Rassegna stampa 4 luglio

 

Giustizia: Corbelli; in Calabria "benefici" dati con il contagocce

 

Quotidiano di Calabria, 4 luglio 2007

 

Centinaia di detenuti di alcune carceri, di diverse province, della Calabria hanno scritto a Franco Corbelli, presidente del movimento "Diritti Civili", per denunciare, la loro "condizione di disperazione e di profonda depressione, insieme alle loro famiglie, per la mancata applicazione nei loro confronti dei benefici premiali e delle misure alternative al carcere, maturati ma non riconosciuti, con la motivazione della pericolosità sociale del detenuto". Lo rende noto lo stesso Corbelli.

"Da alcune carceri della Calabria mi sono arrivate accorate e dignitose richieste di aiuto sottoscritte da diverse centinaia di detenuti che denunciano il rigetto delle istanze per la concessione dei benefici previsti dalla legge. Mi scrivono - afferma Corbelli - che nonostante abbiano maturato tutti i requisiti di legge per godere dei benefici previsti il magistrato di Sorveglianza del Tribunale respinge la quasi totalità delle richieste, ponendo come motivazione l’asserita pericolosità sociale del detenuto, basata su informazioni della Pubblica Sicurezza relative alla condotta precedente alla detenzione".

"Naturalmente - scrivono i detenuti a Corbelli - siamo consapevoli della legittima preoccupazione che il rispetto della dignità umana dei detenuti non vada a scapito della tutela della società, ma la doverosa applicazione della giustizia per difendere i cittadini e l’ordine pubblico, non contrasta con la debita attenzione ai diritti dei carcerati e al recupero della loro persona".

I detenuti, nella lettera-appello al leader di Diritti Civili, ricordano le parole del Santo Padre Giovanni Paolo II, il quale rivolgeva sempre un pensiero affettuoso ai detenuti e affermava: "Se scopo delle strutture carcerarie non è solo la custodia, ma anche il recupero dei detenuti occorre abolire, rivendicava il Pontefice, quei trattamenti fisici e morali che risultano lesivi della dignità umana. In questa luce va incoraggiata la ricerca di pene alternative al carcere, sostenendo le iniziative di autentica risocializzazione dei detenuti con programmi di formazione umana, professionale, spirituale".

Gli stessi reclusi scrivono ancora che "questo atteggiamento di persistente rigetto delle domande per l’ottenimento dei benefici fa cadere noi detenuti in una profonda depressione e con noi le nostre famiglie, dopo giorni di speranzosa e ottimistica attesa, basata sulla consapevolezza e certezza di una buona condotta tenuta in carcere, della partecipazione attiva alle varie attività all’interno degli istituti di pena (scuola, lavoro, sport) e porta i detenuti a ritenere inutile il percorso rieducativo in carcere.

Le chiediamo, egregio dott. Corbelli, alla luce della sensibilità da lei dimostrata e all’impegno per la difesa dei diritti civili che da sempre porta avanti, un suo autorevole intervento. Si adoperi per quanto possibile per sensibilizzare le autorità competenti su un tema e un diritto fondamentali, il diritto di ricominciare a vivere, anche di chi, sepolto vivo nelle carceri, non ha voce, né volto".

Corbelli è impegnato da oltre 15 anni con le sue battaglie civili, libertarie, garantiste e umanitarie, per la difesa dei diritti dei detenuti, per il rispetto dei diritti fondamentali e sacrosanti, previsti dalla Costituzione del nostro Paese, per le persone detenute.

"Ai giudici dei Tribunali di Sorveglianza, il cui difficile, delicato e rischioso lavoro rispetto profondamente, chiedo - conclude Corbelli - di rispettare i diritti delle persone recluse ed evitare, ad esempio, come è accaduto recentemente, che ad un detenuto (che sarebbe uscito dal carcere, per fine pena, tra 15 giorni) venga impedito di potere incontrare per l’ultimo saluto la madre morente".

Polizia Penitenziaria negli Uepe: lettera assistenti sociali L'Aquila

 

Blog di Solidarietà, 4 luglio 2007

 

Gli Assistenti Sociali dell’UEPE dell’Aquila appoggiano la posizione del Casg. Gli Assistenti Sociali dell’Uepe dell’Aquila aderiscono e condividono pienamente la posizione del Casg in relazione alla bozza di sperimentazione della Polizia penitenziaria negli UEPE ed auspicano un’azione da Voi tutti volta a salvaguardare un patrimonio tecnico che ad oggi ha dato ottimi risultati!

Nello specifico chiediamo, se sperimentazione deve esserci: che avvenga per quelle misure per le quali l’intervento delle autorità di pubblica sicurezza presenti sul territorio è espressamente previsto dalla legge e risulta funzionale rispetto alle esigenze tipiche della misura: ad es. i detenuti domiciliari; che sia escluso dalla sperimentazione l’affidamento in prova al servizio sociale nel rispetto della norma (art. 47 O.P.).

I nuclei che dovrebbero essere coordinati dai Prap, dipendano funzionalmente da questi e siano allocati in strutture esterne agli Uepe, affinché sia chiaro che la Polizia Penitenziaria va a sostituirsi alla Polizia di Stato e ai Carabinieri, senza alcuna confusione tra operatori dell’inclusione, quali gli assistenti sociali e operatori di polizia.

A ciò aggiungiamo che il l’art. 118 comma 2 del regolamento d’esecuzione non prevede l’area sicurezza negli Uepe e che il D.L. 146/2000 art. 6 non prevede funzioni per la Polizia Penitenziaria negli Uepe.

 

Assistenti Sociali dell’Uepe di L’Aquila

Alessandra Aloisi

Buzzelli Maria Giacinta

Giangiacomo Gabriella

Insardi Anna

Tunno Luana

Zimar Anna Maria

Polizia Penitenziaria negli Uepe: lettera assistenti sociali Cosenza

 

Blog di Solidarietà, 4 luglio 2007

 

Gli Assistenti Sociali dell’Uepe di Cosenza aderiscono al documento di dissenso degli Uepe di Salerno, Napoli, Caserta e Venezia del 24 giugno 2007. Gli Assistenti Sociali dell’Uepe di Cosenza firmatari, aderendo al documento di "dissenso alla proposta di decreto del Ministro Mastella" degli assistenti sociali dell’Uepe di Salerno, Napoli, Caserta, Venezia del 24 giugno 2007, sottolineano di condividere le molte osservazioni avanzate nel corso dell’articolato ed acceso dibattito aperto dalla presentazione, ad accordi presi, della bozza di decreto sull’organizzazione degli uffici di esecuzione penale esterna , ivi compresa l’introduzione di competenze operative nuove e non previste dalla legge, quali quelle relative alla Polizia penitenziaria, Operatori individuati per svolgere indefinite attività di supporto, che in ogni caso non potrebbero consistere in attività estranee ai compiti istituzionalmente propri del Corpo.

Nel decreto viene delineata una organizzazione dell’Uepe di tipo verticistico, propria di un’organizzazione del settore privato, poco convincente ed in cui sono chiari solo i compiti dei dirigenti e delle altre figure apicali. Ciò e la constatazione che anche la terminologia usata per descrivere servizi ed attività all’interno dell’Uepe tende sempre più ad assimilarli a semplici uffici amministrativi e non tecnico-professionali, (contrariamente a quanto la legislazione del ‘75 ed il regolamento di esecuzione n. 230/00 avevano stabilito), ci sembra voglia progressivamente eliminare una scelta culturale ed una cultura professionale che gli operatori del servizio sociale hanno costruito attraverso una costante sperimentazione ed un lungo impegno, che sul piano economico non ci sembra sia stato, neanche in passato , minimamente valutato.

La scelta della eliminazione quasi sistematica della denominazione "Servizio Sociale" che si osserva , la schematizzazione in senso sempre più burocratico dei procedimenti di servizio, con la previsione di limitanti indicatori di qualità, l’esclusione, come per principio, da previsioni di spesa per l’adeguamento degli organici e la riduzione delle spese, già estremamente ridotte, operata anche con la drastica esclusione dal pagamento dell’indennità di missione (che dire del disagiato e gratuito servizio di missione degli assistenti sociali, che continuano a svolgere verifiche e servizio esterno in località impervie ed isolate, a fianco di personale della polizia penitenziaria, il quale beneficia, invece, del pagamento della relativa indennità e di quant’altro!), fanno obiettivamente ritenere che le riforme annunciate del sistema sanzionatorio siano orientate al progressivo allontanamento dai criteri dell’accompagnamento nel processo di reinserimento del condannato che hanno ispirato la legge 354/75 e le successive modifiche, soluzioni che si stanno andando a individuare, invece, in previsioni, come quella dei Nuclei di Pol. Pen., di natura repressiva e di controllo, trascurando la centralità della persona e spostando l’attenzione su elementi quali l’ esigenza di sicurezza e di controllo in aree di particolare emergenza.

Tali esigenze, peraltro, sono sempre state curate dalle Forze dell’Ordine, capillarmente diffuse sul territorio, con le quali il Servizio Sociale penitenziario ha ormai da anni stabilito una proficua forma di collaborazione, anche se solo ed unicamente informale, per la mancanza di intese formali tra i competenti Ministeri (sembra che, solo in funzione di interessi di parte, si stia attivando ora una concreta concertazione interministeriale).

Qual è il vero perché dell’idea di creare strutture della Polizia penitenziaria esterne agli istituti, dove, nonostante l’effetto indulto, si registrano in molti casi carenze di organico, con turni massacranti e difficoltà di gestione del personale in situazioni ambientali già di per sé difficili? Quale, ancora, il motivo dell’accelerazione delle riforme che coinvolgono l’intera Amministrazione Penitenziaria?

Gli assistenti sociali, che hanno sempre assicurato collaborazione umana e professionale anche a quanti operano nel carcere in situazioni di sovraffollamento, di carenze di diversa natura, si sentono in dovere di far sentire la loro voce con un dissenso profondo ed unitario che nasce dalla constatata, sistematica penalizzazione del Servizio Sociale nelle scelte organizzative e gestionali dell’Amministrazione.

 

Assistenti Sociali dell’Uepe di Cosenza

Francesca Spadafora

Adriana Delinna

Silvana Puleo

Filomena Scarpa

Maria Pugliano

Maria Lacroce

Mirella Spadafora

Cagliari: morì in carcere a 24 anni, ma forse non fu un suicidio

 

L’Unione Sarda, 4 luglio 2007

 

Una perizia dovrà accertare se fu davvero Scardella a scrivere il biglietto con cui annunciava il suicidio e gridava la sua innocenza. Indagini per omicidio volontario.

Il provvedimento del gip che imponeva nuove indagini non è abnorme, il pubblico ministero deve procedere per omicidio volontario. È l’ennesimo colpo di scena di una storia che i familiari di Aldo Scardella non considereranno chiusa fin quando tutti i dubbi sulla fine del giovane arrestato ingiustamente per la rapina del Bevimarket non saranno fugati.

Non è in discussione la responsabilità dei due giovani condannati per il colpo in cui perse la vita il titolare Giovanni Battista Pinna, il problema è capire se davvero Aldo Scardella si sia suicidato impiccandosi in cella oppure se qualcuno lo abbia istigato, se non addirittura aiutato. Le perplessità sono cominciate quando i familiari hanno scoperto che nel sangue del giovane c’erano tracce di metadone: aveva 24 anni Aldo Scardella, non si drogava e nel registro di Buoncammino non figurava tra i detenuti in cura. Allora: chi, come e perché gli ha fornito il metadone? Domande che si trascinano un quesito più grande: e se fosse stato ucciso?

La decisione con cui la Cassazione ieri ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura contro l’ordinanza con cui il gip di Cagliari Roberta Malavasi, il 5 dicembre dello scorso anno, aveva ordinato al pm di riaprire il caso, impone un’indagine per omicidio volontario. Una perizia grafologica dovrà innanzitutto accertare se fu davvero Scardella a scrivere il biglietto con cui annunciava il suicidio e gridava la sua innocenza, poi dovrà essere sentito il medico che nell’immediatezza espresse dubbi sulla morte volontaria.

I familiari di Scardella (che nei loro esposti non hanno mai puntato sui familiari di Pinna come sembrava adombrare il pm nel ricorso) sono soddisfatti, e con loro l’avvocato Patrizio Rovelli: "La Cassazione ci ha dato ragione, le indagini devono essere disposte a 360 gradi, le ipotesi di reato non devono essere limitate all’istigazione al suicidio ma si deve guardare anche alle più gravi. Durante l’autopsia sono state trovate tracce di metadone nel sangue di Scardella che pure non doveva assumere quel medicinale". Ma Rovelli dice qualcosa di più: "Invito chiunque sia in possesso di notizie significative sulla morte di Scardella a presentarsi al Procuratore della Repubblica o nel mio studio per riferirle in modo che su questo caso sia fatta piena luce. Cagliari vuol sapere che cosa è successo la notte in cui è morto Scardella. La verità può arrivare anche tanti anni dopo. È una battaglia di libertà e giustizia".

Scardella era stato arrestato il 29 dicembre 1985: sei giorni prima un gruppo di rapinatori fece fuoco e uccise il titolare del Bevimarket di via dei Donoratico Giovanni Battista Pinna. Dopo sette mesi in cella di isolamento il 2 luglio 1986 Scardella lasciò un biglietto: Vi chiedo perdono, se mi trovo in questa situazione lo devo solo a me stesso: ho deciso di farla finita. Perdonatemi per i guai che ho causato. Muoio innocente. Tredici anni dopo i veri rapinatori-assassini furono condannati, e quella sentenza certificò l’errore giudiziario.

Fu il sostituto Giancarlo Moi a indagare su Walter Camba e Adriano Peddio: un pentito, Antonio Fanni (morto poi suicida in cella) li aveva indicati come gli autori della rapina, per sé aveva ritagliato il ruolo del fornitore di armi. Fanni cominciò a parlare nel dicembre 1996 e nel giugno di due anni dopo Peddio e Camba finirono in cella: la sera del 23 dicembre 1985 erano mascherati e armati ma non volevano uccidere. La reazione del titolare, però, li sorprese e Peddio fece fuoco, tre colpi di pistola. Il processo si concluse con la condanna a vent’anni dei due imputati che non hanno mai confessato.

Teatro: Saluzzo; analisi critica del sistema carcerario moderno

 

Affari Italiani, 4 luglio 2007

 

Nell’ambito del Racconigi Festival, giunto alla sua settima edizione, il 4, 5 e 6 luglio alle ore 17 (1 spettacolo) ed alle ore 19 (2 spettacolo), presso la Casa di Reclusione La Felicina di Saluzzo, il Progetto Cantoregi mette in scena "Diario di un cane" scritto dagli attori con la collaborazione di Fabio Ferrero e Grazia Isoardi (laboratorio teatrale condotto da Grazia Isoardi - regia di Koji Miyazaki).

Il "Diario di un cane" è l’analisi del sistema carcerario attraverso la rilettura del testo "Sorvegliare e punire" di Michel Foucault e del testo-documento "Derelitti e delle pene" di Remo Bassetti. Attualizzazione dei contenuti, delle considerazioni e delle finalità alla luce dell’esperienza di chi ne è protagonista. Le lettere dei detenuti come spunto di riflessione sulle condizioni di vita, sull’idea e sull’utilità del carcere nella realtà contemporanea.

Se il carcere è lo specchio della società, maggiore dovrebbe essere l’interesse a conoscerne l’essenza, sia per comprendere il nostro quotidiano e la realtà che ci circonda, sia per ammettere che, forse, il meccanismo di detenzione, così come è strutturato, non funziona.

Il carcere non rappresenta il luogo in cui espiare una pena attraverso un processo di riabilitazione, ma il contesto in cui il detenuto si confronta con un deperimento sistematico del suo corpo, della sua anima e del suo cervello, il cui tempo è scandito dal macchinoso sistema burocratico statale. Di tutto questo, Antonio Di Falco, detenuto del carcere di Saluzzo, è la prova vivente.

 

Informazioni presso la Segreteria della Rassegna

Via Fiume (Ex Ospedale Psichiatrico) di Racconigi

Tel: 335.8482321 - 338.3157459

www.progettocantoregi.it - info@progettocantoregi.it

Ingresso Intero euro 8. Ridotto euro 5.

Teatro: Palermo; i ragazzi dell’Ipm recitano "Verso King Lear"

 

La Sicilia, 5 luglio 2007

 

"Viaggiare lontano e attraversare muri come in un sogno". Il regista Claudio Collovà definisce così il senso del proprio lavoro che lo ha portato a scegliere la tragedia familiare del King Lear di Shakespeare per un progetto che lega teatro e carcere.

Diversi i laboratori di scenografia, musica e riprese video che coinvolgono i ragazzi reclusi in occasione dello spettacolo "Verso King Lear" che si svolgerà al carcere Malaspina da oggi al 5 luglio. Una tappa che precede la rappresentazione conclusiva di dicembre e che si terrà contemporaneamente nelle città di Palermo, Bologna e Milano. Insieme a Claudio Collovà ci saranno anche gli autori Paolo Billi, dall’istituto penitenziario minorile Fratello di Bologna e, infine, Giuseppe Scutellà dal Beccaria di Milano.

"Non è facile far capire ai ragazzi che devono aver fiducia in noi, superare comportamenti basati sull’isolamento e la diffidenza - ha detto Collovà -. Il teatro ha a che fare con l’immaginazione, l’uso del corpo e l’ascolto di gruppo. Dopo però si entusiasmano perché in questo modo evadono dalla routine del carcere". Un lavoro che non contempla "pietismi né scorciatoie, lasciando libera la creatività, senza, però, trascurare un’etica del lavoro in cui si fatica e si suda", ha aggiunto il regista. La tragedia del King Lear mantiene tuttora intatta, a distanza di secoli, la propria attualità. "Amore non è amore se commisto con scrupoli e interessi estranei al suo vero fondamento", è scritto nell’opera.

E ancora, la disputa tra il re e le proprie figlie sulla spartizione del regno prende corpo nel canto dei figli che tramano l’uno contro l’altro: "Dividi, dividi, separa questa terra, vedrai come la pace la trasformiamo in guerra". L’idea di legare la realtà del teatro a quella del carcere è nata nel 1997 dallo spettacolo "Miraggi Corsari" realizzato da Collovà e incentrato sugli scritti di Pasolini, insieme al lavoro realizzato attraverso la cooperativa teatrale Dioniso con le Officine Ouragan. Il progetto vero e proprio è nato dall’associazione Euro che gestisce i fondi comunitari del progetto Equal.

Salute: Aids; in Italia 60mila casi (35mila morti) dal 1982 al 2006

 

Redattore Sociale, 4 luglio 2007

 

Si muore meno e si convive più a lungo con la malattia: 60 mila i casi di Aids in Italia dal 1982 al 2006 (35mila mortali). Più colpita la Liguria. In crescita le donne "vittime inconsapevoli o martiri consapevoli".

L’Aids non è più la malattia degli emarginati, ma si diffonde soprattutto tra i cosiddetti "normali", anche se chi risulta contagiato continua ad essere ghettizzato. Cambia l’immagine del sieropositivo: non è più l’individuo socialmente marginale, omosessuale e/o tossicodipendente, bensì un soggetto eterosessuale, età media 40 anni, benestante, vita di coppia sostanzialmente stabile con rapporti occasionali non protetti, il quale non si sottopone al test perché non si considera a rischio.

Il dato allarmante riguarda soprattutto la crescita del numero di donne, che sono "vittime inconsapevoli o martiri consapevoli" del proprio uomo. Dal 1982 alla fine del 2006 sono stati sessantamila i casi totali di Aids segnalati in Italia, di cui 35mila mortali. Nel 2006, in particolare, sono stati circa 1500: 1052 diagnosticati nell’ultimo anno e 400 riferiti a diagnosi degli anni precedenti, in pratica le stesse cifre del 2005.

La regione più colpita è la Liguria, seguita da Lombardia, Emilia Romagna e Lazio. Scende il tasso di letalità dal 100% del 1984 all’8,8% di oggi. Diminuiscono i casi di Aids perché sono sempre di più le persone che convivono con la malattia, grazie all’uso dei farmaci antiretrovirali, che permettono di ritardare il suo l’esordio: prima si scopre il contagio, più le cure sono efficaci.

Questo il quadro che emerge dai dati diffusi dal Coa (Centro Operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità) sui casi di Aids notificati e sui nuovi casi di contagio, aggiornati al secondo semestre 2006, e diffusi oggi in occasione della presentazione dell’iniziativa Street Test promossa dal Comune di Roma.

Negli ultimi dieci anni è raddoppiato il numero delle persone in Aids conclamato che hanno contratto il virus tramite rapporti con persone dell’altro sesso: si è passati dal 18,1% del 1994/5, al 43,8% del secondo semestre del 2006, a cui va aggiunta la percentuale del 7,1% relativa a coloro che non dichiarano se sono etero od omosessuali. Questi ultimi rappresentano oggi il 20,9% del totale, mentre si sono dimezzati i casi tra i tossicodipendenti, che sono passati dal 65,8% al 27,6%. È inoltre cambiata l’età del sieropositivo, che oggi non è più giovanissimo, ma si concentra (66%) nella fascia tra i 30 ed i 49 anni.

Il dato più preoccupante, come dicevamo, è l’aumento del numero delle donne in Aids conclamato, con un andamento costante, che possono essere "vittime inconsapevoli" o addirittura "martiri consapevoli". Nel primo caso, si tratta di donne con partner fisso che non hanno percezione del rischio, vittime dei rapporti occasionali del proprio uomo. Ben il 47% delle donne eterosessuali che hanno contratto il virus, invece, era cosciente di avere rapporti a rischio con un partner sieropositivo.

Il Coa gestisce dal 1987 la rilevazione dei casi di Aids, che è obbligatoria, mentre non esiste un sistema nazionale di notifica per i nuovi casi di contagio. Alcune regioni e province hanno però istituito un sistema autonomo di rilevazione, dopo di che i dati vengono accorpati a livello centrale, il che permette di avere un’indicazione sulla diffusione del virus nel nostro paese. Le regioni in questione sono Lazio, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Liguria, a cui si aggiungono le province di Modena, Trento, Bolzano, Sassari e Rimini.

Si scopre così che dal 1985 al 2005 ad oggi sono state segnalate 37.220 diagnosi di sieropositività. Il dato ha segnato un picco nel 1987 per diminuire dal 1998 e poi stabilizzarsi, con un leggero incremento in alcune aree. Ma è presto per dire se questo possa rappresentare una recrudescenza dell’epidemia. Anche in questo caso in aumento il numero delle donne: nel 1985 per ogni donna sieropositiva si contavano 3 uomini, che sono diventati 2 nel 2005. Così come cambiano le categorie di trasmissione: i casi a trasmissione sessuale sono aumentati dal 7,9 al 69%, mentre la percentuale dei tossicodipendenti è scesa dal 74,5% al 9,5%. In salita, inoltre, l’età della diagnosi di contagio.

Droghe: Radicali; il proibizionismo non è una "condanna a vita"

 

Agenzia Radicale, 4 luglio 2007

 

Dopo aver letto le dichiarazioni rilasciate ieri in una conferenza stampa dal dr. Marcello Maddalena, procuratore capo di Torino ("Il traffico degli stupefacenti è ormai così diffuso che, nonostante il grandissimo impegno delle forze dell’ordine, si ha l’impressione di svuotare un oceano con un cucchiaino. Si deve necessariamente agire sui due fronti, della domanda e dell’offerta: effettività delle pene per gli spacciatori e sanzioni amministrative, tipo il ritiro della patente, per i consumatori. Non può passare l’idea di una liberalizzazione strisciante"), Giulio Manfredi (Direzione Nazionale Radicali Italiani) ha dichiarato:

"Il regime proibizionistico esistente su alcune droghe non è una condanna a vita e non ce l’ha neppure prescritto il medico. Il presidente Roosevelt comprese, nel 1933, che il proibizionismo sull’alcool aveva aggiunto il danno della proibizione al danno dell’alcool e rese nuovamente non libera ma legale (cioè sottoposta a regole precise) la somministrazione dell’alcool; noi possiamo e dobbiamo applicare il ragionamento di Roosevelt alle droghe oggi proibite.

Negli ultimi decenni, il procuratore Maddalena ha difeso a spada tratta le leggi proibizioniste sulla droga; l’ha fatto ancora ieri, sostenendo addirittura l’efficacia di togliere la patente ai consumatori (a parer mio, tale misura rende più difficile la vita ai ragazzi, non certo agli spacciatori). Non si può poi lamentare della situazione esistente, evidenziando la fatica di Sisifo a cui sono sottoposte le forze dell’ordine e la stessa magistratura. Ma non può nemmeno denunciare il rischio di una "liberalizzazione strisciante" quando la droga è già libera, è l’unica merce che si può trovare 24 ore su 24 in tutta Torino e in tutta Italia.

Anche all’esperto Procuratore Maddalena bisogna ricordare l’antica saggezza popolare: chi è causa del suo male, pianga se stesso… e poi, magari, cambi le sue convinzioni, anche quelle più consolidate, se sono smentite ogni giorno dalla realtà dei fatti".

Droghe: Bologna; un Odg dell'Unione snobba la "proposta kit"

 

Notiziario Aduc, 4 luglio 2007

 

Non citato nel documento dell’Unione di Palazzo D’Accursio, il kit antidroga può comunque rientrare nelle politiche del Comune di Bologna. La parola kit non c’è, ma c’è una frase - fa sapere la Margherita - che nel documento permette di introdurlo. Del resto, questo è il cavallo di battaglia dell’assessore comunale alla Sanità, Giuseppe Paruolo.

A quanto si è appreso, era informato del fatto che, nel testo discusso ieri dalle commissioni Scuola e Sanità, il riferimento al kit non ci sarebbe stato. Ma non per questo il progetto dell’assessore pare destinato ad arenarsi.

Anzi a settembre Paruolo porterà gli esiti dell’approfondimento degli uffici sul modo di distribuire e usare i kit. Lo ha annunciato prima del dibattito in commissione, il che vuol dire, da parte sua, "avanti tutta". Il concetto è: anche se non è messo nero su bianco, del kit "parleranno i fatti". Del resto, per Paruolo, il kit sta dentro una serie di misure per la lotta alla droga: non va considerato da solo.

Ad ogni buon conto, dalla Margherita mettono in chiaro che "è vero che il kit non c’è, ma per come è scritto si può capire che il kit ci può stare". Lo dice il consigliere comunale diellino Paolo Natali che ha seguito la partita dell’Odg. E dice: "Conosco e approvo il documento" discusso ieri in commissione.

La parola kit non c’è, ma c’è il passaggio fatto apposta per permettere di introdurlo. È quello in cui si dice che i genitori vanno aiutati nella lotta alla droga con "interventi coerenti ed efficaci, utilizzando gli strumenti idonei e le metodologie più adatte a costruire un contesto di responsabilizzazione degli attori coinvolti". Con questa formula, di fatto un compromesso tra le varie anime della maggioranza, si lascia aperta la strada che porta al kit.

E quello, dice ancora Natali, è uno strumento "che non contrasta con ciò che il documento, rientra nelle strategie, nelle linee di indirizzo che il documento contiene".

Forza Italia infila il dito nella piaga dei rapporti (difficili) tra l’Unione e l’assessore alla sanità. È bastato aver letto l’Ordine del giorno della maggioranza che non cita il progetto a cui Paruolo conta, il kit antidroga, per spingere la consigliera comunale azzurra a dire che le proposte di quel documento "hanno lasciato freddo anche Paruolo".

Castaldini, entrando poi nel merito delle linee di indirizzo dell’Odg sottolinea come "siano del tutto assenti previsioni di tempo e di costi per attuare gli obiettivi".

Anche il capogruppo azzurro Daniele Carrella, dopo aver sottolineato "la necessità di punire ogni forma di uso e di vendita di droga", boccia un Odg "privo di obiettivi precisi in un contesto che ha numeri, quanto a consumo, peggiori anche di Milano".

Silvia Noè (Ltb) approva il documento "al 50%, ovvero sugli aspetti legati alla prevenzione" mentre attacca in tema di riduzione del danno perché "nessuna droga può eliminare un’altra droga", e chiede alla maggioranza "una risposta chiara alla domanda: drogarsi fa male o no?".

Infine, Maria Cristina Marri (Ltb) osserva che il documento è solo "dentro una cornice sanitaria e tralascia apporti socio-educativi come le comunità" di recupero dei tossicodipendenti. Inoltre, secondo Marri "non si specifica quante risorse dirette e indirette potranno arrivare per realizzare i progetti" delineati nell’Odg.

 

 

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