Rassegna stampa 2 luglio

 

Giustizia: come una "nave" sempre prossima al naufragio

 

www.studiocataldi.it, 2 luglio 2007

 

La dilazione, scrive Arthur Bloch, è la forma più letale di diniego. Questa affermazione, applicata al campo della giustizia, pone sullo stesso piano una giustizia lenta e una giustizia negata. È ormai noto che, in Italia, una sentenza di primo grado non si fa attendere meno di cinque - dieci anni. Non c’è Tribunale, nel nostro Paese, che sia in condizione di esprimersi in tempi più rapidi di questi. Giustizia non-giustizia, dunque?

L’Unione Europea, che si è espressa a riguardo, ha richiamato l’Italia a un rispetto dei tempi medi di giudizio e il Ministro della Giustizia si è impegnato nella creazione di strumenti a favore dell’efficienza giudiziaria, al fine di contenere la durata dei processi al massimo entro cinque anni. Occorre, tuttavia, rilevare che, nella attuale condizione del nostro Paese, questo limite è soltanto teorico. Troppe sono le mancanze, le inefficienze, i vuoti da colmare prima di poter intravedere i contorni di una riforma di questa portata.

La macchina giudiziaria sembra sul punto di naufragare e da ogni parte dell’Italia gli uffici giudiziari lamentano carenze di personale e di fondi. In realtà, nel 2006 alla giustizia è stato destinato l’1,69% del bilancio dello Stato, contro l’1,41% del 2003, ma sono state anche decise riduzioni dei consumi intermedi (l’acquisto di beni e servizi, di toner, fotocopiatrici e carta) per circa 100 milioni di euro. Ma superiore a questa cifra è stato l’incremento di costo per l’apparato investigativo e processuale (e i costi più alti sono stati quelli per le intercettazioni).

Proviamo ad esaminare alcuni problemi di assoluta evidenza per tutti coloro che operano nel sistema e proviamo, anche, per quanto è possibile, ad immaginare alcune soluzioni.

Un primo tema è certamente quello della quantità di lavoro che "precipita" ogni giorno sui tavoli dei giudici. Lo dicono i dati: la litigiosità, nel nostro Paese, aumenta. In Italia, negli ultimi venticinque anni, il numero delle cause è circa quintuplicato. A fronte di questo aumento, benché la produttività pro-capite dei giudici sia aumentata, il numero complessivo dei giudici è diminuito. In ambito civile alla base della più ampia richiesta di giustizia sta lo sviluppo dei rapporti di impresa, economici e finanziari, così come una più netta presa di coscienza dei diritti della persona.

In quest’ultimo caso, in particolare, il dato (benché "affatichi" la macchina della giustizia, già per sé prostrata) non è, in assoluto, negativo. Il fatto che si chieda giustizia per reati che, fino a qualche tempo fa, non venivano nemmeno denunciati, attesta un’evoluzione della società e dei suoi valori. Ci sono, però, anche motivazioni di altra specie. La richiesta di giustizia, in ambito civile, risponde, infatti, anche alla crisi della famiglia. Discendono da questa i molti processi per separazioni, affidamento, per le decisioni circa gli alimenti da corrispondere al coniuge più debole.

In ambito penale, benché la durata dei processi sia mediamente inferiore, gli inceppi che dilatano, in maniera qualche volta abnorme, la durata dei processi sono la complessità dell’attività istruttoria, che si traduce nell’ascolto di decine di testimoni, il ruolo stesso del giudizio di Cassazione che, non limitando il proprio giudizio ai motivi di legittimità, ma estendendosi anche al merito, diventa - di fatto - un terzo grado di merito.

Ma i più gravi motivi dell’allungamento delle procedure - i più gravi e i più evitabili - sono probabilmente quelli che si riferiscono alla pretestuosità del giudizio. La lentezza della giustizia e il malfunzionamento della "macchina" processuale fanno qui i peggiori danni. Nella maggior parte dei casi l’impugnazione permette, in sede penale, di allungare i tempi del processo a tal punto da rendere piuttosto frequente la caduta in prescrizione, in secondo grado o in Cassazione.

Il quadro della situazione è noto, ma stabilire quali siano le cause (e, soprattutto, come in ogni indagine ben compiuta, stabilire di chi siano le colpe), per poter portare delle soluzioni, pare assai difficile. All’interno delle file della magistratura ci sono carenze strutturali, non c’è dubbio, e usanze quali l’ampia redazione della motivazione di sentenza certo non giovano alla riduzione dei tempi della giustizia.

Per quanto riguarda i processi civili, la media ufficiale italiana è di circa 4 anni e cinque mesi. Ma si tratta appunto di una media: non è raro che un cittadino attenda oltre dieci anni la conclusione di un processo di primo grado. Se poi si ricorre in appello occorre attendere (ancora secondo la media nazionale) altri 3 anni e 6 mesi. Durante tutto questo tempo gli interessi delle parti restano in sospeso: sul piano personale e su quello economico le conseguenze possono essere anche molto gravi.

È vero che in parte la situazione della giustizia in Italia è l’eredità di un carico di pendenze che non si riescono a smaltire, ma siamo davvero sicuri che l’attuale struttura dei processi sia idonea a condurci fuori da questa cronica situazione di emergenza? In altre parole: quello che si sta cercando di fare per ridurre le pendenze è abbastanza? I cittadini sanno - per esempio - che cosa è accaduto a seguito del provvedimento di indulto deciso con la legge n. 241 del 31 luglio 2006?

A differenza dell’amnistia, infatti, l’indulto non cancella e non interrompe l’iter processuale, che deve comunque fare il suo corso. Ci si deve attendere, in altre parole, che lo svuotamento delle carceri non abbia simili effetti di alleggerimento sulla celebrazione dei processi, benché già sia noto che, alla conclusione di molti di questi, l’applicazione dell’indulto renderà vano lo sforzo di giudici e avvocati.

Spesso magistrati e avvocati si scambiano reciproche - e giustificate - accuse. Gli avvocati sostengono che la macchina della giustizia sia troppo farraginosa e lenta e che lo smaltimento del lavoro, all’interno dei Tribunali, avvenga con ritmi troppo blandi. I magistrati, per parte loro, indicano nella sproporzionata crescita del numero di avvocati una delle cause dell’aumento del ricorso ai Tribunali.

Ci sono, invece, "sfide" che andrebbero raccolte e portate avanti da entrambe le parti, con senso di responsabilità. Una di queste riguarda certamente il "processo telematico", ovvero la digitalizzazione della documentazione e l’informatizzazione delle procedure, con evidenti benefici per la presentazione di istanze, la rapidità di consultazione dei fascicoli e altro.

È difficile credere che ai ritardi della giustizia, in Italia, si rimedierà con il richiamo formale, lanciato dal Ministero, affinché il tempo delle cause si mantenga al di sotto dei cinque anni. Oppure che si rimedi rendendo meno costosa per il cittadino la giustizia non tanto attraverso lo snellimento delle procedure ma eliminando il vincolo dei minimi tariffari degli avvocati in maniera che può risultare talvolta umiliante nei confronti della professione forense. Occorreranno rimedi sostanziali. Il "processo telematico" e l’istituzione di un apposito "ufficio del giudice", delegato alle ricerche e alla minuta delle sentenze, potrebbero essere, invece, due rimedi efficaci.

Frattanto aumentano le richieste di risarcimento danni per i ritardi della giustizia, in base alla legge "Pinto". Dal 2003 al 2005, in Italia, le richieste di risarcimento sono aumentate del 140%. A Roma, nel biennio 2003-2005, le istanze di risarcimento sono più che quintuplicate, passando dalle 1.114 del 2003 alle 6.416 del 2005.

Non c’è dubbio: è cresciuta nel cittadino la voglia di rivalsa nei confronti di quella giustizia che sembra non tenere in alcun conto il principio della ragionevole durata del processo. Ma le tutele offerte dalla legge "Pinto", anche se consentono di compiere un primo passo in avanti, non pongono rimedio alle reali conseguenze che la lentezza della giustizia ha sulle vite dei cittadini.

La Corte Europea infatti ha fissato i criteri per la quantificazione del danno dovuto per l’eccessiva durata dei processi: per ogni anno di ritardo si riconosce una somma compresa tra i 1000 e i 1500 euro. Poco davvero se si pensa ai costi che una giustizia inefficiente scarica sulla collettività e ai costi (monetari e morali) affrontati dai cittadini. E, infine, se il problema è l’affaticamento della macchina giudiziaria e la riduzione delle risorse ad essa destinate, procedimenti sanzionatori come quelli offerti dalla legge "Pinto" rischiano di avere un’efficacia di breve (o brevissimo) periodo e di produrre, su una diversa distanza, medio-lunga, effetti più dannosi che benefici.

Una delle peggiori piaghe della giustizia italiana - e dovremmo finalmente rendercene conto - è il formalismo giudiziario. Un codice di procedura che comprende più di 600 articoli non è di certo un codice ben congegnato. Le leggi sono spesso mal scritte e disorganiche. Ai nostri processi manca la semplicità.

Ed un sistema troppo complesso costringe magistrati, avvocati e cittadini a una serie di attività "rituali" e del tutto inutili che non fanno altro che appesantire il carico della giustizia. Il primo vero passo verso una riforma della giustizia degna di tale nome è il superamento dell’idea aberrante per cui tutto deve sottostare alla forma, a scapito spesso di una giustizia sostanziale e a vantaggio delle cadute in prescrizione e di chi, tra le pieghe del codice e i rimbalzi della procedura, se le va scientificamente a cercare.

Giustizia: occorre difesa d’ufficio competente e professionale

 

www.studiocataldi.it, 2 luglio 2007

 

Nel corso di un recente Convegno sulla difesa d’ufficio l’Unione Penale delle Camere Italiane, ha sottoposto, alla presenza di un folto pubblico e di autorevoli rappresentati del mondo politico una proposta in relazione alle modalità di assegnazione degli incarichi per le difese d’ufficio.

"La nostra proposta, - spiega l’Ucpi - vuole che l’incarico della difesa d’ufficio possa essere assegnato solamente a coloro che abbiano una specifica competenza in materia penale per arginare il fatto che gli incarichi di questo tipo siano un volano per un irragionevole aumento degli interessi nell’ordine".

È necessario infatti, sottolineano di penalisti garantire ai cittadini che anche la difesa d’ufficio sia caratterizzata da professionalità e competenza.

Il Presidente dell’Ucpi Oreste Dominioni ha sottolineato che "Il diritto a una difesa effettiva nel processo penale, dalla difesa di ufficio agli elenchi di specialità è un tema che riguarda l’amministrazione della giustizia mentre l’Anm è appiattita su una logica improntata al basso corporativismo sindacale e noi ci preoccupiamo della qualità delle prestazioni dell’avvocato". Dopo circa 6 anni dalla Riforma della difesa d’ufficio e del patrocinio alle spese dello Stato, si deve constatare che "quelle norme non sempre hanno funzionato come dovrebbero; principale vittima è l’indagato-imputato a cui non sempre sembra garantita l’effettività del diritto di difesa".

Giustizia: dall’Opg di Reggio Emilia uno "stop" ai ricoveri 

 

Redattore Sociale, 2 luglio 2007

 

 

La struttura ospita già 245 pazienti rispetto ai 190 previsti; bloccato il trasferimento dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli dopo l’appello delle istituzioni al sottosegretario Luigi Manconi.

Non verranno trasferiti all’Opg di Reggio Emilia nuovi detenuti. È stata accolta la richiesta che la direttrice della struttura di via Settembrini, Valeria Calevro, e il sindaco di Reggio, Graziano Delrio, hanno fatto al sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi in occasione del convegno reggiano "Oltre gli Opg", lo scorso 18 giugno. Non ci sarà, quindi, nessun trasferimento dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, come inizialmente previsto, a quello di Reggio, che ospita già 245 pazienti su 190 previsti dalla struttura.

"Questo è un segnale molto positivo - ha commentato Gianluca Borghi, consigliere regionale Ecologisti per l"Ulivo, da anni impegnato per la situazione delle carceri dell’Emilia-Romagna -; ora bisogna lavorare davvero perché a 30 anni dalla legge Basaglia si superino e si chiudano gli Opg. Manconi si è reso disponibile a modificare una decisone che era in realtà stata già assunta. Sarebbe stato del resto davvero difficile progettare strade nuove e aumentare la capienza dell’Opg di Reggio, già sovraffollato".

Se i detenuti di Napoli fossero stati inviati a Reggio, per loro si pensava di utilizzare una parte degli spazi del carcere che, a seguito dell’indulto, si sono liberati: "questa sarebbe stata - continua Borghi - la negazione totale del processo terapeutico".

I 40 detenuti di Napoli (la struttura è in via di ristrutturazione) verranno trasferiti nell’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, e in parte a Montelupo Fiorentino: anche se nel primo sono presenti 215 persone e la capienza regolamentare è di 216, mentre nel secondo ce ne sono 137 e la capienza è di 100 (rapporto Antigone maggio-2007). "Per l’Opg di Reggio - conclude Borghi - il prossimo passo è quello di fare uscire 40 detenuti in regime di restrizioni attenuate e farli entrare in strutture protette.

Una strada da percorrere per tutti coloro che non sono socialmente pericolosi". E c’è già un progetto concreto: in settimana si svolgerà un incontro con l’assessore regionale alla Sanità, l’ospedale Santa Maria Nuova, l’Opg e la cooperativa Ovile, che da anni opera all’interno dell’ospedale psichiatrico di Reggio, per verificare come riuscire a costruire il passaggio che possa portare, entro l’anno, a una sede terapeutica dove trasferire una ventina di detenuti.

Firenze: Adriano Sofri ammesso a detenzione domiciliare

 

Ansa, 2 luglio 2007

 

Adriano Sofri, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, sconterà la pena nella sua casa di Impruneta, sulle colline fiorentine. Il Tribunale di sorveglianza di Firenze, infatti, accogliendo la richiesta del procuratore generale, ha concesso all’ex leader di Lotta Continua la detenzione domiciliare speciale per sopravvenuta malattia. Sofri beneficiava già del differimento della pena, a seguito del delicato intervento chirurgico cui venne sottoposto nel novembre 2005, quando fu colpito dalla rottura dell’esofago, nel carcere "Don Bosco" di Pisa, dove era detenuto.

La decisione del Tribunale di sorveglianza di Firenze è stata presa sulla base di una perizia medica che ha evidenziato l’incompatibilità tra la detenzione carceraria e lo stato di salute di Sofri. In base al provvedimento, l’ex leader di Lotta Continua non potrà uscire dalla sua abitazione, anche se potrà usufruire di permessi per motivi medici e sanitari.

Vicenza: polizia penitenziaria dichiara stato di agitazione

 

Giornale di Vicenza, 2 luglio 2007

 

Cinque giorni di protesta contro tutto quello che non va all’interno del carcere S. Pio X. Da oggi a venerdì i sindacati dei poliziotti penitenziari in servizio alla casa circondariale di via Dalla Scola hanno organizzato un sit-in di protesta/astensione per portare all’attenzione del comando regionale, del ministero della Giustizia e dell’Ente di assistenza la situazione "paradossale" in cui si ritrovano a lavorare.

In primo luogo Francesco Colacino, rappresentante sindacale del Coordinamento nazionale per la polizia penitenziaria (Cnpp) sottolinea le difficoltà legate al numero dei detenuti. "Non si è risolto tutto con l’indulto, anzi. Oggi, con tre sezioni chiuse, a Vicenza dovrebbero starci 70 reclusi e ce ne sono 150, con uffici adibiti a celle senza nessuna garanzia".

Colacino ricorda come il ministero abbia finalmente investito quattrini per ristrutturare, per quanto possibile, una realtà che faceva acqua da tutte le arti. E, dove non ha trovato i fondi - come per la risistemazione delle garitte sul perimetro esterno - ha deciso di sospendere il servizio, che oggi viene svolto su un’auto attorno al penitenziario.

Quali le difficoltà allora? "A Roma avevano cercato di fare di Vicenza una realtà modello, ma purtroppo è gestita malissimo: ad esempio, eravamo gli unici con servizi mensili programmati, ma l’ispettore che se ne curava è stato trasferito ed ora non ci sono più. Così c’è chi gode di riposi festivi e chi non ne gode mai. Inoltre, il Cnpp vuole mettere i paletti sulla questione dello straordinario, di cui dovrebbero godere i colleghi che lavorano in ufficio solo in casi eccezionali, ed invece è diventato una normalità ledendo i diritti degli altri lavoratori oltre che violando le norme. Per non dire del bar agenti, al quale erano stati destinati cinque colleghi: ma il locale è sempre chiuso. Purtroppo, il carcere di cui è oggi direttrice in missione Irene Iannucci è amministrato in maniera tale da scontentare gran parte di coloro che ci lavorano".

Verona: CSI lascia, a rischio il progetto "Carcere e scuola"

 

L’Arena di Verona, 2 luglio 2007

 

Come da quindici anni a questa parte Progetto Carcere 663 tira le somme dell’iniziativa "Carcere scuola 2007", la prima in assoluto nel panorama nazionale ad avere portato giovani studenti a raffrontarsi con chi sta dietro le sbarre. L’edizione di quest’anno è partita il 19 marzo scorso portando nella casa circondariale di Montorio 1.134 persone. Di queste, 964 sono stati gli studenti delle scuole superiori e 170 gli insegnanti. Per due mesi nella sezione maschile si sono disputati 46 incontri di calcio e nella sezione femminile 51 partite di pallavolo.

I numeri per gli organizzatori dicono chiaramente come sia possibile formare alla legalità attraverso lo sport. Ma, a differenza degli anni passati, c’è una nota di rammarico: si chiude infatti con il 2007 la collaborazione con il Centro Sportivo Italiano. La nuova dirigenza del Csi non ha ritenuto di prolungare la convenzione che durava dall’inizio del progetto.

Non se ne fa però un problema Maurizio Ruzzenenti, promotore dell’iniziativa: "Nella speranza che venga risolta la successione del presidente del Csi Danilo Furlan, che ci è sempre stato vicino ed al quale vanno i nostri migliori auguri", spiega, "ci auguriamo che la collaborazione possa al più presto riprendere".

A questa nota se ne aggiunge un’altra: nel corso dei tanti incontri le autorità cittadine non hanno mai presenziato. Lo evidenzia sempre Ruzzenenti ma anche in questo caso non se ne fa un cruccio. Del resto il motto dell’associazione da lui presenziata è Acta non Verba e, nell’attesa che alle belle parole si aggiungano i fatti, plaude a tutte quelle figure che si legano all’opera di volontariato che si svolge in carcere.

"Avvocati, giudici quali Ernesto D’Amico e Silvia Rizzato, ispettori di polizia, carabinieri, i Sert e tanti altri ci hanno dato una mano e ci hanno appoggiato", afferma. E non tralascia di ricordare le doti umani del direttore della casa circondariale Erminio Salvatore e della responsabile dell’area educativa - trattamentale Enrichetta Ribezzi, così come tutte quelle figura che si legano al "mondo dietro le sbarre". Sono comunque gli studenti a permettere che l’iniziativa sia un vero e proprio successo che di anno in anno si rafforza sempre di più. Ne è testimonianza anche il fatto che, a differenza delle altre edizioni, in questa è stata data l’opportunità ai giovani di incontrare la dirigenza e i detenuti in quella che è stata definita come "la più lunga giornata passata in carcere". Un’esperienza positiva che tutti sperano verrà riproposta.

Prima di portare gli studenti a conoscere da vicino questa realtà i volontari di Progetto Carcere 663 si sono prodigati in un’opera di formazione e informazione alla legalità incontrando ragazzi e ragazze di 16 istituti superiori di Verona e Provincia. Non solo: hanno formato altri quattro accompagnatori che si sono aggiunti ai venti già presenti nel programma "Accompagnatori di Carcere & Scuola". Queste figure attraverso un corso di venti ore e un lungo tirocinio, vengono istruite su come accogliere gli studenti dai cancelli della struttura carceraria fino all’interno.

"L’obiettivo è proprio quello di far conoscere una realtà difficile e dare loro l’opportunità di ragionare e di capire", precisano gli organizzatori. "È giusto che chi sbaglia paghi ma è anche giusto offrire la possibilità del riscatto. Intendiamo così mettere in chiaro che vivere nella consapevolezza di sapere distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato è una ricchezza che non deve andare sprecata".

Roma: il sindaco di Sabaudia ospita alcuni figli di detenuti

 

Ansa, 2 luglio 2007

 

Il Comune di Sabaudia ospiterà a proprie spese nel corso del prossimo mese di agosto alcuni bambini, figli di detenuti, in vacanza presso strutture del comune del litorale pontino.

Questa la decisione presa in prima persona dal sindaco di Sabaudia, Sandro Maracchioni, che lo scorso 29 giugno ha visitato, insieme all’europarlamentare - Alessandra Mussolini il nido del carcere di Rebibbia.

La decisione del primo cittadino e la visita in carcere è nata dopo il parto che una giovane rom reclusa ha effettuato qualche giorno orsono proprio a Rebibbia, in barba alle ultime disposizioni di una legge che prevede l’obbligo di misure alternative al carcere per le partorienti (legge Finocchiaro (40/2001). Il bimbo, tra l’altro, è nato con una malformazione congenita, attualmente è ricoverato presso il "Bambin Gesu" e dunque appariva ancor più opportuna la presenza accanto a lui della giovane madre.

La vicenda, che ha smosso in maniera trasversale tutto l’arco politico, ha, dunque, trovato un primo eco nell’iniziativa del sindaco Maracchioni la quale porterà un mese di serenità nella vita di bambini cui proprio la serenità è stata negata e non certo per loro responsabilità.

Milano: scarpe "sospette" al Br, ma era un difetto di fabbrica

 

Ansa, 2 luglio 2007

 

Un paio di scarpe "sospette" allertavano circa un mese fa i metaldetector del carcere di San Vittore. Una delle due calzature, tipo Clarks, non originali ma "made in China", conteneva tra la suola fatta a strati un materiale ritenuto estraneo.

Le scarpe erano nel pacco che i familiari avevano recapitato a Bruno Ghirardi, ex militante dei Colp (Comunisti organizzati per la liberazione del proletariato) negli anni ‘80, una vita passata in gran parte dietro le sbarre, e riarrestato il 12 febbraio scorso nel blitz sulle nuove Brigate Rosse coordinato dal pm milanese Ilda Boccassini.

La polizia penitenziaria procedeva al sequestro delle scarpe e informava il pm sul cui tavolo approdavano le immagini delle scarpe di Ghirardi. Sia pure dopo un mese il "giallo" è stato chiarito. Le Clarks erano solo difettose. Pochi giorni fa al difensore di Ghirardi Piergiulio Sodano è stato comunicato che le scarpe erano in via di restituzione.

Tutto chiarito. "Ma le scarpe non sono tornate subito al legittimo proprietario - racconta Piergiulio Sodano uno dei difensori di Ghirardi - Ho dovuto ancora sollecitare e finalmente l’altra mattina all’udienza davanti al tribunale di sorveglianza per l’udienza sulle spese carcerarie il mio assistito è arrivato sorridendo con ai piedi le scarpe incriminate".

Secondo Sodano, "non bisogna assolutamente enfatizzare un fatto del genere, perché non ne vale la pena, ma l’episodio è indice di un certo clima che c’è dall’inizio intorno a questa inchiesta e nel caso specifico si può dire vi siano anche approssimazione e disinvoltura nella gestione. Sicuramente è molto più grave che Ghirardi sia finito a Secondigliano a centinaia di chilometri dalla famiglia e dalla fidanzata, come del resto è capitato anche ad altri arrestati del 12 febbraio".

Roma: mostra fotografica alla Camera su bambini nelle carceri

 

Ansa, 2 luglio 2007

 

La Camera dei deputati ospita la Mostra fotografica "Che ci faccio io qui? - I bambini nelle carceri italiane", un reportage che documenta la vita quotidiana delle donne con figli detenute in carcere attraverso le immagini raccolte da 5 fotografi in altrettanti Istituti penitenziari femminili. L’esposizione sarà aperta al pubblico dal 4 al 13 luglio 2007, dalle ore 10,00 alle ore 18,00, escluso il sabato e la domenica, con ingresso a Vicolo Valdina, 3/A.

La cerimonia inaugurale si terrà martedì 3 luglio alle ore 17:00 presso la Sala del Cenacolo e la Sala della Sacrestia in vicolo Valdina 3/a alla presenza della Presidente dell’Associazione di volontariato "A Roma, insieme", Leda Colombini, della dottoressa Chiara Piva e del dottor Roberto Koch Presidente dell’Agenzia Contrasto. Interverrà il Vice Presidente della Camera dei deputati, Carlo Leoni.

La mostra-reportage nasce dalla collaborazione tra l’agenzia fotografica internazionale Contrasto e l’associazione di volontariato "A Roma, insieme", da anni impegnata nell’assistenza alle detenute del carcere romano di Rebibbia e dei loro figli che fino a 3 anni vivono con le madri l’esperienza della detenzione. "Nessun bambino varchi più la soglia del carcere" è l’obiettivo principale dell’associazione.

Le fotografie in mostra - riferisce un comunicato - raccontano la vita quotidiana di queste donne e dei loro figli in carcere, una realtà spesso sconosciuta. Se infatti molti sono stati i contributi fotografici rivolti alla situazione penitenziaria, mancava un lavoro completo e specificamente dedicato alle madri e ai bambini in carcere, capace di documentare l’intera situazione nel nostro Paese e offrire uno sguardo complessivo su questa drammatica situazione. La mostra sarà un’occasione per porre l’attenzione delle Istituzioni e dei parlamentari su questo problema, proprio mentre la Camera dei Deputati sta discutendo l’iniziativa legislativa per la "tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori".

Le fotografie sono state realizzate da 5 professionisti di fama internazionale selezionati dall’Agenzia "Contrasto" tra quelli più attenti ai problemi sociali e alle questioni carcerarie: Francesco Cocco, Marcello Bonfanti, Luigi Gariglio, Mikhael Ralph Subotzky e Riccardo Venturi. Le foto sono state scattate in 5 Istituti penitenziari femminili: Roma - Rebibbia, Avellino - Bellizzi Irpino-Pozzuoli, Milano - San Vittore, Torino - Lo Russo e Cutugno, Venezia - Giudecca.

Sicurezza: ministro Amato; la criminalità cinese cambia volto

 

Redattore Sociale, 2 luglio 2007

 

Rapporto sulla criminalità. "L’auto-isolamento" delle comunità facilita l’affermarsi delle organizzazioni criminali. Forte interesse per "l’importazione" di lavoratori da ridurre in schiavitù e donne da avviare alla prostituzione.

La criminalità cinese ha cambiato volto. È quanto emerge dal "Rapporto sulla criminalità in Italia", presentato la scorsa settimana dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato. Essa, infatti, non appare più così silenziosa e di basso profilo come un tempo, e comincia a registrare un impatto esterno tutt’altro che trascurabile.

Ciò dipende - secondo il Rapporto - dall’aumento di visibilità dei reati perpetrati dalle cosiddette "bande giovanili", dall’incremento delle denunce presentate dai cittadini cinesi e dalla maggiore pubblicizzazione delle attività di prostituzione, che non sono più rivolte esclusivamente ai connazionali come in passato. Inoltre - precisa il Rapporto - sarebbe proprio l’auto-isolamento delle comunità cinesi a facilitare l’affermarsi delle organizzazioni criminali, che spesso riescono ad esercitare un rigido controllo sulla vita economica e sociale dei cittadini cinesi.

Una caratteristica ricorrente delle organizzazioni delinquenziali cinesi è la loro aggregazione intorno a un gruppo familiare da parte di persone considerate di fiducia e di altri soggetti legati da un vincolo di riconoscenza nei confronti della "famiglia" che ne ha favorito l’ingresso in Italia. Però vanno sfatati alcuni miti: nel nostro Paese la penetrazione delle notissime Triadi è poca o nulla, mentre l’attività delle bande giovanili appare ben più frequente e documentata. Queste ultime si sono specializzate nella consumazione di rapine a danno dei loro connazionali, ma anche in estorsioni, incendi dolosi e delitti contro la persona, tra cui non mancano gli omicidi. Le bande giovanili manifestano un’estrema mobilità sul territorio italiano ed i loro componenti, che generalmente vengono coordinati da un adulto, sono per lo più minorenni, clandestini e quasi sempre legati da una stessa origine geografica. Questo fenomeno appare particolarmente evidente nella città di Milano, dove sono presenti diversi gruppi che si contendono il predominio sul territorio.

Le principali attività illecite perseguite dai cinesi sono rappresentate dalla gestione del traffico dei clandestini e dalla contraffazione delle merci. Nella fattispecie, l’immigrazione clandestina costituisce non solo uno strumento di lucro, ma anche un mezzo per lo sviluppo sul territorio italiano delle attività produttive e commerciali. Come spiega il Rapporto, la tratta di persone provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese si articola in un’ampia varietà di itinerari e di modalità di ingresso nel territorio Schengen e in Italia. Le organizzazioni criminali cinesi manifestano un forte interesse per l’importazione di lavoratori da ridurre in schiavitù e di giovani donne da avviare alla prostituzione. Il successo di tale attività fa leva soprattutto sulla disperazione e sul desiderio di affermazione dei potenziali migranti che aspirano a fare fortuna all’estero, costituendo in questo modo un fertilissimo terreno di forza lavoro a prezzi irrisori. I cittadini cinesi, infatti, si assoggettano ad un regime di vera e propria schiavitù pur di essere trasportati in Italia o in altri paesi europei.

Per gestire la tratta di esseri umani la criminalità cinese ha dovuto stringere alleanze con organizzazioni di diversa nazionalità. Infatti, il materiale superamento della frontiera italiana è generalmente appaltato a gruppi specializzati provenienti da altri paesi (albanesi, sloveni, bosniaci, montenegrini, cechi, turchi, maltesi, ecc.). Per arrivare dalla Cina all’Italia, gli aspiranti immigrati pagano cifre che possono arrivare a 20mila euro. Di solito il prezzo del trasporto viene saldato non appena arrivati a destinazione. A farsene carico sono i familiari rimasti in Patria oppure gli stessi padroni, i gestori dei ristoranti o dei laboratori tessili, ai quali i migranti sono spesso legati da rapporti di parentela. Per risarcire il debito contratto, i cittadini cinesi sono costretti a lavorare con paghe bassissime.

Negli ultimi tempi è in aumento l’esercizio della prostituzione da parte di donne provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese. Sono state individuate diverse case di appuntamento gestite dalla criminalità organizzata, spesso pubblicizzate nei quotidiani nazionali sotto la voce "massaggi". Ma recentemente il fenomeno si è esteso anche alla strada e sono state individuate case dove le donne cinesi operano fianco a fianco con quelle provenienti dall’Est europeo. Tuttavia, sottolinea il Rapporto, nella maggior parte dei casi le donne non sono costrette a prostituirsi, ma lo fanno a seguito di una scelta consapevole e dividono gli utili con i gestori delle case di appuntamento.

Per quanto riguarda invece la contraffazione, va detto che il fenomeno non coinvolge soltanto l’Italia, ma l’intero commercio mondiale. Si tratta di un’attività estremamente redditizia, che comprende sia merce contraffatta sia merce costruita in violazione delle norme internazionali. Ogni anno giungono nei porti di Napoli, Gioia Tauro, Taranto e Genova migliaia di container provenienti dalla Cina, e sono numerosissimi i sequestri di merce contraffatta presso gli spazi doganali. Spesso anche la criminalità autoctona è coinvolta in questi traffici, attraverso una rete di contatti tra malavitosi campani e commercianti campani. Le ingenti disponibilità finanziarie della comunità cinese, costruite con i proventi del traffico e dello sfruttamento di esseri umani così come con il business dell’importazione illecita di merci, vengono reimpiegate in vari modi: acquisizione di immobili, apertura di nuove attività commerciali, gestione di prestiti usurai, acquisto di imprese poi risanate con l’utilizzo di forza lavoro clandestina a costo zero.

Tra le attività criminali perpetrate da organizzazioni cinesi assume, infine, particolare importanza il gioco d’azzardo. La passione per il gioco - stando al Rapporto - sarebbe molto diffusa all’interno delle comunità cinesi in Italia, sia tra le classi popolari che tra quelle più abbienti. Infatti, a differenza di quanto avviene in madrepatria, nel nostro paese la pratica del gioco non avrebbe alcuna connotazione elitaria e si svolgerebbe all’interno di locali di copertura. Così, la gestione delle bische finisce per diventare un affare alquanto redditizio per la criminalità e viene spesso affiancata ad altre attività delinquenziali come il recupero crediti con intimidazioni e violenze.

Sicurezza: G8 Genova; Fournier, sono un poliziotto di destra

 

La Repubblica, 2 luglio 2007

 

Michelangelo Fournier, 44 anni, vicequestore aggiunto del primo reparto mobile della polizia di Stato, lo dice tutto di un fiato, con una robusta stretta di mano e un sorriso sornione. "Sai che c’è? Mannaggia a me, alla mia "fissa" per la storia del ‘900 e a quella frase".

"Mannaggia" dunque a Ferruccio Farri e alla "macelleria messicana". E non perché la notte del 22 luglio 2001, a Genova, non sia stata una macelleria. Anzi. "Alla "Diaz", come diciamo a Roma, c’è stata la schifezza". "Mannaggia" perché in quattordici giorni quell’espressione gli ha ribaltato la vita una seconda volta.

Subito dopo averla pronunciata, se ne era partito per New York con la moglie. Martedì scorso, al suo ritorno in caserma, ha trovato un nuovo capo della polizia, il vecchio con un avviso di garanzia e una vocina a fargli un altro po’ di deserto intorno: "Fournier si candiderà con una lista di sinistra".

"Non ci si crede... io con una lista di sinistra... Roba da matti. Io non intendo candidarmi a nulla. E comunque mai e poi mai a sinistra. Io la penso esattamente all’opposto. Mia madre era comunista, mio padre è un liberale. Io sono cresciuto da ragazzo con la passione per gli anarchici di destra come Longanesi e Prezzolini e ho studiato a Roma al San Leone Magno.

Se sono di destra? Diciamo che se mi chiedi chi sono i più grandi uomini del ‘900, dico Roosevelt, Ho Chi Minh, Ataturk, Nelson Mandela e Lech Walesa. E aggiungo che nella mia libreria, accanto a Junger e Celine, ci sono Gogol e Dostoevskij, Steinbeck e Kerouac. E Tiziano Terzani... che uomo".

Diavolo di un Fournier. Lo immagini cavaliere bianco tra cavalieri neri, "celerino" liberal tra picchiatori in divisa e lui, invece, dal baule delle suggestioni del ‘900, ha pescato e cucito su di sé un abito eccentrico. Che, ora, suo malgrado, lo fa apparire "amico tra i nemici e nemico tra gli amici", come in quel vecchio (1974) film russo di Nikita Mikhalkov.

"Se pensassi che la polizia è fatta di lupi, me ne sarei andato quella notte del 22 luglio di sei anni fa. Se non fossi e non mi sentissi poliziotto democratico tra poliziotti democratici di un paese democratico, non avrei detto ai magistrati di Genova quel che ho detto.

Non sarei più tornato in una piazza e in uno stadio. Non avrei avuto più il coraggio di guardare negli occhi i ragazzi del nucleo che comando. Invece, io, nelle piazze e negli stadi ci sono tornato, almeno cento volte l’anno da sei anni a questa parte. A prendermi gli sputi, i sassi, le bottiglie, a sentirmi gridare da qualche punk-a-bestia o da qualche ragazzino di buona famiglia con la kefiah "servo dei servi dei servi".

A fronteggiare i nazisti delle curve. E ci sono tornato perché negli occhi ho continuato e continuo a portarmi dietro l’immagine terribile e la terribile lezione di un paio di trecce zuppe di sangue...".

Ora, Fournier, occhiali a specchio su un cranio rasato di fresco, jeans e maglietta, si mette a passeggiare lungo i viali deserti dell’immenso compound che, alle porte di Fiumicino, ospita il primo reparto celere. Tra campi da calcio e da rugby, rimesse per gli automezzi blindati e palestre. Dieci passi e una Marlboro light. Altri dieci passi e un’altra Marlboro light.

I pensieri di Fournier sono tornati lì. Alla Diaz. Alla notte del 22 luglio 2001, a quell’immagine che nonio ha più abbandonato. "Entrai tra i primi. Istintivamente salii verso i piani superiori e poi la vidi nel corridoio. Ero convinto che fosse morta...". La testa di quella ragazza tedesca sembrava di stoppa. "Lo seppi qualche giorno dopo guardando la tv che veniva dalla Germania. E in quel momento seppi anche che ce l’aveva fatta. Di lei ricordo le trecce raggrumate nel sangue e un chiazza in terra che pensai fosse materia cerebrale". Lei non si muoveva, ma su di lei infierivano in quattro, forse cinque.

"Due poliziotti con la pettorina; gli altri con l’uniforme dei reparti celere e un cinturone bianco. Bianco, non blu come il nostro". Sappiamo come andò in quegli istanti. Sappiamo quel che accadde dopo. "Dovetti spintonarli, togliermi l’elmo, gridare di farla finita".

Dice Fournier di non aver mai saputo chi fossero quei quattro. Dice Fournier che mai forse si saprà davvero chi altri c’erano nella "macedonia di polizia" (l’espressione è di Vincenzo Canterini, all’epoca comandante del primo reparto celere) che trasformò la Diaz in una tonnara. Lui ricorda quel che ha fatto, gli ordini che ha dato ("Chiamai i soccorsi e dissi a tutti di lasciare immediatamente lo stabile"), "l’allucinazione" in cui era piombato.

"Io non picchiai, né i ragazzi del mio reparto si abbandonarono a violenze. Io so solo che uscii all’aperto e dissi a Canterini che così non avrei lavorato mai più...". La notte del 22 luglio fu la seconda insonne. "Non dormivo da 48 ore. Alloggiavamo con tutto il reparto su una nave da crociera cipriota alla fonda nel porto di Genova.

Eravamo arrivati qualche giorno prima e ci eravamo scontrati con il blocco nero in via Tommaseo, dove ci avevano tirato delle molotov. Io avevo appena perso mia madre. Ero arrivato al G8 e contavo i minuti per tornarea Roma. Sono figlio unico e dovevo occuparmi di mio padre. La notte del 22 avevamo già fatto i bagagli, poi, appunto, arrivò quella maledetta chiamata...".

Quando, il 23 luglio, il reparto lasciò Genova, Fournier aveva capito bene quel che era accaduto. Qualche giorno dopo, riceverà l’avviso di garanzia: "Ricordo lo choc di quella comunicazione, ma ricordo ancora meglio il titolo di quelli del "Manifesto": "C’è posta per voi"...". Eppure - dice - ancora non sapeva tutto.

"Quando fui interrogato la prima volta, il pubblico ministero, il dottor Zucca, mi allungò i fogli con i referti medici dei feriti della Diaz e mi disse di leggere con attenzione. Bene, io mi ritengo una persona forte, ma scorrere quelle carte fu terribile. Mi cadde sulle spalle una croce che non ha più smesso di tormentarmi. Fino a quando non ho deciso di svelare al dibattimento anche quell’unico dettaglio che avevo taciuto per carità di Patria. Quello dei poliziotti che si accanivano sulla ragazza. Perché era giusto che lo facessi. Perché dovevo la verità non solo a me stesso, ma ai miei uomini e alla polizia".

Fournier si congeda. "Non ho altre verità nel cassetto. Ma un’ultima cosa vorrei dirla, anche perché ora posso farlo senza che la mia suoni come piaggeria. Il capo della polizia Gianni De Gennaro... pardon, l’ex capo della polizia, e che "capo", non c’entra con quella notte.

Fu un terribile cortocircuito. E De Gennaro non era lì. Non fu lui a decidere cosa andava fatto e come andava fatto". Un’ultima stretta di mano e una foto mostrata sul cellulare. Una bimba che abbraccia un dobermann. "Mia figlia e il mio secondogenito. Altro che cani feroci. Anche su di loro quanti luoghi comuni...".

Immigrazione: i minori straneri... un po’ meno "invisibili"

 

Amnesty Italia, 2 luglio 2007

 

Per anni si è fatto finta che i minorenni che arrivavano sulle coste italiane non esistessero. Molti di loro finivano nei CPT insieme agli adulti, in condizioni disumane. Una campagna di Amnesty ci ha fatto fare qualche passo avanti.

"Invisibili: fino a poco tempo fa, erano proprio così i milioni di bambini che ogni anno arrivano sulle coste italiane. Oggi, invece, è possibile affermare che non lo sono più, grazie alla mobilitazione legata alla nostra campagna: una campagna per difendere i diritti umani di tutti quei minori che arrivano ogni anno in Italia via mare, indipendentemente dal fatto che siano accompagnati o no". Così Stefano Pratesi, vice presidente della sezione italiana di Amnesty International e docente di Legislazione europea e Immigrazione presso la sezione di Ragusa della facoltà di Lingue e Letterature straniere, ha presentato venerdì scorso, nella conferenza "Minori, migranti e nuove schiavitù", i risultati della campagna "Invisibili", iniziata da Amnesty nel febbraio 2006.

"Oggi - ha aggiunto Pratesi - tracciamo un bilancio che sicuramente ci lascia abbastanza soddisfatti per il progressivo miglioramento di alcuni aspetti della detenzione dei migranti e dei richiedenti asilo. Ma ancora moltissimo lavoro deve essere fatto". Durante la conferenza, organizzata in collaborazione con l’Università di Catania e i Circuiti Culturali e tenuta venerdì scorso al Coro di notte dei Benedettini, sono stati ripercorsi gli obiettivi della campagna.

Amnesty chiede al governo italiano che i minori migranti e richiedenti asilo non vengano mai detenuti, salvo "in casi estremi e rispondenti al loro superiore interesse"; che la detenzione di migranti e richiedenti asilo, minori e adulti, "risponda agli standard dei diritti umani sulla legittimità e sulle condizioni della detenzione"; che "la dignità e i diritti umani dei minori vengano rispettati in tutte le fasi della migrazione, compresi l’arrivo e i trasferimenti"; che i centri di detenzione e i dati statistici "vengano resi accessibili al monitoraggio delle organizzazioni non governative indipendenti"; che venga adottata "una legislazione organica sull’asilo conforme agli standard internazionali sui diritti umani".

"Abbiamo scelto di concentrarci sui diritti violati dei minori migranti perché li consideriamo vittime tre volte - ha spiegato Pratesi -: in primo luogo perché sono minori e in quanto tali soggetti deboli, in secondo luogo perché sono migranti e infine perché si trovano in uno stato contro legge di detenzione, cioè nei CPT con gli adulti, quando invece dovrebbero essere nelle case famiglia".

Uno dei risultati ottenuti consiste nel fatto che il Ministero dell’Interno ha reso disponibili le statistiche sui minori che arrivano in Italia via mare: sono stati 1622 nel 2005, e 1335 nel 2006 (il 7% del totale dei migranti via mare). Inoltre, se prima il governo negava l’esistenza di minori all’interno dei CPT, adesso è stato elaborato un disegno di legge (Amato-Ferrero) che affronta il problema, e che dovrebbe presto passare alle Camere. Il disegno prevede tra l’altro che, in caso di incertezza sui dati anagrafici, si presuma la minore età. Ed era questa una delle richieste della campagna.

Inoltre, i centri di permanenza temporanea sono stati aperti anche alle associazioni e agli esponenti della società civile, compresi i giornalisti. In questo modo, non solo è stata constatata l’effettiva presenza di minori migranti all’interno dei CPT, ma i media hanno potuto informare l’opinione pubblica che non conosceva, o conosceva poco, questa realtà. Ne è nata un’attenzione molto maggiore al problema (solo per fare un esempio, sono state inviate più di 100 mila lettere al ministero degli interni). È anche per questo che oggi si può parlare di minori migranti, e non più solo di invisibili.

Alla conferenza, che è stata coordinata dal professor Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere di Catania, sono intervenuti anche i professori Francesca Longo e Salvatore Aleo, docenti rispettivamente di Politiche dell’Unione Europea e di Diritto penale presso la Facoltà di Scienze politiche di Catania.

"L’unione Europea - ha affermato la professoressa Longo - vuole farsi promotore dei Diritti dell’Uomo, ma in realtà non li garantisce. I suoi strumenti non hanno carattere giuridico, pertanto il tutto è delegato alle giurisdizioni dei singoli stati membri". E ha aggiunto: "Il problema dei migranti è considerato solo in un’ottica di difesa del territorio, cioè come un problema di polizia. Credo che, invece, bisognerebbe abbandonare le politiche di controllo che mirano solo a bloccare i flussi migratori, in favore di un approccio globale che veda l’immigrazione come un fatto normale, legato alla dimensione socio-economica della domanda e dell’offerta".

"Uno dei problemi più urgenti da affrontare dal punto di vista della giurisdizione è il fatto di affidarsi al principio di territorialità - ha affermato il professor Aleo -. Esso, infatti, si rivela una semplice fionda di fronte ai grandi problemi internazionali, che invece hanno bisogno di risoluzioni internazionali per essere combattuti". Anche Aleo, d’accordo con la Longo, ha sottolineato che quello dell’immigrazione non può essere considerato come un semplice problema di polizia.

Per portare avanti la campagna, Amnesty non ha risparmiato le forze. Sono state vendute 2.500 copie del rapporto di ricerca; sono stati organizzati 500 eventi in 120 città italiane; 2500 sono stati gli attivisti mobilitati, 50.000 le firme raccolte; sei, infine, i testimonial della campagna (A67, Acustimantico, Claudio Baglioni, Andrea Camilleri, Fiorello, Ivano Fossati). Ma la campagna non è ancora conclusa: è essenziale che l’Italia adotti presto una linea coerente con gli standard internazionali sui diritti umani e una legislazione organica in materia di asilo, se si vuole costruire un sistema rispettoso dei diritti di tutti. Dunque, c’è ancora molto da fare.

Droghe: torna la campagna di Scientology "dico sì alla vita"

 

Notiziario Aduc, 2 luglio 2007

 

Torna la campagna di informazione "Dico no alla droga, dico sì alla vita", organizzata dalla Chiesa di Scientology. Ad alcuni giorni dalla Giornata Mondiale contro le droghe, indetta dall’ONU per lo scorso 26 giugno, in occasione della quale i volontari capitolini di questa iniziativa ventennale, hanno distribuito una speciale edizione degli opuscoli informativi, domenica mattina è stata la volta del Parco di Villa Gordiani, sulla Prenestina.

Gli "acchiappa - siringhe" di Scientology hanno provveduto a ripulire dalle siringhe abbandonate l’area verde a cavallo della nota strada consolare e hanno fornito ai residenti informazioni su "cosa sono le droghe" e "perché una persona si droga". Supportata in tutto il mondo dalla Chiesa di Scientology, "Dico no alla droga" si ispira sin dal 1986, anno della sua nascita, ad una frase del fondatore di Scientology L. Ron Hubbard: "Le droghe privano la vita delle gioie e delle sensazioni che rappresentano, comunque, l’unica ragione per vivere".

Brasile: mercoledì manifestazione per i sei detenuti italiani

 

Aise, 2 luglio 2007

 

Il rispetto dei diritti umani vale ovunque, anche in carcere. Solo una settimana fa parlamentari italiani e sudamericani si sono ritrovati a Roma per discutere e confrontarsi sullo spinosissimo tema della condizione dei carcerati. Negli stessi giorni, in Brasile, tre nostri connazionali, in carcere dal 2005, hanno iniziato uno sciopero della fame per richiamare l’attenzione delle autorità italiane sulla condizione "disumana" che patiscono nel carcere di Raimundo Nonato. Idealmente a loro fianco, mercoledì prossimo, scenderanno in strada familiari e amici dei detenuti per una manifestazione di "sensibilizzazione" che dovrebbe tenersi vicino alla Farnesina.

Secondo quanto diffuso da diversi siti on-line, primo fra tutti il blog "musibrasil", i sei italiani sono stati arrestati nel novembre 2005 e condannati a pene comprese tra i 56 anni e i sette anni di reclusione per traffico internazionale di donne e prostituzione. Uno dei loro difensori ha anche denunciato la condizione dei suoi clienti alla commissione interamericana dei diritti dell’uomo. Dei sei detenuti, solo tre hanno cominciato lo sciopero della fame: Salvatore Borrelli, napoletano di 48 anni, Giuseppe Ammirabile, originario di Mola di Bari di 43 anni, Simone De Rossi, trentunenne di Venezia. Gli altri tre, tutti di Mola di Bari, sono Paolo Quaranta (56 anni), Vito Francesco Ferrante (43 anni), e Paolo Balzano (47 anni).

Stati uniti: più morti per errori medici che in incidenti stradali

 

Ansa, 2 luglio 2007

 

Nel corso del convegno "Il contenzioso medico-paziente, un crescente problema culturale, etico ed economico" Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Bergamo, è intervenuto per segnalare che negli Stati Uniti "nel 2005 le persone morte per errore medico sono state 90 mila, contro le 43 mila vittime dell’asfalto, le 42 mila del tumore alla mammella e le 16 mila dell’Aids".

E "non c’è ragione di pensare che la situazione non sia la stessa anche in Italia", afferma Remuzzi. L’esperto ha però precisato che "bisogna distinguere fra medico e ospedale, e a sbagliare non è quasi mai il singolo operatore, ma la struttura".

I dati in Italia? Anche nel nostro Paese non c’è da stare tranquilli se si pensa che circa 15 mila medici ogni anno sono coinvolti in cause che hanno per oggetto richieste di risarcimento danni da responsabilità medica. Ben "8 chirurghi su 10 sono o sono stati indagati" spiega Lorenzo Menicanti, primario cardiochirurgo all’Irccs Policlinico San Donato di San Donato Milanese, e "l’indice di gradimento della sanità fra gli italiani è pari a 20 contro il 50 degli States". Nel corso del suo intervento Remuzzi ha denunciato che "Troppi medici e infermieri [...] magari anche in buona fede parlano male dei colleghi davanti ai loro pazienti. Una tentazione cui resistono davvero in pochi - aggiunge - ma che nel malato genera conflittualità, confusione e sospetto".

 

 

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