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Giustizia: quando perfino il giudice perde la fiducia...
Radio Carcere su "Il Riformista", 25 marzo 2007
Gherardo Colombo, 61 anni. In magistratura ne ha passati 33. Ha deciso. Lascia la toga. Ha rassegnato le dimissioni. Comunicate al Csm con una stringata motivazione. Il motivo: "l’amministrazione della giustizia è essenziale, ma così com’è non funziona. Sappiamo tutti che non funziona". Parole amare. A cui si aggiungono riflessioni sul fatto "che in Italia si è sempre dato tantissimo spazio a un modo di intendere i rapporti come se fossero regolati dalla legge del più furbo o del più forte, a cominciare dalle scorciatoie, dalle raccomandazioni". Il giudice milanese si era da poco trasferito nel Palazzaccio di piazza Cavour. Aveva lasciato la prima linea: la Procura di Milano. La Corte di cassazione. La Suprema Corte. Probabilmente sperava di trovare il diritto, la giustizia. La funzione nomofilattica. Stimoli nuovi. Probabilmente ha trovato solamente un sentenzificio. Una macchina che sforna un numero impressionante di decisioni. Dove i giudici rischiano di abbandonare l’abito di giuristi per indossare quello di scrivani. Dove la qualità ha ceduto il passo alla quantità. La seconda schiaccia inesorabilmente la prima. I numeri prima di tutto. Quelli che all’inaugurazione dell’anno i Presidenti snocciolano sapientemente. E allora l’amarezza, la disillusione, l’abbandono. La lettera al Csm. Le agenzie battono la notizia. Il Ministro di giustizia lo invita a ripensarci. Borrelli gli chiede di resistere. Una decisone importante, corroborata da parole importanti. Una decisione di un uomo di giustizia. Un uomo che costituisce un modello di magistrato. Apprezzabile non solo per la sua cultura giuridica, ma anche per la sua riservatezza. Una decisione che dovrebbe portare a riflettere. E non a limitare l’apertura di un dibattito mass mediatico, caratterizzato dall’ovvia banalità. Una decisione motivata con una denuncia: la giustizia non funziona. Alla quale si sono affiancate parole sintomatiche di un profondo malessere. Parole che testimoniano un senso d’impotenza. Il giudice che è costretto a registrare l’impunità. Causata dalla lunghezza dei processi e soprattutto dalla prescrizione. Un giudice che abbandona non per cedere alle lusinghe di altri incarichi, ma perché non crede più nella giustizia. Riflettere. È necessario riflettere. Ci si dovrebbe interrogare sul se questo malessere è isolato o se è comune ad altri magistrati. Si dovrebbe riflettere sul se il senso d’impotenza è avvertito anche da altri giudici. E una ovvia risposta positiva dovrebbe costringere ad agire rapidamente per restituire ai giudici il loro ruolo e la loro funzione. L’impotenza, il non riuscire a svolgere la propria funzione di magistrato generano l’abbandono ed ove questo non avvenga portano rassegnazione, apatia o rabbia. Il giudice apatico svolge la sua funzione passivamente. Trascura l’aggiornamento. Perde professionalità. Da giudice si trasforma in burocrate. Svolge il compitino senza passione. Il giudice rabbioso cerca di reagire. Non si arrende di fronte al muro della prescrizione. Non tollera l’impunità dettata dai tempi lunghi del processo. Cerca di ridurre i tempi processuali, calpestando, a volta, le garanzie difensive, che assicurano un giusto processuale ed evitano l’errore giudiziario. Cerca di applicare la pena, utilizzando la custodia cautelare. Il processo non riesce a punire il colpevole, allora si punisce chi è sospettato di essere colpevole senza aspettare il processo. Alle prove, uniche idonee a giustificare una punizione, si sostituiscono i sospetti. Al giudice si sostituisce lo sceriffo. Riflettere e non resistere. Riflettere e non dialogare con comunicati stampa. Riflettere per capire che è necessario restituire ai giudici la loro funzione. Eliminare quel senso d’impotenza generato da processi che durano decenni e che si vanificano con la prescrizione. Un lavoro faticoso, indagini, udienze che viene annullato dall’intervento della prescrizione. Colpevoli che godono dell’impunità perché il processo è durato troppi anni. Riflettere e capire che occorre restituire ai giudici l’autorevolezza che la funzione richiede. Autorevolezza che ovviamente deve essere pure conquistata. Amministrando correttamente la giustizia. Compito al quale però si può assolvere solo se sono assicurati mezzi e personale. Solo se è assicurata la professionalità del singolo giudice. Selezionando coloro che svolgono una così delicata funzione. E soprattutto non avendo il timore di allontanare coloro che si dimostrano non all’altezza della funzione. Giustizia: quei 41 pianti di bimbi, inascoltati dalla politica
Radio Carcere su "Il Riformista", 25 marzo 2007
Colpevole! Colpevole! Colpevole! Come un recidivo, un delinquente abituale, Radio Carcere insiste nell’intento criminoso. Come un latitante che si tinge i capelli per sfuggire alla cattura, Radio Carcere cambia colore, dal nero all’arancione, ma non la determinazione "criminale". L’accusa è grave: informa i cittadini sul processo penale e sulla detenzione. Scandaloso e sfacciato. Radio Carcere è colpevole. Cerca soluzioni, per ridare efficienza alla Giustizia penale e al sistema delle pene. Soluzioni che vadano al di là di interessi corporativi (di magistrati e di avvocati), ma che tentano di perseguire l’interesse pubblico. Intollerabile e fuori moda. Colpevole. Non dimentica mai la persona e guarda con costanza all’imputato mal giudicato, al condannato maltrattato, alla vittima del reato che resta senza risposta. Indecente e populista. Radio Carcere è colpevole. È colpevole perché, con la sua piccola voce, annoia questa o l’altra politica ripetendogli sempre la stessa frase: "Attenta politica! Se perdi la Giustizia perdi il Paese". Ed ancora: "Che fai politica! Sei passata dalle leggi ad personam alle leggi a babbo morto?". Praticamente dei sovversivi e in più dei rompi scatole. Radio Carcere è colpevole. Tentacolare è la sua organizzazione criminale. Alla radio, il martedì alle 21 su Radio Radicale e da oggi ogni mercoledì sul Riformista. Abusivi e clandestini. Ora a pensarci bene è vero. Radio Carcere è colpevole, come colpevole è Rosario. Tre anni di età, compreso uno passato in carcere con sua madre. Ai bambini come Rosario è dedicato il primo documento di "Fine pena mai", il primo viaggio nei nostri penitenziari. La realtà dei bambini detenuti nelle carceri italiane. Le uniche persone detenute che certamente sono in carcere, senza accusa, senza processo e, soprattutto, senza colpa. Alcuni non sanno che in Italia ci sono dei bambini detenuti. Altri invece conoscono l’indegna vicenda, ma volgono lo sguardo. Ad oggi sono 41 i bambini ristretti nelle carceri italiane e 39 le mamme. Ora c’è un bambino detenuto che guarda il cielo sbarrato da una cella del carcere di Foggia. Un altro fa l’ora d’aria nel carcere di Genova. Tre passeggiano nei corridoi del carcere di Bologna. 16 bambini giocano, o quanto meno ci provano, nel carcere romano di Rebibbia. Detenuti bambini che imparano a seguire le regole e i ritmi del carcere. Il momento per svegliarsi, il momento dell’ora d’aria, il pranzo in cella, la chiusura della cella. Al compimento del terzo anno di età la Legge impone che quel bambino esca dalla prigione e si stacchi dalla mamma detenuta. Perché ci sono dei bambini nelle carceri italiane? Perché alla mamma detenuta è concessa la facoltà di portare in carcere con sé il proprio bambino. Unica condizione: non abbia più di tre anni. Sia chiaro nelle carceri italiane ci sono anche donne in cinta. Magari le fanno partorire nel più vicino ospedale e poi le riportano in cella con il neonato detenuto. Questa è la realtà. Nel 2001 è stata approvata la c.d. legge Finocchiaro, che ha tentato di arginare l’infame carcerazione dei bambini. La legge prescrive che una donna detenuta con un figlio di età entro i 10 anni possa scontare la pena fuori dal carcere, purché abbia già scontato 1/3 della pena, abbia un domicilio, e non sussista pericolo di commissione di altri reati. Purtroppo la legge Finocchiaro è inefficace, e ancora nel 2007 ci cono bambini detenuti nelle nostre galere. Ma allora perché la politica non fa nulla? Non si sa. Eppure alla Camera giace in Commissione Giustizia un disegno di legge (primo firmatario Enrico Buemi) che intende risolvere il problema. Ma ripeto quel disegno di legge giace, dorme e a tratti rantola. Due settimane fa l’ultimo rantolo. La commissione bilancio della Camera ha dato parere negativo al ddl Buemi sui bambini detenuti. Come dire: non abbiamo i soldi per togliere dalla galera dei bambini. "Occorre riformare il sistema delle pene". Lo ha detto il Presidente Napolitano nel suo primo intervento al Consiglio Superiore della Magistratura. Quanta giustizia in quelle parole, ma quanta pigrizia in questa politica. Vi lascio con una domandina. Se la politica non sa risolvere la questione della pena di 39 mamme e di 41 detenuti bambini, come si può pensare che sappia riformare un intero sistema delle pene? Giustizia: Rosario ha 3 anni; mamma quante sbarre
Radio Carcere su "Il Riformista", 25 marzo 2007
Mi chiamo Rosario, per gli amici Sasà. Ho 3 anni e sono uno di quei bambini rinchiusi in uno Zoo, che i grandi chiamano carcere. Una mattina mia mamma mi sveglia e mi dice: "Sasà, adesso fai il bravo che vieni con mamma in un posto nuovo". "E dove andiamo?" "Andiamo in un posto dove ci sono altri bambini.". "E che posto è?" "Ora lo vedrai, tieni! Mettiti il maglione che farà freddo" "Ma non fa freddo! C’è il sole fuori!". E invece, il freddo è arrivato. È arrivato dentro. Il freddo è arrivato quando una signora con la giacca blu ci ha aperto il portone del carcere. Dentro. Freddo, cancelli, rumore, gente vestita uguale e un odore nuovo, che poi è la puzza di quando si pulisce la galera. Si apre e si chiude un’altra porta. "Detenuta in arrivo!". Mi guardo intorno, cerco di capire, ma una cosa è certa. Questo non è un posto per me, che ho solo 2 anni. Mamma dove mi hai portato? "Stai buono tesoro, non aver paura". Io non devo avere paura? Ma allora perché anche tu tremi? "La detenuta all’ufficio matricola per la perquisizione!!". Ecco un’altra signora con la giacca blu: "La madre nella stanza a destra per la perquisa, il bambino dall’altra parte!". "No! Agente aspetti il mio bambino!". "Ah! Incominciamo bene! Allora tu stai qui che ti dobbiamo perquisire e il bambino sta di là con la collega per vedere se tutto è a posto. Allora dì: cognome, nome e luogo di nascita!" Intanto, una signora bassa e cicciottella mi porta, con passo deciso, in un’altra stanza. Prepotente! Ora mi metto a piangere e voglio vedere che fai! "Non piagne ragazzì! Non fà casino!" E certo che faccio casino. Ma chi sei tu? "Ah! Quante storie! Forza mettete su stò lettino e vediamo che c’hai addosso". Perché mi tocchi da per tutto? Che cerchi? "Bono! Ho finito!" Certo che hai finito. Che pensavi di trovare? "Superiò! Il ragazzino sta apposto!". Perquisito, mi lasciano sul lettino ad aspettare mia mamma. Poi, finalmente, le mani che conosco, le sue. La sua guancia, il suo odore, il suo abbraccio. Sembrava quasi di essere a casa. Ma non era casa. Che freddo. "Tesoro, abbiamo fatto hai visto? Ora vieni che andiamo nella nostra stanza nuova". "Detenuta al Nido!!". Nido? Ma se sembra di stare allo Zoo cò tutte ste sbarre. Uno Zoo strano. Non all’aperto, ma al chiuso e con i corridoi tipo quelli di casa, ma più lunghi. Uno Zoo dove dentro le gabbie non ci sono i leoni, ma donne come la mia mamma. Che buffo stò posto. Ogni tanto c’è un cancello e dall’altra parte una signora con la giacca blu che urla: "Detenuta al Nido!!". Forse è un gioco: a ogni cancello devi ripetere la stessa frase, se no perdi. Quante gabbie! Le chiamano celle. "Detenuta alla cella 14!!". "Ecco amore siamo arrivati". E finalmente è mezz’ora che camminiamo! "Chiudi la cella 14!!". Incredibile siamo dentro una delle gabbie dello Zoo! E ci sono altre mamme e altri bambini. Uno è nero come il carbone, un altro è biondissimo, e poi c’è quello che non si capisce da dove viene. Me li guardo e loro guardano me. "Questa non è casa, questo non è un posto per me". Non parliamo la stessa lingua, ma è quello che dicono i nostri sguardi. "Ecco amore vedi? Qui è il letto di mamma e accanto c’è il tuo lettino. In questo posto si dorme così. Ogni mamma accanto a suo figlio". Si ho capito, ma stiamo in 6 dentro stà gabbia e non è mica tanto normale! Mi innervosisco. Vado verso la finestra: ci sono le sbarre. Penso: avranno paura dei ladri! Vado verso la porta: è chiusa. Penso: ho paura di loro. Non ce la faccio. Come il vomito che sale, sale il pianto, la rabbia. Sbatto contro la porta della cella. La spingo con le mani, che però diventano gelate. La porta è di ferro. "Amore, vieni qui dalla mamma! Non fare così, ce la faremo". Mi hai mentito. Questa non è casa. Questo non è un posto nuovo. Questo non è un posto per me. Qui è freddo, qui è dentro. Il sole è fuori. E io è lì che devo stare. Ma guarda tu! Sto in carcere da un’ora e già protesto come un detenuto. Mi butto sul mio lettino, ma non faccio in tempo a farmi un sonnellino che: "Detenute all’aria!! Forza tutte fuori! Chi deve annà al colloquio cò l’avvocato non fà l’aria!! Forza!!". Andare all’aria è la prima frase che ho imparato in quello Zoo. Prima di venire qui con mia mamma andavamo ai giardini vicino casa e l’estate era bello stare al mare. Ora no. Ora c’è l’ora d’aria. Una specie di cortiletto circondato da mura altissime. E sopra quelle mura dei signori vestiti di blu che ci guardano dall’alto. Loro la chiamano ora d’aria. A me sembra di soffocare. Ma si sa, spesso i grandi chiamano le cose al contrario. Ho passato un anno in quella cella, che loro chiamano nido. Un anno tra pidocchi, morbillo e tbc. La notte, un inferno. Le urla delle detenute nelle altre celle, i pianti di noi bambini e gli agenti che entravano a fare la battitura delle sbarre. Il 14 marzo, quando quasi mi ero abituato a essere un bambino detenuto, mi hanno strappato via dalle braccia da mia mamma. Era il mio compleanno. 3 anni. Ora guardatemi e provate a farmi gli auguri. Giustizia: "ex" e scrittori, intervista ad Arrigo Cavallina
Avvenire, 25 marzo 2007
"La piccola tenda d’azzurro" (Edizioni Ares, 2005), è l’autobiografia di Cavallina, fondatore dei Pac, che racconta di anni di piombo, carcere e ricerca di identità. Il carcere come luogo di reclutamento e di lotta armata, ma poi anche..e luogo in cui inaspettato può nascere il primo bagliore della fede. Di tutt’altro tipo lo sbocco umano, ed editoriale, del compagno di un tempo Cesare Battisti. Pluriomicida, riparato in Francia, diverta scrittore di successo, apprezzato autore di libri gialli. Un caso letterario, ma autocritica niente. Si porta dietro lo scrupolo di aver iniziato alla lotta armata Cesare Battisti, quando era semplicemente "un malavitosetto romano (di Latina) dall’intelligenza vivace". Arrigo Cavallina fu fondatore dei Pac, Proletari armati per il comunismo, una delle tante cellule armate venute fuori dall’Autonomia, proiettata alle azioni eversive nelle carceri. E fu proprio in carcere, a Udine, nel fatidico ‘77, che Cavallina agganciò Battisti. "Aveva - ricorda nella sua autobiografia - un senso dell’umorismo col quale mi trovavo spesso in sintonia, la voglia di uscire dalla sua condizione e cercare significati più profondi. Per sua disgrazia ha creduto di trovarli condividendo i miei orientamenti politici. Nei suoi confronti sento una speciale corresponsabilità". L’amicizia e la complicità durerà qualche anno. Racconta ancora Cavallina: "Con la sua simpatia e l’aria di bulletto autoironico, lo sguardo che lasciava intuire un altro mondo non detto, si era ben inserito nel giro di conoscenze e anche di qualche avventura amorosa. Altrettanto bene si è inserito nei Pac e ne ha condiviso la storia". Correvano gli anni ‘70, ne è passata poi di acqua sotto i ponti. Per Cavallina sono stati anni di carcere, di conversione e di lento ritorno alla vita. Per Battisti è stato tutto un fuggire, fino a domenica scorsa, nel disperato tentativo di difendere la sua nuova vita dagli enormi conti aperti con la giustizia.
Che cosa ha pensato, alla notizia dell’arresto del suo ex discepolo Battisti? "Affettivamente ora è lontano. Nei suoi scritti recenti so che ha mostrato scarsa simpatia per me".
Ora dovrà scontare la pena, come è giusto. "Dispiace sempre quando la vita di una persona è spezzata dall’ergastolo. Ma non credo che oggi Battisti avrebbe voglia di rapportarsi con me".
Se così non fosse, che cosa vorrebbe potergli dire? "Nulla, piuttosto mi metterei in ascolto. È il modo attraverso il quale una persona si sente presa in considerazione. Anche per me un cambiamento è iniziato così. Pian piano".
Ma un percorso non chiarito come quello di Battisti, non rischia di offrire delle sponde a chi oggi, caduti i muri e fallita la rivoluzione di ottobre, ancora progetta la lotta armata? "Non direi. Questi fenomeni mi sembrano più di natura patologica che politica. D’altro canto Battisti con le sue scelte, le sue smargiassate, è passato comunque come traditore, non può essere in alcun modo un modello per la lotta armata".
Ma le vittime, pensi al figlio paralizzato del gioielliere rapinato Torregiani, chiedono giustizia... "È un sentimento più che comprensibile, eppure la giustizia è dello Stato e deve prescindere dalla maggiore o minore capacità della singola vittima di perdonare, sennò si tornerebbe a una concezione privatistica della stessa. Il punto è un altro: chi ha provocato un danno sociale deve avere la possibilità di rielaborarlo, facendo ricorso anche, nei limiti del possibile (una vita non si può risarcire) a un impegno riparatorio. Penso che sia giusto anche per le vittime stesse: chiedere sempre il male di chi ha commesso male diventa un’altra prigione, è nel loro stesso interesse puntare a una pena che abbia una finalità più alta e arrivare al perdono".
Si augura anche per Battisti un percorso del genere? "Si, ma al momento la vedo difficile. Chi ha vissuto fuori, da latitante, inseguito dalla giustizia e da una condanna enorme, finisce per cadere in un istinto di autodifesa, una tendenza a negare l’evidenza attraverso un’auto-proclamazione d’innocenza per evitare la catastrofe familiare. Anche per questo, credo, dalla Francia non sono emerse storie di profonda revisione".
Ma colpisce che Battisti non abbia mai chiesto scusa per le vittime. "C’è sempre il terribile rischio di essere strumentali e falsi. Io non ho materialmente ucciso, ma ho piena responsabilità nella morte del maresciallo Antonio Santoro: ebbene, trovo che il silenzio, il percorso maturato dentro di sé, forse è la forma più rispettosa. Se parlasse oggi Battisti sarebbe troppo tardi per i fatti accaduti e troppo presto, all’indomani della cattura. Gli auguro che sappia guardare dentro di sé, alla sua responsabilità. Col tempo, passo dopo passo".
Che cosa pensa di chi dice che gli ex terroristi dovrebbero evitare di fare interviste, o scrivere? "La domanda giusta è: a che cosa serve? Io, parlo per me: faccio volontariato a Verona con la mia associazione, la Fraternità. Sono più di quindici anni che vado nelle parrocchie e nelle scuole a parlare di perdono, di pena e di carcere. Se ancora mi chiamano è segno che a qualcosa serve. Se ho qualche competenza, qualche capacità o talento perché non dovrei adoperarli? Perché mi permetto di parlare? Ma allora perché mi permetto di vivere, potrei aggiungere".
Che cos’è la fede per lei? "La fede è tenere una porta sempre aperta. Sapere che ci sono tante cose che io non so, ma sono possibili. La fede è speranza. Ma più di tutto è riconoscenza. Non riesco a pensare alla mia vita se non con questo senso di riconoscenza: per gli amici, per la mia sposa, per la bellezza del mondo".
Qualche maestro buono gliel’avrà trasmessa. Chi sono invece i cattivi maestri? "Il cattivo maestro sono innanzitutto io. Ero maggiorenne, le letture le ho scelte io, non c’è Toni Negri che tenga. E poi penso alla cattiva influenza che ho esercitato su persone, come Cesare Battisti". Lettere: alcuni detenuti scrivono a "Radio Carcere"
Radio Carcere su "Il Riformista", 25 marzo 2007
Renzo dal carcere Rebibbia di Roma "Cara radio Carcere ti scrivo per raccontarti la mia storia che nella sua assurdità è simile a tante altre. Nel 1997 sono stato condannato con un altro imputato di ricettazione, per via di un giro di auto rubate. In primo grado la mia pena era 2 anni e 10 mesi. A quel punto incaricai il mio avvocato di seguire il processo di impugnazione e di proporre appello. Il fatto è che il mio avvocato non presentò mai appello contro la sentenza di condanna e così quei 2 anni e 10 mesi divennero definitivi. Ma c’è di peggio. Il mio coimputato, evidentemente con un avvocato meno peggio, ha fatto appello ed è stato assolto. Capisci lui assolto in appello per lo stesso fatto e io in galera per lo stesso fatto. Inutile dirvi la mia disperazione: il mio avvocato che non fa il suo dovere e l’impossibilità di ricevere la stessa giustizia che ha ricevuto il mio coimputato. È questo il giusto processo che vogliamo?"
Emanuele dal carcere Pagliarelli di Palermo "Caro Arena, le scrivo perché mi hanno rigettato l’indulto. Il motivo di tale rigetto sta nel fatto che io sono stato condannato in Germania e poi estradato in Italia. Mi hanno rigettato l’indulto perché dicono che nell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo non c’è scritta la parola indulto. Dicono che, nell’art. 12 della Convenzione, tra i benefici che può avere il condannato ci sono solo le parole amnistia e grazia. Ora io non sono un avvocato, ma guardo e riconosco la realtà. E la realtà è che io oggi sono a tutti gli effetti un detenuto dello Stato italiano, sottoposto alla legge italiana. Io infatti beneficio regolarmente di permessi mentre non mi danno l’indulto perché nell’art. 12 non c’è la parola. Mi sembra incredibile. Eppure alla Baraldini l’indulto gli lo hanno dato, anche se non c’era la parola indulto nell’art. 12. La realtà è che io non sono nessuno e per uno come me le parole che non ci sono contano. A lei Arena una forte stretta di mano."
Marcello e i suoi compagni di detenzione dal carcere di Lecce "Caro Riccardo siamo un gruppo di ragazzi detenuti nel carcere di Lecce e ti scriviamo per dirti quali sono i nostri problemi. Il primo problema per noi ora è il Tribunale di sorveglianza di Lecce, che non ci concede nessun beneficio. Così per esempio le famose misure alternative al carcere sono per noi un’utopia. La stessa sorte spetta ai detenuti più deboli, ovvero quelli che hanno problemi con la droga. Per loro avere una misura alternativa diversa dal carcere, come andare in comunità per curarsi, è un sogno. Il Loro destino è restare in carcere. Un carcere, come quello di Lecce, senza nessuna cura per i drogati, senza metadone e senza assistenza psicologica. Come uscirà dal carcere un ragazzo trattato così?"
Giuseppe dal carcere di Belluno "Ciao Riccardo, qualche mese fa, verso le 3 di pomeriggio, un nostro compagno si è impiccato in cella usando la cintura dell’accappatoio. Si chiamava Mohamed, aveva 25 anni, ed era magrebino. Mohamed soffriva di problemi psichiatrici ed era in cella da solo. Mohamed, dopo più di 2 anni di carcere, sperava di tornare libero con l’indulto. Ma non è stato così. Non ce l’ha fatta e si è impiccato. Pare che Mohamed non avesse parenti. Infatti non riceveva mai né visite né telefonate. È morto in silenzio, senza lasciare un biglietto. Non si lascia una persona così in cella da sola e per di più con una cintura dell’accappatoio a disposizione. Si poteva evitare la morte di Mohamed. La sua cella era al piano terra del carcere di Belluno. Un piano dove ci sono sempre molti agenti. Sarebbe bastato lasciare lo spioncino della cella aperto. Sarebbe bastato non sottovalutare la situazione. Ma non è stato così. Con stima Giuseppe"
Attilio dal carcere di Massa "Caro Riccardo Arena, io sono una delle tante vittime della contumacia. Infatti mi trovo in carcere con una condanna a 15 anni, condanna emessa durante un processo di cui io non sapevo nulla. Devi sapere che per molti anni ho lavorato in Guatemala, poi nel 2000 sono venuto in Italia per rivedere la mia famiglia. Arrivato all’aeroporto ho esibito il mio passaporto e loro mi hanno arrestato. Solo quando sono arrivato in carcere ho scoperto che ero stato condannato a 15 anni di galera. Ho cercato il consiglio di diversi avvocati ma tutti mi hanno detto che non c’era nulla da fare. Io non voglio sottrarmi alla Giustizia, vorrei solo poter avere un processo a cui partecipare. Vorrei poter, come possono tutti gli imputati, chiedere un rito alternativo."
Un gruppo di persone internate nel carcere dell’isola di Favignana Cara Radio carcere, qui a Favignana viviamo in condizioni precarie. Il cibo viene diviso all’aria aperta e spesso i piccioni ci fanno i bisogni dentro, oppure quando piove ci arriva la pasta con l’acqua. Le nostre celle sembrano più delle caverne. Infatti sono senza finestre e messe a 10 metri sotto il livello del mare. L’umidità ci mangia le ossa e il degrado ci consuma la dignità. Se poi uno di noi fa qualche errore viene sbattuto nella cella di isolamento. Nudo e senza materasso per dormire. Dal carcere di Favignana noi detenuti internati chiediamo solo dignità, è ancora possibile?" Bologna: il Garante commenta la legge regionale sui detenuti
Sir Regione, 25 marzo 2007
Una legge regionale per tutelare i diritti dei carcerati. La proposta è stata presentata nei giorni scorsi all’assemblea legislativa dell’Emilia Romagna dai gruppi politici di maggioranza, sotto il titolo "Disposizioni per la tutela delle persone limitate e private legalmente della libertà nella regione Emilia Romagna". Un provvedimento che si propone d’intervenire "in tutti i settori già oggetto delle precedenti intese con lo Stato: tutela della salute, attività socio-educative, sostegno alle donne detenute, istruzione e formazione professionale dei detenuti, formazione professionale degli operatori penitenziari, prestazione di attività lavorative de porte dei detenuti". In Regione vi è una struttura carceraria in ogni provincia, altre al carcere minorile del "Pratello" a Bologna; sempre nel capoluogo emiliano vi é il Centro di permanenza temporanea, che è tuttavia escluso dal provvedimento. Tutte le strutture sono sovraffollate: prima dell’indulto il carcere bolognese della "Dozza" ospitava 1.500 detenuti, contro una capienza di 480; ora ve ne sono circa 800. Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Bologna, condivide l’impianto del provvedimento, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto sanitario. "Un terzo della popolazione carceraria e tossicodipendente: ne deriva che le esigenze di cura rivestono un’importanza notevole all’interno del carcere". I detenuti "devono essere trattati come gli altri cittadini e avere parità di trattamento per l’accesso alle cure e all’assistenza sanitaria". ma in realtà cosi non è. Oggi la medicina penitenziaria fa capo al ministero della Giustizia, che dovrebbe coprire la spesa di medici e medicine all’interno delle carceri, anche se "già da anni la Regione Emilia Romagna contribuisce al pagamento della spesa farmaceutica". Ora "il taglio dei fondi operato dall’ultima finanziaria significherebbe un’ulteriore riduzione delle cure per i detenuti, per cui viene al momento opportuno questo progetto di legge, che rivendica una presa in carico integrale dell’aspetto sanitario da parte del Servizio sanitario nazionale".
La mancanza del lavoro
La sanità, tuttavia, non è l’unico problema dei detenuti. "Oltre il 50% è composto da extra-comunitari - aggiunge Bruno -: servono dunque mediatori culturali e insegnanti. E poi il lavoro, che dovrebbe essere il fulcro del trattamento carcerario, è il grande assente". Spesso chi sta scontando una pena vuole lavorare: "Un’occupazione - precisa il garante - è fonte di autonomia, permette di guadagnare e magari aiutare la famiglia che sta all’esterno". A tal proposito, il progetto di legge "sostiene l’avvio e lo sviluppo di attività di orientamento, consulenza e motivazione al lavoro, prevedendo forme di integrazione con i servizi per l’impiego già presenti sul territorio". Oggi, però, "la realtà è diversa: i detenuti non lavorano e restano a marcire nelle celle", denuncia Giuseppe Tibaldi, presidente dell’Associazione volontari del carcere (Avoc) di Bologna. E anche "quella piccola percentuale a cui viene data un’opportunità, svolge spesso lavori dequalificati, come pulire i corridoi o portare le vivande". Da alcuni anni vi è, nel carcere di Bologna. anche una tipografia "che produce lavori di qualità, ma sono pochi a poterci lavorare". La ricetta, secondo Tibaldi, e "depenalizzare il più possibile e concedere forme di custodia attenuata per aumentare le possibilità di lavoro esterno". Difficile, invece, mettere in piedi un’attività all’interno delle mura di cinta: "Anche solo portare dentro i materiali necessari - osserva - è un’impresa, richiede tempi lunghi e innumerevoli passaggi burocratici".
Una questione di fondi
Pur plaudendo al progetto di legge, dunque, il presidente dell’Avoc osserva come "iniziative del genere siano costose: spesso vengono delineati dei piani d’azione, ma poi restano sulla carta perché non vi sono i fondi necessari". È il caso dell’attuale regolamento carcerario: secondo Tibaldi "tutti gli aspetti più innovatori contenuti nel regolamento sono ancora inattuati" e "vi è una voglia sempre minore di investire nel recupero dei detenuti, che va di pan passo con l’abbattimento del welfare". La questione dei finanziamenti non è problema da poco. Destinare risorse al carcere è "un investimento in termini sociali, significa fare prevenzione", conviene Desi Bruno. Occorre perciò "cominciare a ragionare diversamente in tal senso e non limitarsi a interventi palliativi". Pensiamo alle donne, per esempio. "Quando si affronta l’argomento delle detenute madri - sottolinea Bruno -, spesso al carcere sarebbero preferibili appartamenti a loro destinati, dove possano vivere in semilibertà e accudire i loro figli, ma per far ciò servono risorse che non ci sono". Le fa eco Tibaldi: "Ancora oggi nascono bambini in carcere, vivendo in quell’ambiente i primi momenti della loro vita, fino al giorno in cui devono uscire e separarsi dalla mamma: è un’esperienza drammatica, a cui molte volte si potrebbe porre rimedio". Genova: è emergenza per la carenza di poliziotti penitenziari
Comunicato stampa Sappe, 25 marzo 2007
Mancano sempre più poliziotti nel carcere di Marassi e, nonostante la situazione d’emergenza, continuano ad arrivare provvedimenti ministeriali con cui si dispone il trasferimento temporaneo di agenti di Marassi in altre sedi penitenziarie del Centro-Sud Italia. E il Sappe, il Sindacato più rappresentativo della Polizia Penitenziaria con oltre 12mila iscritti, chiede al Ministro Mastella ed al Capo del Dap Ferrara di attivare un’inchiesta ministeriale. "Sembra una barzelletta, ma è la drammatica realtà" denunciano Roberto Martinelli, Gian Piero Salaris e Antonio Martucci, rispettivamente segretario generale aggiunto, vice segretario regionale e segretario locale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, che a Marassi conta più di 300 iscritti. "Da anni denunciamo la grave situazione della Polizia Penitenziaria di Marassi, che è sotto organico di più di 100 agenti. E dal Ministero, anziché provvedere a inviare rinforzi, arrivano provvedimenti beffa di trasferimento temporaneo di alcuni dei pochi agenti rimasti per potenziare i presidi del Centro-Sud Italia. Come, ad esempio, i varchi d’accesso del Palazzo di Giustizia di Roma, la squadra di calcio dell’Astrea, l’Istituto per minorenni di Firenze o addirittura il Gruppo Operativo Mobile, che dovrebbe rappresentare l’èlite del Corpo ma a cui continuano ad essere aggregate unità di Polizia Penitenziaria senza alcuna esperienza professionale, scelte non si sa in base a quali criteri, visto che da anni non viene fatto nessun interpello trasparente per l’assegnazione del Personale. E al danno si aggiunge la beffa, visto che i destinatari di questi provvedimenti sono quasi sempre persone con pochi anni di servizio, mentre colleghi più anziani e con gravi problemi familiari non riescono ad ottenere un provvedimento di distacco temporaneo o un trasferimento in altre sedi penitenziarie, fattispecie per altro previste dal nostro Contratto di lavoro. Deve essere chiaro che non intendiamo affatto contestare i distacchi per art. 7 del Contratto, per legge 104/92 e/o per mandato elettorale, ma deve però essere altrettanto chiaro che deve essere concessa un’alternanza tra il personale, perché abbiamo colleghi con gravi situazioni familiari che non possono accedere neanche temporaneamente alla mobilità di sede. E allora chiediamo al Ministro della Giustizia Mastella e al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Ferrara di disporre urgentemente un’inchiesta ministeriale sulle carenze di organico del Personale di Polizia Penitenziaria di Marassi e che faccia luce sull’elevato numero di distacchi disposti dall’Amministrazione Penitenziaria ad unità di personale inviate a prestare servizio presso le sedi più disparate e tutti comunque disposti al di fuori dei criteri di mobilità temporanea previsti contrattualmente e/o normativamente". I sindacalisti del Sappe, che rappresentano come tale situazione sta determinando a Marassi moltissime lamentele tra il Personale (superstite) in servizio, non escludono nel prossimo futuro di dare vita a manifestazione di protesta, tra le quali sit-in davanti alla Prefettura ed al Palazzo di Giustizia di Genova. Ferrara: anche in carcere arrivano le pile ricaricabili
Greenreport.it, 25 marzo 2007
Greenreport se ne è occupato già in passato, ma ora il bel progetto "Casa Circondariale sostenibile", promossa dall’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Ferrara, e realizzato nel carcere della stessa città si è arricchito di una nuova iniziativa che si può annoverare tra le buone pratiche. Ovvero l’uso da parte di tutti i detenuti delle pile ricaricabili al posto di quelle "usa e getta", rifiuto tossico e pericoloso altamente utilizzato in ogni carcere. "La speranza - spiegano i promotori dell’iniziativa - è che si inneschi un "circolo virtuoso" in cui la convenienza economica nonché la sensibilizzazione ambientale orientino i detenuti all’acquisto delle pile ricaricabili ed all’abbandono di quelle usa e getta". Ogni cella - sono 240 - è stata dotata di un caricabatteria da 8 posti. A tutti detenuti sono state fornite 2 pile ricaricabili e la possibilità di rifornirsi presso la rivendita interna. Per stimolare la replicabilità del progetto in altri Istituti Penitenziari e comunicare gli ottimi risultati raggiunti sono state realizzate tre pubblicazioni: "Un fiore dietro le sbarre ", manuale rivolto agli operatori dei Centri di Educazione Ambientale interessati ad affrontare analoghi percorsi di educazione ambientale all’interno del carcere; "Innocenti evasioni" raccolta delle opere elaborate dai detenuti nell’ambito dell’omonimo concorso; "Casa Circondariale sostenibile", video documentario in Dvd. Milano: all’Ipm Beccaria il progetto "Io sono Ulisse"
Ansa, 25 marzo 2007
Studenti delle scuole secondarie di Milano entrano all’Ipm Beccaria per rileggere, insieme ai loro coetanei detenuti, la storia di Ulisse. Promosso dall’Ipm Beccaria e dal Ctp Anco Marzio di Milano, il progetto intende accompagnare i ragazzi e le ragazze detenuti, in un percorso educativo da compiere insieme a coetanei iscritti a istituti secondari milanesi. Il progetto si propone di aiutare le ragazze e i ragazzi detenuti a riprogettare il proprio futuro nel solco della legalità; condurli nella ricostruzione di un’immagine della società esterna che non sia solo quella che chiede la loro punizione, ma anche colei che offre opportunità di recupero. L’impostazione del progetto prevede l’ingresso settimanale in Ipm di alcune decine di adolescenti provenienti da diverse scuole secondarie superiori. Insieme, le ragazze e i ragazzi affrontano la storia di Ulisse, provano ad identificarsi nel suo personaggio, attraverso il ricorso a diverse attività e laboratori. La ricostruzione del viaggio di Ulisse vuole rappresentare la condizione umana e la ricerca di sé nell’incontro con l’altro; un incontro che avviene passando per molteplici situazioni, alcune positive, altre ostili e sfavorevoli. Il punto di arrivo di tale percorso è la promozione del desiderio di conoscere e di cambiare il proprio orizzonte, pur in presenza di ostacoli e avversità. Il fallimento e il naufragio precedente, che ha condotto in carcere, all’interno di questo percorso di crescita, diventa un momento della vita sul quale lavorare, attraverso il recupero della consapevolezza di sé, la cura dei rapporti interpersonali, il rispetto e la civile convivenza. A partire dall’esperienza del carcere, viene quindi proposto un nuovo progetto di vita che parta dall’apprendimento dei principi della convivenza con l’altro: conoscenza dell’altro, rispetto delle diversità, superamento delle difficoltà attraverso la ridefinizione del proprio progetto di vita. Il progetto, condotto grazie all’attivazione dei laboratori di musica, grafica, scrittura, danza, fotografia, cucina, falegnameria, terminerà con un evento finale, una mostra ideata dai ragazzi dove verranno presentati i prodotti dell’attività svolta, che comprenderanno testi, disegni, video, performance. Brescia: concerto a Verziano, sul palco suonano i detenuti
Giornale di Brescia, 25 marzo 2007
Appuntamento particolare oggi a Verziano con il progetto di lavoro che l’associazione "Carcere e Territorio di Brescia" - in collaborazione con il maestro Tommaso Ziliani, musicista, compositore e direttore di coro - conduce da mesi con i detenuti grazie anche a un contributo dalla Fondazione della Comunità bresciana Onlus. "Si tratta di un percorso di educazione musicale che ha portato alcuni detenuti di Canton Mombello e Verziano a formare un gruppo corale, accompagnandosi alle chitarre - spiega il presidente di carcere e Territorio, Carlo Alberto Romano -. La finalità sociale e fortemente rieducativa del progetto ha spinto i responsabili a organizzare un concerto vero e proprio, chiamando alla partecipazione anche altri musicisti, di estrazione classica e il coro "Labirinto" diretto dal maestro Ziliani stesso". Il programma vedrà il pianista Francesco Buffa eseguire due brani di Edvard Grieg. La soprano Gloria Busi, accompagnata dal pianista, eseguirà brani di musica contemporanea e di musica da camera. Il coro Labirinto proporrà melodie popolari - irlandesi, spagnole, sarde, o lombarde - fino ad arrivare al "Credo" del compositore bresciano Giancarlo Facchinetti. Il concerto verrà concluso dai detenuti, i quali - accompagnati dal pianoforte, dalla chitarra di Nicola Ziliani e dal Coro Il Labirinto - canteranno pezzi dei Nomadi, di Battisti e di De André, concludendo così in maniera "corale", nel senso stretto del termine, un concerto all’insegna della comunione nella musica e per la musica. "L’attività del Gruppo studio musica Verziano - spiega Romano - proseguirà anche dopo il concerto, grazie ai pianoforti, al materiale didattico e agli altri strumenti acquistati con il finanziamento ricevuto e che rimarranno a disposizione degli istituti penali bresciani". Palermo: una manifestazione motociclistica in carcere
Comunicato stampa, 25 marzo 2007
Il 31 Marzo 2007, il Motoclub "Le Aquile Guzzi" sarà ospitato dalla storica C.C. "Ucciardone" di Palermo per una mostra di moto d’epoca. I motociclisti si cimenteranno, alla presenza dei ristretti, in gare di regolarità e prove di lentezza al fine di creare un momento di socializzazione e di contatto con l’esterno. La realizzazione di questa manifestazione è stata resa possibile grazie alla collaborazione ed alla disponibilità dell’autorità Dirigente della C.C. "Ucciardone" dr. Maurizio Veneziano e all’iniziativa di uno dei nostri soci fondatori Riccardo Vitale (detto Zio Pino), il quale è vice sovrintendente della Polizia Penitenziaria in servizio presso la stessa CC. Droghe: dopo il Tar il governo faccia chiarezza di Francesco Maisto (Sostituto procuratore generale di Milano)
Il Manifesto, 25 marzo 2007
È reato la detenzione di più di 40 spinelli o - più correttamente - di un grammo di principio attivo di cannabis? Paradossalmente secondo la sentenza del Tar non è reato. Perché, così scrivono i giudici amministrativi, "i limiti quantitativi massimi di sostanze stupefacenti che possono essere detenuti per un uso esclusivamente personale, costituiscono (solo) uno degli elementi di valutazione del giudice penale per accertare unitamente alle modalità di presentazione e ad altre circostanze dell’azione, se quel quantitativo di sostanza sia presumibilmente detenuto ai fini di spaccio". Qui comincia la contraddizione in cui cade il tribunale amministrativo del Lazio quando, nel seguito della sentenza, il giudice prende invece come unico riferimento, e quindi come esclusivo punto dirimente, quello della soglia cercando così di salvare a tutti i costi dal vizio di incostituzionalità questo punto della legge 49/2006, la Fini-Giovanardi. Insomma: se ci sono più criteri di riferimento nel valutare se si tratta di reato o meno, la questione del decreto Turco è irrilevante. Se poi l’elemento dirimente per il giudice deve essere proprio quello della quantità, ancora una volta le tabelle del decreto sono irrilevanti. Ma questa volta perché il vizio è nella legge stessa che non prevede esplicitamente quali sono i criteri a cui il ministro della Salute (delegato) si deve attenere per formulare le tabelle. La legge è cioè carente proprio di quegli elementi atti a vincolare la "discrezionalità tecnica" di cui parla il Tar che occorrono per configurare la norma penale secondo il principio di legalità dell’articolo 25 della Costituzione. Il quale stabilisce che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge". E il Tar implicitamente lo ammette, senza giungere però a una conclusione coerente. Infatti nella sentenza si dice che "la formulazione dell’attuale normativa reca addirittura un criterio di riferimento in meno rispetto al vecchio testo di legge (la Craxi - Iervolino - Vassalli, ndr)". Eppure in precedenza la Corte costituzionale, nel 1990 e nel ‘91, aveva stabilito che viene rispettato il principio di legalità mediante rinvio a decreti ministeriali solo "quando sia la legge ad indicarne presupposti, caratteri, contenuto e limiti, di modo che il precetto penale riceva intera la sua enunciazione con l’imposizione del divieto". Invece la Fini-Giovanardi non si attiene a questa enunciazione della Corte costituzionale. Si potrebbe dire che è una norma penale in bianco, un rinvio all’arbitrio di un altro potere. L’occasione di questa causa davanti al Tar verosimilmente può trasformarsi però in un boomerang perché mette a nudo tutti gli aspetti di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e quindi la necessità di una nuova attività normativa da parte del Parlamento. Implicitamente - e questa è la seconda conseguenza - ci dice che anche il decreto Berlusconi, quello che contiene le vecchie tabelle, sarebbe stato annullato se fosse stata fatta un’analoga causa. Tutto ciò deve far riflettere il governo sulla necessità di una chiara attività ministeriale di decretazione in modo che si ponga limite al disorientamento sulla conoscenza della legge penale da parte dei cittadini. Occorre che il governo decida velocemente se annullare completamente il decreto o riscriverlo in attesa di cambiare la legge. C’è una domanda infatti da parte dei cittadini consumatori, ma anche delle forze dell’ordine e dei magistrati, disorientati nell’applicazione della legge, di maggiore chiarezza. La legge penale deve essere certa e conosciuta. Altrimenti gli imputati potrebbero - dovrebbero, per diritto - essere assolti. Droghe: Ferrero; via sanzioni amministrative per consumo
Notiziario Aduc, 25 marzo 2007
Per il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero "vanno tolte le sanzioni amministrative sul consumo di droga perché se lo Stato interviene sul versante della prevenzione non può intervenire sul versante della repressione del consumo". L’ipotesi di Ferrero, intervenuto alla trasmissione "Viva voce" su Radio24, è quella di "mantenere e appesantire le sanzioni per quanto riguarda i consumi che possono dar luogo a pericoli per terzi, come la guida in stato di alterazione o il fatto di lasciare siringhe in giro", ma "non ci deve essere invece questa cosa un po’ folle che se uno viene beccato due o tre volte a farsi uno spinello gli viene tolta la patente". A giudizio di Ferrero, che ha ribadito che l’orientamento del governo è quello di non ricorrere al Consiglio di Stato dopo la bocciatura da parte del Tar del decreto Turco, bisogna "puntare tutto sul versante della prevenzione e della responsabilizzazione" e, per quanto riguarda i minori, "è opportuna la segnalazione alla famiglia". È poi necessario "riuscire ad abolire la Cirielli, perché con la reiterazione del reato si finisce dentro a pene allucinanti e quello del microspaccio è un caso classico di reato fatto più volte", mentre è opportuno differenziare maggiormente le sanzioni tra grandi trafficanti di droga e microspacciatori.
A giorni decreto che annulla le soglie
Sarà pronto in pochi giorni il decreto ministeriale che annulla il precedente decreto Berlusconi - Castelli, che aveva stabilito le quantità massime di principio attivo delle sostanze stupefacenti detenibili senza incorrere nel reato di spaccio. Lo ha reso noto Ferrero. "Quello del 2006 era un decreto a tre, e va perciò rifatto un decreto a tre che intervenga sulle quantità stabilite, non più aumentando le dosi massime per il consumo personale ma annullando le soglie. Questo sarà fatto prima della nuova legge, e in questo modo sarà la magistratura a stabilire volta per volta se si tratta di spaccio oppure no". I tempi del decreto, ha continuato Ferrero, possono essere più brevi della legge "perché si tratta di un decreto ministeriale e quindi può essere fatto subito, e concretamente sarebbe un anticipo della nuova legge per quanto riguarda l’abolizione delle soglie consumo-spaccio. Un decreto interministeriale che modifica la parte attuativa della legge Fini-Giovanardi".
Commenti
"Non condivido l’idea di eliminare le sanzioni amministrative previste per l’uso di droghe leggere". Lo dice Silvana Mura, deputata Idv: "Un conto è ridurre il rischio di finire in carcere per uno spinello, un altro è l’eliminazione di qualsiasi strumento di disincentivazione all’uso di droghe". Secondo Mura, "è una questione simbolica oltre che tecnica, ed è estremamente importante. La droga, anche quella leggera, è una sostanza illegale che è vietato commercializzare e tale deve rimanere". Se venisse a cadere la sanzione amministrativa "di fatto si legalizzerebbe lo spinello e questo si tradurrebbe in un incentivo per i giovani ad avvicinarsi all’uso di queste sostanze. Su questo non c’è alcun dubbio che abbiamo il dovere di essere chiari e di non fare sconti". "Pessima l’idea, lanciata oggi dal ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, intervenuto alla trasmissione "Viva voce" su Radio24, di eliminare le sanzioni amministrative previste per l’uso di droghe leggere. Se queste sono le premesse, non ci stupiremo più di tanto se il ministro Ferrero dovesse proporre domani un premio per chi si droga". Lo afferma il capogruppo vicario della Democrazia cristiana per le Autonomie alla Camera, Giampiero Catone. "Alla Magistratura italiana che ancora una volta dimostra di governare il Paese, in assenza di qualità e di capacità della politica, va un sentito grazie per aver bocciato il tentativo del Ministro Livia Turco di consentire in Italia la libera fumata pesante stravolgendo l’impianto della legge voluta dal governo Berlusconi per contenere il diffondersi del fenomeno droga". Lo ha sostenuto Ada Spadoni Urbani, consigliere regionale di FI, che ha espresso in una nota, la sua soddisfazione, "personale e quella del suo partito, ricordando che l’aumento di quantità di sostanze stupefacenti disposto dal ministro e bloccato da Tar del Lazio, è stato disposto - ha detto - senza motivazioni scientifiche valide per poter cambiare una legge dello Stato così delicata". Il Governo "ha subito lo smaccò colpendo, per motivazioni ideologiche, una legge voluta dal centrodestra. Contro la droga occorre un piano organico a difesa della salute, soprattutto in un momento in cui anche gli Stati d’Europa più possibilisti e liberali, come il Regno Unito, fanno retromarcia proprio sulle droghe leggere". Dopo aver precisato di essere da sempre contro l’uso di qualsiasi sostanza stupefacente, il consigliere di FI ha esortato "i liberal fumatori al governo della regione Umbria" a ritornare sui loro passi, in merito alle determinazioni assunte con l’approvazione della Legge regionale numero 1, del 22 gennaio 2007, sull’accesso ai trattamenti terapeutici per i cittadini consumatori di sostanze psicoattive o in stato di dipendenza che per la Spadoni Urbani "affida al Sert e al metadone quei tossicodipendenti che decidono di uscire dal tunnel della droga, togliendoli dalle mani del medico di famiglia o delle comunità". Droghe: alcool e tabacco nella "top ten" del rischio di Grazia Zuffa (Forum Droghe)
Fuoriluogo, 25 marzo 2007
Il Lancet attacca la classificazione corrente delle droghe ispirata alle convenzioni Onu. La canapa è riconfermata nel gruppo delle sostanze meno pericolose: è una risposta alla campagna dell’Independent. Lo studio pubblicato dal Lancet (24 marzo 2007) è frutto di una ricerca guidata dal prof. David Nutt, psicofarmacologo dell’università di Bristol. Lo scopo è di verificare se l’attuale classificazione delle sostanze illegali secondo la legge inglese (così come dell’Onu e dell’Oms), corrisponda ad una oggettiva valutazione dei danni associati. La maggior parte dei paesi, così come le agenzie internazionali dell’Onu e l’Oms, seguono analoghe classificazioni, che dovrebbero rispecchiare la classifica dei differenti danni delle sostanze. La questione è rilevante, poiché, come osservano i ricercatori, le conseguenze penali per il possesso e lo spaccio di droghe sono graduate secondo la classificazione di pericolosità. Attualmente, le tabelle britanniche sono così composte: Classe A (eroina, cocaina, ecstasy. Lsd); Classe B (Amfetamine, barbiturici); Classe C (canapa, steroidi anabolizzanti, benzodiazepine). Le droghe sottoposte a valutazione sono 20, fra cui: eroina, cocaina, ecstasy, Lsd, steroidi anabolizzanti, khat, solventi, canapa. Sono comprese fra le 20 anche le due più importanti sostanze psicoattive legali: alcol e tabacco. Le categorie identificate per misurare il danno sono: 1- danni fisici (acuti, cronici, da iniezione endovena); 2- dipendenza (intensità del piacere, dipendenza psicologica, dipendenza fisica); 3- danni sociali (intossicazione con rischio di incidenti associati, altro danno sociale, costi sanitari. Il punteggio del danno delle sostanze è stato dato da due distinti gruppi indipendenti di esperti, l’uno di specialisti in addiction del Royal College of Psychiatrists, l’altro di esperti con diverse competenze relative alla dipendenze (chimici, farmacologi, scienze forensi, psichiatri, medici, funzionari di polizia).
I risultati
La droga più pericolosa risulta l’eroina, l’ultima in classifica è il khat. Alcol e tabacco sono fra le dieci sostanze ritenute più pericolose, l’alcol addirittura fra le prime cinque. I barbiturici sono al terzo posto, l’ecstasy al terzultimo. La nuova classificazione proposta per la Gran Bretagna: Classe A (Eroina, cocaina, barbiturici, alcol); Classe B (Ketamina, benzodiazepine, amfetamine, tabacco); Classe C (canapa, steroidi anabolizzanti, ecstasy, khat).
Il nostro commento
La nuova classificazione del rischio proposta dal Lancet riconferma la collocazione della canapa nel gruppo delle sostanze meno pericolose, ed è una indiretta sconfessione dell’allarme lanciato dallo Independent. Semmai, la novità che emerge da questo studio è il declassamento dell’ecstasy, che attualmente è catalogato nella Classe A delle tabelle inglesi. Invece, la collocazione dell’alcol nel gruppo più pericoloso era già stata suggerita in precedenza dalla commissione francese guidata dal professor Bernard Roques nel 1999, che proponeva 3 gruppi, in ordine decrescente di danno: "Il primo comprende l’eroina e gli oppiodi, la cocaina e l’alcol, il secondo gli psicostimolanti, gli allucinogeni, il tabacco; più indietro, la canapa" (Cfr. Zimmer L. e Morgan J. (2005), Marijuana, i miti e i fatti, Vallecchi, Firenze, p.255 e seg.). Scrivono i ricercatori britannici: "Il fatto che due delle più diffuse droghe legali siano ai vertici della scala del danno è un elemento di informazione importante che dovrebbe essere preso in considerazione nel dibattito pubblico sulle droghe illegali". Droghe: Barra (Cri); servono nuove politiche sull’abuso
Notiziario Aduc, 25 marzo 2007
Dovranno essere basate su terapia, compassione e presa in carico dei tossicomani. Al Simposio Internazionale sulle droghe intervento del Ministro Paolo Ferrero. "È inutile distinguere tra sostanze illegali e legali. Occorre migliorare le politiche di prevenzione sociale spostando l’attenzione sulla pericolosità delle sostanze stupefacenti. Bisogna spendere risorse per mettere in atto tali politiche, non una tantum ma sempre. Dobbiamo poi investire risorse nella lotta al narcotraffico: per questo abbiamo accolto positivamente la proposta, avanzata anche in sede Onu, per l’acquisto dell’oppio afghano come soluzione politica del problema". Lo ha detto Paolo Ferrero, Ministro della Solidarietà Sociale, intervenendo al Simposio Internazionale sulle droghe "Roma Consensus2" organizzato dalla Croce Rossa Italiana in collaborazione con la Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, Erna (Rete Europea di Croce Rossa contro Hiv e TBC) e Senlis Council a Roma presso Villa Maraini. La possibile sperimentazione dell’eroina in compresse quale farmaco sostitutivo in tossicodipendenti da oppiacei cronici refrattari ad altre cure è stata al centro di un incontro con la stampa, durante il quale sono stati resi noti i risultati positivi emersi dall’esperienza svizzera sull’efficacia terapeutica della somministrazione controllata di eroina. Il Presidente Nazionale della Croce Rossa Italiana, Massimo Barra, ha sottolineato che "la stigmatizzazione e la discriminazione dei tossicomani in tutto il mondo uccide e crea danno più delle sostanze stesse. Nuove politiche sull’abuso di droga sono necessarie e devono essere basate sulla terapia, la compassione e la presa in carico globale dei tossicomani. Il Movimento Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa - ha detto Barra - è chiamato ad agire tanto sul terreno quanto a livello di advocacy per orientare in senso umanitario la risposta degli Stati ad una problematica che è oramai una tragedia planetaria". All’incontro sono anche intervenuti Paolo Nencini, ordinario dell’Università La Sapienza di Roma, Carla Rossi, ordinario di Statistica Medica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Tor Vergata di Roma e membro dell’Osservatorio sulle Droghe della Comunità Europea di Lisbona e Ignazio Marcozzi Rozzi, Presidente dell’Agenzia Comunale di Roma per le Tossicodipendenze. Al seminario internazionale sulle droghe partecipano 70 tra Presidenti e Segretari Generali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa provenienti da 5 continenti. Gran Bretagna: cannabis causerà 25% nuove schizofrenie
Notiziario Aduc, 25 marzo 2007
Entro il 2010 un quarto dei nuovi casi di schizofrenia nel Regno Unito saranno causati dal consumo di cannabis. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista "Addiction", le persone che consumano regolarmente sostanze stupefacenti hanno una probabilità fino a sei volte superiore alla media di sviluppare una forma di schizofrenia. L’uso della canapa indiana, che nel 2004 nel Regno Unito è stata declassata da droga di tipo B a C, si è quadruplicato negli ultimi 30 anni e tra gli adolescenti il suo consumo sarebbe aumentato di 18 volte. Ciò potrebbe portare ad un aumento del 29% dei nuovi casi di schizofrenia entro il 2010. I ricercatori hanno esaminato l’aumento del consumo di marijuana e i nuovi casi di schizofrenia a Nottingham, Bristol e nel sobborgo londinese di Southwark. Finora all’uso di cannabis veniva associato l’8% dei casi di schizofrenia. "Il nostro studio non cerca di dimostrare che la cannabis causa direttamente la schizofrenia, che è ancora una questione controversa, ma è chiaro che se si parte da questo presupposto il numero di casi di schizofrenia salirà significativamente a fronte di un aumento del consumo di questa droga", ha dichiarato John Macleod, uno degli autori della ricerca. Il Dipartimento della salute afferma che i medici sono quasi tutti concordi nell’affermare che la cannabis è un "importante fattore causale" delle malattie mentali e lo scorso anno l’Advisory Council on the Misuse of Drugs aveva indicato che ci sono molti legami tra il consumo di marijuana e le malattie psicotiche. I risultati di questo rapporto arrivano dopo che ieri un gruppo di scienziati aveva proposto di rivedere la classifica delle sostanze dannose per la salute ponendo alcool e tabacco molto al di sopra della canapa indiana. Internazionale: in 40 paesi sta dilagando la censura sul web
Peace Reporter, 25 marzo 2007
Siti oscurati, blog cancellati, arresti. Altro che libertà del web. I dati di un fenomeno sempre più esteso nell’ultimo studio realizzato dalla "OpenNet Iniziative" (Oni), che ha condotto un monitoraggio di sei mesi in quaranta paesi. Siti oscurati, blog cancellati, chat room monitorate, motori di ricerca "ristretti". E un numero sempre maggiore di persone imprigionate per aver manifestato o condiviso un pensiero o un’informazione. Altro che libertà del web. La censura online è un fenomeno sempre più esteso e pervasivo. Lo rivelano i dati dell’ultimo studio realizzato dalla "OpenNet Iniziative" (Oni), che ha coinvolto la scuola di legge di Harvard e le università di Toronto, Cambridge e Oxford. Quaranta paesi presi in visione e una ricerca durata sei mesi hanno "partorito" una black list degli attuali nemici di Internet. Il record negativo è detenuto da Cina e Iran, veri capofila nella limitazione di una rete, per definizione "troppo libera". L’elenco - in continuo aggiornamento - interessa per ora almeno due dozzine di paesi, tra i quali Turchia, Arabia Saudita, Birmania, Tunisia, Uzbekisan, Vietnam. L’allarme della "OpenNet iniziative" arriva proprio a ridosso della grande eco suscitata dalla decisione della Turchia (revocata due giorni dopo) di oscurare il sito YouTube, che aveva dato spazio a materiale offensivo nei confronti del padre della nazione, Kemal Ataturk. In una realtà che vede una crescita esplosiva di fruitori della comunicazione online l’aumento della censura preoccupa seriamente. Amnesty International ha lanciato una campagna per la libertà di espressione in rete, invitando le aziende tecnologiche a "non collaborare". E i nuovi paesi che man mano si aggiungono al triste elenco prendono "a modello" la storia "censoria" e l’"esperienza repressiva" di chi ne sa più di loro. È il modello cinese a fare scuola. Sono sempre più allarmanti infatti le notizie che giungono dalla "grande muraglia" digitale: "Chi prova ad accedere a siti il cui contenuto riguarda argomenti come l’indipendenza di Taiwan o del Tibet, il Dalai Lama, gli eventi di piazza Tienamen o i partiti politici di opposizione viene arrestato". La "purificazione di Internet", di cui parlava qualche tempo fa il presidente cinese Hu Jintao, sembra abbia fatto proseliti anche fuori dal territorio nazionale. Nell’attività di filtraggio di contenuti "indesiderati" sono sempre di più i paesi, "che si rendono conto di non potercela fare da soli e si rivolgono a compagnie private", asserisce John Palfrey, direttore del Centro per Internet e Società di Harward. Nella maggior parte dei casi le società che sviluppano sistemi di protezione sono in Occidente, ma ci sono anche i fornitori di servizi come Google o Microsoft che, pur di non perdere appetitosi mercati emergenti - come appunto quello cinese - sono dispostissimi a scendere a compromessi. Ma se da una parte sono proprio le tecnologie avanzate a venire in aiuto dei "censori" dell’era informatica, come i software per il rilevamento di parole-chiave sensibili o i "denial of service attacks", che bombardano il sito di richieste di accesso rendendolo inaccessibile, dall’altra gli internauti non stanno certo a guardare. E rispondono con le stesse sofisticate armi. Ma come si possono eludere i tecnologici "cani da guardia" sguinzagliati a controllo della rete? Danny OBrien, coordinatore del gruppo di pressione "Elettronic Frontier Foundation" si affida ad esempio ad una connessione criptata attraverso una rete di server privati: "(Quando navigo) il mio segnale viene casualmente reindirizzato da un computer a un altro - afferma - così per esempio Google mi può apparire in svedese o in qualche altra lingua, a seconda della macchina da cui ci arrivo". A mali estremi, estremi rimedi, insomma, con l’unica l’accortezza di non lasciare troppe tracce digitali in rete.
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