Rassegna stampa 14 gennaio

 

Giustizia: pochi fondi per le "dimenticate dietro le sbarre"

 

L’Unità, 14 gennaio 2007

 

È l’altra faccia del carcere: quello "delle dimenticate dietro le sbarre". Ovvero le prigioni delle donne dove "si va avanti con pochi soldi e senza progetti di reinserimento". Un piccolo mondo nella galassia carceraria in cui non mancano problemi e sofferenze. I numeri elaborati dall’associazione Antigone poi parlano chiaro. Sono 1780 le detenute che, distribuite tra 5 carceri femminili e 59 sezioni scontano la pena dietro le sbarre.

Il 40% di loro sono immigrate e scontano condanne per reati contro il patrimonio oppure per aver violato la legge sull’immigrazione. Una situazione drammatica che non è migliorata, a sentire i volontari che si occupano di carceri, neppure dopo l’entrata in vigore dell’indulto quando le donne erano 2578, pari cioè al 4,6% della popolazione detenuta in tutta Italia. "Nonostante l’esodo di ottocento detenute,­ spiega Laura Astarita, volontaria di Antigone ­ la situazione generale non è cambiata e il problema non è stato risolto". Motivo? "C’è stato un taglio delle risorse del 30 per cento che si ripercuote sull’intero sistema".

Che tradotto vuol dire: meno detenuti, meno soldi e quindi minori iniziative per chi resta dentro. "A causa di una presenza così bassa, le donne in carcere sono una questione lontana, marginale nel marginale mondo del carcere. Non solo: per paradosso, soffrono dei mali cronici del sistema carcerario in maniera ancora più acuta. Sistema carcerario fatto dagli uomini, costruito sui bisogni e le caratteristiche del detenuto medio, maschio".

Un male che, a sentire la volontaria di Antigone che proprio su questo argomento ha realizzato il dossier "le dimenticate", accomuna l’Italia anche ad altri centri d’Europa dove la percentuale delle donne detenute passa dal 4,8% della Germania 4,8%, all’8% della Spagna 8%, al 6% dell’Ungheria 6%, Inghilterra e Galles, al 4% della Francia.

"Molti dei problemi che le donne, a differenza degli uomini, si trovano ad affrontare all’uscita dal carcere sono dovuti alla forte stigmatizzazione alla quale la società le sottopone ­aggiunge -. Si vuole una donna che risponda al ruolo storico che la tradizione le ha dato e che ancora nessuno le ha in fondo tolto del tutto: non si vuole reintegrare in un contesto sociale un’autrice abituale di piccoli furti, spesso tossicodipendente, magari prostituta e immigrata clandestina, o madre single poco capace di badare ai figli avuti in età troppo giovane.

Sì, perché è questo l’identikit della detenuta media in Europa". Per evitare poi che il carcere si trasformi in "un circolo vizioso di esclusione sociale", Laura Astarita aggiunge che "diventa essenziale promuovere un differente approccio alla considerazione del trattamento delle donne in carcere, promuovendo l’introduzione di un percorso di formazione specifico per il personale che opera nell’ambito della detenzione femminile".

Erba: il male nel "verde" settentrione, di Paolo Pillitteri

 

L’Opinione, 14 gennaio 2007

 

Le stragi non sono più di Stato (tanto più alla luce della sentenza di Cassazione sulla tragedia di Ustica). Da un po’ di anni, e secondo la sinusoide dello zeitgeist - lo spirito del tempo - vengono attribuite, prevalentemente agli albanesi, ai rom, agli extracomunitari. E, se del caso, al provvedimento dell’indulto. Ricordate la strage di Novi Ligure? La prima accusa per l’orrendo delitto nella villetta si rovesciò contro gli albanesi e ci furono le consuete manifestazioni con relative fiaccolate del popolo del Nord, in genere leghista, contro i nuovi criminali non appartenenti, per diritto di Dna padano-italico, alla categoria degli assassini. Poi, due giovanissimi padani, Erika e Omar, si scoprirono delinquenti e massacratori di mamma e fratellino e la faccenda degli albanesi fu rinviata. Alla prossima "strage". A Erba, ridente località lombarda, un paesino della Brianza - zona considerata gentilmente ed ecologicamente il cuore verde del Nord - ricco, lindo e tranquillo con una forte presenza della Lega, come tutto quel circondario fra Lecco e Como, è accaduta l’ultima, di strage. Puntualmente è scattata l’ora del tunisino assassino, per di più marito di una vittima, la moglie Raffaella e padre di un’altra, un bambino.

Per soprammercato, anche l’indulto fu chiamato in causa, e tutto il giustizialismo scattò all’unisono: contro il musulmano "drogato" e contro gli "scarceramenti facili che l’avevano agevolato nell’orrendo crimine". Le forti prese di posizione per una giustizia tanto rapida quanto inflessibile continuarono fino a quando venne alla luce l’impossibilità materiale del "tunisino" di compiere quel delitto. Dopo di ché iniziò la fase garantista, a cominciare dalla Lega, ma non solo. Cos’era accaduto? Adesso è lampante: gli autori della strage sono stati due del condominio, i vicini di casa, una coppia di brianzoli doc, ma sulle prime e nonostante l’insinuarsi dei sospetti e delle loro furibonde negazioni, il garantismo prese il posto del giustizialismo, dipingendo i due come brave persone, laboriose, discrete, incapaci di fare male a una mosca, con una "vita in disparte" (secondo "la Padania"). Curioso davvero questo doppiopesismo. Soprattutto, pericoloso e fuorviante e, comunque, produttore di un manicheismo incapace di fare i conti con quella vera caratteristica che unisce gli uomini, di qualsiasi colore, di qualsiasi nord/sud, di qualsiasi condominio: il male. Che alberga anche nel cuore verde del Nord.

Milano: detenuto malato di sclerosi finalmente trasferito

 

Gazzetta del Sud, 14 gennaio 2007

 

È stato trasferito in un centro per minorati fisici, in provincia di Bari, Gennaro, il detenuto malato di sclerosi multipla che da mesi aspettava una risposta dal Ministero della Giustizia in merito al ricovero, dopo che per tre volte il Tribunale di sorveglianza gli aveva negato gli arresti domiciliari.

Gennaro, condannato a 13 anni di reclusione per reati di camorra, fino a due giorni fa era detenuto a Opera. Per due volte, l’amministrazione del carcere aveva dichiarato la sua condizione fisica "incompatibile" con il regime carcerario. È infatti ridotto in sedia a rotelle, non risponde più alle terapie ed è praticamente cieco da un occhio.

Venerdì il suo legale, Alessandro Bonalume, ha visitato il suo assistito in carcere e solo allora ha appreso che Gennaro era stato trasferito a Turi, in provincia di Bari, su disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel centro per minorati fisici potrà ricevere per almeno sei mesi le cure che dovrebbero permettergli di "mantenere le funzionalità residue", come ha spiegato il suo legale, che si è detto "veramente contento della decisione".

Per l’avvocato, questo caso rappresenta "la punta di un iceberg" per quanto riguarda la condizione dei malati gravi in carcere. "Resta l’amarezza - ha proseguito il legale - nel pensare che sia stato necessario mobilitare il mondo dell’informazione per ottenere questo trasferimento"

Verona: Luigi Rotterdam, il Robin Hood dei "meniños de rua"

 

L’Arena di Verona, 14 gennaio 2007

 

Un tempo, quando c’era un’industria cinematografica in Italia, ne avrebbero fatto un film. Un instant-movie alla Carlo Lizzani, se fosse prevalso l’intento politico-documentaristico, una feroce commedia all’italiana, nel caso la chiave di lettura adottata fosse stata comico-grottesca o agrodolce, oppure una di quelle favole alla rovescia alla Cesare Zavattini.

Un tempo, perché oggi forse solo Carlo Mazzacurati, con il suo amore per i personaggi borderline, sfigati autori di rocambolesche e fallimentari imprese criminali, potrebbe raccontare la storia di Luigi Rotterdam, rapinatore di giorno e filantropo di notte. Piemontese di Gravellona Toce, una volta in provincia di Novara e ora in quella di Verbania, 58 anni, Rotterdam per il racconto della sua doppia vita deve oggi accontentarsi delle cronache dei giornali.

Di rapine in quattro decenni e più di carriera ne ha messe a segno un numero imprecisato. Quelle che sono state scoperte gli hanno fruttato 21 ordini di custodia cautelare e 32 anni di condanne, un quarto dei quali, otto per la precisione, gli erano stati inflitti il 5 giugno 1987 dal Tribunale di Verona, per due colpi, uno di 62 milioni delle vecchie lire a Rimini e l’altro di 17 milioni in marchi e sterline all’agenzia di viaggi Europlan di Garda. Aveva iniziato che aveva appena 17 anni. Ci prese così tanto gusto che ha continuato per il resto dei suoi giorni. Dentro e fuori dal carcere.

Magari per evasione. Come alla fine degli anni ‘80, quando si dileguò dal carcere di Prato, salvo essere ripreso dalla polizia elvetica in Svizzera nel settembre 1989. O come a febbraio dell’anno scorso, quando era riuscito a scappare da una casa di lavoro a Modena. Qualche giorno dopo i carabinieri lo avevano intercettato sul lago di Garda, sulla sponda bresciana, a bordo di un’auto, ma lui aveva innestato la quarta ed era scappato a manetta, finendo in un campo di grano dove aveva fatto perdere le tracce approfittando del buio di una notte senza luna.

Sulle sue tracce li aveva portati una donna, la stessa che poi, involontariamente, lo ha fatto catturare un mese fa a Livorno. Mentre passeggiava sulla spiaggia, con il vento che gli scompigliava i capelli e la risacca del mare copriva ogni rumore. Nel frattempo aveva messo a segno altre rapine, tra cui una a Carpaneto, in provincia di Piacenza, dove era stato riconosciuto grazie a un vistoso anello con la stella di David dal quale sembra non separarsi mai.

Fin qui la sua storia sembra uguale a quella di tanti altri malavitosi. A renderla diversa è la destinazione del bottino. Non in donnine e champagne, come nei cliché più classici del bandito di periferia, e nemmeno in gioco d’azzardo, come il "nostro" Gianpaolo Merlini, finito in manette il 29 dicembre dopo un fallito colpo alla Banca di Brescia di via Murari Bra.

E neppure a finanziare altri loschi affari, come fece la mala veronese all’inizio degli anni Ottanta, quando così (oltre che con i sequestri e i furti di opere d’arte) si procurò i capitali necessari ad entrare alla grande nel mercato internazionale della droga. No, questo bandito dal nome di una città olandese, i "suoi" soldi li ha destinati a fin di bene. Per finanziare un orfanotrofio a San Paolo del Brasile. Per togliere i "meniños de rua" dalle strade delle favelas.

Neanche fosse uno dei Blues Brothers. Chissà se al pari di "Joliet" Jake Blues (John Belushi) e di Elwood Blues (Dan Aykroyd) ha alle spalle anche lui un’infanzia tra gli orfani. Quel che è certo è che come loro ne ha combinato di tutti i colori pur di trovare i fondi necessari al sostentamento di tanti disgraziatissimi bimbi. Forse era solo un modo per lavarsi la coscienza. O forse, rubando alle ricche banche per dare ai più poveri del Terzo mondo, si sentiva un moderno Robin Hood. Una volta, mentre arraffava i soldi, alle sue vittime sorprese tutti dicendo infatti: "State aiutando dei bimbi poveri. Vi ringrazio da parte loro".

A fermarlo, quasi un segno del destino mancato, è stato un tenente dei carabinieri dal nome cinematografico: Rocco Papaleo. Come il personaggio interpretato da Marcello Mastroianni nel film di Ettore Scola Permette? Rocco Papaleo. O come l’attore di Lauria che è uno dei più apprezzati caratteristi del nostro cinema e della nostra televisione. Il tenente Papaleo, in servizio a Piacenza, si è messo sulle sue tracce dopo la rapina di Carpaneto.

"Cherchez la femme", si è detto. E non aveva torto. Ha perso Rotterdam a Desenzano, ma non ha mollato la presa. E infine l’ha pizzicato a Livorno. Durante le indagini aveva modo di vedere tanto la foto dell’istituto brasiliano quanto le matrici degli assegni staccati per il suo sostentamento. E quando se l’è finalmente trovato di fronte, si è sentito dire dal bandito dal cuore d’oro: "Adesso basta. La smetto con le rapine. Mi ritiro. E scontata la pena me ne andrò in Brasile dai miei orfani".

Anche contando sullo sconto dell’indulto, dovrà aspettare qualche anno, perché i conti in sospeso sono ancora tanti. Magari nel frattempo, per prepararsi, si prenderà un’altra laurea in scienze dei servizi sociali, da affiancare a quella in giurisprudenza che già si è presa durante le precedenti carcerazioni. Ma almeno, quando uscirà, saprà cosa fare. Sempre che i bilanci dell’orfanotrofio non vadano in rosso e non gli venga quindi di ricadere nel vizietto che l’accompagna da quando era poco più che ragazzo.

Libri: "La Pecora Nera & altri sogni", dal minorile di Nisida

 

Il Mattino, 14 gennaio 2007

 

"Un poco Nisida è l’isola del tesoro perché si fanno tante cose che io non ho mai fatto cioè lavorare, rispettare le regole, svegliarmi presto al mattino, lavare la mia stanza, andare a scuola e io tutte queste cose non le ho mai fatte". Le voci di dentro dei ragazzi e delle ragazze dell’Istituto Penale Minorile di Nisida raccontano soprattutto questo: non solo vite spezzate da dolori e violenze, non solo una realtà fatta di devianza, solitudine e abbandono, ma anche la scoperta di un tesoro prezioso trovato, paradossalmente, proprio nell’obbligo della reclusione.

Una vita alla rovescia, dove il "dentro" dell’istituto rappresenta la conquista di uno spazio di normalità (il rispetto delle regole, la scuola, il lavoro) che il "fuori" non è stato capace di offrire. Una libertà interiore ritrovata nell’isola che non c’è: è questa la Nisida che emerge da La Pecora Nera & altri sogni (Magazzini Salani, pag. 160, euro 14), un libro che è molto più di un libro.

È un’esperienza di vita, il documento di un’avventura iniziata quasi per caso, dall’incontro di menti creative: come l’illustratore Andrea Valente, il papà della "Pecora Nera" - personaggio nato nel 1995 su una cartolina, diventato poi popolarissimo con il diario-agenda, vero cult per i ragazzi -; Ivan Giovannucci, agente di Quino; e ancora, l’operosa progettualità dell’associazione culturale napoletana Ko librì, attenta al mondo dell’infanzia. In particolare, l’idea s’inserisce nel più ampio ciclo di iniziative "Girogirotondo, cambia il mondo", concepito dalla giornalista Donatella Trotta per creare ponti tra adulti e bambini, tra linguaggi diversi, tra associazionismo e istituzioni, nel segno della creatività.

Destinato ai giovani detenuti di Nisida, ma anche ai ragazzi e agli operatori delle scuole esterne all’Ipm, La Pecora Nera & altri sogni nasce così come progetto educativo di inclusione sociale: una mostra itinerante con trenta tavole inedite di Valente (una galleria di ritratti dedicati a donne e uomini controcorrente che nel Novecento hanno saputo perseguire sogni e utopie, da Edward Bunker e Frida Kahlo, da Jesse Owens a Marie Curie, da Martin Luther King a Gandhi, fino a Eduardo De Filippo), affiancate dai lavori realizzati in laboratori didattici dai ragazzi di Nisida sul tema del sogno e della possibilità di cambiare se stessi e il mondo: quadri, magliette, manufatti vari, versi poetici e scritti che testimoniano il diritto di esprimersi, anche da reclusi o "invisibili". La scelta della "Pecora Nera" come testimonial nasce dall’idea di un "proclama di diversità sotto tutte le sue forme": inno all’anticonformismo e alla diversità intesa come unicità, dunque, nato tra le mura dell’Istituto, il progetto si è poi - letteralmente - "sprigionato" fuori, approdando con uno spettacolo teatrale (basato su un adattamento del libro di Luisa Mattia, La scelta, edito da Sinnos) e un cortometraggio sul backstage al teatro Mercadante di Napoli, al Festival cinematografico di Capalbio e al Quirinale, su invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Il libro-catalogo (i cui proventi sono destinati a finanziare nuovi laboratori didattici a Nisida) testimonia il percorso di quest’avventura, alla quale hanno dato il loro contributo fondamentale, oltre al gruppo di Ko librì, e a Valente e Giovannucci, anche l’équipe psicopedagogica dell’Ipm diretto da Gianluca Guida, le insegnanti Maria Franco e Adele Micillo, e tanti altri.

Il volume contiene le riproduzioni delle tavole sulle "pecore nere" del XX secolo corredate da schede illustrative e biografiche, il diario di bordo della nascita e dello sviluppo del progetto, e i lavori e gli scritti dei giovani dell’Ipm, napoletani e maghrebini, Rom e albanesi: ragazzi "interrotti" che nell’isola del tesoro, esercitando la creatività e il diritto all’ascolto, hanno trovato un’occasione per continuare.

Libri: "La crisi del diritto e dello stato", di Silvio Trentin

 

Il Gazzettino, 14 gennaio 2007

 

Perché molti si sono battuti contro la pena di morte comminata a Saddam? È da tener presente che l’estrema sanzione all’ex rais è stata stabilita in una sentenza pronunciata da un tribunale costituito secondo diritto. E certamente secondo diritto sono le condanne a morte inflitte da una corte statunitense; o da un giudice cinese. Qui sta, però, tutta la questione: a quale diritto si riconducono sentenze di tal contenuto? Perché ci si può interrogare se un diritto statuale di tal fattura sia poi vero diritto. Una risposta la si può ora leggere ne "La crisi del diritto e dello stato" di Silvio Trentin, un libro che, uscito in Francia nel 1935, è stato finalmente tradotto (dal francese) e pubblicato in Italia per meritoria iniziativa di Giuseppe Gangemi, docente a Padova di Scienza della politica.

Trentin, nato a San Donà di Piave nel 1885, fu professore ordinario di diritto amministrativo prima all’Università di Camerino, poi di diritto pubblico e internazionale nell’allora Istituto superiore di scienze politiche di Ca’ Foscari a Venezia. Fiero antifascista, nel 1925 si dimise volontariamente e si recò in esilio in Francia; rientrò in Italia solo alla vigilia dell’8 settembre, ma morì dopo qualche mese, il 12 marzo 1944.

Egli qualifica "diritto di fatto" quello positivamente in vigore nello stato, scritto nelle sue leggi e applicato dai suoi giudici. Questo diritto, che ci organizza la vita in societate, deve avere un fondamento etico, pena la sua crisi e la sua decadenza (fino a ridursi a "un fantasma"). Un fondamento etico che, secondo Trentin, è da individuarsi nella natura umana o, più precisamente, nella natura ragionevole dell’uomo.

Esiste, dunque, un diritto naturale sotteso al diritto positivo di cui il primo dovrebbe valere da fonte ispiratrice di norme rette e, inoltre, da criterio di riscontro della rettitudine delle norme effettivamente in vigore. E una norma non è retta quando non rispetta l’uomo, la sua natura, i suoi diritti innati; quando viola la pari dignità di tutti i conviventi. Così il vero diritto rappresenta l’esito di una ricerca continua della migliore organizzazione possibile che gli uomini sperimentano nel corso della storia guidati dal "filo sacro della ragione".

A questo proposito Trentin avverte i cultori del dogmatismo giuridico che, se il diritto non può prescindere dai concetti rappresentativi dei frammenti della realtà sociale postulanti l’ordine imposto dalle norme, questi concetti, però, non sono eterni, ma debbono evolversi in adeguazione al mutamento dei fatti.

Con ciò Silvio Trentin si manifesta un convinto giusnaturalista, anche se egli appare attratto soprattutto dal giusnaturalismo greco-romano, particolarmente da Aristotele e Cicerone. Lo studioso di diritto amministrativo diviene così filosofo del diritto e dimostra, in questa mutazione, un’erudizione vasta e profonda.

La classe dei giuristi ha la missione di costruire un sistema giuridico razionale e animato dall’humanitas, allo scopo ultimo di rendere i cittadini sempre più liberi: l’autonomia piena del singolo nella cooperazione pacifica con gli altri costituisce propriamente la meta da raggiungere e da riprodurre a livello generale attraverso l’organizzazione federale degli stati in seno a una comunità internazionale autenticamente paritaria. Invece lo stato nazionale moderno, secondo il modello risalente a Hobbes, è per definizione negatore dell’autonomia dell’individuo e dei suoi ordini naturali di aggregazione; e dovrà pertanto essere superato disarticolandone il potere monopolisticamente detenuto.

Come si vede, Trentin parla già il linguaggio della giuspolitica contemporanea e dimostra perciò sensibilità e preveggenza, anche preconizzando la sconfitta del regime nazi-fascista. Del libro piace soprattutto quell’insistere sull’indissolubile connessione tra diritto e giustizia: il diritto deve operare affinché venga attribuito a ciascuno il suo secondo il modello greco-romana della giustizia umana, al quale dichiaratamente si ispira il giurista sandonatese, comprendendo che in tal modo si possono assicurare eguaglianza e parità di trattamento.

Per parte sua Silvio Trentin, il cui pensiero è stato a lungo ignorato in Italia, anche nei repertori enciclopedici più completi, merita che gli sia finalmente riconosciuto il ruolo che gli compete, in un certo senso eccezionale vista l’assoluta esiguità della presenza veneta tra i grandi giuristi italiani.

Benevento: cinema dietro le sbarre, bilancio positivo

 

Il Mattino, 14 gennaio 2007

 

"Quanto prima dovremo istituire in Campania il garante dei detenuti". È quanto ha ribadito la presidente del Consiglio regionale della Campania, Sandra Lonardo, partecipando all’iniziativa promossa dal Comitato provinciale femminile della Croce Rossa Italiana per tracciare il bilancio della prima parte del progetto "Cineforum" organizzato dalla stessa Cri all’interno della casa circondariale di Benevento. "Mi auguro - ha aggiunto la Lonardo - che la legge di istituzione del garante dei detenuti diventi attuativa entro questo anno, come previsto.

La legge - ha concluso la presidente del Consiglio regionale - si prefigge infatti di istituire il garante ovvero di individuare un responsabile che coordini sul territorio regionale il monitoraggio della vita dei penitenziari e sia vicino a quelle che possono essere le esigenze dei detenuti". Alla manifestazione presso la casa circondariale hanno preso parte circa venti detenute ed i loro familiari.

Insieme a loro, il direttore del carcere Liberato Guerriero, la presidente del Comitato provinciale della Croce Rossa Antonella Girolamo Tarantino, l’ispettrice della sezione femminile Rosetta Cocchiarella; l’ispettrice onoraria Franca Urbano, consorte del prefetto di Benevento (anche lui prese te all’iniziativa), l’ispettrice regionale Maria Rosaria Nappi, il sindaco di Benevento Fausto Pepe, il dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale Mario Pedicini, il presidente del Tribunale di Benevento Alfonso Bosco, la dirigente dell’Istituto Alberghiero "Le Streghe" Carmela Formicola, e l’ex dirigente Antonio Pietrantonio, artefice negli anni scorsi, insieme al direttore Guerriero, dell’istituzione di una sezione dell’istituto presso la sezione maschile della casa circondariale.

Da segnalare che, proprio grazie alla collaborazione in corso, la manifestazione si è conclusa con un pranzo preparato dai docenti e dagli alunni della sede centrale dell’Alberghiero. Il progetto "Cineforum", che ha impegnato le detenute prima nella visione e poi nel commento di una serie di pellicole insieme alle operatrici della Croce Rossa, avrà senz’altro un seguito. Lo preannuncia la presidente Tarantino, spiegando che è intenzione del Comitato avviare presso la casa circondariale anche altre iniziative, finalizzare sia all’arricchimento culturale sia al reinserimento professionale delle detenute.

"Chiediamo aiuto alle istituzioni - spiega la Tarantino - affinché ci aiutino per quanto possibile a trovare una collocazione a chi, avendo scontato la pena, vuole ritrovare un ruolo nella società". E dalle istituzioni è già arrivata una prima, parziale risposta: il sindaco Pepe ha infatti spiegato che è intenzione del Comune istituire borse di studio per aiutare i figli delle detenute.

 

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