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Giustizia: Caritas; l'ergastolo è inutile, servono pene più miti
Redattore Sociale, 21 giugno 2007
"L’ergastolo è una pena inumana, che toglie all’uomo qualsiasi speranza e che contrasta con il principio costituzionale dell’umanità e della finalità della pena". Questa la premessa del confronto organizzato ieri da rifondazione comunista e da Antigone e dal titolo inequivocabile: "Per l’abolizione dell’ergastolo". Tanti gli ospiti, a partire dagli organizzatori, Arturo Salerni e Imma Barbarossa - rispettivamente responsabile carceri e responsabile area nuovi diritti del Prc -, poi Gennaro Santoro, Paolo Cento, Domenico Gallo, Patrizio Gonnella. Tutti in prima fila per ristabilire un principio che dovrebbe essere dato per scontato: la persona è il fine ultimo del nostro ordinamento e l’ergastolo priva il condannato proprio del suo status di persona. Una pena quella dell’ergastolo che già nel 1764 Cesare Beccaria definiva come "pena di schiavitù perpetua più dolorosa e crudele della pena di morte in quanto non concentrata in un momento ma estesa per tutta la vita". Oltre a tutto questo la consapevolezza, la certezza che la gravità della pena, oltre un certo limite, non ha nessuna efficacia preventiva. Un’efficacia che è invece assicurata dal restringimento delle aree di impunità e dalla rapidità del processo. È per questo che l’impegno di rifondazione, oltre all’abolizione dell’ergastolo, si orienta verso la riforma del codice penale in larga parte ancora imbrigliato entro le secche del Codice Rocco del 1930. Molto tempo è passato da allora. E molte cose sono cambiante. Un primo importante passo è stato fatto attraverso la costituzione ed i lavori della Commissione di riforma del codice penale che, grazie al prezioso lavoro di Giuliano Pisapia, ha disegnato un nuovo codice in cui la galera diventi extrema ratio per quei reati più gravi. Un modo per non vanificare l’indulto e per non tornare a parlare di nuovo sovraffollamento carceri in men che non si dica. Tra gli ospiti relatori del dibattito di ieri c’era anche Don Andrea La Regina, responsabile solidarietà sociale della Caritas italiana. Un impegno il suo che affronta con passione e dedizione.
Don Andrea, perché "mai più ergastolo"? Io credo che ci siano motivazioni di varia natura. In primo luogo l’attenzione che dobbiamo alla persona. La nostra costituzione al riguardo parla chiaro: il rispetto della persona umana è al centro di tutto ed in questo quadro è impensabile che esista ancora una pena come l’ergastolo che nega qualsiasi possibilità di vita futura. Un "personalismo" che appunto troviamo anche nella nostra Carta. Ed allora noi dobbiamo ritrovare quello spirito costituente quell’accordo tra culture diverse che ristabilisca il principio della persona non come mezzo ma come fine ultimo.
Senza contare che gli istituti di pena sono ben lontani da quelle politiche di reinserimento che dovrebbero perseguire... Certo, lo stato delle carceri italiane è noto a tutti. Noi dovremmo avere la consapevolezza che la detenzione dovrebbe servire innanzi tutto a reinserire le persone evitando qualsiasi forma di esclusione. Invece il carcere è diventato un luogo inumano in cui la missione originaria di reinserimento ed educazione è venuta meno.
In che modo si avvia questo percorso di cambiamento? Io credo che la società dovrebbe fare uno sforzo di riconciliazione. Io non credo che il dolore delle vittime e dei familiari venga rispettato solo se condanniamo i responsabili con pene dure. La società dovrebbe mettere i detenuti ed i responsabili di reati in una condizione di reinserimento attraverso una pena che apra al futuro e che dia una possibilità di futuro a chi ha sbagliato.
Ultimamente i media italiani dipingono il Paese a tinte forti: emergenza criminalità, emergenza immigrazione e così via... È vero, io credo che i media in generale abbiano una responsabilità molto importante. C’è un’emergenza criminalità che non va calcata. In un contesto del genere i media che devono affrontare le questioni in modo non emotivo. Non è un clima securitarista che assicura la sicurezza. Queste sono solo scorciatoie che semplificano ma non risolvono i problemi.
E a suo avviso come si risolvono questi problemi? Io credo che quando lo stato sociale non riesce a dare risposte, allora è molto facile cadere nel tranello del giustizialismo. Mi spiego: quando il nostro sistema di assistenza sociale fallisce, si ha la tentazione di trasformare i problemi sociali in problemi di ordine pubblico, di sicurezza e di giustizia.
E invece? E invece a questa ondata giustizialista e a questa ondata emotiva bisogna contrapporre l’idea di un diritto penale mite. Pene certe ma brevi. Non possiamo eludere i diritti dei detenuti, della persona detenuta, né il senso di giustizia delle vittime e la sicurezza dei cittadini. Ma questo non vuol dire accanirsi contro chi ha commesso reato. Noi dobbiamo lavorare sull’opinione pubblica per spiegare che pene lunghe non equivalgono a maggiore sicurezza. Giustizia: Lumia (Ds); abolizione ergastolo è un favore ai mafiosi
Agi, 21 giugno 2007
Nelle anticipazioni fornite sul progetto di riforma del codice penale elaborato dalla commissione Pisapia "ci sono elementi positivi e negativi" secondo il vice presidente della commissione parlamentare Antimafia, Giuseppe Lumia. "Fra gli elementi positivi - sostiene - ci sono quelli sul sequestro dei beni, sulla recidiva specifica, sulla prescrizione dei reati che si interrompe con l’avvio del processo, sulla minore discrezionalità nell’applicazione delle pene. Quello che non mi convince - prosegue - è l’abolizione dell’ergastolo: se fosse prevista anche per i reati legati alla mafia, pur essendo per formazione personale particolarmente attento alle esigenze di riabilitazione del detenuto, questa norma finirebbe per essere un favore troppo grande ai boss mafiosi. Non credo sia giusto, sarebbe un segnale molto pericoloso che si invia all’opinione pubblica ed ai componenti dei clan. Proprio ieri - ricorda Lumia - il procuratore Grasso ha lanciato un allarme per i troppi cavilli di cui si possono avvantaggiare i mafiosi con le attuali norme processuali, dobbiamo lavorare perché ne possano usufruire sempre meno, ed in questa direzione credo debba andare anche la riforma del codice. È anche da valutare con attenzione il contenuto della norma sul concorso esterno". Giustizia: sulla custodia cautelare il ministro è evanescente di Oreste Dominioni (Avvocato, Presidente dell’Unione Camere Penali)
www.radiocarcere.com, 21 giugno 2007
La carcerazione dell’indagato e dell’imputato è sempre stata definita dal pensiero democratico-liberale la "lebbra della procedura penale": un male che per esigenze di tutela della collettività si infligge all’individuo, di cui è ancora da accertare la responsabilità. Quando si abbia piena consapevolezza politica e giuridica di una così grave questione, si resta sorpresi che le questioni poste da Radio Carcere sul Riformista con la lettera aperta al Ministro della Giustizia abbiano ricevuto risposte evanescenti e del tutto disimpegnate rispetto a una realtà giudiziaria assai dura: a fronte di circa 16 mila detenuti definitivi, nelle carceri ci sono 14.875 detenuti in attesa del giudizio di primo grado. Il che vuol dire che la macchina penitenziaria lavora per metà all’esecuzione della pena e per metà a contenere nel carcere persone non dichiarate colpevoli neanche in prima istanza, la cui presunzione di innocenza non è stata ancora scalfita neppure da un primo giudizio pur non definitivo. Situazione profondamente inquietante sotto tutti i profili: giuridico, politico, sociale, etico. A fronte della quale chi pretende di iscriversi al ruolo dei riformatori non può restare insensibile né prospettare analisi banali. Il Ministro osserva che la custodia cautelare in carcere è riservata ai reati "allarmanti". Ciò non è esatto, in un duplice senso: è prevista anche per reati "non allarmanti"; è praticata per fatti che, quale che ne sia il titolo dell’incriminazione legale, nel concreto "non sono allarmanti". Non c’è dubbio che il Ministro della Giustizia non deve sindacare singoli provvedimenti di giudici, anche se questa alta regola di correttezza istituzionale è sempre più praticata, deplorevolmente, a corrente alternata: basta che un singolo provvedimento giurisdizionale insidi la politica perché scattino le più disinvolte e incontrollate recriminazioni. Non c’è dubbio, peraltro, che il Ministro della Giustizia deve valutare i fenomeni giudiziari, oggettivamente considerati, e da qui trarre elementi per iniziative politico-legislative di riforma quando i fenomeni denunciano una situazione dell’ordinamento che lede i diritti costituzionalmente garantiti degli individui. Il Ministro della Giustizia, prendendo spunto da un quesito di Radio Carcere, osserva: "è vero che possono esistere casi in cui soggetti arrestati vengono successivamente prosciolti. Ciò da un lato costituisce uno stimolo per operare in modo da ridurre il più possibile questi, ma dall’altro è un dato che dimostra come il sistema dei rimedi e delle garanzie funzioni ed è la riprova che il sistema giudiziario italiano è fondato sulla ricerca della verità e sul rispetto della giustizia". Non si comprende, francamente, in che cosa il Ministro riponga una tale fiducia consolatoria. Una volta che una persona indagata o imputata sia stata incarcerata e poi venga prosciolta, la lesione dei suoi diritti è avvenuta e non è più adeguatamente riparabile. Ciò che è necessario è impedire preventivamente la lesione. È su questo che un legislatore riformista si deve impegnare, sfidando anche le impopolarità e soprattutto rinunciando ad assecondare la tendenza perversa di nascondere dietro l’anticipazione della pena, l’incapacità ad organizzare la efficiente punizione dei reati accertati. Un vizio di antica memoria. Il Ministro dichiara che il suo dicastero è impegnato nell’elaborazione di proposte che, contro l’uso del carcere preventivo, diano maggior spazio alle misure alternative; ma avanza subito, beninteso, una cautela: "laddove possibile". Sarebbe davvero interessante conoscere queste proposte in elaborazione. Sinora ciò che si conosce è un ricco coacervo di proposte di segno del tutto opposto, congegnate sotto l’idea dell’autoritarismo giudiziario e delle ormai più viete concezioni della funzione giudiziaria. È tutt’altro che difficile, per la verità, individuare la traccia delle modifiche legislative idonee a contenere una prassi giudiziaria esorbitante e ad affermare in modo concreto l’extrema ratio della custodia in carcere del giudicabile: rendere per legge marginale il ricorso a questa, restringendone drasticamente i presupposti. La "paura" che il Ministro ipotizza per sé dovrebbe in effetti essere già un suo "patrimonio" per una assai più forte sollecitudine verso la tutela dei diritti delle persone. Giustizia: custodia cautelare; il divario tra la norma e la prassi di Carlo Nordio (Sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia)
www.radiocarcere.com, 21 giugno 2007
Un grande filosofo diceva che i problemi più gravi tra due contendenti non nascono quando uno ha ragione e l’altro torto, ma quando hanno ragione tutti e due. Non è un caso raro in tema di giustizia. Ad esempio, i politici citati nelle intercettazioni di Consorte hanno ragione a lamentarsi della violazione dei loro diritti elementari. Ma i magistrati hanno altrettanta ragione nell’aver depositato le trascrizioni, atto dovuto siccome imposto dalla legge. Il difetto sta, come si dice, a monte, cioè nel sistema. Lo stesso può dirsi della risposta del Ministro Mastella alle sacrosante critiche sull’uso, e talvolta l’abuso, della custodia cautelare. Il guardasigilli non poteva infatti dire diversamente da quanto ha detto: che si tratta di un male necessario, che non è suo compito sindacare i provvedimenti dei magistrati, che l’errore è fisiologico alla stessa attività giurisdizionale, e che semmai occorre ridurre i tempi dei processi. Quest’ultimo punto ci riconduce alla vera sostanza del problema. La custodia preventiva è come la pena: svolge una funzione ufficiale e una ufficiosa, ubbidisce a regole scritte e ad altre non scritte. La pena, ad esempio, dovrebbe servire in parte a retribuire, in parte a prevenire, in parte a emendare, o come dice la Costituzione, a rieducare. Questa sua caratteristica polifunzionale si legge nei trattati di diritto e nelle sentenze della Cassazione. In realtà essa serve anche ad altro, cioè a placare l’allarme sociale. Detto in termini brutali, mira a saziare quella sete di giustizia, se non proprio di vendetta, che le vittime e gli stessi cittadini percepiscono dopo la commissione del reato, con la perniciosa tentazione di farsi giustizia da sé. La carcerazione preventiva è uguale. La sua "ratio" risiede nei concetti esposti dal Ministro. Ma è solo la ratio ufficiale, formale, normativa. In realtà nel nostro sistema sanzionatorio, sgangherato e virtualmente fallito, essa è un’anticipazione di quella pena che non sarà mai applicata, o lo sarà in modo iniquo, perché intollerabilmente tardivo. Intendiamoci. Nessun giudice razionalizzerà questo suo convincimento nell’atto di decidere una cattura, e tantomeno lo scriverà in motivazione. Egli sarà intimamente convinto di seguite i tre criteri canonici enunciati dal codice. Ma qualsiasi magistrato anziano sa bene che, in modo conscio o inconscio, questo tarlo si insinua nella sensibilità del giudice,che ci pensa sempre anche se non ne parla mai. Se queste sono le cause, i rimedi sono consequenziali: rapidità dei processi, riducendo l’intervallo tra reato e sentenza definitiva, e collegialità nelle competenze dei provvedimenti cautelari. Il primo obiettivo è quasi metafisico. Con tutto il rispetto per il Ministro, è quantomeno utopistico accelerare le indagini e i dibattimenti per decreto. Per le prime un termine esiste già, e non è mai quasi mai rispettato. Per i secondi si porrebbero gli stessi problemi,che sono squisitamente matematici. I tempi infatti sono lunghi perché i fascicoli sono tanti,i mezzi pochi,e l’azione penale è obbligatoria. Se non si cambiano i fattori di questa frazione tutto resterà sempre com’è. Ma poiché i mezzi non ci sono,e nemmeno ci saranno in futuro, o si riducono i reati, con una fortissima depenalizzazione,o si rende discrezionale l’azione penale. Oltre che,naturalmente, semplificare le procedure. Ma ho l’impressione che su questi tre fronti non ci sia nulla di nuovo e significativo. Il secondo obiettivo è più raggiungibile. La custodia cautelare, proprio perché è eccezione alla presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo. È vero che poi interviene il tribunale del riesame. Nondimeno, anche a prescindere dal condizionamento rappresentato da un provvedimento preesistente, l’intervento collegiale può rimuovere il danno futuro, ma non quello già ingiustamente patito. Più ragionevole sarebbe dunque spostare la competenza dal GIP ad una sezione costituita presso la Corte d’Appello, con competenza distrettuale. Avremmo enormi vantaggi: una maggiore professionalità dei giudici, una minore contiguità con i pubblici ministeri,una omogeneità di trattamenti e di criteri, un recupero di risorse,e uno snellimento di burocrazia. Ma anche questi restano sogni. Giustizia: gli avvocati penalisti in sciopero dal 3 al 5 luglio
Ansa, 21 giugno 2007
Tre giorni di astensione dalle udienze, il 3, 4 e 5 luglio, in concomitanza con l’approdo nell’Aula di palazzo Madama del Ddl Mastella sull’ordinamento giudiziario, per protestare contro il metodo e il merito con cui il Parlamento sta procedendo all’esame della riforma della giustizia. È quanto deciso oggi dalla giunta dell’Unione Camere Penali Italiane, in stato di agitazione da una settimana con una delibera urgente in cui si ribadiscono i motivi di insoddisfazione verso i parlamentari e il Guardasigilli Clemente Mastella, rispetto a un modo di agire che denota secondo i penalisti un "totale appiattimento sulle posizioni della magistratura associata". "Sia il testo originario depositato in commissione Giustizia - si legge nella delibera- sia le ipotesi di modifica ventilate, si muovono all’interno di logiche dirette a sacrificare ogni seria prospettiva di una riforma democratica e liberale della giustizia. Una trattativa che continua a svilupparsi secondo un modello sindacale, ed è deplorevole che temi quali quelli dei valori costituzionali in gioco siano confinati a mediocri discussioni corporative". Quanto a Mastella, la delibera rileva che il Guardasigilli "ha giocato e sta giocando un ruolo del tutto appiattito sulle posizioni della magistratura associata, quasi ne dovesse essere il portavoce". Per discutere eventuali ulteriori iniziative di protesta l’Ucpi ha convocato contestualmente all’astensione dalle udienze, l’assemblea nazionale dei penalisti italiani prevista a Roma per il 3 luglio. Polizia Penitenziaria degli Uepe: un comunicato del Casg
Comunicato stampa, 21 giugno 2007
Incontro nazionale degli Assistenti Sociali degli Uepe, il 21 giugno 2007 alla Camera dei Deputati. Il Consiglio Nazionale del Coordinamento Assistenti Sociali della Giustizia (Casg), invia la propria adesione all’iniziativa e nell’augurare buon lavoro auspica che la stessa possa contribuire a mantenere alta l’attenzione del mondo politico e sindacale sulle ragioni del dissenso che si è creato sulla sperimentazione che vedrà impegnata la polizia penitenziaria nel controllo dei sottoposti alle misure alternative. Anna Muschitiello, segretaria nazionale, ribadisce le posizioni sin qui espresse dal Casg e condivise dalla gran parte degli operatori degli Uepe. Per il Casg, non esistono provvedimenti normativi che lo consentono; le leggi esistenti agli art. 47 O.P. e art. 118 del nuovo regolamento di esecuzione lo escludono esplicitamente; non è possibile modificare una legge attraverso un decreto non avente natura delegata; non è accettabile presentare sotto forma di sperimentazione un modo di operare che - almeno per l’affidamento in prova - altererebbe in modo determinante il tipo di trattamento previsto dalla normativa; le misure alternative funzionano da oltre 30 anni con un tasso di recidiva bassissimo (come dimostrato da statistiche e ricerche); i costi per la collettività aumenterebbero in modo notevole perché non si tratta di aumentare solo il numero di poliziotti sul territorio (dato che può risultare utile ai fini preventivi generali) ma, si tratta di un nuovo corpo di polizia che si aggiunge a quelli già presenti. Conseguentemente sarà necessario prevedere mezzi, strutture organizzative, supporti tecnici completamente nuovi; esiste il rischio di spostare l’attenzione prevalentemente sul controllo penalizzando politiche che favoriscano l’inclusine sociale dei condannati. Sempre Anna Muschitiello, evidenzia come parte delle obiezioni espresse dal Casg fossero fondate, tanto da produrre una battuta d’arresto nell’avvio della sperimentazione e la ricerca di un accordo con il Ministero dell’Interno per l’emanazione di un decreto interministeriale. Se sperimentazione deve esserci, continua Anna Muschitiello, deve esclusivamente avvenire per quelle misure per le quali l’intervento delle autorità di pubblica sicurezza presenti sul territorio è espressamente previsto dalla legge e risulta funzionale rispetto alle esigenze tipiche della misura: ad es. i detenuti domiciliari; i nuclei che dovrebbero essere coordinati dai Prap, dipendano funzionalmente da questi e siano allocati in strutture esterne agli Uepe, affinché sia chiaro che la Polizia Penitenziaria va a sostituirsi alla Polizia di Stato e ai Carabinieri, senza alcuna confusione tra operatori dell’inclusione, quali gli assistenti sociali e operatori di polizia. La Segretaria nazionale sottolinea come che gli assistenti sociali non nutrano alcuna idea preconcetta nei confronti del personale di polizia penitenziaria, non hanno dubbi sulla loro professionalità e competenza, né ritengono che questi debbano svolgere solo funzioni di supporto all’attività degli assistenti sociali, funzioni che potrebbero essere tranquillamente svolte da personale civile, previsto ma mai assunto, ma è importante che per risultare le funzioni di entrambe le figure professionali utili ed efficaci, debbano essere ben distinte. In vista della riforma del codice penale e del sistema sanzionatorio, sarebbe importante predisporre un sistema organizzativo dei servizi, articolato e coerente con tali riforme nel rispetto della norma costituzionale e delle raccomandazioni europee. Lettere: detenuti da varie carceri scrivono a Riccardo Arena
www.radiocarcere.com, 21 giugno 2007
Federico, dal Centro Clinico del carcere Don Bosco di Pisa "Caro dott. Arena, fino a poco tempo fa mi trovavo in detenzione domiciliare a causa del mio grave stato di salute. Sono infatti invalido all’85% e quindi necessito di cure fuori dal carcere. Un bel giorno, nonostante il mio ottimo comportamento, mi hanno riportato in carcere. Il Motivo secondo il magistrato di sorveglianza è che se potevo andare in ospedale allora tanto male non stavo. Tre righe e per me di nuovo galera. Fino ad oggi mi hanno fatto tantissime perizie mediche. Tutte affermano la mia incompatibilità col carcere. Ma ciononostante il magistrato di sorveglianza non vuole concedermi la detenzione domiciliare. A questo punto non mi rimane scelta che protestare civilmente e in modo non violento con lo sciopero della fame. Lascio nelle mani di radio Carcere questa mia lettera e la mia ingiustizia".
Maurizio, dall’Opg di Aversa "Caro Riccardo mi chiamo Maurizio e sto in uno di quegli inferni sulla terra chiamati manicomi. Manicomi criminali. Io mi trovo in quello di Aversa e dovreste vedere con i vostri occhi come stiamo messi. Il magistrato di sorveglianza aveva disposto il mio ricovero presso una struttura ospedaliera e di punto in bianco mi sono trovato nell’inferno dell’Opg di Aversa. Io ho 44 anni e sento che giorno dopo giorni qui dentro mi stanno levando la salute. Siamo in 330 dentro l’Opg di Aversa.. 330 internati tutti ammucchiati. Adesso mi minacciano di trasferirmi nel braccio nuovo, come lo chiamano loro. Il fatto è che è un pezzo di carcere isolato dove tutto è possibile… aiutami tu Riccardo".
Giuseppe, dal carcere di Belluno "Caro Riccardo la situazione qui nel carcere di Belluno si fa sempre più difficile. Dopo il suicidio avvenuto il 31 marzo di un nostro compagno, un altro ha tentato di ammazzarsi per la disperazione. È accaduto a un ragazzo che sta in cella proprio davanti alla mia. Io l’ho visto che si metteva una cosa intorno al collo. L’ho visto che si stava impiccando. Ho iniziato ha chiedere aiuto e soprattutto ho provato a parlare con quel ragazzo, magari dicendogli cose che non si potevano verificare. Alla fine, per fortuna, quel ragazzo è stato salvato. Ma resta grave la situazione qui nel carcere di Belluno. Pensa, per dirtene una, che la domenica sera non ci danno da mangiare. Sembra incredibile ma è così. E se uno di noi chiede qualcosa gli rispondono che il regolamento del carcere non prevede cena la domenica. Sono 4 anni che sto in carcere e mi mancano solo 11 mesi. Ho chiesto una misura alternativa, ma non mi hanno risposto. Ho chiesto un trasferimento nel carcere di Varese e non mi hanno risposto. Infine Riccardo, devi sapere che anche nel carcere di Belluno non vogliono che noi detenuti scriviamo a Radio Carcere. Spesso le nostre lettere spariscono. Spesso ci è fatto capire che la cosa non è gradita. Ultimamente il magistrato di sorveglianza mi ha rigettato la liberazione anticipata affermando: "il condannato ha mantenuto una condotta formalmente regolare, tuttavia si rileva che il condannato si è fatto notare per attività di sobillatore e di altri detenuti". Questo è. Grazie, grazie di cuore per quello che fai".
Tullio, dal carcere Rebibbia di Roma "Caro Arena, anni fa sono stato arrestato in Australia con un chilo di droga. Lì mi hanno fatto un processo e sono stato condannato a 10 anni di carcere, con la possibilità di uscire dopo 7 anni se mi fossi comportato bene. Entrato nelle brutte carceri australiane ho chiesto in base alla convenzione di Strasburgo di poter scontare la mia pena in Italia. Dopo 3 anni che ero in Australia ho ottenuto il trasferimento in Italia per l’esecuzione della pena. Come sai la convenzione di Strasburgo vieta al giudice del tuo paese di applicarti una pena più grave rispetto a quella inflitta nel paese straniero. Bene, in base a questo principio la Corte d’Appello italiana, ratifica la sentenza australiana affermando che dovevo scontare una pena residua per detenzione di stupefacenti… quindi senza aggravanti. Dopo un po’ che ero detenuto in Italia è arrivato l’indulto. A quel punto, non avendo reati ostativi, ne ho fatto richiesta. E la sorpresa è stata questa: la corte di Appello di Roma me lo ha rigettato dicendomi che nel mio caso c’era l’aggravante dell’ingente quantitativo! Ma come quando sono arrivato in Italia l’aggravante non c’era e ora che chiedevo l’indulto l’aggravante c’è? È giusto tutto questo? Grazie per l’attenzione ti ascolto sempre con grande piacere e stima". Puglia: nuove azioni di sistema per soggetti in esecuzione penale
Redattore Sociale, 21 giugno 2007
Un workshop per raccogliere attorno ad un tavolo tutti i soggetti che si occupano in Puglia di inclusione sociale collegata ai circuiti penali. Si è aperto così a Bari il progetto Asis, azioni di sistema per l’inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale, iniziativa interregionale di contrasto all’esclusione sociale che coinvolge le 6 regioni del Mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia). Il progetto, cofinanziato dal fondo sociale europeo nell’ambito del Programma Operativo Nazionale "Sicurezza per lo sviluppo del Mezzogiorno", mira alla creazione di una rete stabile di soggetti, un tavolo permanente di concertazione interistituzionale, per il raccordo sinergico degli interventi di contrasto all’esclusione sociale sul territorio regionale, al fine di migliorare la qualità degli interventi e dei servizi mirati al reinserimento sociale dei detenuti ed ex detenuti, nonché di tutti i minori e adulti sottoposti a misure alternative alla detenzione, nell’area penale esterna. "Compattare il fronte interistituzionale nella lotta all’esclusione sociale significa costruire reti di legalità, diffondere la cultura della prassi operativa concertata, unica modalità che non solo può contenere il rischio della diffusione dell’illegalità, ma può contribuire alla crescita di cittadini e cittadine responsabili. Ricostruire percorsi di inclusione sociale e inserimento lavorativo per detenuti ed ex detenuti rappresenta, inoltre, l’unico vero deterrente al rischio di recidiva che, anche con la recente esperienza dell’indulto, è sempre dietro l’angolo " è il commento di Elena Gentile, assessore regionale alla solidarietà sociale che parteciperà all’incontro di domani. "Quella del workshop non è un’iniziativa isolata - preannuncia la stessa Gentile. La Giunta Regionale è in procinto di approvare un protocollo di intesa tra Regione Puglia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziale del Ministero della Giustizia, per lo sviluppo di azioni sinergiche in favore di nuovi servizi e percorsi per l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo di detenuti, ex detenuti e sottoposti a misure alternative alla detenzione nel circuito penale". Al workshop seguirà un corso di formazione specialistico che coinvolgerà tutti i soggetti del tavolo permanente, assicurandone omogeneità di contenuti e modalità partecipata di lavoro in rete. L’incontro regionale di giovedì prossimo traccerà le linee programmatiche di un percorso articolato che coinvolgerà le amministrazioni penitenziarie, le Prefetture con gli Uffici territoriali di governo, gli enti locali e i soggetti del terzo settore. Al workshop hanno partecipato Gaspare Sparacia, Provveditore Regionale, il Prefetto di Bari Carlo Schilardi, l’Assessore regionale Elena Gentile, il sindaco di Bari Michele Emiliano, Onofrio Sisto vicepresidente della provincia di Bari, Giuseppe Illuzzi presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bari, Luigia Mariotti Culla, responsabile del progetto Asis del Ministero della Giustizia, Daniele Petrosino dell’Università di Bari. In conclusione della giornata si è svolta una tavola rotonda per la presentazione delle buone pratiche a livello regionale. Imperia: su 110 detenuti 96 sono stranieri, alto rischio di rivolte
Secolo XIX, 21 giugno 2007
La casa circondariale di via Agnesi a Imperia è nuovamente stracolma, al collasso. Ogni giorno, tanto è alta la densità (in alcune celle sono rinchiusi in quattro), rischia di esplodere. E la rivolta sembra imminente. L’altra sera una pattuglia dei carabinieri è stata chiamata a intervenire su richiesta di alcuni abitanti della zona, in particolare di via Agnesi e via Magenta. Dal penitenziario proveniva un preoccupante frastuono, rumori di ferraglia, urla e schiamazzi, che hanno fatto temere una rivolta. I militari si sono precipitati sul posto e hanno potuto constatare che si trattava dell’ennesima manifestazione di intolleranza da parte dei reclusi. Hanno lanciato le ciotole del cibo, bruciato alcune lenzuola, distrutto le suppellettili, sbattuto oggetti contro le inferriate e le porte, imbrattato le celle. Inoltre, alcuni extracomunitari, sarebbero riusciti anche a far saltare l’erogazione della corrente elettrica, procurando un corto circuito e rendendo così ancora più precaria l’azione da parte degli agenti di polizia penitenziaria. I fatti - tutti piccoli o grandi segnali di allarme e inquietudine - sono stati denunciati alla procura della Repubblica di Imperia dai responsabili della casa circondariale. Indagini sono in corso, da parte degli agenti, coordinati dalla procura stessa. Ma al momento non è stato possibile risalire ai responsabili identificandoli con estrema certezza. Resta il fatto che gli "avvisi" di una situazione esplosiva da tempo si registrano, così come anche gli episodi di intolleranza. inquieta soprattutto il fatto che ci sia chi abbia trovato il sistema per disattivare l’erogazione della corrente elettrica procurando un corto circuito. Sino a qualche anno fa gli agenti di polizia penitenziaria potevano agire di loro iniziativa, separando detenuti o ricorrendo alle celle di isolamento. Ora il regolamento non permette più procedure che non siano autorizzate dalla magistratura. La casa circondariale di Imperia è stata completamente ristrutturata al suo interno di recente. I lavori hanno consentito di rendere moderne e accoglienti tutte le celle, nonché di fornire una serie di nuovi servizi. Migliorata anche la sicurezza. Ora all’interno sono state sistemate telecamere che permettono un completo monitoraggio. Il sovraffollamento di Imperia, comunque, non è una novità: negli anni ‘80 e ‘90 l’istituto aveva già raggiunto quota 100 detenuti. Ferrara: morte di Federico Aldrovandi, 4 poliziotti sotto processo
La Repubblica, 21 giugno 2007
Gli agenti chiamarono i soccorsi in ritardo, ingaggiarono una colluttazione con un ragazzo steso a terra "eccedendo i limiti del legittimo intervento", non si fermarono nonostante lui urlasse di fermarsi e "lo mantennero, ormai agonizzante, in posizione prona, ammanettato, rendendone difficoltosa la respirazione". La scena di un pestaggio mortale. Sono quattro i poliziotti della questura di Ferrara che dovranno andare a processo, il 29 ottobre, per la morte di Federico Aldrovandi, spirato a 18 anni la notte del 25 settembre 2005 dopo un intervento della polizia. Una morte diventata un caso nazionale, e poi un’inchiesta, grazie al "blog" aperto da Patrizia Moretti, la mamma del ragazzo. Dice, la richiesta di rinvio a giudizio, che i quattro agenti delle "volanti" hanno ecceduto "i limiti dell’adempimento di un dovere, un eccesso colposo che ha cagionato, o comunque concorso a cagionare" il decesso di Federico. L’accusa è omicidio colposo e i poliziotti, intervenuti allora per la segnalazione di un ragazzo a terra, molto agitato, "picchiarono Federico - scrive ancora il Pm - in diverse parti del corpo facendo uso di manganelli, due dei quali rotti". Secondo la difesa, invece, non c’erano le condizioni per arrivare al rinvio a giudizio "e le perizie medico-legali hanno evidenziatola mancanza del nesso causale fra l’azione degli agenti e la morte del giovane". Per il sottosegretario all’Economia Paolo Cento il rinvio a giudizio "è una buona notizia: ora aspettiamo la verità su quel terribile omicidio".
Il padre: una vittoria della giustizia. ma non riesco a essere felice
È Lino, il padre di Federico Aldrovandi, a parlare dopo la sentenza. Perché la madre è "crollata", dopo mesi a urlare per ottenere giustizia ora cerca un po’ di silenzio.
Come vi siete sentiti in aula? "Per prima cosa ho dato un bacio a Stefano, il figlio che ci resta. Poi ho guardato negli occhi mia moglie, e ho visto che era serena. È una vittoria per la giustizia. Ma non riesco a provare gioia, perché Federico non c’è più".
Che sentimenti nutre nei confronti degli agenti? "Lavoro nella polizia municipale, quando uno rappresenta lo Stato, dovrebbe comportarsi con serietà, umanità, professionalità. Quegli individui non l’hanno fatto. E, ancora più grave, nessuno ci ha mai fornito spiegazioni. È morto un ragazzo, e loro hanno fatto finta di niente".
Li perdona? "Se ci avessero chiesto scusa, non avremmo potuto scagionarli, ma perdonarli, probabilmente sì. Ora è tardi".
Ha dubitato delle istituzioni? "All’inizio è stata dura combattere contro un muro di omertà e silenzi. Ma ho sempre creduto nella forza dello Stato. Ho solo un po’ di rammarico se penso ai disgraziati che subiscono soprusi, perché per chi non ha possibilità economiche, cultura, amici, è difficile ottenere giustizia".
Il cambio di governo è servito a riaprire l’inchiesta? "Sì, è un dato di fatto. E lo dico senza dare giudizi politici. Siamo stati ricevuti da Bertinotti, che ci ha ascoltati con grande umanità. Il ministro dell’Interno Giuliano Amato, passando da queste parti, ha chiesto espressamente di parlare con noi. Ci ha ascoltati un’ora e ha detto "speriamo che anche un giudice guardi i documenti di questa storia come li ho guardati io". Sicurezza: il "Rapporto criminalità" del Ministero dell’Interno
Ministero dell’Interno, 21 giugno 2007
Il Rapporto sulla criminalità in Italia: diminuiscono gli omicidi, in aumento furti e rapine. Il ministro dell’Interno Amato ha presentato al Viminale i dati sull’andamento dei reati violenti e contro il patrimonio nell’arco di 40 anni. In un’ora densa di dati e spiegazioni, di fronte ai rappresentanti di stampa, radio, televisione, ed esponenti delle Istituzioni e delle Forze dell’ordine, il ministro dell’Interno Amato, affiancato dal viceministro Minniti, ha presentato ieri, al Viminale, il "Rapporto sulla criminalità in Italia - Analisi, Prevenzione, Contrasto". Presenti alla conferenza stampa anche il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Gianfrancesco Siazzu, il capo del Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero, prefetto Gianni De Gennaro, e il comandante generale della Guardia di Finanza, Cosimo D’Arrigo. Il rapporto, ha detto Amato, "misura il nostro Pil includendoci il sommerso", laddove il Pil del ministero dell’Interno sono i crimini, e il sommerso è rappresentato dai delitti commessi ma non denunciati. Proprio per "rendere il più trasparente possibile ciò che fanno coloro che commettono reati, per mostrare al Paese le carte con cui abbiamo a che fare", ha detto Amato parlando delle caratteristiche del Rapporto, esso presenta i dati sui reati denunciati e le stime su quelli non denunciati. Il senso del documento, ha proseguito il ministro, è quello di analizzare i fenomeni legati alla criminalità in un contesto di lungo periodo - dal 1968 al 2006 - più idoneo per valutare se le variazioni registrate indicano o meno un diverso trend, e per interpretarle correttamente. "L’andamento degli omicidi dall’inizio del ‘90 ad oggi non fa che essere calante", ha osservato Amato, ma questo dato viene cancellato dall’impatto emotivo che hanno sull’opinione pubblica gli episodi criminosi che avvengono, per esempio, a Napoli. L’importanza di valutare con obiettività i dati che emergono dal Rapporto è un concetto su cui il ministro dell’Interno è tornato più volte nel corso della conferenza stampa, soprattutto riguardo al delicato tema immigrazione-criminalità. Come aveva già avuto modo di sottolineare durante la web conference del 6 giugno scorso, Amato ha ribadito che "abbiamo assoluto bisogno di non fare un uso emotivo dei dati che porti all’identificare lo straniero con il criminale". A un 5% di immigrati regolari in Italia è ascrivibile, infatti, un tasso del 5% di criminalità, con un rapporto tra le percentuali pari a quello rilevabile per i reati commessi da cittadini italiani. La criminalità si concentra, dunque, per quanto riguarda gli immigrati, nel mondo degli irregolari, sia per i reati in violazione della normativa sull’immigrazione, che per i rati predatori, particolarmente frequenti nel Nord Est italiano, in ragione della concentrazione di ricchezza e della notevole presenza di flussi migratori clandestini anche "mordi e fuggi" dall’Est dell’Europa. Nel Nord d’Italia è, infatti, in crescita la percezione di una scarsa sicurezza, dovuta proprio all’incidenza di questo tipo di crimini, ed è maggiore il rischio che si diffonda l’equazione "straniero uguale criminale". A completare il quadro dei dati su immigrazione, in particolare clandestina, e criminalità che emerge dal rapporto, il ministro dell’Interno ha aggiunto che tre sono le nazionalità - rumena, albanese e marocchina - maggiormente responsabili di "fenomeni di criminalità vera", ribadendo comunque che "sarebbe fortemente irresponsabile identificarli con l’insieme degli immigrati". In leggero aumento, infine, risultano essere le espulsioni, 20 nel 2006 a fronte delle 15 nel 2005. L’espulsione, ha osservato Amato in risposta ad una domanda, rimane un valido strumento per far fronte al terrorismo internazionale, soprattutto di fronte alle attuali forme di associazione terroristica, che hanno la loro base in Internet e delineano nuovi contorni di un fenomeno che, ha detto Amato "è molto più esile e molto più forte". Più in generale, un dato impressionante che emerge dal rapporto è l’aumento dei reati "familiari", a fronte della significativa riduzione degli omicidi volontari, a partire dal ‘92, e di quelli ad opera della criminalità organizzata. Il fenomeno denota, ha osservato Amato, una situazione molto brutta, "di cui qualcuno si deve occupare". "Sono assolutamente sconvolto dal capitolo della violenza sulle donne, non solo sessuale", ha proseguito il ministro a proposito dell’aumento dei reati commessi nei confronti delle sole donne, come lesioni e maltrattamenti, il 62% dei quali commessi dal partner. Ulteriori dati sono poi stati forniti dal responsabile del Viminale a proposito del consumo di droga, in netto aumento stando ai quantitativi sequestrati, nei quali cresce, con quasi 5 tonnellate all’anno, la prevalenza della cocaina sull’eroina. In ripresa negli ultimi anni, invece, la criminalità legata a furti, soprattutto di auto e motorini, e rapine, soprattutto nel Centro Nord e in Campania. Oltre ad una sintetica panoramica sui dati contenuti nel Rapporto sulla criminalità, il ministro Amato ha parlato anche delle risposte concrete dello Stato, prima fra tutte quella rappresentata dai Patti per la sicurezza stipulati dal Viminale con le Città metropolitane. Ad oggi, grazie a questi accordi, sono stati messi a disposizione oltre 1.800 uomini, ha ricordato il ministro, con un grande impegno di risorse finanziarie e umane. Altra strategia che finora ha dato frutti, basata sulla collaborazione con altre realtà nazionali, è l’impiego di squadre investigative miste, per ora italo-rumene, che finora ha portato buoni risultati, come nella recente operazione "Icaro", grazie alla quale sono stati effettuati centinaia di arresti anche per la maggior conoscenza da parte dei poliziotti rumeni della loro realtà territoriale. Il ministro Amato ha, inoltre, annunciato che sulla base dei dati forniti dal Rapporto presentato oggi, sono da alcuni giorni allo studio con il Presidente del Consiglio una serie di misure ulteriori per far fronte al crimine e alla domanda di sicurezza.
I dati del Rapporto in breve
Diminuiscono gli omicidi, in aumento furti e rapine. Il Rapporto sulla criminalità in Italia, presentato oggi al Viminale dal ministro dell’Interno Giuliano Amato, analizza l’andamento dei reati violenti e contro il patrimonio nell’arco di 40 anni (dal 1968 al 2006). Negli ultimi anni il numero di omicidi è "notevolmente diminuito" fino a registrare il minimo storico nel 2005 (601 unità), per poi attestarsi a 621 nel 2006, un livello più basso del 2004 e di tutti gli anni precedenti. Interessante il caso Napoli. Dal Rapporto emerge che il 2006, diversamente dalla "immagine che è passata sui media", è "in realtà uno degli anni con i tassi più bassi" per quanto riguarda questo reato: 3,3% contro il 3,8% del 2005 e il 5,3% del 2004. Il Rapporto sulla criminalità in Italia 2006 è stato realizzato sulla base di un lavoro complesso, condotto con criteri scientifici e con la collaborazione del gruppo di lavoro che fa capo al Prof. Marzio Barbagli. La lettura e l’interpretazione dei dati che riguardano la criminalità richiedono maggiori cautele rispetto agli altri dati statistici, per diverse ragioni tra le quali l’alta percentuale di reati non denunciati. Il Rapporto tiene conto, laddove possibile, di questo "numero oscuro". È stata poi fatta una scelta di serietà scientifica analizzando la criminalità con uno sguardo di medio periodo, poiché i cambiamenti nella frequenza con cui avvengono i reati sono tendenzialmente lenti e spesso variazioni contingenti e modeste possono dare l’impressione di una crescita o di una diminuzione che invece risultano increspature di una tendenza. Solo nel lungo periodo - misurabile almeno in decenni - si stabilizzano dunque i trend e si possono apprezzare e misurare in modo metodologicamente consapevole linee di tendenza, oscillazioni, picchi e cadute. Due le fonti statistiche ufficiali di cui si dispone sull’andamento dei reati: la statistica prodotta dagli uffici giudiziari e riferita ai reati per i quali l’Autorità Giudiziaria ha iniziato l’azione penale e la statistica costituita dai reati denunciati alla Magistratura dalle Forze di polizia, tenendo presente che il vecchio sistema di trasmissione all’Istat dei dati relativi alle denunce sul modello 165 è stato sostituito, nel 2004, con il nuovo sistema di rilevazione SDI, acronimo di Sistema di Indagine, molto diverso e assai più efficiente e ricco di informazioni. Sicurezza: Amato; no all'equazione tra immigrato e criminale
Redattore Sociale, 21 giugno 2007
Amato: "La criminalità degli stranieri si concentra nel mondo della clandestinità non solo per quanto riguarda le violazioni delle leggi di contrasto all’immigrazione irregolare, ma anche per i reati predatori". "L’equazione tra immigrato e criminale è un esercizio profondamente immorale e incivile. La criminalità degli stranieri si concentra nel mondo della clandestinità non solo per quanto riguarda le violazioni delle leggi di contrasto all’immigrazione irregolare, ma anche per i cosiddetti reati predatori". Così il ministro dell’Interno, Giuliano Amato, nel corso della presentazione del Rapporto sulla criminalità in Italia, che si è svolta questo pomeriggio a Roma. La quota stranieri che commettono reati - si legge nel rapporto - è più alta rispetto all’incidenza della popolazione straniera nel suo complesso. Ma la stragrande maggioranza dei reati vengono commessi da stranieri irregolari, mentre quelli regolari hanno un tasso di delittuosità non molto diverso da quello della popolazione italiana. Anzi i dati sembrano perfettamente in linea: nel 2006, infatti, gli stranieri regolari denunciati sono stati quasi il 6% del totale dei denunciati in Italia, mentre gli stranieri regolari presenti in Italia rappresentano poco meno del 5% della popolazione residente. Inoltre, l’incidenza degli stranieri denunciati varia da reato a reato, anche per quanto riguarda quelli irregolari. Infatti, se le rapine in banca sono imputabili a cittadini stranieri solo ne 3% dei casi, gli immigrati rappresentano il 29% dei denunciati per truffe e frodi informatiche, il 45% per rapina o furto in appartamento e il 70% per i furti con destrezza, come i borseggi. Per quanto riguarda invece le nazionalità, le denunce più ricorrenti riguardano persone provenienti da Romania, Marocco e Albania soprattutto per alcuni tipi di reati, come ad esempio furti di autovetture, furti in abitazione e furti con destrezza. Un dato molto interessante riportato dal rapporto è l’emergere di collaborazioni sempre più consolidate tra organizzazioni criminali italiane e organizzazioni criminali straniere attive soprattutto nei settori del traffico di stupefacenti, dell’immigrazione clandestina, della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione. In particolare, il volano finanziario delle organizzazioni criminali a base etnica appare oggi costituito dal traffico di immigrati clandestini e dalla connessa tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo. Immigrazione: in 10 anni diminuiti gli sbarchi di clandestini
Vita, 21 giugno 2007
La "tendenza complessiva nel decennio" per quanto riguarda gli sbarchi di clandestini sulle coste italiane fa registrare una "riduzione: nel ‘98 i clandestini sbarcati erano stati 38.134, nel 2006 sono stati 22.016". È il Viminale a sottolinearlo nel rapporto sull’andamento generale della criminalità. "Stringendo il campo di osservazione agli ultimi anni - fa notare il ministero dell’Interno- si nota un forte incremento tra il 2004 e il 2005, quando si è passati da 13.635 clandestini sbarcati a 22.939 e un’inversione di tendenza l’anno successivo, il 2006, con una leggera riduzione" per un numero complessivo di 22.016 immigrati sbarcati. Nel primo trimestre del 2007 i clandestini arrivati via mare alle coste della Sicilia, della Puglia, della Calabria o della Sardegna, sono stati 1.652. È decisamente "più consistente", sottolinea il Viminale, la quota di coloro che entrano irregolarmente in Italia attraverso le frontiere terrestri. La maggior parte degli irregolari in Italia è costituita da stranieri entrati regolarmente e rimasti sul territorio oltre la scadenza prevista dal visto: i cosiddetti over stayers sono stati lo scorso anno "il 64% del totale degli irregolari, contro il 23% di coloro che hanno varcato fraudolentemente le frontiere ed il 13% dei clandestini sbarcati sulle coste". Per quanto riguarda i reati compiuti dagli immigrati "la netta maggioranza viene commessa da stranieri irregolari, mentre quelli regolari - nota il Viminale nel rapporto - hanno una delittuosità non molto dissimile dalla popolazione italiana". Quanto all’immigrazione regolare, nel 2006 erano in vigore circa 3 milioni di permessi di soggiorno. Droghe: Camera; carcere per chi guida sotto effetto di sostanze
Notiziario Aduc, 21 giugno 2007
Pene raddoppiate per chi guida in stato di ubriachezza e arresto per chi si mette al volante in stato di alterazione psico-fisica dopo aver consumato droghe. Sono le nuove norme introdotte dall’articolo 10 del ddl governativo che riforma il codice della strada, approvato ieri dall’aula della Camera. La maggioranza si è divisa su questo articolo con Prc, Verdi e Rosa nel pugno che hanno votato contro. La Cdl ha votato a favore, ad eccezione di Fi, che si è astenuta. L’articolo prevede che chi guida sotto effetto di droghe l’arresto fino a due mesi e un’ammenda da 500 a 2mila. Previsto, inoltre, il fermo amministrativo dell’automobile per 3 mesi, a meno che l’auto appartenga a una persona estranea a chi ha commesso il reato. In alternativa al carcere sarà possibile essere affidati ai servizi sociali, ad esempio, per assistere vittime di incidenti stradali. Chi guiderà da ubriaco, invece, sarà punibile con un’ammenda da 500 a 2.000 euro. Se il conducente ubriaco provoca un incidente stradale la pena è dell’arresto fino a due mesi e dell’ammenda da 1.000 a 4.000 euro, con sospensione della patente da tre mesi a un anno. La patente viene sempre revocata se l’incidente è commesso da conducenti di autobus che hanno alzato il gomito. Se il tasso alcolemico è superiore a 1,5 grammi per litro oltre alle ammende c’è l’arresto fino a tre o a sei mesi e la sospensione della patente da sei mesi a due anni. Multe ancora più salate per chi si sottrae all’accertamento del "palloncino": la sanzione è da 2.500 a 10.000 euro che salgono a 12mila se c’e un incidente.
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