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L’Aquila: si impicca detenuto 48enne in regime di "41-bis"
Abruzzo News, 4 giugno 2007
Carmine Chirillo, 48 anni, condannato per omicidio e sottoposto dal 2003 al "41-bis", il regime penitenziario duro, si è tolto la vita impiccandosi con la cordicella del pigiama. Il suicidio avviene a pochi giorni dall’invio della lettera degli ergastolani d’Italia al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella quale hanno scritto che la morte è molto meglio delle condizioni restrittive della galera a vita e il giorno prima della protesta organizzata dai sostenitori del movimento Olga ("Ora di liberarsi dalle galere"), sotto le mura del supercarcere "Le Costarelle". Pisa: detenuto tunisino si uccide, protesta fuori dal carcere
In Toscana, 4 maggio 2007
Un giovane tunisino, da due mesi rinchiuso nel carcere pisano per una vicenda legata allo spaccio di sostanze stupefacenti, si è ucciso stamattina nel carcere "Don Bosco" di Pisa. Il corpo ormai senza vita del nordafricano è stato scoperto poco prima di mezzogiorno dagli agenti della polizia penitenziaria. Nel momento in cui il giovane ha messo in atto il suicidio, nella cella, che condivideva con altri detenuti, non c’era nessuno. Quando sono arrivati i poliziotti hanno tentato di rianimare il magrebino, ma non c’era più niente da fare. Nel pomeriggio davanti al carcere Don Bosco si è svolta una manifestazione della comunità nordafricana di Pisa che ha bloccato la circolazione stradale. Del fatto è stato informato il magistrato di turno, il sostituto procuratore della Repubblica, Giovanni Maddaleni, il quale ha autorizzato la rimozione della salma che e' stata portata all'istituto di medicina legale dell'Università per l' eventuale autopsia. Giustizia: Mastella; il "41-bis" è di straordinaria importanza
La Repubblica, 4 maggio 2007
L’Ufficio stampa del ministero della Giustizia, in una nota che fa riferimento alla manifestazione di ieri davanti al carcere dell’Aquila, "ricorda come il Guardasigilli, Clemente Mastella, da ultimo anche nel corso della sua audizione davanti alla commissione parlamentare Antimafia, abbia confermato la straordinaria importanza del regime speciale del 41 bis come valido strumento di contrasto alle organizzazioni criminali di stampo mafioso e contro il terrorismo interno e internazionale". La manifestazione promossa dal movimento Olga (Ora di liberarsi dalle galere) e dai Carc per protestare contro il regime del carcere duro e portare solidarietà alla brigatista Nadia Lioce rinchiusa nel carcere aquilano delle Costarelle e sottoposta al regime di carcere duro del 41-bis è iniziata poco prima di mezzogiorno. Circa 200 manifestanti al grido di "10, 100, 1.000 Nassiriya" e slogan contro le forze dell’ordine, Biagi e D’Antona, hanno sfilato lungo le vie del centro storico de L’Aquila. Non si sono verificati incidenti. Sono numerosi però i muri di palazzi storici imbrattati con scritte a vernice rossa e nera. Le scritte sono state siglate con la "A" cerchiata. Giustizia: Gasparri (An); mantenere il "41-bis" senza esitazioni
Apcom, 4 maggio 2007
"È drammatico quanto avvenuto tra L’Aquila e Bologna. Il clima di permissivismo causato dal governo Prodi induce l’estrema sinistra ad inneggiare nelle strade d’Italia ai terroristi delle Brigate Rosse. Perché se a Bologna le scritte sono state fatte nottetempo, a L’Aquila si è marciato in pieno giorno nelle strade inneggiando ad assassini detenuti nella città abruzzese". Lo ricorda in una nota il deputato di An Maurizio Gasparri. "La richiesta principale dei manifestanti dell’estrema sinistra - aggiunge Gasparri - è quella di abolire il 41-bis. Alleanza Nazionale si onora di aver fatto prorogare nella legislatura ‘96-2001 il 41-bis con una mia proposta di legge e di aver contribuito a rendere definitiva questa norma nell’ordinamento penitenziario. Il 41-bis va confermato. Si tratta di una misura decisiva per stroncare la mafia ed il terrorismo. Chi dovesse indulgere su questo versante dimostrerebbe un’arrendevolezza invocata da mafiosi e terroristi, che potrebbero dirigere dal carcere le loro attività criminali. Sarebbe pazzesco se il governo mostrasse esitazione su questo versante. Assumerò iniziative parlamentari - conclude Gasparri - perché con voti formali si registri il più ampio consenso. Perché non solo il 41-bis sia mantenuto nell’ordinamento penitenziario, ma le norme sul carcere duro siano puntualmente applicate". Giustizia: Manconi; pena di morte, lettera al Presidente Rai
Comunicato stampa, 4 maggio 2007
Caro Presidente, ti conosco abbastanza per sapere della tua antica sensibilità per le questioni relative a diritti umani e libertà individuali, garanzie e tutele per la vita umana e la sua irriducibile dignità. Dunque, so che, non certo da ieri, la battaglia per l’abolizione della pena di morte è anche una tua battaglia. Questo ti rende la persona più adatta per accogliere la richiesta di una costante informazione su quanto il Governo italiano, Marco Pannella ed Emma Bonino e i radicali stanno facendo, a livello europeo e internazionale, per una moratoria sulle esecuzioni capitali. E non è questione, quella della pena di morte, che riguardi solo il contesto sovranazionale. Può sembrare singolare, ma il problema interessa anche l’Italia e la sua opinione pubblica. A quanto ricordo, la più recente indagine scientifica, condotta nel 1982 dalla Doxa per conto dell’Istituto Cattaneo, segnalava un 58% di italiani favorevoli alla pena di morte "per crimini di eccezionale gravità"; e rilevava come tale percentuale superasse quella emersa da una indagine effettuata dalla stessa Doxa nel 1953. Non sono a conoscenza di ricerche, altrettanto serie e scientificamente fondate, relative ai decenni successivi, ma ho la sgradevole sensazione che, rispetto a venticinque anni fa, gli orientamenti collettivi siano sì maturati, ma non abbastanza da consolidare una maggioranza stabile e significativa di ostili alla pena capitale nel nostro paese. Tanto più in una fase in cui gli "imprenditori politici della paura" galvanizzano le ansie collettive e le indirizzano verso una domanda di giustizia sommaria e "sostanzialista", ridotta a rivalsa e a vendetta. Questo rende l’informazione intelligente e razionale, ragionevole e persuasiva, la più preziosa risorsa: e sollecita la responsabilità del servizio pubblico. Certo che è questa la tua stessa opinione, ti saluto cordialmente,
Prof. Luigi Manconi, Sottosegretario di Stato alla Giustizia Giustizia: gli ergastoli bianchi dell’Opg di Reggio Emilia di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone)
Il Manifesto, 4 maggio 2007
Viaggio negli ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Terza puntata: Reggio Emilia. "Slegatemi, vi prego, non lo faccio più, non ne posso più vi prego, vi prego". Paolo P., 37 anni, piange, legato al letto di contenzione. Lo incontriamo al Pegaso, uno dei cinque reparti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Un imbarazzante silenzio avvolge la delegazione che ci accompagna, la direttrice Valeria Calevro e il comandante degli agenti. La stanza, con il letto di contenzione, è pulita, asettica. Accanto un’infermiera con i guanti predispone il cibo. Il grido disperato di Paolo dipinge di orribile i muri bianchi della stanza. Ha tentato il suicidio, sul corpo seminudo, sotto il collo, sono visibili le medicazioni. È lucido, anche troppo, gli pesava il rimorso, dice. La direttrice spiega che non avevano possibilità di un piantone e che l’hanno legato al letto di contenzione per impedirgli di farsi male. È lì da oltre un giorno. Paolo piange, un pianto dolce ma ininterrotto, implora perdono, chiede che lo si sleghi. Non si può, gli dicono, ci dicono. Paolo chiede di poter parlare da solo con noi. Richiesta accolta. Lo ascoltiamo, promettiamo, gli offriamo anche una sigaretta, benedetta. Tra le sue lacrime e la nostra malcelata impotenza ascoltiamo il suo racconto, che rimane riservato perché così ci ha chiesto. La sua storia è simile a quelle delle altre decine che abbiamo ascoltato in questo "girone". Appena nella cella di fronte Lorenzo G., una quarantina d’anni, da dieci dentro per rapina, ci mostra una massa tumorale grande quanto un’arancia che si è formata alla base del collo. Gli dà fastidio quando dorme, spiega, ma ancora non si decidono ad operarlo. Cerchiamo di trattenere ogni commento, ma la massa ci appare davvero enorme. Che aspettano, ci dice, già che aspettano, ci chiediamo.
L’ospedale e il carcere
In questo Opg i reparti hanno i nomi delle costellazioni: Andromeda, Pegaso, Centauro, Perseo. Vi è un reparto, Antares, che in virtù di una convenzione con Regione, Asl e associazioni del terzo settore è a custodia attenuata, celle aperte e una cooperativa di lavoro all’esterno. Riparano e noleggiano biciclette. La struttura, nuova, era nata per essere un carcere. Poi il progetto iniziale è stato diviso in due: da una parte è nato l’Opg, dall’altra il carcere. Se non fosse per i cartelli non si noterebbe la differenza. Vi sono 238 internati, un centinaio dei quali in proroga della misura di sicurezza, 95 agenti di polizia penitenziaria, 60 infermieri e otto psichiatri. È un Opg, un tempo si diceva manicomio giudiziario, in cui almeno, rispetto a quelli di Aversa e Napoli (gli altri sono Montelupo Fiorentino, Castiglione, Barcellona Pozzo di Gotto), le condizioni strutturali sono decenti. Le storie che gli internati raccontano, in due in celle pensate come singole, sono le stesse, disperata solitudine, disagio mentale, povertà. Lucio G., 68 anni, in carcere e poi in Opg da oltre trenta anni, è ormai cieco. Lo sguardo fisso nel vuoto, la testa inclinata verso l’interlocutore, trova il tempo anche per qualche battuta. G., poco più che ventenne, franco algerino, è stato fermato a Ventimiglia, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, esperienze di dipendenza. Vuole il metadone, vuole medicine, vuole qualsiasi cosa gli faccia dimenticare il dolore. James, invece, è nigeriano di origini liberiane. Sguardo smarrito, circa trenta anni, è dentro da un anno. Non dice molto, ma vuole una sigaretta, poi due. Notiamo, qui, un’alta presenza di ragazzi stranieri. Marcello V., invece, è steso a terra su una coperta. La cella è liscia, come si dice in gergo. Nessuna suppellettile, mobile, letto, niente di niente. È una forma particolare di isolamento. Ce ne sono cinque in queste condizioni al momento della visita. Marcello ha quaranta anni, è in Opg da oltre venti anni. Un reato l’ha commesso fuori, un altro durante l’internamento ad Aversa. Non è presente a se stesso, biascica parole poco intelligibili. Ci allontaniamo e torna stendersi sul suo giaciglio. È solo alla fine che incontriamo Paolo e il suo grido di dolore dopo un giorno legato al letto di coercizione. Nel 2004 per 515 volte, in tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari, vi sono stati episodi di persone legate ai letti di contenzione. A Reggio Emilia sono stati 84 gli internati costretti. Non è un caso, non è una eccezione. È una pratica.
La pratica della coercizione
Nel 1994 uno psichiatra che lavorava nell’Opg di Reggio Emilia, Giuseppe Cupiello, denunciò il caso di G.P., per quindici mesi legato al letto di contenzione. Dopo la denuncia Cupiello decise di lasciare l’incarico presso l’Opg. Ed il fatto che in una struttura nuova, con un ottimo rapporto tra carcere, istituzioni locali e territorio, si faccia ricorso alla contenzione la dice lunga sul fallimento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Visitiamo anche il reparto Antares. Qui gli internati, circa una trentina, girano con le celle aperte sino alle otto. Il clima è più disteso. Potrebbe essere un modello, ma rappresenta l’eccezione. Tra gli ospiti c’è un internato, Francesco M., che soffre di sclerosi multipla e che trascina a malapena la sua carrozzella. Usciamo che abbiamo ancora nella testa il pianto e l’urlo disperato di Paolo. Non abbiamo potuto slegarlo, ma gli abbiamo promesso che la sua sofferenza non sarà inascoltata, che saremo testimoni di cosa vuol dire un letto di coercizione. Promessa mantenuta. Giustizia: da sola con un figlio che passa dal carcere all’Opg
Il Gazzettino, 4 maggio 2007
Venezia: un pellegrinaggio tra carceri, centri psichiatrici e comunità di recupero. Ma l’assistenza latita, resta la disperazione. La parola che ripete all’ossessione è "solitudine". "Il dolore - spiega - è una condizione che si affronta da soli, chi vive un momento di difficoltà è un emarginato". Maria, poco più che cinquantenne del Veneziano, parla con dignità, misura le parole: spesso una frase di troppo l’ha messa in difficoltà. La sua "solitudine" si chiama Paolo, partorito quasi bambina, quando il mondo sembra bello e la gente tanto buona. "Poi si sbatte la faccia contro realtà" che per Paolo ha il sapore della droga e la follia della malattia e per lei della paura: carcere, poi manicomio giudiziario e poi il pellegrinaggio, da una comunità all’altra alla ricerca dell’aiuto che non c’è. Maria è lapidaria: "A casa non lo posso tenere, serve una comunità che non lo faccia sentire emarginato, che lo aiuti a ritrovarsi. La libertà non è sempre un regalo, dovrebbe essere un diritto. Un diritto che a me e a mio figlio viene negato da anni". E Maria racconta. "Ho scoperto nel 1994 che mio figlio si drogava. L’ho portato al Sert e dopo vari tentativi di disintossicazione sono riuscita a farlo entrare a San Patrignano. Era anche riuscito a trovare un lavoro, ma aveva serie difficoltà a relazionarsi con gli altri, aveva manie di persecuzione e a volte diventava cattivo, picchiava, anche con violenza. In altri periodi negava di avere problemi, diceva di aver superato la dipendenza. Mi sentivo presa in un vortice".
Come ha affrontato questo periodo? "Nel 2000 ho dovuto andarmene da casa, mi aggrediva e distruggeva tutto quello che gli capitava tra le mani: porte, mobili, piatti. Non potevo restare sola con lui. Ho vissuto in una casa-famiglia per dieci mesi. Ogni tanto tornavo a casa per lavargli la biancheria e fare la spesa. Entravo come una ladra, trattenendo il respiro, nella speranza di non trovarlo in casa, altrimenti erano guai. Non sempre ragionava: sono situazione al limite del paradosso: senti che il figlio ti vuole bene, percepisci che ti sta chiedendo aiuto, ma finisce con il distruggerti".
Non l’ha aiutata nessuno? "Le mie richieste di aiuto al Centro di salute mentale sono risultate vane. Paolo continuava a drogarsi e peggiorare fino a quando viene arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti. E qui accade un’altra assurdità: si spalancano le porte del carcere, a Padova e dopo qualche mese a Rovigo. Nessuno si accorge che sta male, chiedo con insistenza una visita psichiatrica che non arriva. Paolo sta sempre peggio, si sente braccato. Ogni volta che lo vado a trovare lo trovo sempre peggio. E la risposta che arriva dal sistema sono tre mesi di isolamento. Ma della visita neppure l’ombra. Quando finalmente arriva, lo scarcerano. E l’incubo continua, diverso forse, ma non per questo meno pesante".
Che tipo di incubo? "Entrava ed usciva dall’ospedale, ma stava volto male, sentiva le voci, diceva che volevano impiantargli un microchip in testa, era disperato. Ricoveri brevi, qualche giorno e poi di nuovo a casa: io e lui da soli. E le botte. Nel 2004 il fattaccio".
Cosa è accaduto? "Ha picchiato con violenza una donna e ha dato fuoco alla sua casa. Non so come siano andate davvero le cose, ma questo è ciò che risulta dagli atti. Eppure non passava giorno che non chiedessi aiuto, che urlassi al mondo quanto stava male e quanto avesse bisogno di un luogo dove stare: non si cancella la malattia aprendo le sbarre. Per i ragazzi come lui andare in comunità è spesso un lusso, è molto più facile finire dietro alle sbarre, lì non danno fastidio a nessuno".
Di nuovo in carcere? "Certo, ma per poco. Poi vengo a sapere che volevano farlo uscire per decorrenza dei termini e allora ho fatto quello che per una mamma è inconcepibile: ho supplicato che lo tenessero ancora in carcere. Avevo paura, chiedevo perizie che non arrivano e intanto Paolo peggiorava sempre di più".
Quando si sono aperte le porte del manicomio giudiziario? "Quando si sono resi conto che era pericoloso per se stesso, aveva tentato di uccidersi, e per gli altri: era violento con tutti. Solo che l’hanno mandato ad Aversa. Pensavo sarebbe servito, tra me dicevo: adesso ti cureranno, ti aiuteranno ad uscire dal tunnel. Invece mi illudevo, l’ennesima presa in giro".
In che senso? "Stava tutto il giorno in una stanza con dieci persone: c’erano solo guardie, non psichiatri. Ho scoperto che dopo tre mesi di ricovero il medico non l’aveva ancora visto. Ogni venti giorni mi sobbarcavo un lungo e costoso viaggio per andarlo a trovare: 200 euro che faticavo a trovare. Io lavoro da quando sono ragazzina per mantenermi e non posso sgarrare. Ho perso il marito che avevo poco più di vent’anni, non è facile affrontare la vita da sole. Poi, all’improvviso, lo hanno spedito a Castiglione delle Stiviere. Altro ambiente: ci sono i medici, c’è il personale che segue i pazienti, c’è il parco, non è un lager come Aversa. Ma è il dopo che mi fa paura".
Perché le fa paura? "Noi famiglie non siamo attrezzate per aiutare queste persone. Paolo è violento e quando non ragiona può commettere atti pesanti, anche gravissimi. Le strutture sanitarie non sono attrezzate per accogliere questi pazienti, non ci sono comunità adatte dove poterli seguire e curare. Paolo è tutta la mia vita, ma anche una mamma si deve arrendere all’evidenza: da sola non ce la faccio".
E ora? "Lo hanno scarcerato, grazie all’indulto, del resto ce lo aspettavamo. È tornato a casa: un po’ si è curato, poi si è lasciato andare di nuovo. Non è un bambino, ha oltre 30 anni e quando diventa aggressivo spacca tutto, cosa posso fare se non andarmene, scappare? La mia è ormai una vita in fuga".
Cosa non va del sistema? "Da dove comincio? Tutto. Per prima cosa queste strutture che non sono di cura, ma veri e proprie carceri. Poi l’impossibilità di avere una alternativa: oggi quando queste persone tornano a casa, sono a totale carico delle famiglie. Sapete dove è ora Paolo? A Latina, nell’unica comunità psichiatrica che ha accettato di accoglierlo, ma per quanto? E dopo? Una mamma non può sperare che si riaprano le porte di un carcere e non può vivere nel terrore di riavere la casa distrutta, i lividi addosso. Paolo è la mia vita, e non lo abbandonerò mai, ma sento che sto perdendo le forze e la speranza".
A chi ha chiesto aiuto? "L’associazione Aitsam di Oderzo che dà una mano a tante persone come me, ma che non può fare miracoli. Fino ad ora i servizi mi hanno trattata con disprezzo, cercando solo di togliersi di torno l’impiccio. Non posso pensare che non esistano posti dove questi ragazzi possano essere aiutati: sono consapevole che Paolo non può tornare a casa, ma questo non lo chiedo. Ma se vogliono che questi pazienti escano dai manicomi si devono creare alternative".
Quale pensa possa essere la soluzione Paolo? "Una comunità a doppia diagnosi con determinati obblighi da parte del Magistrato di Sorveglianza, dove finalmente si prendano cura di lui e lo aiutino ad avere una vita più dignitosa. Non posso pensare che non esistano posti dove questi ragazzi vengano seguiti, senza correre il rischio di passare da un carcere a un ospedale psichiatrico".
Cosa l’ha ferita di più? "Che per aiutare mio figlio ho dovuto lottare per dimostrare la sua malattia, spiegare che non era il solito tossicodipendente in cerca di una dose, ma che aveva problemi seri. E che il sistema gli ha permesso di delinquere, di picchiare e di usare violenza prima di decidere di dargli una mano. Ecco, questa è la solitudine di cui parlavo. Sono oltre sei anni da quando tutto è cominciato, e credo di avere il diritto di sperare in un futuro, per me e per mio figlio. Adesso mi sento stanca e delusa". Giustizia: la "riparazione del danno" dopo anni non ha senso
Redattore Sociale, 4 maggio 2007
Secondo la legge i Magistrati di Sorveglianza impongono la riparazione del danno alla fine della pena. Muschitiello (Casg): "A 10-15 anni dal fatto può essere una beffa, e i detenuti la vedono come una pena in più". "È capitato che un giudice di sorveglianza imponesse ad un detenuto, concedendogli l’affidamento in prova ai servizi sociali, di chiedere alla sorella che aveva violentato se era disposta a perdonarlo e se voleva un risarcimento": è questo uno dei casi di "riparazione del danno", di cui si è dovuta occupare Anna Muschitiello, segretaria del Coordinamento delle assistenti sociali di giustizia (Casg), e che l’hanno convinta che non servono a niente. "Che senso ha, dopo anni dalla commissione del reato, chiedere al detenuto e alla vittima di incontrarsi - aggiunge -. Per la vittima è una nuova sofferenza, mentre per il detenuto solo una pena in più". Il problema di come i magistrati di sorveglianza applicano le norme sul risarcimento delle vittime è emerso oggi durante la presentazione del libro "Riparazione e giustizia riparativa", organizzata dal Casg e dal Comune di Milano. Secondo la legge penitenziaria 354 del 1975 (comma 7 dell’art. 47; ndr), il giudice di sorveglianza può disporre, nel concedere una misura alternativa al carcere (affidamento ai servizi sociali, detenzione domiciliare e semilibertà; ndr), che il detenuto "si adoperi, in quanto possibile, in favore della vittima del suo reato". Per oltre 20 anni quasi nessun magistrato ha applicato questo comma della legge. "Oggi, invece, dato che il tema della sicurezza è molto sentito dai cittadini, i magistrati hanno cominciato ad applicarlo con costanza - aggiunge Anna Muschitiello -. Stiamo andando sempre di più verso una giustizia riparativa, dove centrale non è tanto la rieducazione del condannato ma il risarcimento della vittima". Il problema è, però, che questa "riparazione del danno" avviene verso la fine della pena, quando il detenuto ha maturato il diritto a scontare la pena fuori dal carcere. "Se teniamo poi conto dei tempi dei processi, accade che il Magistrato di Sorveglianza imponga al detenuto di fare qualcosa per la vittima dopo anni dalla commissione del reato - sottolinea Anna Muschitiello -. E noi assistenti sociali ci troviamo di fronte a situazioni difficili e a volte assurde. Qualche volta si fa persino fatica a rintracciare le vittime". Anche la giustizia minorile prevede forme di riparazione del danno, ma vengono valutate durante il processo. "In questo modo è possibile comminare una pena che tenga conto della possibilità per il detenuto di fare qualcosa per risarcire la vittima - aggiunge Anna Muschitiello -. L’esperienza dimostra che sia la vittima che il detenuto ne traggono beneficio: la prima viene soddisfatta a poca distanza dal momento in cui ha subìto il danno, mentre per il secondo è parte integrante del percorso rieducativo e non un obbligo che si aggiunge dopo anni di carcere". Servono inoltre figure professionali preparate. "Le vittime hanno diritto al risarcimento - spiega Anna Muschitiello -. Ci vuole però gente preparata che le segua e che, insieme agli operatori in carcere, permetta un incontro con il detenuto che non sia traumatizzante o dannoso". L’Aquila: in 200 inneggiano cori per brigatista Desdemona Lioce
La Repubblica, 4 maggio 2007
Corteo all’Aquila contro il carcere duro, previsto dall’articolo 41-bis, davanti al penitenziario dove è detenuta Nadia Desdemona Lioce, leader delle Nuove Br. Il corteo dell’area "movimentista-eversiva", si è svolto proprio mentre da Bologna arrivava la notizia di scritte contro Marco Biagi, apparse nei pressi dell’abitazione del giuslavorista ucciso dai terroristi. La manifestazione dell’Aquila. Circa 200 persone sono giunte ieri all’Aquila per il corteo contro il regime del carcere duro, previsto dall’articolo 41 bis. Massiccia la presenza delle forze dell’ordine, dopo che l’altra sera, nel penitenziario dove è detenuta anche Nadia Desdemona Lioce delle Nuove Br, un esponente della ‘ndrangheta si era suicidato. Davanti al carcere i manifestanti hanno inscenato un sit-in, sparando petardi e lanciando in aria fumogeni. Scanditi cori a sostegno della brigatista e contro Marco Biagi, ucciso dalle Br a Bologna cinque anni fa. Obiettivo della manifestazione, sottolinea il movimento Olga sul suo sito internet, "Ora di Liberarsi dalle Galere", "lottare contro la tortura dell’isolamento e quindi dell’istituzione carceraria nel suo complesso". Annunciato da aspre critiche da entrambe le coalizioni politiche, il corteo ha attraversato il centro della città scortato da polizia e carabinieri. Sui muri, con lo spray, slogan di protesta contro le forze dell’ordine, lo Stato e la Chiesa. "Da Poggioreale all’Ucciardone evasione" ha scritto un giovane manifestante. Dalle grate di una cella del carcere, un detenuto è riuscito ad appendere una bandiera rossa. La manifestazione si è sciolta in anticipo, poco prima delle 17, a causa di un violento acquazzone che si è abbattuto sulla città. Bologna, scritte contro Biagi. "Terrorista è lo Stato". Questa la scritta comparsa in via Valdonica a Bologna, la via in cui il 19 marzo del 2002 fu ucciso dai terroristi delle brigate rosse il giuslavorista Marco Biagi. Lo riferisce "Il Resto del Carlino" sottolineando che "la scritta (segnalata al giornale da un lettore), è apparsa in questi giorni anche in altre zone della città. Il procuratore capo Enrico Di Nicola ha commentato l’accaduto allo stesso quotidiano affermando che "la scritta apparsa sotto casa del professor Biagi si commenta da sé. È stupida, oltre che vergognosa". Unanime il giudizio di sdegno. Secondo il sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, la scritta "segnala l’esistenza di un problema non risolto quale è quello della presenza in città di persone attratte dalla follia del terrorismo". Il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, parla di "un gesto ignobile da condannare con grande fermezza". Per il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, "Ci sono tanti motivi per chiedere scusa ai familiari di Marco Biagi, ma da oggi ce n’è uno in più". Duro anche il commento di Piero Fassino: "Un atto vergognoso - ha detto il segretario dei Democratici di sinistra - che rivela lo squallore umano e politico di chi ha vergato quella scritta". Busto Arsizio: apre lo Sp.In, un aiuto per carcerati e famiglie
Varese News, 4 maggio 2007
Un punto di prima accoglienza e accompagnamento per persone con problemi penali e per i loro famigliari: questo è SP.IN, lo Sportello Informativo che apre a Casa Onesimo (via Lega Lombarda 18), grazie alla sinergia tra Amministrazione Comunale (Assessorato ai Servizi Sociali), Associazione Vol.Gi.Ter e Ufficio Esecuzione Penale Esterna (sedi di Como e di Varese) del Ministero della Giustizia. Il progetto, finanziato della Regione Lombardia ai sensi del decreto n. 14495 del 12 dicembre 2006 " iniziative progettuali in comuni sede di Istituto Penitenziario per il reinserimento di soggetti che hanno beneficiato dell’indulto", che parte in via sperimentale per un anno, si rivolge a persone con procedimenti penali in corso, persone libere in attesa di scontare la pena, detenuti in permesso, persone ammesse alle misure alternative, dimittendi e dimessi, ex- detenuti, persone che hanno beneficiato o beneficeranno dell’indulto, famigliari di persone con problemi penali. Gli obiettivi sono quelli di promuovere e sostenere, in accordo con i servizi, percorsi di reinserimento; stabilire un primo punto di contatto per l’analisi dei bisogni di famigliari e persone con percorsi penali; costruire e diffondere un’adeguata e capillare conoscenza delle iniziative attive sul territorio provinciale; favorire la comunicazione e la diffusione delle informazioni su interventi e iniziative specifiche in tale settore. Pur considerando l’attività di sportello il centro dell’operatività, il progetto prevede alcune azioni complementari che permettono di offrire una consulenza e un accompagnamento qualificato e ben stabile all’interno della rete dei servizi e delle opportunità presenti sul territorio: a) interventi per la promozione e costruzione di una rete di servizi e iniziative a favore delle persone detenute, ex detenute, sottoposte a procedimenti penali e loro famigliari: diffusione dell’iniziativa attraverso l’elaborazione e la distribuzione di materiale informativo e incontri specifici con servizi del territorio provinciale; costruzione di una banca dati ben organizzata e costantemente aggiornata relativa ai servizi e opportunità del territorio (nello specifico: contatto costante con i Centri per L’impiego e gli enti di formazione; rapporti con le agenzie interinali del territorio; costante contatto con gli UDP per aggiornamenti su interventi e progetti specifici promossi dai territori; relazioni con le cooperative sociali; mappatura delle realtà di accoglienza della provincia e territori limitrofi); costruzione e aggiornamento di una pagina, un "link" dedicato all’iniziativa all’interno del sito del comune di Busto Arsizio e di altri eventualmente disponibili. b) interventi "diretti" a favore delle persone detenute, ex detenute, sottoposte a procedimenti penali e loro famigliari: attività di ascolto e individuazione dei bisogni; attività di informazione e consulenza (avvalendosi dei partner del progetto e degli enti individuati con il lavoro di mappatura e sensibilizzazione); avvio di interventi individualizzati specifici attraverso la collaborazione con servizi del territorio (servizi sociali dei comuni e servizi specialistici); collaborazione con "progetti" attivi sul territorio del distretto e della provincia per l’avvio di percorsi individualizzati sempre in collaborazione con servizi di riferimento; interventi di orientamento individuale. Lo sportello sarà aperto nei giorni di martedì e venerdì dalle ore 16.30 alle ore 18.30, con accesso diretto senza necessità di appuntamento. Sarà comunque attivata una linea telefonica che permetterà di avere informazioni sul funzionamento dello sportello stesso, dove saranno presenti un operatore dedicato a tale iniziativa e un volontario dell’associazione Vol.Gi Ter. Treviso: all’Ipm mostra di dipinti, arriva critico Philippe Daverio
Vita, 4 maggio 2007
È iniziata la mostra a Treviso dei lavori pittorici realizzati dai giovani detenuti del carcere minorile, che verranno esposti fino al prossimo 24 giugno. A tenere a battesimo le opere dei minori detenuti il noto critico d’arte Philippe Daverio che ha accolto con entusiasmo la proposta lanciata dai promotori, le associazioni Italca e Emergenze Oggi. Daverio negli anni ‘90 a Milano è stato assessore e si è occupato dell’universo penitenziario. La mostra rappresenta un viaggio alla scoperta di se stessi che i giovani detenuti di Santa Bona mettono allo scoperto dandogli forma e colore. Protagonisti anche due giovani ospiti che hanno ricevuto un premio speciale ad un concorso nazionale di poesia a cui hanno partecipato grazie alle collaborazioni con la scuola. La sezione maggiore della mostra, di cui in carcere è stato proposto un assaggio, è allestita in Casa dei Carraresi. Genova: un "braccialetto elettronico", ma per chiedere aiuto
Secolo XIX, 4 maggio 2007
Le reazioni al piano del Sindaco. Sì dei consumatori. Il questore: più uomini e mezzi. Italdata: proposta inedita, tecnicamente possibile. La sicurezza degli anni Duemila ha bisogno dell’elettronica. Non è un caso che la cooperativa dei tassisti genovesi abbia investito 350 mila euro per il nuovo sistema di controllo satellitare delle auto (sarà introdotto a settembre su 700 taxi), e che i conducenti dei bus Amt, per fare un altro esempio, già adesso schiacciando un pulsante del cruscotto siano in grado di chiedere aiuto alla propria centrale operativa e da lì estendere l’Sos alle forze di polizia (presto i mezzi con il sistema di videosorveglianza saliranno da dieci a cento). Il nuovo sindaco Marta Vincenzi venerdì ha rilanciato: chi ha paura avrà un braccialetto collegato con polizia e carabinieri, basterà schiacciare un tasto e arriveranno i soccorsi. È una proposta rivolta a donne, anziani soli, soggetti deboli e lavoratori notturni. Praticabile? "Favorevoli senza se e senza ma - si associa Furio Truzzi, presidente di Assoutenti, una delle principali associazioni dei consumatori - siamo fin da subito pronti a dare il nostro contributo allo studio delle modalità di attuazione". Mercedes Bo presidente genovese di Aied, l’Associazione italiana per l’educazione demografica, risponde con un "Perché no?" auspicando che "come nel caso delle telecamere di videosorveglianza, dall’altra parte ci sia qualcuno". La medesima preoccupazione anima il questore Salvatore Presenti e i sindacati della polizia. Il primo commenta: "Tutto quanto è possibile fare per aumentare la percezione di sicurezza dei cittadini mi trova favorevole. Certo è necessario aumentare il controllo del territorio con più uomini e mezzi. E credo che il piano voluto dal prefetto vada in quella direzione". Sulla stessa lunghezza d’onda è Roberto Traverso, segretario provinciale del Silp, uno dei principali sindacati di polizia: "Il braccialetto elettronico rischia di essere una ciliegina senza la torta. Prima di introdurre un sistema così sofisticato sarebbe necessario potenziare l’organico degli agenti. Attualmente le telecamere sulla città sono una novantina. Al di là delle ditte che lavorano in appalto, gli operatori che dovrebbero curarne la manutenzione sono quattro per tutta la Liguria. Il piano del prefetto va bene, ma i 50 agenti in più previsti sono operatori in attesa di assegnazione destinati a essere trasferiti. Bisogna lasciarli a Genova". Chi potrebbe utilizzare il braccialetto? Il sindaco Vincenzi ha precisato che "non potrà essere un sistema di massa" e che "dovrà essere ovviamente volontario e temporaneo". Tra le categorie di lavoratori a rischio, ben poche sono state in questi anni con le mani in mano: "Abbiamo atteso invano i contributi di Regione e Comune", attacca Valerio Giacopinelli, del coordinamento Taxi italiano. L’Amt commenta con favore la proposta: "Potrà essere nel caso un interessante completamento alle nostre dotazioni di sicurezza". Tra i curiosi si schiera Claudio Regazzoni, presidente dell’Auser: "Il braccialetto da solo non serve e abbiamo una lunga lista di richieste sul fronte della sicurezza per gli anziani". Come funzionerebbe e a che costo? In Italia sono poche le aziende in grado di rispondere. Tra le più qualificate c’è Italdata, del gruppo Finmeccanica-Elsag. Spiega l’amministratore delegato Roberto Boccacci: "Un braccialetto elettronico per i cittadini introdotto e distribuito da un ente pubblico è una proposta assolutamente inedita. Ma praticabile sul piano tecnologico". Gli esempi in corso di sperimentazione riguardano la gestione dei detenuti ai domiciliari (il progetto ha visto la diffusione di 375 braccialetti in cinque città italiane) e il controllo sanitario di particolari pazienti a rischio curati a casa. "In entrambi i casi, con qualche differenza, ci si avvale delle tecnologie di controllo satellitare Gps e di trasmissione dati Gprs. Ovviamente il braccialetto "obbligatorio"è di un formato diverso e non può essere rimosso. Tra l’altro Italdata è l’unica azienda in grado di attuare l’identificazione a distanza mediante impronte digitali. Utile quando l’apparecchio si scollega temporaneamente e deve essere riattivato con la garanzia che l’utilizzatore è lo stesso". Il costo di un braccialetto del genere? "Al momento è di qualche migliaia di euro. Ma, come nel caso dei telefonini, basta standardizzarne la produzione per ottenere prezzi notevolmente inferiori".
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