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Giustizia: slitta ancora il "pacchetto Amato". Accordo Pd-Cdl? di Davide Vari
Liberazione, 13 ottobre 2007
Ormai l’idea è passata: il male dell’Italia, l’emergenza prioritaria del Paese è la sicurezza. Non quella generata dalla grande criminalità organizzata. Mafia, camorra, ‘ndrangheta, è noto, sono problemi endemici del Paese, "fisiologici", ha detto qualcuno. Nulla di tutto questo: la sicurezza del secolo, l’urgenza che ha scaldato i cuori e le manette dei sindaci del piddì, è quella dei lavavetri, dei writers e dei mendicanti. Insomma, la cosiddetta "sicurezza percepita". Sarà per questo che le reazioni alla decisione del Consiglio dei Ministri di rinviare al prossimo 23 ottobre la discussione sul pacchetto Amato - quello che darebbe più poteri ai sindaci - ha sollevato un polverone senza precedenti. Del resto c’è chi sulla sicurezza ha fondato e intende fondare una carriera politica. A destra come a "sinistra". Non a caso molti esponenti del piddì - a cominciare dal redivivo Piero Fassino - e del centrodestra - Maurizio Gasparri e Pierferdinando Casini in testa - non escludono la possibilità di un’intesa bipartisan a patto che sia un’intesa seria. Tradotto: un pacchetto di norme davvero molto punitive. Da parte sua il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrerò rimarca il proprio "dissenso" sull’impostazione seguita fin qui: "Cofferati a Bologna sulla sicurezza ha fatto un accordo con Alleanza Nazionale, fuori da ogni logica di coalizione. Su questo tema col ministro Amato ad oggi non c’è un accordo. Spero che entro il prossimo Cdm lo troveremo, per me resta imprescindibile dividere quelli che sono episodi di criminalità: chi fa le rapine in villa deve finire in galera. Non si possono usare pene altrettanto severe con coloro che occupano il suolo pubblico per vendere borse". Ma in attesa delle indicazioni del ministro dell’Interno, il dibattito si scalda. E al di là del vociare quotidiano dei piddini che chiedono riposte sarkoziste, e del centrodestra che accusa il governo Prodi di scarsa attenzione al tema, arrivano voci preoccupate rispetto al ventilato inasprimento dell’istituto della misura cautelare. Quella "extrema ratio" che costringe una persona al carcere ben prima del giudizio. Un misura drastica, almeno fino ad oggi, riservata a quegli imputati accusati di reati molto gravi che potrebbero fuggire, inquinare le prove o reiterare il reato. È ormai un dato certo, infatti, che l’estensione di questa misura riguarderà anche reati minori. Il tutto per accontentare e dare risposta all’ondata giustizialista che ha invaso l’Italia. "Il clima di questo Paese si sta imbarbarendo - commenta Francesco Romeo, segretario romano dell’Unione Camere Penali - con l’estensione della custodia cautelare non si fa altro che anticipare ed eseguire la pena prima del processo". Sulla stessa lunghezza d’onda Oreste Dominioni, Presidente nazionale dell’Unione Camere penali: "Siamo di fronte a messaggi mediatici che moltiplicano la percezione dell’insicurezza. Anche quando c’è un calo per determinate categorie di reati, basta un fatto di cronaca per rimandare l’impressione opposta. La politica - aggiunge Dominioni - dovrebbe governare questi sentimenti di allarme e non esasperarli". E sull’estensione della misura cautelare, Oreste Dominioni non ha dubbi: "Assistiamo ad un rovesciamento della regola di questa misura. Non è più il pubblico ministero che deve dimostrare l’eventuale pericolo di fuga o la pericolosità dell’inquisito, ma è il contrario". Il tutto con un forte rischio di incostituzionalità: "Le ultime generazioni di puristi - commenta ancora Dominioni - si sono preparate su un testo fondamentale di Giuliano Amato: "Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale". Uno studio che denunciava l’incostituzionalità di misure di questo tipo. È infatti evidente che la violazione dell’articolo 27 della nostra Carta - "l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva" - è sempre dietro l’angolo. Insomma - conclude Dominioni - in questo periodo si intende recuperare un armamentario di meccanismi processuali che sono sempre stati rifiutati sia sotto il profilo dei principi costituzionali, sia per la scarsa capacità di ottenere risultati". Giustizia: nel "pacchetto sicurezza" servono azioni positive
Il Manifesto, 13 ottobre 2007
Onorevoli ministri Paolo Ferrero, Giuliano Amato, Francesco Rutelli, Barbara Pollastrini, Clemente Mastella, Rosy Bindi, il tema della sicurezza nelle città è assurto alla ribalta del dibattito pubblico e politico e il governo si appresta a varare il cosiddetto "pacchetto sicurezza". Riteniamo che, volendo intendere il concetto di sicurezza come un processo di costruzione sociale tra le diverse competenze e attori che vivono le città e vi operano e i diversi livelli delle competenze istituzionali sul piano locale e centrale, sia fondamentale che il confronto del governo avvenga anche con le organizzazioni non profit. Quotidianamente ci misuriamo sul campo con le problematiche relative alla convivenza civile nelle comunità locali, occupandoci dei soggetti vulnerabili spesso considerati unica causa di un malessere percepito e manifestato in determinati contesti cittadini, realizzando interventi di prossimità e di sostegno alle persone in difficoltà ma attivando anche pratiche di mediazione dei conflitti volti a aumentare la vivibilità dei territori e 0 benessere delle comunità locali. Abbiamo maturato in questi anni un bagaglio di esperienze "sporcandoci le mani", occupandoci di migranti, italiani, donne, uomini, minori, transgender che vivono una condizione di marginalità, di esclusione, spesso di sfruttamento, nelle aree della prostituzione, della mendicità, del disagio giovanile, dei "senza dimora", delle dipendenze, delle culture giovanili, delle situazioni legate alla migrazione. Occupandoci, molte volte, non solo del disagio ma anche della cosiddetta "normalità", dove spesso sono assai diffuse e nascoste situazioni di sofferenza che determinano tensioni gravi che frequentemente entrano in contatto, e si autoalimentano in una sorta di interazione in negativo, con le aree della vulnerabilità e dell’esclusione. Un’esperienza declinata in pratiche reali sui territori attraverso l’interazione delle varie componenti che i territori vivono e animano, portando servizi di ascolto e accompagnamento, di riduzione del danno e di prossimità, di promozione della salute e dei diritti, di uscita dalle situazioni di marginalità e sfruttamento, offrendo opportunità di inclusione sociale, lavorando con la cittadinanza e con le istituzioni, contribuendo al contrasto all’illegalità e allo sfruttamento. Un’esperienza spinta dal rifiuto di qualsiasi semplificazione di fenomeni sociali complessi, dal rifiuto delle scorciatoie securitarie (non solo inefficaci, ma lesive dei diritti degli "ultimi" e della convivenza civile e democratica), dal rifiuto della criminalizzazione e espulsione del "diverso", delle persone già ai margini della nostra società. Un’esperienza che ci insegna che il binomio repressione/criminalizzazione come unico strumento di intervento sul tema sicurezza e trattamento delle forme di devianza e marginalità estrema non solo non risolve ma, nei fatti, alimenta i fenomeni e gli spazi di illegalità. Gli "indesiderati" vengono spinti verso altri luoghi, spesso in un sommerso dove è più difficile contattare e offrire opportunità alle persone in difficoltà o sfruttate e dove aumenta la spinta all’invischiamento in attività illegali. Vengono interrotti difficili percorsi di ricostruzione della coesione sociale. Si distolgono le risorse umane e economiche delle forze dell’ordine dall’azione investigativa (lotta ai trafficanti e sfruttatori) verso quella repressiva che sovente solo illusoriamente dà risposte al senso di allarme e alla percezione di insicurezza manifestati dalla cittadinanza. L’esperienza, spesso condivisa con gli Enti locali e con le Forze dell’ordine, ci insegna come invece la realizzazione di azioni positive a tutela delle fasce marginali e di promozione del benessere nelle comunità, siano la chiave per costruire realmente la sicurezza. Occorre allora che nei territori vengano attivati Tavoli di concertazione per la costruzione della sicurezza sociale in forma partecipata e concordata. Occorre però che tale meccanismo di concertazione venga sviluppato anche a livello centrale e possa ricadere in termini di linee di indirizzo e proposte a livello locale. Un recente positivo esempio è costituito dall’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi, istituito dal ministero dell’Interno con la partecipazione degli altri ministeri competenti e delle associazioni. Per queste ragioni, chiediamo con urgenza, la possibilità di incontrarvi per un confronto costruttivo. Certi di un favorevole riscontro, porgiamo distinti saluti.
Antigone; Arci; Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione; Associazione On the Road; Associazione Tampep onlus; Cantieri Sociali; Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute; Consorzio Drom, consorzio nazionale della cooperazione sociale - Legacoop; Cooperativa Dedalus Fiopsd, Federazione Italiana degli Organismi per le persone senza dimora; Forum Droghe; Gruppo Abele; Lila; Mit, Movimento di Identità Transessuale; Nova, Consorzio per l’innovazione sociale onlus; Save the Children Italia onlus. Giustizia: lettera dal carcere sul "Programma" dell’Unione di Sandro Padula
Liberazione, 13 ottobre 2007
Provo un senso di fastidio quando la sera, in carcere e di questi tempi, seguo attraverso la televisione certe discussioni che si svolgono sui temi della giustizia. Mi sembrano più ammuffite e incartapecorite delle pareti di tante docce e celle carcerarie. Nel 2006 la situazione era ben diversa e il dibattito politico che ne scaturiva risultava essere molto più avanzato di quello odierno. In campagna elettorale, il programma dell’Unione (chiamato "Per il Bene dell’Italia") aveva contenuti favorevoli a politiche di pace e all’ampliamento dei diritti collettivi e individuali. Prevedeva già l’atto di clemenza poi concesso, l’indulto approvato dai due terzi del Parlamento, ed aveva uno spirito teso a coniugare la sicurezza collettiva con il proposito di contrastare la precarietà del lavoro, tutelare l’ambiente e lo Stato sociale, favorire le unioni volontarie e di fatto (cosa utile anche per ridurre gli omicidi che oggi si verificano soprattutto fra le mura domestiche), riformare il codice penale verso il diritto penale minimo, rendere il diritto italiano compatibile rispetto ai criteri ben più civili della maggior parte dei paesi europei. Oggi invece diversi sindaci e politici dell’Unione stanno operando per realizzare obiettivi per nulla o non esplicitamente presenti nel programma dell’Unione stessa. I motivi di questo voltafaccia sono molteplici, ma non sono politicamente giustificabili agli occhi migliori della classe operaia, dei lavoratori del pubblico impiego e del terzo settore, delle donne, dei giovani, dei pensionati e dei migranti e sono assurdi secondo la massa di detenuti. La situazione è certamente complicata. Quasi come nel film "The Departed" di Scorzese, è difficile distinguere il bene e il male, ma sicuramente è necessario lottare sin da subito contro gli speculatori in "colletto bianco" che producono l’immaginario dell’insicurezza totale e vendono a caro prezzo la merce-sicurezza. Bisogna dire che le campagne forcaiole favoriscono proprio questi speculatori che, ad esempio, vogliono mettere le mani sul denaro pubblico destinato ai cantieri delle nuove carceri e sui diversi mercati interni al sistema carcerario. Bisogna far sapere che in Italia ci sono carceri con reparti fantasma, previsti - progettati - pagati e mai costruiti, come il reparto G10 di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma che dal 1972 nessuno ha mai visto. Bisogna smascherare le colossali bugie sul tema della sicurezza che inoltre potrebbero mettere in pericolo la strategica risorsa italiana costituita dal turismo. Bisogna sottolineare che, secondo le agenzie turistiche di gran parte del mondo e soprattutto dopo il ritiro militare dall’Irak, le città italiane sono fra le più sicure del pianeta per trascorrervi delle vacanze. Bisogna chiarire che oggi l’Italia ha il più basso numero di omicidi degli ultimi 30 anni e paradossalmente il maggior numero assoluto di ergastolani degli ultimi 55 anni: infatti, nel 1952 gli ergastolani sono 1.127, nel 1982 diventano 207 e nel 2005 raggiungono la cifra record di 1.224. Bisogna precisare che oggi in Italia, non esistendo ancora meccanismi legislativi automatici e compatibili agli standard europei, le misure alternative al carcere sono negate al 70% dei detenuti che ne fanno istanza e le motivazioni dei rigetti sono connesse soprattutto al reato da loro compiuto nel passato e non a qualche effettivo pericolo per il presente. Bisogna ricordare che, nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, le misure alternative al carcere, l’abolizione dell’ergastolo e una drastica riduzione del tetto massimo di pena detentiva, tutti obiettivi questi dei movimenti di lotta dei detenuti, hanno concretamente ridotto ai minimi termini i fenomeni delle evasioni, degli omicidi fra persone prigioniere, delle rivolte armate nelle carceri e della recidiva . Bisogna far sapere a tutti che è vergognoso proporre il lavoro forzato ai detenuti per combattere la recidiva. Bisogna far sapere a tutti che in Giappone l’uso del lavoro forzato ai detenuti, oltre a costituire un vantaggio per gli speculatori, ha provocato e provoca una gigantesca area di recidivi e favorisce il reclutamento mafioso dei prigionieri: 1/5 dei detenuti dell’"Impero del Sole" aderisce alla "yakuza", la principale mafia giapponese! Basta allora con le idiozie! L’Italia non fa parte dell’"Impero del Sole" e neanche degli Stati Uniti d’America! Lavoriamo finalmente e davvero per il bene dell’Italia. Promuoviamo una nuova stagione di lotta di classe e di battaglie culturali per difendere e ampliare i diritti della collettività e di ognuno! Giustizia: nessuno ci parlò delle "conseguenze" dell’indulto di Luca Ricolfi
La Stampa, 13 ottobre 2007
La sicurezza scotta. Da quando i sindaci delle grandi città - prima Cofferati, poi la Moratti, poi via via gli altri - hanno cominciato a muoversi con una certa decisione, il governo non fa che annunciare misure di contrasto alla criminalità, salvo poi rimandarle a tempi migliori quando stanno per arrivare al traguardo. Il ministro dell’Interno aveva promesso il varo di un "pacchetto sicurezza" entro il 25 settembre, poi rimandato al 12 ottobre, ossia al Consiglio dei ministri di ieri. Il pacchetto prima sembrava dovesse prendere la forma di un decreto, poi è stato prudentemente trasformato in un disegno di legge (campa cavallo...). Infine ieri, viste le "perplessità" della sinistra radical-conservatrice, il Consiglio dei ministri ha rinunciato a discuterne, rimandando tutto a una successiva seduta. Mentre il governo si prende tutto il tempo che vuole, possiamo approfittare dell’ennesima "pausa di riflessione" della casta per fare il punto sui dati di fondo del problema. Il tasso di criminalità in Italia è diminuito costantemente dal 1997 al 2001, ossia durante il primo governo di centro-sinistra. Nonostante questo calo, alla fine di quella legislatura il centrodestra impostò la sua campagna non solo sulla diminuzione delle tasse (promessa n. 1 del "Contratto con gli italiani"), ma anche su quella dei reati (promessa n. 2). Vinte le elezioni, le cose andarono in modo imprevisto: dal 2001 al 2005, durante i primi quatto anni del governo Berlusconi, i delitti sono aumentati costantemente, salvo rallentare la loro corsa a cavallo fra il 2005 e il 2006, giusto alla fine della legislatura scorsa. Ed è qui che è intervenuto il colpo grosso dell’indulto. Nell’estate del 2006, appena insediato, il nuovo governo di centro-sinistra ha caldeggiato in tutti i modi l’approvazione da parte del Parlamento di un mega-provvedimento di indulto (26 mila beneficiari su 60 mila detenuti), motivandolo sia con il sovraffollamento delle carceri, sia con l’esigenza di rispettare la volontà del defunto papa Wojtyla, che nel 2002 - proprio in Parlamento - aveva chiesto alla politica un gesto di clemenza verso i detenuti. I partiti - tutti i partiti salvo Lega, Alleanza nazionale e Italia dei valori - hanno pensato bene di appoggiare l’indulto, nonostante le sue conseguenze, o forse proprio a causa di esse. L’indulto, essendo esteso ai reati dei colletti bianchi e in particolare a quelli tipici della casta, levava molte castagne dal fuoco al ceto politico, salvando dall’azione penale dirigenti, funzionari, amministratori. Inoltre, dato l’elevatissimo numero di condannati rimessi in libertà, aumentava considerevolmente il numero di future vittime di ogni genere di reati. E infatti, da quel momento la traiettoria dei reati ha cambiato bruscamente rotta. Molte specie di delitti che stavano finalmente tornando a calare hanno improvvisamente ricominciato a crescere, il numero totale dei delitti ha toccato il suo massimo storico dal 1946, nel giro di appena un anno il numero totale dei detenuti ha di nuovo superato la capienza regolamentare. Quando l’indulto venne varato, né Prodi, né Bertinotti, né Veltroni, né Amato vollero dire una parola sulle sue conseguenze nefaste. Silenzio sul salvataggio dei politici corrotti, nessuna riflessione sul futuro danno inflitto a migliaia e migliaia di cittadini innocenti, nessuna misura concreta per garantire il più rapidamente possibile processi veloci e nuove carceri. Ora Prodi tentenna, Bertinotti ci spiega che la funzione di quel provvedimento era innanzitutto "pedagogica" (sentito con le mie orecchie alla radio!), Amato ci rivela che votò l’indulto "con sofferenza", e Veltroni ci viene a raccontare di aver cambiato idea, "viste le conseguenze". Ma come sarebbe a dire "viste le conseguenze"? Le conseguenze erano perfettamente prevedibili da chiunque ragioni con la sua testa, senza pregiudizi e paraocchi ideologici. E dicendo questo non mi riferisco solo alla situazione della giustizia, o allo stato dell’edilizia carceraria. Mi riferisco a un fatto elementare, a un dato di puro senso comune: se liberiamo 26 mila condannati, ossia più di 1 detenuto su 3, è inevitabile che il numero di persone che saranno vittime di tali scarcerazioni anticipate aumenti. Le vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, non saranno però altri criminali, ma cittadini normali, persone innocenti che fanno il loro lavoro, o studiano, o trascorrono la loro vecchiaia, insomma gente che vive e ha diritto alla sua vita. Detto in altre parole, ogni indulto, nonostante la retorica con cui ci viene presentato, non è affatto un atto unilaterale di perdono, che coinvolge solo il perdonante (lo Stato) e il perdonato (gli autori di reati, soggetti a misure di restrizione della libertà). Ogni sconto di pena è sempre, intrinsecamente, un atto arbitrario di trasferimento di diritti di libertà che coinvolge anche un terzo soggetto, ossia le future vittime. La retorica dell’indulto dice: lo Stato perdona una parte dei detenuti. La realtà dell’indulto dice: lo Stato decide di limitare la libertà di un numero sconosciuto di cittadini "non identificati" (le future vittime) per restituirla a un certo numero di "ben identificati" autori di reati (i detenuti). Ma chi dà allo Stato il diritto di sacrificare tanti cittadini innocenti sull’altare di un principio astratto, di un’idea - magari teoricamente bellissima - di amore e di umana solidarietà? È per questo che a tanti cittadini l’indulto non è piaciuto, non piace e non piacerà mai. Non perché siano assetati di vendetta, o perché non sappiano perdonare, o perché vogliano "punire Caino". Ma perché l’indulto è un atto iniquo, e chi ritiene che ci siano ragioni così forti da renderlo opportuno, o addirittura inevitabile, dovrebbe almeno presentarlo in tutta la sua tragicità, come fa una nazione che decide di mandare i propri ragazzi in guerra. Di fronte all’indulto e alle sue vittime, di cui stampa e tv quotidianamente ci riferiscono, molte persone più che paura provano solidarietà, compassione, pietà. Non perché siamo in un Paese cattolico, ma perché - credenti o non credenti - tutti quanti pensiamo che la vita è una sola, ed è su questa terra che va difesa. Chi mette a repentaglio la vita altrui in omaggio a un calcolo politico, a un’ideologia, a una fede, stenta ad essere capito dai più. L’opinione pubblica non è assetata di sangue, né sogna la vendetta contro Caino: semplicemente, ha occhi anche per Abele, e vede la solitudine in cui l’hanno lasciato. Giustizia: con l’indulto aumento di 300.000 reati in un anno di Rossana Cima e Luca Ricolfi
La Stampa, 13 ottobre 2007
Nessuno saprà mai con precisione quanti delitti in più abbia provocato l’indulto, di cui a partire dal 29 luglio 2006 hanno beneficiato quasi 27 mila persone. Quello che è certo, tuttavia, è che una parte dei delitti avvenuti negli ultimi 15 mesi sono stati commessi da persone che in assenza dell’indulto sarebbero ancora in carcere, o comunque sarebbero uscite più tardi. Ma quanti sono i delitti in più? Un modo per farsi un’idea dell’impatto dell’indulto è quello di confrontare la velocità di crescita dei delitti prima e dopo l’indulto. Per fare questa operazione non disponiamo di molti dati, perché solitamente i dati ufficiali completi escono con notevole ritardo. E tuttavia alcune fonti sono tempestive, efficienti o semplicemente "gentili", nel senso che forniscono i dati su richiesta. Ed ecco che cosa ne vien fuori. Secondo una ricerca dell’Abi, ossia dell’Associazione Bancaria Italiana, le rapine in banca stavano diminuendo al ritmo annuo del 17% prima dell’indulto, mentre sono cresciute al ritmo del 30,5% subito dopo l’indulto (nella seconda parte del 2006). Secondo i dati diffusi giusto ieri dall’Osservatorio nazionale Fiba-Cisl la corsa prosegue anche quest’anno, a un ritmo di crescita del 26,3% nei primi sei mesi del 2007, rispetto al corrispondente periodo del 2006. Secondo il ministero dell’Interno i delitti totali, che erano cresciuti a un ritmo piuttosto sostenuto fra il 2001 e il 2005 ma nell’ultimo anno prima dell’indulto avevano finalmente cominciato a rallentare la loro corsa (fino ad attestarsi su un tasso di crescita annuo di circa il 2%), nei cinque mesi dopo l’indulto hanno improvvisamente ripreso a crescere, a un ritmo annuo pari al 14,4%. Fra i delitti che hanno subito le maggiori impennate si possono segnalare - in ordine di intensità di accelerazione - truffe, rapine, tentati omicidi, delitti informatici, incendi, sequestri di persona, furti, contraffazioni, ricettazione, produzione e traffico di stupefacenti. Poiché i delitti totali sono oltre 2 milioni e mezzo, questa brusca inversione di tendenza significa una accelerazione del tasso di crescita dei delitti di circa il 12%, il che corrisponde ad un aumento netto di circa 300 mila delitti all’anno. Infine, secondo un’inchiesta di Vera Schiavazzi uscita qualche giorno fa su "Panorama", gli ultimi dati comunicati dalla Polizia di Stato mostrano un drammatico e recente aumento delle aggressioni nei confronti di donne. Nel primo semestre di quest’anno (2007) sono aumentati, rispetto al corrispondente semestre pre-indulto (2006), i tentati omicidi (+37%), le lesioni dolose (+32%), le violenze sessuali (+16%). Naturalmente si può anche credere che l’indulto non c’entri nulla, che i detenuti liberati siano responsabili "soltanto" dei delitti per i quali sono già rientrate in carcere oltre 6 mila persone, e che l’aumento dei delitti osservato nell’ultimo anno sia una normale fluttuazione del tasso di criminalità. A questa interpretazione, tuttavia, oltre al comune buon senso si oppongono due dati piuttosto ruvidi. Il primo è che il tasso di recidiva degli indultati è molto alto, dal momento che quasi 1 su 4 è già rientrato in carcere in appena un anno. Il secondo è che assai raramente in passato il numero di delitti è aumentato tanto bruscamente in un periodo così breve. Giustizia: i "clandestini" delinquono 30 volte più degli italiani di Rossana Cima e Luca Ricolfi
La Stampa, 13 ottobre 2007
Che in ogni gruppo sociale ci siano angioletti e diavoletti, e che quindi non si possano criminalizzare o beatificare intere categorie di persone è talmente ovvio che non si capisce bene perché ci venga ripetuto con tanta insistenza pedagogica. Tutti sappiamo che tanti immigrati - anche clandestini - sono degnissime persone, né c’era bisogno dello scandalo dei preti pedofili per scoprire che persino fra i "buoni per definizione" c’è sempre qualche mela marcia. Quando si discute di criminalità e immigrazione la vera domanda è un’altra: la propensione a commettere delitti degli stranieri è analoga a quella degli italiani o è diversa? Detto in altre parole: il fatto che la maggior parte dei cittadini italiani abbia più paura degli immigrati di quanta ne abbia dei propri connazionali ha un qualche fondamento nella realtà o riflette una errata percezione, da stigmatizzare e correggere? Ha ragione il ministro Ferrero, che nega ogni differenza fra italiani e immigrati, o ha ragione il comune cittadino, che solitamente ritiene più pericolosi gli immigrati, specie se irregolari? Grazie ai dati pubblicati nell’ultimo rapporto del ministero dell’Interno, curato dal prof. Barbagli (il massimo esperto di criminalità in Italia), siamo in grado dì farci una prima idea delle differenze fra tre categorie di persone: i cittadini italiani, gli stranieri regolari, i clandestini. Per otto delitti, infatti, il Rapporto distingue le persone denunciate o arrestate a seconda del loro status di cittadini italiani, stranieri regolari o stranieri irregolari. Combinando questi dati con quelli sul numero di residenti e di clandestini provenienti da altre fonti (Istat, Ismu) è possibile stimare i rapporti fra i rispettivi tassi di criminalità. Il risultato è molto nitido: quale che sia il tipo di delitto considerato, gli stranieri regolari hanno un tasso di criminalità sensibilmente superiore a quello degli italiani, e i clandestini ne hanno uno drammaticamente superiore a quello degli stranieri regolari. Il tasso di criminalità relativo degli stranieri regolari rispetto ai cittadini italiani va da un minimo di 2,4 (estorsioni) a un massimo di 5,7 (borseggi, ora eufemisticamente rinominati "furti con destrezza"). Il tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari rispetto a quelli regolari va da un minimo di 6,6 (lesioni dolose) a un massimo di 28,3 (borseggi). Infine, il tasso di criminalità degli stranieri irregolari rispetto a quello dei cittadini italiani va da un minimo di 17,6 (estorsioni) a un massimo di 160,3 (borseggi). Va da sé che si tratta di stime, come tali soggette ad incertezze di vario tipo (prima fra tutte la numerosità dei clandestini), e che gli otto delitti considerati sono solo alcuni esempi di delitti. E' difficile, tuttavia, che altri dati capovolgano il quadro che emerge da questa prima esplorazione: il tasso di criminalità degli stranieri regolari è 3-4 volte quello dei cittadini italiani, quello degli stranieri irregolari è circa 10 volte quello dei regolari, perciò il tasso di criminalità degli stranieri irregolari è almeno 30 volte quello degli italiani. Se consideriamo che il numero di clandestini sta crescendo molto rapidamente, e che probabilmente siamo ormai prossimi al milione di unità, questo significa che oggi il numero di delitti commessi da 1 milione di clandestini corrisponde - grosso modo - al numero di delitti commessi da 30 milioni di italiani. Insomma, è come se - negli ultimi quattro anni, ossia dopo l’ultimo grande provvedimento di regolarizzazione - il numero di cittadini italiani fosse cresciuto di 8 milioni di unità all’anno. Qualcuno pensa che sia possibile fronteggiare una simile crescita del potenziale di illegalità di un territorio senza un rafforzamento eccezionale del suo sistema giudiziario e della capienza delle carceri? Giustizia: carceri nuove e mai utilizzate, indagine di Mastella di Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica
Il Giornale, 13 ottobre 2007
L’inchiesta del "Giornale" sulle carceri abbandonate sparse per l’Italia strappano un primo risultato concreto. Ieri il Guardasigilli Clemente Mastella ha comunicato con una nota ufficiale del ministero che, "a seguito di trasmissioni televisive e di notizie giornalistiche circa il mancato utilizzo di alcuni istituti penitenziari già esistenti", ha chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria "una dettagliata relazione che possa ricostruire la verità dei fatti". Una volta ricevuto il documento, lo girerà "ai presidenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato", Pino Pisicchio e Cesare Salvi. Insomma, anche Mastella vuole vederci chiaro sulla cinquantina di strutture carcerarie incomplete, sottoutilizzate o finite e poi abbandonate sparse in tutto il Paese, un potenziale patrimonio di ricettività per detenuti che viene sperperato da anni, proprio mentre le polemiche sui nefasti effetti dell’indulto si fanno più calde. E sul tema torna anche il senatore dell’Unione democratica Roberto Manzione, vicepresidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, che punta il dito sugli stanziamenti in Finanziaria destinati proprio alla costruzione di nuovi istituti di pena. E torna a chiedere conto a Mastella di quelle strutture abbandonate e di quelle celle che non hanno mai avuto ospiti. "Occorre fare chiarezza sulle problematiche connesse all’edilizia penitenziaria ", esordisce il senatore, "anche alla luce dello stanziamento triennale di 70 milioni di euro previsto in Finanziaria ". Qualche dubbio sulla cattiva gestione delle carceri italiane era già venuta a Manzione dopo aver scoperto in tv l’esistenza delle prigioni-fantasma: "Già il 10 ottobre in Commissione giustizia - racconta l’esponente della neonata Ud - in sede di esame della Finanziaria 2008, nell’affrontare il tema delle risorse stanziate per l’edilizia carceraria, formalmente chiedevo al ministro una ricognizione sulle strutture carcerarie completate ma non utilizzate, riprendendo alcune ben documentate denuncie avanzate dalla trasmissione Striscia la notizia". In quell’occasione, però, insiste Manzione, "il ministro della Giustizia, "sostenuto" nell’occasione dal senatore Castelli, sostanzialmente mi replicava che si trattava di un equivoco "fomentato" dai soliti "disinformati" e che il Dap aveva già chiarito ogni cosa". Capitolo chiuso, fino alla nuova puntata. Arrivata ieri, quando, ricorda il senatore, "nell’esaminare i quotidiani, ho dovuto riscontrare che Il Giornale dedica alla vicenda delle "Carceri costruite e mai utilizzate" uno speciale apparentemente ben documentato, dal quale è possibile ricavare che tali strutture, che costituiscono un evidente sperpero di pubbliche risorse, sarebbero tantissime e distribuite in molte regioni". E così, praticamente in contemporanea con la nota arrivata dal titolare di via Arenula, Manzione sottolinea come "la Commissione giustizia non può rimanere silente rispetto a tale incresciosa vicenda, dovendosi invece adoperare per ottenere gli opportuni chiarimenti". Morale, il senatore Ud ha chiesto la convocazione dell’ufficio di presidenza della sua Commissione "per programmare l’urgente audizione del direttore generale del Dap Ettore Ferrara ". Argomento, accertare "fondatezza delle accuse ed eventuale imputabilità delle responsabilità per lo spreco di risorse pubbliche". Proprio Ferrara, ieri, ha toccato l’argomento ai microfoni di Radiouno. Ammettendo l’esistenza di decine di strutture in abbandono, e sostenendo che, in gran parte, sono inutilizzate ma anche inutilizzabili, perché non rispettano i requisiti previsti dalle più recenti normative per l’edilizia carceraria. Insomma, nemmeno finite e già vecchie.
Quelle celle costruite sulle sabbie mobili
Fino a ieri Gragnano era nota per i maccheroni, qui "scoperti" nell’anno del Signore 1560. Da quest’oggi la cittadella che sorge in provincia di Napoli, ai piedi dei monti Lattari, diventerà famosa per il "carcere che affonda" e che a forza di sprofondare in un terreno friabile ricavato da una cava di tufo (mai ricoperta) nel 2004 è stato definitivamente chiuso. Quella della galera costruita sulle "sabbie mobili" campane è la storia, paradossale, dell’ennesimo sperpero penitenziario. Milioni di euro buttati via per una struttura che avrebbe potuto far comodo in tempi di sovraffollamenti e scarcerazioni per l’indulto. E che invece, tra allarmi geologici e volontà politiche, è stata prepensionata anzitempo infischiandosene dei quattrini spesi per ospitare 110 detenuti. La casa circondariale di Gragnano, dopo una prima sospensione del dicembre 2000, tre anni più tardi è stata condannata all’oblio, forse sperando che quelle fondamenta all’apparenza così poco solide vengano inghiottite nel terreno insieme a ciò che resta della galera inutilizzata. Questo gioiello d’edilizia carceraria venne pensato e realizzato sopra una cava di tufo che, negli anni Settanta, era stata precauzionalmente chiusa. Nel 1982 si decise di iniziare i lavori senza però prima bonificare l’area. Architetti e ingegneri ministeriali non pensarono a riempire la voragine, piantarono pali a trenta metri di profondità dopodiché diedero il via ai lavori spalmando distese di cemento sulle quali, a tutt’oggi, resiste la prigione-fantasma. L’anno 1987 segnò la fine dell’opera di tre sezioni anche se il "femminile" da trenta posti non entrerà mai in funzione. In pompa magna, alla presenza delle massime autorità cittadine, si tagliò il nastro nel 1993 in contemporanea all’inaugurazione di altre strutture come Lauro di Nola e Eboli. Dal ‘93 al 2000 il carcere ha svolto regolarmente la sua funzione di pari passo all’espletamento di importanti lavori di ristrutturazione, adeguamento e costruzione di una portineria esterna detta "block-house" oltre alla messa in sicurezza di muri perimetrali e cancelli. Il tutto venne a costare miliardi. Ad inizio 2000, a seguito di una rottura dell’impianto idrico antincendio sotterraneo ovunque cominciò a materializzarsi umidità e muffa. La direzione chiese aiuto a geologi e ingegneri poiché seguendo un’infiltrazione d’acqua si scoprirono enormi caverne. Due speleologi si calarono con corde e discensori, svilupparono un paio di sondaggi, tracciarono una mappa delle cavità sottostanti, e stilarono una relazione che convinse il Provveditore e il Dap a trasferire immediatamente detenuti e i 73 agenti a Poggioreale. Quando arrivò la decisione di mettere i sigilli alla struttura si scontrarono due distinte correnti di pensiero: Roma premeva per chiudere, i secondini - che pure ci lavoravano - insistevano per l’agibilità. Racconta l’ispettore Aniello Toscano, del sindacato Sappe: "Checché ne dicano, strutturalmente il carcere poggiava su fondamenta solide. Ma la volontà politica è sempre stata quella di prendere e impacchettare il carcere per non riaprirlo mai più. È vero che il carcere-pensile aveva, anzi ha, delle cavità sotterranee non ricoperte ma queste, per quanto ci consta dai sondaggi geologici, non hanno mai comportato danni seri alla struttura. Gli esperti dissero che l’inconveniente si sarebbe potuto sanare in due mesi. Ma, ripeto, volevano chiuderlo a prescindere. E l’hanno chiuso". Quando nel 2004 l’amministrazione penitenziaria optò per una scelta drastica e non negoziabile (chiusura definitiva del carcere) il Comune di Gragnano si fece avanti. Il sindaco del paese della pasta si mostrò interessato ad "acquisire" la casa circondariale per convertirla al meglio, incurante dello spauracchio dell’inagibilità. Ma mentre l’erba cresce e la galera va in malora, il primo cittadino aspetta ancora una risposta. Roma: manifestazione di An sui temi di sicurezza e tasse di Paola Di Caro
Corriere della Sera, 13 ottobre 2007
Roberto Menia, che ha passato mesi ad organizzare l’evento, già lo definisce "un successo annunciato", mentre Ignazio la Russa fa i conti con la scaramanzia e si limita a prevedere "almeno 100 mila persone in piazza, ma conto che saranno di più...", diciamo almeno trecentomila per dirsi veramente felici. Ma comunque vada, lo sforzo solitario di An per caricare i militanti e lanciare la sfida agli alleati con una grande manifestazione che si snoderà oggi pomeriggio nel centro di Roma con tre cortei, è arrivato al traguardo. E senza rotture, polemiche o divisioni. Perché, dopo la benedizione di Casini ("Sarò idealmente con voi", ha detto due giorni fa), ieri è arrivato per bocca di Michela Brambilla anche l’okay di Silvio Berlusconi, che dà il suo "pieno appoggio" all’iniziativa. E così, con la promessa di "sorprese" colorate e provocatorie quanto basta (dal corteo dei giovani si aspettano slogan goliardici, proteste in maschera, sfoggio di asini in carne e ossa e di bamboccioni padoa-schioppani), sarà sui numeri, sulla forza, sulle parole d’ordine che si giocherà la partita di Gianfranco Fini, che ha voluto fortemente una manifestazione in chiave identitaria, ma che si è guardato bene da aggiungere qualsivoglia elemento che rappresentasse uno strappo con gli alleati. È vero infatti che il tema forte della giornata, quello su cui è convocata la piazza, è la sicurezza, argomento forte di An; ma è altrettanto vero che si marcia anche "contro le tasse", slogan comune a tutta la Cdl, e soprattutto per ottenere "elezioni subito". Insomma, differenti sì, distanti no. E infatti Gianfranco Fini, alla vigilia della giornata che lo vedrà tenere il comizio conclusivo nel palcoscenico mozzafiato del Colosseo, spiega che l’obiettivo è quello di far cadere il governo, anche se "è meglio non parlare di spallata, perché dà l’idea di rissa permanente, attacca il Partito democratico che festeggia il suo battesimo con le primarie perché "il problema non è quello del direttore, ma dell’orchestra", e alla fine rivela il senso vero dell’iniziativa di An: "I governi non cadono certo per le manifestazioni di piazza, ma quando si dividono. E credo che quello di Prodi sia l’esecutivo più diviso e più inconcludente della storia italiana", contro il quale "non ci limiteremo alla protesta" ma "faremo proposte che uniscono il centrodestra, perché noi non ci vogliamo differenziare dagli alleati". Quindi lo spirito unitario resta, tant’è che Fini torna a parlare della necessità dì dare vita a una Federazione della Cdl, oggi ancora più necessaria dopo la nascita del Pd: "Gli altri amici del centrodestra comprendano che anche da parte nostra bisogna dar vita a forme di aggregazione e a strumenti operativi più unitari". Parole che Casini, in verità, respinge seccamente: "Mi sembra che Fini dia un’apertura di credito un po’ eccessiva al Partito Democratico. Sarei molto più scettico sui processi aggregativi". E però, è vero che anche in una manifestazione "monocolore", Fini è riuscito a portare a casa il sostegno di ambienti politici magari piccoli ma significativi. Torna a casa Alessandra Mussolini, e con lei un altro ex di An, Publio Fiori. Ci saranno anche i circoli dell’azzurro Adornato, l’Mpa di d’Ambrosio, e tanta società civile (dalla moglie di Borsellino a Rita Dalla Chiesa, dai rappresentanti dei Vigili del Fuoco alla figlia dell’uomo ucciso a Roma per rapina mentre andava in bicicletta), i cui rappresentanti saranno gli unici, oltre a Fini, a parlare dal palco. E poi c’è lei, Michela Brambilla, che arriva alla conferenza stampa di presentazione della manifestazione in sobrio tailleur grigio, scherza sulle sue autoreggenti ("È che quando ci si siede, la gonna si alza...") ma sceglie il basso profilo non tanto nel promettere qualche migliaio di sostenitori dei suoi Club al corteo, quanto nell’annunciare che lei sarà lì, a sfilare in piazza e non sul palco perché "lì c’è la nostra gente". Verona: Papalia; meno crimini, ma la gente chiede sicurezza di Elena Cardinali
L’Arena di Verona, 13 ottobre 2007
Teatro comunale gremito e pubblico anche all’esterno, dov’era stato sistemato un maxischermo, ieri sera, a Nogara, per l’incontro sulla sicurezza tra il sindaco di Verona Flavio Tosi, quello di Padova Flavio Zanonato, il Procuratore Capo Guido Papalia e con il giornalista Stefano Lorenzetto nel ruolo di moderatore. Tema caldissimo, come hanno dimostrato gli interventi urlati di alcuni spettatori in pieno dibattito, "no agli assassini e agli stupratori" (sono stati allertati anche i carabinieri) e i fragorosi applausi che hanno accompagnato gli appelli a un maggior rigore nell’applicazione delle leggi e al reperimento di nuove risorse per i sindaci. A far gli onori di casa il sindaco di Nogara, Oliviero Olivieri, che ha ricordato come la necessità di garantire maggiore sicurezza ai cittadini sia un tema trasversale agli schieramenti politici, " richiesta a cui è necessario dare delle risposte anche affidando maggiori competenze ai sindaci che sono le persone che conoscono meglio il territorio". Un’ovazione ha accolto la presentazione del sindaco Tosi che, come ha detto Lorenzetto, "in 135 giorni è partito con una raffica di multe di ogni genere". E poi ha citato il poeta Andrea Zanzotto, "un uomo mite che di fronte all’omicidio dei due coniugi in provincia di Treviso, ha detto che per questa gente la taglia non basta. E se un poeta dice queste cose la cosa mi impressiona". Flavio Zanonato, sindaco diessino di Padova, eletto nel 2004, è stato citato anche dalla Bbc per la sua iniziativa di far costruire un muro per difendere la gente della zona di via Anelli dagli spacciatori e dai balordi. Ha precisato il sindaco padovano:"Non è vero che la Destra badi più all’ordine pubblico e la Sinistra alla solidarietà. Penso piuttosto che in tema di sicurezza non vi possono essere compromessi. Le leggi vanno rispettate da tutti e ogni comportamento illegale va represso. Sulla legalità non si può essere lassisti. Anche perché la criminalità va a colpire di più la povera gente". Flavio Tosi ha invece fatto una distinzione politica:"Sulla sicurezza la Sinistra è spaccata mentre noi leghisti siamo sempre stati coerenti. È da anni che diciamo le stesse cose. Ad esempio quando ho affermato che si potevano espellere gli stranieri nullatenenti e nullafacenti, in base al decreto legge 30 di quest’anno, subito altri sindaci mi hanno criticato. Ma oggi il ministro Amato dice che questa è la strada da percorrere. Ora, ad esempio, abbiamo la lista dei rom da espellere e la trasmetteremo al prefetto. Siamo sempre stati chiari sull’immigrazione clandestina e siamo contrari all’indulto, un provvedimento scellerato votato da tutti i partiti tranne la Lega e Alleanza Nazionale". Allora sì ai sindaci sceriffi? Il procuratore capo Guido Papalia ha precisato:"Le statistiche dicono che la criminalità è diminuita. Per gli omicidi s’è registrato una diminuzione del 50 per cento e anche i furti sono diminuiti". Brusio tra il pubblico. "Ma ci sono alcune tipologie, come le rapine in banca, che sono aumentate, e i cui autori nell’80 per cento dei casi sono italiani". Brusìo più forte. "Comunque, se il cittadino si sente insicuro lo Stato deve dare una risposta. Il ruolo dei sindaci è importante. Ma non per sostituirsi alle forze di polizia e alla magistratura, che sono gli organismi deputati a garantire la sicurezza e a compiere indagini sugli autori dei delitti, ma per fornire loro un’attività di supporto. I sindaci devono rendere più sicure le città e i paesi con l’illuminazione pubblica, con centri d’aggregazione, evitando di trasformare dei rioni in ghetti, combattendo l’indigenza e l’emarginazione sociale. Certo, anche la magistratura ha bisogno di risorse, per celebrare celermente i processi. È la procedura rapida che garantisce l’applicazione della pena e l’eventuale detenzione. Non è necessario inasprire le pene ma l’applicazione deve essere veloce". Modena: il carcere di S. Anna, piccola città che vive e lavora di Danilo Giannese
Gazzetta di Modena, 13 ottobre 2007
Lo vedi dall’esterno il carcere modenese di S. Anna, dalla tangenziale dove sfrecciano gli automobilisti. Lo vedi per un attimo e ti chiedi come possa essere dentro, come si svolga la vita di ogni giorno, che tipo di umanità ci sia. Martedì mattina ne abbiamo varcato i grandi cancelli in metallo. Abbiamo messo piede oltre il muro, ne abbiamo visitato una parte degli interni. Con la Gazzetta, i fotografi che stanno ultimando il libro fotografico intitolato "Modena. Ciliegie all’aceto balsamico", edito da "Artestampa" e in uscita il prossimo novembre.
Sguardi verso fuori
All’entrata del bar nel piazzale antistante alle vere e propria mura carcerarie, c’è una grande statua di Padre Pio. Ai piedi del santo una targhetta: "Resto alla porta del paradiso e vi entro quando ho visto entrare l’ultimo dei miei figli", c’è scritto. Tra i tanti ultimi, nella concezione odierna della società, ci sono anche loro, i detenuti, coloro che si trovano a dover trascorrere una fetta più o meno grande della loro esistenza dietro le sbarre di una struttura penitenziaria. Non appena si entra nell’area oltre le mura, si hanno di fronte i loro sguardi. Sono affacciati alle finestre delle loro celle, le mani sulle sbarre metalliche, gli occhi che scrutano dall’alto le macchine dei fotografi. Da una finestra del secondo piano di una delle due palazzine con le celle dei detenuti si vedono due ragazzi con lo sguardo verso il cielo azzurro: sembrano annusare la libertà perduta e, forse, coltivare la speranza di tornare, un giorno, a riassaporarla. Sulle grate di altre finestre, invece, c’è un paio di calzini stesi ad asciugare; più in là dei pantaloni e panni di vario genere.
Una piccola città
Circa 360 detenuti, di cui una dozzina sono donne, e 120 funzionari di polizia penitenziaria, un campo di calcio e uno di calcetto, l’infermeria e il teatro per gli spettacoli. E, ancora, la sala computer, il laboratorio di ceramica e la sartoria: il carcere S. Anna è una piccola città e guardie e detenuti sono i suoi abitanti. Nel carcere si lavora: nella falegnameria un detenuto si sta occupando del restauro di un mobile antico. I mobili, poi, verranno venduti all’esterno e il ricavato andrà ad associazioni di volontariato. Anche i prodotti coltivati nelle due serre del S. Anna sono in vendita, ma all’interno del carcere stesso. Si possono comprare pomodori e verdure di vario genere, il tutto con il marchio della certificazione biologica, così come il miele prodotto dai detenuti in collaborazione con un centro di apicoltura di Piacenza. Alcuni detenuti, invece, lavorano in cucina, in lavanderia o nel magazzino. E poi ci sono due corsi di formazione professionale per elettricisti e saldatori che prevedono anche stage all’esterno, grazie ai quali è anche capitato che qualche detenuto, scontata la pena, sia stato assunto. Nel carcere S. Anna non mancano, inoltre, lo sport e la cultura. In collaborazione con Uisp (Unione italiana sport per tutti) e Csi (Centro sportivo italiano) si realizzano varie attività sportive, dal calcio alla pallavolo, dalla ginnastica al basket. Per quanto riguarda l’aspetto culturale, invece, ai detenuti è data la possibilità di seguire un corso di alfabetizzazione, ma anche una scuola che dà l’attestato di elettrotecnico. E al S. Anna, attualmente, vi sono anche due detenuti iscritti all’università. Ci sono poi due biblioteche, una per la sezione maschile e una per la femminile, con libri e romanzi di ogni genere. E c’è anche la parrucchiera per le donne e il barbiere per gli uomini. Come ogni città che si rispetti, infine, anche il S. Anna ha la sua cappella: ci sono i banchetti per inginocchiarsi, un grande crocifisso sopra l’altare, due statue della Madonna e un organetto per le musiche sacre. E, ovviamente, non può mancare l’acquasantiera. Da un anno e mezzo il padre cappellano è don Angelo Lovati. "La domenica a messa viene una quarantina di detenuti", ci ha detto. Anche ai non cristiani, come vuole la legge, è garantita la libertà di culto. Ai musulmani, per esempio, è data la possibilità di riunirsi in una saletta per la preghiera e di celebrare il Ramadan.
I "nuovi giunti"
Chi lavora nel carcere la chiama "zona di transito nuovi giunti". Si tratta di due corridoi, dalle pareti bianche e verdi, con le celle in cui sono rinchiusi, per non più di qualche giorno, i detenuti in attesa della convalida della condanna. È qui che i detenuti hanno il loro primo impatto col carcere di Modena. E a volte l’impatto non è positivo a guardare i segni delle scarpe lasciati sul muro dopo una serie di calci. Alcune celle sono singole, altre sono per due persone e hanno il letto a castello. In una cella, un detenuto dorme con le scarpe ai piedi; in un’altra due giovani extracomunitari ci guardano incuriositi. È da poco passata l’ora di pranzo e sui tavolini, oltre la porta metallica, si vedono piatti di plastica con del cibo, pane e bicchieri di bibite.
Peter Pan e murales
Il carcere di Modena, in collaborazione con "Telefono azzurro", ha attivato un progetto che permette ai detenuti di incontrare, all’interno di due ludoteche, i figli che abbiano fino a dieci anni di età. Le due salette si chiamano "Peter Pan": le pareti sono colorate, ci sono giocattoli e pupazzi di ogni tipo, piccoli divani e tavolini per bambini. Tutto è pensato per mettere a proprio agio i piccoli in un luogo come il carcere. Di questi luoghi ce n’è uno anche all’aperto, per il periodo estivo, con tanto di panchine e scivolone per giocare e non comprendere che invece quello è il carcere dov’è rinchiuso il proprio papà o la propria mamma. Molti dei corridoi che abbiamo attraversato, inoltre, sono decorati con bellissimi murales realizzati da detenuti. Da uno in particolare. Sono raffigurate le quattro stagioni e le barche in un golfo, paesaggi di campagna e cesti di frutta. Riproduzioni fedeli di immagini tratte da volumi d’arte e consegnate al pittore-detenuto. Anche i poliziotti penitenziari che ci accompagnano li guardano con ammirazione. Chi scrive, invece, ha osservato con ammirazione la frase sulla lavagna della sala computer della sezione femminile: "La vita è una grande lezione di umiltà". Chi l’ha scritto, probabilmente, dell’esperienza in carcere farà tesoro, una volta in libertà. Immigrazione: Amato; è necessario pragmatismo e realismo
www.interno.it, 13 ottobre 2007
Dobbiamo attrezzarci ad affrontare l’immigrazione, con pragmatismo e realismo. Lo ha detto Amato alla presentazione della ricerca Makno sull’immigrazione in Italia Illustrate anche le guide "In Italia, in regola", una pubblicazione in otto lingue con le principali regole e procedure che riguardano il mondo dell’immigrazione. Il problema del fenomeno dell’immigrazione è la sua complessità, in cui si rischia di perdersi o di uscirne attraverso nocive semplificazioni. Lo ha spiegato il ministro dell’Interno Amato al convegno "Gli immigrati: chi sono, come ci vedono, come li vediamo", che si è tenuto presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati. Nell’incontro è stata presentata la "Ricerca sociale sull’immigrazione in Italia", curata da Makno e Consulting per il ministero dell’Interno, apprezzata dal ministro Amato proprio perché "segnala la complessità del problema" immigrazione. "Alcuni secoli di storia - ha spiegato Amato - ci hanno reso tendenzialmente bianchi e cristiani", ma dobbiamo essere disposti ad "accogliere le diversità", anche se ci sono alcune "diversità difficili da comporre". Allora, secondo il ministro, rimane da chiedersi se è il caso di alzare muri, come qualche Paese sta facendo, oppure essere più aperti come lo è stata l’America in passato: "Trovo difficile - ha scherzato Amato ricordando episodi di emigrazione nella sua storia familiare - fare ad altri ciò che non fu fatto a mia zia". Le tendenze demografiche in atto sembrano portare verso un Paese sempre più vecchio e in declino, ha spiegato Amato, e noi dobbiamo "attrezzarci ad affrontare l’immigrazione, tenendo conto delle sfaccettature", ci vuole pragmatismo. "Gli italiani non sono così aperti, vanno convinti" ha detto Amato. Senza ideologiche posizioni e trascinamenti emotivi, ha sostenuto il ministro, "dobbiamo giocare le nostre carte con realismo". Occorre "capire cosa abbiamo in comune al di là delle nefandezze del passato" che non devono più accadere, "non può esserci compromesso con il male". Il ministro si è soffermato, inoltre, su alcuni punti più volte ribaditi: prima di tutto la necessità di conoscere "chi viene a predicare la religione islamica" nel nostro Paese, un problema che potrebbe essere risolto dalla legge ferma in Parlamento, ma anche da un accordo "unilaterale a garanzia della stessa comunità musulmana"; poi le procedure dei ricongiungimenti familiari che devono essere semplificate perché un uomo con la sua famiglia, ha spiegato il ministro, "ha un valore stabilizzante" per la società; infine, la cittadinanza che si deve dare a chi la vuole, ma bisogna conoscere la lingua italiana e "si devono condividere, e non solo conoscere", i valori fondanti della nostra società. Nel suo intervento introduttivo il sottosegretario all’Interno Marcella Lucidi ha osservato che "non è possibile adottare una strategia di governo dell’immigrazione, senza avere le antenne sempre orientate verso la società". "Occorre intercettare e orientare - ha detto - le dinamiche migratorie e le conseguenti dinamiche sociali" perché né l’una né l’altra vengano negate. "Il percorso di integrazione deve essere fatto non di ostacoli, ma di opportunità" ha sostenuto il sottosegretario, e "la legge Bossi-Fini appartiene al passato, anche la Turco-Napolitano" e oggi "servono regole, anche severe, ma fruibili". Il Ministero dell’Interno, proprio per favorire la divulgazione di tali regole, ha prodotto un opuscolo informativo a cui hanno lavorato il Dipartimento delle Libertà civili e dell’immigrazione e il Dipartimento della Pubblica sicurezza. La guida "In Italia, in regola" è stata realizzata per spiegare nel modo più chiaro possibile, "anche se le regole burocratiche - ha osservato Amato - mantengono sempre la loro natura", tutte le procedure che riguardano il mondo dell’immigrazione. È stata tradotta in 8 lingue, per raggiungere il maggior numero persone interessate, e stampata in un milione di copie. "Il meglio che si poteva fare per farle conoscere" - ha commentato il ministro - "senza intaccare il bilancio dello Stato" poiché le risorse sono state fornite da Intesa Sanpaolo. La guida illustra le procedure che riguardano: prima assunzione dei lavoratori stranieri, rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno, permessi in Questura, permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, richiesta di asilo, ricongiungimento familiare, minori, anagrafe, scuola, assistenza sanitaria e cittadinanza. La pubblicazione è stata realizzata durante l’estate scorsa ed è soggetta a variazioni. Le procedure, infatti, possono subire modifiche, ma nel sito sono presenti le schede sempre aggiornate. Nel corso della tavola rotonda, moderata dal direttore del TG1 Gianni Riotta, è intervenuto il Prof. Luca Riccardi sottolineando l’importanza della conoscenza lingua, quale "strumento fondamentale per l’integrazione". Anche il vicedirettore del Corriere della Sera, Magdi Allam, ha chiesto un intervento più incisivo per far conoscere a tutti la lingua italiana ed ha sottolineato la necessità di considerare la questione della formazione di ghetti, una realtà che, secondo Allam, già appartiene alle nostre scuole. La "Ricerca sociale sull’immigrazione in Italia" è stata illustrata dal dott. Mario Abis. Tra gli altri erano presenti all’evento il Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, prefetto Mario Morcone, il portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), Laura Boldrini, e il presidente del Consiglio Italiano Rifugiati, Savino Pezzotta. Immigrazione: presentazione ricerca sociale sugli immigrati di Mario Abis
www.interno.it, 13 ottobre 2007
La "Ricerca sociale sull’immigrazione in Italia" è un sondaggio, commissionato dal ministero dell’Interno alla Makno e Consulting, su un campione rappresentativo di italiani e di immigrati che ha analizzato le due diverse identità impiegando tecniche di indagine innovative. Sono presenti nel nostro Paese almeno 12 etnie importanti, mondi diversi e migrazioni diverse, che sono state studiate sotto il profilo dell’età, dell’istruzione, della lingua, del tipo di lavoro, della retribuzione, della soluzione abitativa, del possesso dei beni di consumo, della fruizione del tempo libero, ecc. per arrivare ad un vero identikit del mondo dell’immigrazione. Diversamente da quanto si sostiene, risulta che l’immigrato lavora nel 73,5% dei casi e che la figura del disoccupato è marginale e riguarda appena l’11%. Mediamente la popolazione straniera possiede un profilo socio-culturale abbastanza elevato, con una buona conoscenza della lingua italiana, che arriva fino al 74,9% per quanto riguarda il parlato, anche se scende al 42,1% per lo scritto. In evidente contraddizione con il livello di istruzione, il livello delle professioni svolte è piuttosto basso, per il 24,5% sono operai, 12,3% badanti, 10,2% colf, 8,9% cameriere, ecc., con conseguente reddito medio non superiore a 1.000 euro. Sembra la classe lavoratrice italiana di 20-30 anni fa. Sono veramente soddisfatti di stare nel nostro Paese solo il 24,3% degli intervistati, ma un altro 61,6% dichiara di trovarsi abbastanza bene, per un totale di soddisfazione pari all’85,9%, ma solo circa un quarto sono davvero integrati e desiderano vivere in Italia tutta la vita. Per quanto riguarda la conoscenza del fenomeno immigrazione tra gli italiani, la ricerca evidenzia che, mentre il fenomeno è percepito come uno dei problemi fondamentali, il 65,3% non ne conosce i termini quantitativi e per la metà è convinto che l’incidenza della clandestinità nell’immigrazione sia in un rapporto da 1 a 2. Ancora diversamente da quanto ritenuto, solo il 7% degli stranieri immigrati chiede l’elemosina o vive di espedienti. I sentimenti nei loro confronti da parte degli italiani sono per il 32,7% di chiusura, ma non per motivi razzisti o di rifiuto ideologico, piuttosto a causa della percezione di una minore tutela rispetto all’immigrato. La ricerca ha fornito, inoltre, una mappa degli atteggiamenti più presenti all’interno delle diverse etnie ed è risultato che paura e diffidenza è il sentimento principale degli immigrati provenienti dall’Africa nei confronti degli italiani, di distanza e autonomia per quanto riguarda gli asiatici, di rispetto e valorizzazione per quelli provenienti dall’Europa centro orientale e di assimilazione e rispecchiamento per gli immigrati dell’America latina. Solo nel 36,7% dei casi, infine, si riscontra una reale propensione all’assimilazione e alla creazione di un rapporto interculturale.
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