo sullo stalking, aveva questo grande limite: pensare di poter affrontare il dato allarmante sulla violenza maschile per via penale, con qualche anno in più per i colpevoli. È una strada cieca, che cavalca lo spirito di chi invoca più sicurezza per il controllo e la limitazione delle libertà. Molte donne su questo hanno preso parola, dicendo una cosa molto chiara: nessuna repressione in nostro nome. Le cose da fare restano invece tante. Pensate a Reggio Emilia. Chi c’era con Vyosa Demcolli, chi ha rischiato con lei la vita? Sono le donne che lavorano nei centri. Assistenti sociali, psicologhe, operatrici, avvocate. Fanno un lavoro prezioso che spesso viene dimenticato e che va avanti con pochi soldi. Senza di loro, molte donne si sentirebbero sole. Sarebbero sole ad affrontare situazioni difficili, a casa, nei tribunali, con la polizia, dove la legge non entra e non può entrare. I centri non devono essere lasciati soli nel chiedere maggiore riconoscimento e più risorse. È una richiesta che dobbiamo fare nostra, sostenendola in tutte le istituzioni. Si deve affrontare la formazione del personale che si trova faccia a faccia con la violenza maschile. Medici, poliziotti, carabinieri, assistenti sociali dei comuni, avvocati che spesso preferiscono non vedere, non capire cosa succede e davanti a una donna picchiata chiudono uno, mille occhi. Basta leggere quello che ha dichiarato il legale di Klirim Fejzo: "Sembrava una separazione come le altre. Certo, con tutte le intemperanze da una parte e dall’altra, ma non avrei mai potuto immaginare che si arrivasse a questo. Il mio cliente non aveva mai dato segni di squilibrio. Faceva il bravo". Sì, ha detto proprio così, senza pudore. Ma, nella sua totale incapacità di osservare la realtà, ha colto un elemento. La normalità, quella degli uomini che uccidono, picchiano, considerano la donna come oggetto. È smontare la normalità maschile la sfida più grande che ci troviamo davanti, una sfida che le donne portano avanti da tempo, ma che vede (quasi) del tutto silenti gli uomini. È su questo che la ministra Pollastrini poteva fare un’azione politica, senza bisogno di invocare leggi inutili se non pericolose come la sua. In questo ha fallito completamente il suo mandato. Non è stata all’altezza di un problema macroscopico perché ha usato un linguaggio neutro, senza mai affrontare il cuore dello scontro: il conflitto uomo-donna. Per fortuna la politica, soprattutto quando è una politica che punta al cambiamento, non si ferma nelle istituzioni. C’è la società, ci sono i movimenti, ci sono tante singole donne che dicono basta alla violenza maschile. Un basta che sta prendendo molte forme. Tra queste, si sta affermando la proposta di organizzare una manifestazione nazionale di cui si discuterà domenica a Roma (ore 10,30) alla Casa internazionale delle donne. È un’assemblea pubblica, importante. Perché racconta l’esasperazione e la mobilitazione che sta crescendo in tutto il paese. Gli esiti si vedranno. Intanto si spera che tacciano tutti coloro che davanti agli uomini che uccidono le donne, se la prendono non con i primi, ma con le seconde. Ma come - affermano - le donne, le femministe non parlano, non dicono niente? Lo ha chiesto pure Grillo sul suo blog scatenando molte reazioni, anche di protesta. Veramente parlano, tanto. Non è forse più giusto dire che nessuno o pochi le ascoltano? Giustizia: 2 suicidi in 3 giorni in un Cpt sono davvero troppi di Stefano Galieni
Liberazione, 18 ottobre 2007
Due suicidi in 3 giorni. In mezzo una rivolta che ha coinvolto buona parte dei trattenuti nel Cpt di Modena. Una condizione inquietante che ripropone alla ribalta una questione ancora irrisolta dall’attuale maggioranza, quella del "superamento" dei centri di permanenza temporanea. Una commissione di indagine del ministero dell’interno aveva visitato lo scorso anno tutti i centri decretando il fallimento sostanziale delle ragioni per cui esistevano. Qualche ritocco c’è stato, maggiore trasparenza e possibilità d’accesso per visite, tre centri sono stati chiusi o riadattati a luoghi di accoglienza aperti, ma per il resto nulla è ancora cambiato. Roberta Fantozzi, della segreteria nazionale del Prc, annuncia che Rifondazione presenterà una interrogazione parlamentare in merito, e afferma che è sempre più urgente una risposta politica per giungere alla chiusura dei Cpt. Il sindaco di Modena, Giorgio Pighi, insieme al presidente della Provincia ha inviato una lettera dettagliata al ministero dell’interno per sollecitare soluzioni e per evidenziare la gravità della situazione. Da docente di diritto penale e in procinto di pubblicare un saggio che ruota attorno a questi temi interviene per spiegare le proprie riflessioni.
Ancora suicidi nei cpt... Il sistema dei cpt è il risultato di diversi fattori: dalla repressione di comportamenti devianti al controllo dell’immigrazione, al problema della privazione delle libertà personali. Un quadro del genere non tiene più. Bisogna arrivare ad un suo superamento.
Verso quale soluzione?
Le condizioni di trattenimento debbono divenire l’estrema ratio. La condizione di clandestinità in cui sono costretti tanti lavoratori che non sono riusciti ad entrare regolarmente in Italia non può essere l’elemento sufficiente a determinare misure coattive. Con la Bossi Fini si rischia di essere fuori dall’articolo 13 della costituzione, che impone limiti alla privazione di libertà personale. Debbono essere trattenute solo persone in casi eccezionali - pericolosità sociale, difficoltà di identificazione , presenza massiccia di persone in condizioni di irregolarità. Ma la misura deve essere soggettiva e non estesa a categorie.
Invece prevale la discrezionalità
I toni non ci hanno aiutato, si è costruita l’equazione clandestinità uguale criminalità , ma non regge. Se si favorisse l’incontro fra domanda o offerta di lavoro senza bisogno del permesso di soggiorno, almeno un terzo delle persone si regolarizzerebbero. La legge vigente ha reso ancora più ferruginosa la burocrazia, i permessi di soggiorno hanno durata breve ed è facile ritrovarsi clandestini.
Quindi i centri andrebbero chiusi? Io credo che bisogni superare questa semplificazione, le persone non ci capirebbero se chiudessimo all’improvviso tutti i centri. Penso però che si possano graduare forme diverse di controllo a seconda dei soggetti, dalla sorveglianza speciale all’obbligo di reperimento per le persone il cui comportamento è a rischio devianza o in attesa di espulsione. Su questo tema mi piacerebbe vedere del serio riformismo.
Questo potrebbe avvenire con le modifiche legislative. Ma nel frattempo? Nell’immediato una riforma che tenga conto della tipologia problematica degli ospiti, ridurre i casi di trattenimento all’essenziale, accelerare i tempi - 60 giorni sono assurdi e incomprensibili - garantire assistenza, interventi urgenti, un controllo di qualità e non repressivo".
Ma a Modena c’è davvero bisogno di un Cpt? Può esistere come piccolo centro che raccolga al massimo le persone provenienti da aree circostanti. È meglio che si mantenga in una situazione controllata democraticamente piuttosto che in aree impervie e irraggiungibili. È vero che i cittadini hanno una percezione esasperata del legame sicurezza e immigrazione fomentato dalla destra, ma dobbiamo costruire un altro sistema prima di smantellare questo, altrimenti nessuno ci capirebbe. Quello che è accaduto nel Cpt è gravissimo e si piangono due vite umane. Anche per questo dobbiamo trovare risposte credibili a problemi seri. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 18 ottobre 2007
F., dal carcere di San Vittore Caro Riccardo, dalla mia cella seguo sempre Radio Carcere, io vecchio galeotto di 61 anni dei quali 26 passati in galera. Ti scrivo buone notizie. Qui a San Vittore mi trovo bene, finalmente dopo tanto girare da carcere a carcere sembra che ho trovato la mia sistemazione. Certo c’ho sempre l’ergastolo ma almeno vivo in una cella singola che è dignitosa. In più mi lasciano fuori dalla cella dalle 6 e mezza fino alle 21 di sera. Per chi è libero sembra piccola cosa, ma non è così per chi è detenuto. L’altro giorno un ragazzo si è arrampicato sul tetto del carcere per protestare contro la giustizia. Ci sono rimasto male perché gli altri detenuti lo hanno insultato, mentre gli agenti sono stati bravi e lo hanno fatto scendere da solo. È un episodio che mi ha fatto pensare, perché ho notato che tra detenuti non c’è più quella solidarietà che cera una volta. È forse un segno di questi tempi.
Severino, dal carcere di Lecce Caro Arena, tramite Radio Carcere nella sua bella pagina del Riformista vorrei chiedere al Ministro Mastella: Chi è "il farabutto"? Nel carcere di Lecce siamo costretti a vivere in tre detenuti dentro una piccola cella fatta solo per un detenuto. Inoltre vorrei sapere quanto soldi vengono spesi per il nostro mantenimento nel carcere di Lecce. Immagino tanti e allora perché veniamo trattati come se non peggio delle bestie? Un esempio: oggi per pranzo ci hanno dato pasta (scotta), due uova lesse e tre fettine di cetriolo. Domando ancora chi è "il farabutto"? Caro Riccardo, vorremo tanto che un deputato venga a trovarci per poterci parlare e per fargli vedere come siamo costretto a vivere!
Giuseppe, dal carcere di Belluno Caro Riccardo, devi sapere che il carcere di Belluno è un piccolo e vecchio carcere. Ci sono tre reparti: quello femminile, quello per i transessuali e la sezione maschile. La sezione maschile è fatta di 20 celle, 5 sono piccole e 15 sono più grandi. Dentro un cessetto e una turca, tutta piena di ruggine e quant’altro. In queste celle ci stanno chiuse 5 o 6 persone per un totale di 93 detenuti, tutti belli stipati uno su l’altro. Il pavimento delle celle è tipo una vecchia strada piena di buche, tanto che è meglio il pavimento delle stalle. Anche i materassi e le brande sono vecchie e puzzano. Caro Riccardo ti dico che viviamo in un degrado da carcere del terzo mondo. Ti assicuro che questa non è pena per un reato fatto, ma è molto di più, è perdita di dignità! Non a caso ogni giorno qui sono tanti i detenuti che provano ad ammazzarsi e qualcuno ci riesce pure. Ma perché nessun deputato viene a farci visita per vedere come siamo costretti a vivere? Lecce: "Le inseparabili", le borse realizzate dalle detenute
Redattore Sociale, 18 ottobre 2007
Sono realizzate riciclando tessuti di scarto delle grosse aziende locali. L’iniziativa è promossa da Officina Creativa. Borse, borsette, shopper-bags e tracolle con il marchio "Prodotti di Puglia". Un lavoro artigianale del tutto nuovo sul territorio pugliese perché realizzato dalle detenute del laboratorio sartoriale del carcere di Borgo San Nicola di Lecce riciclando tessuti di scarto delle grosse aziende locali. Sociale e ambiente, dunque. Da una parte la produzione realizzata dalle detenute, che hanno così modo di apprendere un mestiere, dall’altra il riutilizzo di materiali di scarto che ritrovano una nuova veste. Un’esperienza che dimostra come, con una buona integrazione, è possibile conseguire risultati inattesi che promuovono sviluppo e crescita sul territorio. E che coniuga i due livelli in maniera assolutamente innovativa. È per questo che la regione Puglia ha deciso di adottarla assegnandole un marchio esportabile sul territorio nazionale e internazionale. Si chiamano "Le Inseparabili", sono le borse personalizzate (nome che si abbina simpaticamente ad un uso quotidiano di estrema praticità tanto da non potersene più separare) che, in base ad un accordo firmato con l’assessore regionale alle risorse agroalimentari Enzo Russo, saranno utilizzate in manifestazioni di rilievo nazionale ed internazionale per contenere documentazione, editoria sui prodotti pugliesi e prodotti tipici. "Il package senz’altro innovativo, ci consente di sensibilizzare il territorio coinvolgendolo in un consumo eco-sostenibile", commenta l’assessore Russo. "In particolare con questa iniziativa desideriamo porre l’attenzione alla possibilità di far rivivere gli oggetti: non più buste di carta ma borsette in tessuto colorate e comode per la quotidianità, e con un marchio elegante che ricorda l’evento. "Le Inseparabili" - sottolinea - sono realizzate da detenute del carcere di Borgo San Nicola di Lecce, ed in questo caso, viene data anche a loro un’altra chance nella vita: quella di imparare un mestiere, quale quello della "sartina" ed in più realizzando prodotti con materiale altrimenti accantonato o addirittura smaltito dalle aziende locali". L’iniziativa è stata promossa dalla cooperativa sociale Officina Creativa che si è avvalsa anche del sostegno di alcuni imprenditori salentini che hanno contribuito al progetto, offrendo tessuti di scarto e macchine da cucire in comodato d’uso gratuito. Lucera (Fg): stare in carcere, ma tra "sbarre e fornelli"
Lucera Web, 18 ottobre 2007
Quindici detenuti del carcere di Lucera tra qualche giorno prenderanno parte ad un progetto di formazione per cominciare ad apprendere le professioni di aiuto cuoco, pasticcere o pizzaiolo. È la proposta che il Ministero di Giustizia ha finanziato e affidato al Consorzio di Cooperative Opus che realizzerà e porterà a termine l’iniziativa, che si chiama "Sbarre e fornelli", entro la fine dell’anno. "Chissà che non venga fuori un bel cenone natalizio preparato dagli stessi detenuti", ha commentato Carlo Rubino, presidente di Opus che ha annunciato come questo progetto, della durata di 158 ore, costituisca un’occasione lavorativa per reclusi le cui pene non prevedono tempi molto lunghi e che potranno acquisire tecniche e conoscenze a partire dal carcere ma poi mirate ad una prospettiva di lavoro esterno. La presentazione del corso è avvenuta all’Assessorato alle Politiche sociali con il suo titolare Mario Massariello alla sua prima uscita ufficiale da assessore, "e sono ben felice di iniziare l’attività pubblica con un progetto di tale rilevanza", ha detto l’esponente della Democrazia Cristiana. Soddisfazione confermata dallo stesso sindaco Morlacco che ha letteralmente ringraziato tutti i componenti del programma "sia per la scelta felice del settore della ristorazione - ha aggiunto - sia per l’opportunità di recupero che di fatto si estende a tutto il tessuto cittadino". L’importanza della presenza delle istituzioni a una presentazione del genere è stato il concetto di maggior rilievo espresso poi dal direttore della casa circondariale di Lucera Davide Di Florio, struttura che attualmente ospita circa 140 detenuti, con molti di essi raggiunti da una pena definitiva, "e quindi maggiormente bisognosi - ha detto - di un’attività mirata al futuro reinserimento nella società". Proprio su questa lunghezza d’onda è stato descritto nello stesso tempo un secondo progetto realizzato a quattro mani dai Ministeri della Giustizia e del Lavoro mirato all’inclusione sociale attraverso il lavoro dei detenuti beneficiari dell’indulto. Questa seconda iniziativa prevede un contributo a cui qualunque azienda italiana potrà attingere in cambio dell’assunzione per sei mesi part-time o full time di questa particolare categoria di lavoratori. "Con programmi di questo tipo cerchiamo di soddisfare il bisogno di far incrociare le istituzione con il territorio - ha aggiunto Pietro Guastamacchia, direttore dell’Ufficio di Esecuzione penale esterna di Foggia - per favorire un reale inserimento sociale". Ed infatti, durante l’incontro è emerso che già cinque imprese del territorio hanno fatto richiesta per aderire a un progetto che promette di diventare un volano di recupero effettivo per chi vuole veramente dare il proprio contributo allo sviluppo della propria comunità. Bollate (Mi): inaugurato il nuovo sito internet del carcere
Redattore Sociale, 18 ottobre 2007
La direttrice Castellano: "Il nostro obiettivo è quello di rendere il carcere accessibile a tutti". In una sezione, scritta in inglese, francese e arabo, le informazioni utili per detenuti e familiari sulle regole dell’istituto. Da oggi è possibile visitare ad ogni ora del giorno e della notte il carcere di Bollate. Basta andare sul sito www.carcerebollate.it che spalanca le porte di questo istituto penitenziario alla periferia di Milano, che ospita 702 detenuti (su una capienza massima di 971 posti; ndr) e dove ci lavorano 345 agenti, 5 educatori, 3 psicologi, 8 medici, 9 infermieri e una decina di impiegati, più insegnanti ed educatori esterni. Una piccola città, chiusa da alte mura, che internet permette di scavalcare. "Il nostro obiettivo è quello di rendere il carcere accessibile a tutti - spiega Lucia Castellano, direttrice dell’istituto-. Innanzitutto ai familiari dei detenuti, ma anche alla cittadinanza, che è in grado così di capire cosa accade al nostro interno". Il sito, realizzato dall’associazione Altrocinema con il sostegno della Fondazione Cariplo, propone un viaggio virtuale all’interno delle 6 sezioni. E si scopre, così, che non esistono solo celle (comunque aperte dalle 8 alle 20; ndr) e cancelli, ma anche una ludoteca e una stanza dell’affettività dove i detenuti possono incontrare i loro figli minori di 14 anni. La stanza dell’affettività è arredata come una normale cucina: lì il detenuto può preparare un pasto e trascorrere con moglie e figli quattro ore. Il sito web ospita anche un video, con la voce di Lella Costa, nel quale vengono illustrati i progetti per il recupero sociale dei detenuti. Le immagini scorrono sulle due sale prova per i corsi di musica e per le band che nascono all’interno del carcere e sulla biblioteca con 16 mila volumi e 2 mila film. La telecamera entra poi nelle aule e nei laboratori per i corsi di formazione professionale. All’interno del carcere sono nate quattro cooperative di lavoro, che si occupano di manutenzione dei giardini, falegnameria, catering e impianti elettrici. E il carcere non è il loro unico cliente, ma hanno commesse anche dall’esterno. Ci sono poi ampi capannoni dove le imprese esterne possono organizzare il lavoro per i detenuti. Meno accoglienti i cortili: disadorni, con alte mura di cemento armato, giusto per ricordare che si è in un carcere. "Il video e il sito internet sono il nostro contributo al dibattito sulla sicurezza - afferma Lucia Castellano -. Siamo convinti che un certo modo di far scontare la pena possa dare buoni frutti e ridurre i casi di recidiva fra gli ex detenuti". Sul sito c’è una sezione, scritta anche in inglese francese e arabo, con informazioni utili per detenuti e familiari sul regolamento per le visite, le telefonate, l’invio di pacchi ai reclusi e tante altre regole che condizionano la vita dietro le sbarre. Le aziende che vogliono offrire lavoro ai detenuti trovano tutte le indicazioni necessarie e quali sono le agevolazioni previdenziali e fiscali previste dalla legislazione italiana. Viterbo: il 26 ottobre un incontro sulle "Scritture rinchiuse"
Comunicato stampa, 18 ottobre 2007
Scritture rinchiuse: l’espressione di sé attraverso la scrittura nel carcere, luogo delle identità invisibili. Questo è il tema dell’incontro che Arci Solidarietà Viterbo e La Piccola Editrice organizzano il 26 ottobre alle ore 17 presso la Sala Conferenze della Provincia di Viterbo in via Saffi, 49. L’incontro costituisce l’occasione per riflettere sull’importanza della scrittura quale strumento per non essere invisibili a se stessi e agli altri, una forma di salvaguardia, cura ed espressione di sé in un luogo cieco alle esigenze delle persone. Nel corso dell’incontro verrà presentato il libro "Dove nessuno posava lo sguardo. Poesie oltre il muro" di Aral Gabriele, un giovane detenuto che ha partecipato ad un corso di lettura e scrittura organizzato da Arci Solidarietà Viterbo presso il carcere. Intervengono: Luciana Scarcia, Responsabile dei laboratori di lettura e scrittura nel carcere di Rebibbia; Mariantonietta Saracino, Università di Roma La Sapienza; Aral Gabriele, con un intervento scritto; Luciano Comini, Editore della "La Piccola Editrice". Coordina Alessandra Orsi, Giornalista. Immigrazione: bufera sui Cpt; ricette (politiche) a confronto
Notiziario Aduc, 18 ottobre 2007
Il Vicepresidente del Gruppo di Forza Italia alla Camera dei Deputati ha rivolto una interrogazione al Ministro Amato per chiedere di riferire sui fatti e per sollecitare il potenziamento di organici e strumenti. "Di fronte ai disordini e alla violenta rivolta al Cpt di Modena serve un segnale forte da parte dello Stato e delle istituzioni locali al fine di ristabilire al più presto sia la sicurezza degli operatori sociali e della Forza dell’Ordine che vi operano, sia il pieno rispetto della legalità. Non è accettabile che chi, ogni giorno, servendo lo Stato, è impegnato a garantire la sicurezza propria e degli stessi ospiti immigrati del centro, rischi la vita. Così come è inaccettabile che il Governo Prodi, anziché rispondere alle richieste di potenziamento di strumenti e uomini a servizio delle Forze dell’ordine, abbia tagliato le risorse ed investimenti. A ciò vanno aggiunti i danni della campagna ideologica e di delegittimazione posta in essere dalla sinistra radicale che governa sia a livello locale che nazionale. È palese che chi oggi delinque sa di potere contare sull’appoggio morale e politico di una parte della sinistra che fomenta l’illegalità, la rivolta sociale e si batte per lo smantellamento dei Cpt. I Cpt sono e rimangono indispensabili per ridurre la clandestinità e quindi garantire più sicurezza. Per questo vanno potenziati e fatti funzionare al meglio. E su questo punto vogliamo sapere che cosa ne pensa il Ministro dell’Interno Amato firmatario di una legge che rende impossibili le espulsioni e di fatto legittima l’immigrazione clandestina. I Cpt non sono lager, come la propaganda vuole raccontare, e pertanto devono funzionare a dovere. Altrimenti il governo Prodi, facendo l’esatto contrario di quello che ci chiede l’Europa, si assuma la responsabilità politica di chiuderli tutti lasciando così i clandestini a spasso per l nostre e strade"
La posizione di Rifondazione Comunista
"Quanto sta avvenendo al Cpt di Modena, i due suicidi in tre giorni e la conseguente protesta dei migranti e delle migranti trattenuti, è sconcertante: non possono passare come incidenti di percorso". Lo affermano il segretario regionale di Rifondazione comunista Nando Mainardi e il segretario della Federazione di Modena Stefano Lugli, invitando a "indagare con profonda attenzione sulle cause dell’escalation di disagio che evidentemente c’è stata e che ha portato al suicidio dei due giovani in tempi così brevi, nonché la rivolta nel Cpt da parte dei migranti lì detenuti". "Non è ammissibile - chiariscono i due esponenti di Rifondazione - che in uno Stato civile esistano luoghi di detenzione per chi non ha commesso reati e non è ammissibile che non vi vengano rispettate le minime condizioni per una vita dignitosa. La gravità di quanto accaduto ci porta a chiedere con ancor maggiore forza e con urgenza una svolta nelle politiche dell’accoglienza, con l’abrogazione della legge Bossi-Fini e con la chiusura dei Cpt. Una democrazia - concludono Mainardi e Lugli - si misura anche e soprattutto da questo".
Muzzarelli (Ds): "serve istruttoria su accessi al Cpt"
Aprire una rapida istruttoria al fine di chiarire le cause che hanno condotto, nell’arco di pochi giorni, a due suicidi all’interno del Cpt di Modena. È quanto chiede, in un’interrogazione alla giunta regionale dell’Emilia Romagna, il consigliere Ds Gian Carlo Muzzarelli che domanda anche una collaborazione tra le amministrazioni locali finalizzata a sollecitare il Governo affinché emani misure per "ripristinare le condizioni di esercizio in sicurezza della struttura". L’esponente della Quercia ritiene, infatti, necessario "garantire il migliore funzionamento dei Cpt, anche attraverso un maggiore numero di forze di polizia operanti nelle strutture, affinché non si ripetano nuove tragedie". Allo stesso tempo, Muzzarelli invita la giunta a fare pressione su Governo e Parlamento perché si giunga all’approvazione di una nuova normativa sull’acquisizione della cittadinanza, "in modo di assicurare la piena integrazione dei nuovi cittadini, secondo uno schema preciso che garantisca loro diritti e li impegna a rispettare i doveri".
Alessandri (Lega Nord): "lo stato chiude gli occhi"
"Rivolte, pressioni per ottenere maggiori diritti, rivendicazioni più o meno forzate, banlieue: uno scenario inquietante di fronte a uno Stato che chiude gli occhi. La soluzione è sempre quella che proponevamo dieci anni fa: vogliamo aiutarli? Aiutiamoli a casa loro. Ora si faccia anche chiarezza su quanto avvenuto a Modena e si prenda atto che i Cpt, anche se necessari, sono in situazione di allarme. Coloro che non hanno una motivazione concreta per rimanere a casa nostra tornino nel loro Paese". È quanto sostiene Angelo Alessandri, presidente federale Lega Nord Padania, dopo il secondo caso di suicidio al Cpt di Modena e conseguente rivolta interna degli immigrati. Si continua a far arrivare gente nel nostro Paese senza opportunità di lavoro e senza speranze, rendendoli facilmente preda di circuiti malavitosi clandestini e pericolosi. Il delirio immigratorio danneggia noi e danneggia coloro che - conclude Alessandri - arrivano in Italia nell’illusione che questo sia il paradiso terrestre". Droghe: Maisto; sta per arrivare legge ancora più repressiva
Notiziario Aduc, 18 ottobre 2007
Nello schema di ddl sulla sicurezza, che il Consiglio dei ministri esaminerà il 23 ottobre, ci sono norme che prefigurano un "giro di vite" anche nei confronti dei tossicodipendenti. Lo apprende l’Ansa da fonti certe, e lo conferma Francesco Maisto, Sostituto procuratore generale di Milano e membro della Consulta nazionale sulle Tossicodipendenze presso il Ministero della Solidarietà sociale: "Nel pacchetto sicurezza, in realtà, non ci sono norme specifiche sui reati di droga, ma norme di carattere generale che hanno, però, ricadute anche su questi tipi di reato. In particolare, l’esclusione del gratuito patrocinio e l’estensione delle misure di custodia cautelare in carcere. In sostanza, se il pacchetto dovesse essere approvato così com’è, per i tossicodipendenti che commettono reati si prospetterebbe un regime ancor più repressivo di quello attualmente previsto dalla normativa sulla droga, la Fini-Giovanardi". Maisto fa sapere che se queste misure saranno confermate non esiterà ad "adire la Corte Costituzionale, sollevando eccezione di legittimità costituzionale". Inoltre, aggiunge, la commissione del reato è effettivamente accertata soltanto al termine del processo penale e quindi, così facendo, si priverebbe del diritto alla difesa chi è solamente accusato di aver commesso tale reato, con grave pregiudizio di un diritto sancito dalla Costituzione. "Non è pensabile, né giuridicamente né moralmente, di attuare una simile norma, soprattutto da parte di un Governo che aveva promesso provvedimenti di modifica alla legge Fini-Giovanardi in senso meno repressivo e più sociale". Droghe: ma eliminare il gratuito patrocinio è incostituzionale! di Pietro Yates Moretti (Presidente Associazione Utenti e Consumatori)
Notiziario Aduc, 18 ottobre 2007
Se confermate le indiscrezioni dell’agenzia Ansa, secondo cui il Governo starebbe per varare nel pacchetto sicurezza norme ancor più repressive della Fini-Giovanardi in materia di tossicodipendenze, è forse giunto il momento per le forze politiche che da sempre contrarie all’attuale politica proibizionista battano un colpo. Mostruosa, dal punto di vista del diritto, sarebbe la decisione di impedire ad una categoria di cittadini accusati di reati connessi alla droga di beneficiare del gratuito patrocinio. In uno Stato di diritto, si è innocenti fino a quando non si dimostra il contrario in un tribunale. Chi sarà accusato ingiustamente e non potrà permettersi un legale potrebbe quindi incorrere in una grave violazione del suo diritto alla difesa. Ci auguriamo che questa notizia venga smentita. Se così non sarà, e questo provvedimento divenisse legge, saremo pronti ad una azione di disobbedienza civile per porre la questione al vaglio della Corte Costituzionale.
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