Rassegna stampa 24 febbraio

 

Giustizia: sanità penitenziaria nel caos; inchiesta del "Sole 24 Ore"

 

Sole 24 Ore, 24 febbraio 2007

Vedi le tabelle statistiche dell'inchiesta

 

Per la Sanità penitenziaria non c’è pace: dopo la boccata d’ossigeno dell’indulto, è arrivata la doccia fredda della Finanziaria. Sullo stanziamento di bilancio di 99 milioni di euro (capitolo 1761 del ministero della Giustizia) per l’organizzazione e il funzionamento del servizio sanitario e farmaceutico, la manovra 2007 ha disposto l’accantonamento di 13 milioni di euro.

Un taglio a tutti gli effetti - subito tradotto in una direttiva ai provveditorati regionali perché riducano le convenzioni annuali con medici di guardia, infermieri e specialisti - che ha scatenato le proteste dei medici che lavorano in carcere.

Con la proclamazione di uno sciopero e di una manifestazione a Pisa da parte dell’Amapi, per il 21 febbraio scorso. La Giustizia sta lavorando in questi giorni alle possibili soluzioni. Rispondendo a un’interrogazione del deputato della Rosa nel pugno Maurizio Turco (un’interrogazione analoga è stata appena presentata anche da Ermete Realacci, dell’Ulivo), il ministro Clemente Mastella ha ammesso che "l’amministrazione incontra oggettive difficoltà per le strutture" e ha riferito che è stato chiesto all’Economia di integrare il capitolo di spesa tagliato attraverso il prelievo dal fondo di riserva per le spese impreviste. Ma da via XX Settembre non paiono esserci state aperture.

Da parte sua, invece, l’Ufficio sanitario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, diretto da Bruna Brunetti, ha cercato di "tamponare" mettendo a punto un’ipotesi di riorganizzazione dell’intero servizio sanitario in carcere. Il documento di indirizzo elaborato prevede due mosse: da un lato il recupero di risorse da parte delle Regioni per l’attivazione di servizi sussidiari; dall’altro un restyling organizzativo, basato sull’individuazione di un massimo di tre istituti penitenziari di riferimento (quelli non penalizzati dai tagli), dove far confluire i detenuti bisognosi di assistenza. In realtà c’è un’altra strada all’esame dei tecnici della Giustizia.

"La Finanziaria - spiega il sottosegretario Luigi Manconi, con delega alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento - ha previsto anche investimenti per 230 milioni, di cui si sta discutendo la ripartizione interna. Speriamo di riuscire a destinare parte dei fondi alla medicina penitenziaria". Che una sofferenza ci sia è fuor di dubbio. È vero che l’indulto ha "liberato" oltre 21mila detenuti (oggi sono 39.005, contro i 60.710 di luglio 2006), ma è innegabile che le condizioni di sovraffollamento precedenti all’entrata in vigore della legge 241/2006 erano insostenibili.

E va considerato un altro particolare, come sottolinea Giulio Starnini, direttore della struttura di medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo e past president della Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe): "L’allentamento c’è stato, perché prima eravamo in emergenza e criticità assoluta. Ma dal primo ottobre scorso il numero dei detenuti è in lenta e costante crescita". Tanto che qualcuno ipotizza che già a giugno si sfioreranno di nuovo i livelli di guardia.

Il rischio è quello di arrivarci con 1.400 operatori sanitari in meno. Come dire: è sbagliato sedersi sull’alloro dell’indulto. Che tra l’altro, come ha denunciato l’infettivologo Sergio Babudieri, ha rappresentato una "iattura" per la continuità assistenziale, interrompendo i trattamenti cui molti reclusi venivano sottoposti. Non bisogna dimenticare, inoltre, che le condizioni sanitarie dei detenuti, oltre il 30% dei quali sono stranieri, sono spesso drammatiche: l’incidenza di epatiti, tubercolosi e Hiv è di gran lunga superiore rispetto alla popolazione generale.

Senza contare i disturbi psichiatrici, i traumi, le patologie cardiovascolari. L’indulto ha dunque alleggerito, ma non eliminato, il disagio degli operatori, costretti a lavorare con budget inferiori alle esigenze. Un esempio per tutti: 64 medici e infermieri convenzionati delle carceri laziali sono rimasti senza lo stipendio di novembre e dicembre, tredicesima compresa, perché le ragionerie di diversi istituti non avevano fondi sufficienti. In una lettera inviata ai ministri Mastella e Turco, al sottosegretario Manconi e al capo del Dap, firmata dal presidente Andrea Franceschini, la Simspe ha preso le distanze dalla protesta dell’Amapi ma ha evidenziato la "significativa gravità" della situazione e l’insufficienza delle risorse "per garantire le esigenze di salute e i livelli essenziali di assistenza per le persone detenute".

Definendo "necessaria e urgente" la costituzione di un tavolo tecnico di tutte le organizzazioni che si occupano di salute in carcere per esaminare il da farsi. Anche alla luce della natura ancora "anfibia" della Sanità penitenziaria: l’articolo 5 della legge 419/1998 e il Dlgs 230/1999 hanno stabilito il trasferimento delle funzioni dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, dunque alla Salute e alle Regioni. Ma sono passati otto anni e sono transitati nel Ssn soltanto i presìdi per le tossicodipendenze. Non senza difficoltà e incomprensioni tra Asl e istituti carcerari.

 

Tre reparti ospedalieri per i detenuti, è allarme Tbc

 

Sono tre in Italia le Unità ospedaliere riservate ai detenuti: apripista è stata nel 2002 l’Uo di Medicina interna 5 dell’Ao San Paolo di Milano, diretta da Rodolfo Casati, seguita nel luglio 2005 dal reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma (responsabile Aldo Fierro) e a gennaio 2006 dall’Uo di Malattie infettive in ambito penitenziario dell’ospedale Belcolle di Viterbo, diretta da Giulio Starnini.

L’avvio dei reparti non è stato facile. Complice la difficoltà di conciliare gli aspetti sanitari con le esigenze di custodia, la cultura ospedaliera con quella penitenziaria. Ma il beneficio è innegabile (anche in termini di riduzione dei piantonamenti) e l’attività intensa: al San Paolo, dal 2002 al 2005, i ricoveri annui sono passati da 402 a 635.

Nel primo anno, al Pertini le degenze sono state 380, a Belcolle 153. Se al San Paolo prevalgono le malattie cardiovascolari, ovviamente a Viterbo si fanno i conti soprattutto con epatiti e Hiv. Ma Starnini avverte: "Siamo preoccupati per la tubercolosi: c’è una recrudescenza della malattia, soprattutto nei giovani romeni. Bisogna arginarne la diffusione in carcere per evitare il passaggio nella popolazione generale e scongiurare il rischio dello sviluppo di ceppi resistenti ai farmaci". Il problema è serio, data la scarsa compliance dei detenuti alle terapie.

Due le iniziative intraprese: la revisione delle linee guida sulla Tbc all’interno dei "programmi esecutivi d’azione" e uno studio policentrico, autorizzato dal Dap e coordinato dall’Università di Bari, per fotografare la situazione. Non c’è dubbio, comunque, che il modello dei reparti ospedalieri di medicina protetta stia funzionando. Tanto che la Società italiana di Medicina penitenziaria, nel documento di indirizzo 2007-2008, propone di realizzarne uno per Regione o per macroarea. Anche alla luce delle "oggettive limitazioni operative" e degli "elevati costi di gestione" dei centri clinici interni agli istituti di pena.

 

Lombardia: i detenuti cardiopatici curati con la telemedicina

 

Controllo dei detenuti "nuovi giunti" in entrata, con uno screening all’ingresso; monitoraggio periodico dei pazienti cardiopatici; verifica di pazienti con sintomi assimilabili o correlabili a problemi cardiologici. Sono le tre categorie di prestazioni in cui viene impiegato il Progetto Asclepio, avviato ad agosto 2006, nelle carceri milanesi di Opera e San Vittore, sedi di centro clinico. L’iniziativa, i cui primi risultati sono stati presentati a ottobre nel corso del VII congresso nazionale "L’agorà penitenziaria" è nata con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita in galera e di abbattere i costi per gli istituti penitenziari.

In prospettiva, si pensa di estenderla a tutte le carceri italiane. L’impiego della telecardiologia - ha spiegato Luigi Pagano, Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia - consente di curare meglio i detenuti cardiopatici, intervenendo tempestivamente ed evitando anche i rischi medici e i problemi organizzativi che si incontrano nel trasporto verso l’ospedale più vicino. La nostra Costituzione è chiara al riguardo: l’art. 27 dice infatti "che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, mentre l’art. 32 afferma che la Repubblica tutela il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure agli indigenti".

L’elemento più innovativo del progetto sta nel suo impiego a fini preventivi: l’uso della telecardiologia non è limitato alle emergenze, ma è quotidianamente sfruttato per il monitoraggio delle condizioni di salute. In soli sei mesi di attività, sono stati fatti circa 600 elettrocardiogrammi, in numero crescente di mese in mese. "Segno che il servizio funziona - è il commento di Angelo Cospito, responsabile sanitario dell’Uo Sanità penitenziaria della Lombardia -.

La popolazione detenuta ha apprezzato moltissimo questa iniziativa, che puntiamo a estendere per altre patologie. Per l’oncologia, a esempio, abbiamo già avviato i primi contatti con l’Istituto tumori di Milano". L’elettrocardiogramma è rilevato dal medico del carcere dove si trova il paziente attraverso un apparato di telecardiologia professionale; i dati rilevati vengono inviati attraverso la linea telefonica al centro servizi della società di telemedicina Telbios, attivo sulle 24 ore. Qui sono visualizzati sul computer dello specialista cardiologo dell’equipe cardiologica dell’Istituto San Raffaele di Milano. L’Ecg, una volta refertato, viene restituito in 10-15 minuti al medico che ha effettuato l’esame.

 

Lazio: gli operatori formati per "fare squadra"

 

Dagli agenti di polizia penitenziaria fino agli infermieri: tutti insieme a lezione per imparare a "fare squadra" e assistere al meglio il detenuto malato. Il progetto Cico ("Curare insieme carcere-ospedale) si è svolto lo scorso novembre per formare gli operatori dei due reparti di medicina protetta del Centro-Sud, realizzati all’ospedale Sandro Pertini di Roma e nel presidio Belcolle di Viterbo.

L’iniziativa - coordinata da Alfredo De Risio, psicologo clinico, consigliere delegato all’area formazione della Società italiana di medicina penitenziaria e referente per la didattica presso il provveditorato del Lazio - è il frutto dell’impegno comune tra il provveditorato laziale e l’associazione regionale Vic (Volontari in carcere), che ha messo a disposizione una donazione ricevuta dalla Roche. "Si sono tenuti quattro moduli di sei ore ciascuno - spiega De Risio - su altrettante grandi tematiche: aspetti deontologici, legislativi e medico-legali; tutela e promozione della salute mentale; patologie critiche e di comunità; tecniche della comunicazione e gestione delle risorse umane. Abbiamo puntato a sviluppare un sentimento di appartenenza, perché in queste realtà è indispensabile fare squadra".

Non a caso, lo strumento di formazione è stato il gruppo di discussione e sensibilizzazione. Il confronto è servito a condividere e comprendere i diversi ruoli all’interno dei reparti, ma anche a far emergere le criticità. Come le difficoltà pratiche, avvertite da molti operatori, di integrare l’Unità protetta con il resto dell’ospedale. Di conciliare le esigenze di sicurezza con la complessità, le attese e gli imprevisti dei servizi ospedalieri.

In cantiere per il 2007 c’è un altro progetto, stavolta umbro: un’iniziativa formativa, organizzata in collaborazione con Roberto Quartesan, docente di Psichiatria all’Università di Perugia, sulle "Dipendenze patologiche in carcere: le alternative". Ed è congelato, ma sottoscritto, un accordo triennale con la cattedra di medicina sociale dell’Università di Roma La Sapienza, diretta da Walter Nicoletti, per un master di secondo livello in Medicina e Sanità penitenziaria. "Non è stato raggiunto il numero minimo di iscritti", dice De Risio. Aggiungendo: "D’altronde, con i fondi al minimo e i tagli del personale in agguato, passa anche la voglia di investire sulla propria formazione".

Bologna: l’inclusione dei detenuti, un incontro con gli studenti

 

Equal Pegaso, 24 febbraio 2007

 

A Bologna il Laboratorio locale di comunicazione (in seno al progetto Equal Pegaso i laboratori locali di comunicazione realizzano iniziative di comunicazione sociale da e sul carcere) ha promosso con il Liceo A. B Sabin uno stage di formazione e orientamento destinato a 60 studenti. Scopo dell’iniziativa è promuovere la riflessione intorno alle complesse tematiche che coinvolgono la realtà carceraria attraverso la partecipazione diretta ad un progetto innovativo di comunicazione sociale promosso dall’Agenzia di comunicazione Equal Pegaso. Lo stage prevede un momento puramente formativo ed un momento partecipativo.

Nel momento formativo saranno messe a disposizione degli studenti le competenze di coloro che ogni giorno operano nella realtà penitenziaria in merito ai percorsi di inclusione socio-lavorativa delle persone soggette a misure restrittive della libertà personale. È anche prevista la presenza diretta di soggetti in misura alternativa che avranno modo di testimoniare i loro percorsi di reinserimento nella comunità sociale. Saranno inoltre presentate a grandi linee le modalità con cui si sviluppa un progetto trasnazionale di promozione dell’inclusione sociale quale è il progetto Equal Pegaso.

Gli incontri di "partecipazione" prevedono invece il coinvolgimento dei ragazzi alla gestione attiva di una Agenzia di Comunicazione: gli studenti potranno produrre articoli e comunicati stampa, ricercare le fonti, selezionare materiali, predisporre i testi di un’intervista, ecc.

Lo stage sarà anche l’occasione per gli studenti di confrontarsi con rappresentanti delle istituzioni quali Giuliano Barigazzi, assessore provinciale alla Sanità e Servizi Sociali , Paolo Rabaudengo, assessore provinciale all’Istruzione, Formazione e politiche per la sicurezza sul lavoro, e Maurizio Cevenini, Presidente del Consiglio Provinciale. Inoltre i ragazzi potranno incontrare rappresentanti di cooperative sociali, associazioni e enti di formazione che operano a favore del reinserimento dei detenuti nel territorio della provincia di Bologna. Lo stage che vedrà gli studenti impegnati dal 26 febbraio al 2 marzo (in orario scolastico), si terrà nei locali dell’Agenzia di Comunicazione Equal Pegaso che ospitano il Laboratorio.

Firenze: le biciclette abbandonate le ripareranno i detenuti

 

Adnkronos, 24 febbraio 2007

 

Le biciclette abbandonate o rimosse per violazione del Codice della strada verranno acquisite dal Comune di Firenze che le destinerà alle officine di riparazione degli istituti penitenziari per minori e adulti del capoluogo toscano. Saranno proprio i reclusi a riparare le biciclette lasciate sulle strade.

L’iniziativa nasce per dare risposte tramite la prima esperienza attuativa della legge Smuraglia (legge 193/2000) in materia di lavoro nelle carceri. Il progetto di allestimento di officine meccaniche per la riparazione, vendita e noleggio di biciclette nasce dal protocollo d’intesa firmato lo scorso anno tra il Comune di Firenze, la società della Salute, il nuovo complesso penitenziario di Sollicciano, l’Istituto penale per i minorenni di Firenze, "Firenze Parcheggi Spa" e la cooperativa sociale Ulisse. Inoltre da gennaio 2006 è già operativa un’officina all’interno del carcere minorile Antonio Meucci di Firenze e l’officina di Borgo San Lorenzo.

Roma: due detenute realizzeranno tendaggi e arredamenti

 

Ansa, 24 febbraio 2007

 

Lavoreranno part time, con un regolare contratto di lavoro, alla realizzazione di tendaggi e arredamenti per interni. È questo il premio toccato a due detenute del carcere di Rebibbia femminile che hanno seguito, nei mesi scorsi, uno specifico corso di formazione all’interno dell’istituto di pena.

Il progetto di formazione era stato intitolato "Percorsi Sartoriali", era iniziato a giugno 2006 con il sostegno della direzione del carcere e dell’Ufficio del Garante regionale per i diritti dei detenuti, ed era terminato a dicembre con la partecipazione di sei detenute. Al termine del periodo formativo due delle partecipanti sono state assunte part time con un contratto a tempo determinato annuale dalla cooperativa sociale "Pantacoop", che fa parte del consorzio di coop "Lavoro e Libertà", la cui costituzione è stata patrocinata dal Garante stesso.

Nel dettaglio le due ragazze si occuperanno di produrre tendaggi e arredamenti per interni in un laboratorio specializzato per la produzione appositamente creato in carcere. I lavori fanno parte di commesse esterne prodotte in carcere e poi rivendute sul mercato. Il numero delle lavoratrici impegnate nella produzione potrà aumentare già nelle prossime settimane, a seconda del volume delle commesse che arriveranno dall’esterno.

"L’assunzione di queste due ragazze - ha detto il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni - è un’ottima notizia soprattutto perché quelli alla Formazione e al Lavoro sono due diritti che in carcere passano spesso e volentieri in secondo piano. Io credo che parlare di assunzione e di lavoro sia un importante segnale di speranza per tutti quei detenuti che investono nella formazione in carcere e che credono che avere le capacità professionali per ambire a un posto di lavoro sia un presupposto importante per ritornare a pieno titolo e da protagonisti nella società".

Genova: allarme-bomba per pacco davanti carcere Marassi

 

Comunicato stampa, 24 febbraio 2007

 

"Tutta colpa del gesto di uno sconsiderato, che verso le 22.30 ha depositato davanti all’ingresso della porta carraia del carcere due pacchi allontanandosi poi in tutta fretta. Per fortuna si è rivelato un falso allarme, come hanno accertato gli artificieri prontamente intervenuti che hanno constatato come i due pacchetti non contenevano esplosivo o comunque materiale atto ad offendere la struttura penitenziaria, ma l’inquietante episodio di venerdì sera deve seriamente fare riflettere sulla necessità che il piazzale antistante il carcere di Marassi venga dato in uso esclusivo alla Polizia Penitenziaria". Lo dichiarano Roberto Martinelli e Antonio Martucci, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario locale del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo della Polizia Penitenziaria con oltre 12mila iscritti, 300 dei quali in servizio nelle Case Rosse della Valbisagno.

"Chi ha posto in essere l’atto intimidatorio venerdì sera non è al momento stato ancora identificato, perché la grave carenza di Personale ha costretto il Comando a sopprimere nel turno serale la presenza dell’automontata del Corpo che, con 2 unità, controlla l’esterno della struttura penitenziaria. Servizio che era stato istituito qualche anno fa in occasione di analoghi atti intimidatori alle macchine private dei colleghi posteggiate nel piazzale ed addirittura al portone di accesso all’alloggio del Direttore. Quale sicurezza si può assicurare con ben 100 agenti in meno rispetto a quanto prevede il Ministero ed un corposo numero di colleghi distaccato a prestare servizio in altre sedi d’Italia?" si chiedono i sindacalisti del Sappe, che proprio per incrementare le unità provvisoriamente trasferite per motivi familiari auspicano che "i vertici del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria - in particolare il Guardasigilli Mastella, il Capo Dap Ferrara e il Dirigente Generale del Personale De Pascalis - assegnino immediatamente almeno 50 agenti in missione a Marassi per fare fronte all’emergenza in atto in materia di Personale".

Martinelli e Martucci si rivolgono anche al Prefetto di Genova Giuseppe Romano ed al Questore Salvatore Pesenti: "L’episodio di venerdì sera conferma le preoccupazioni rappresentate in occasione della riunione pubblica che si è tenuta il 13 febbraio davanti alla Prefettura di Genova dal Comitato Regionale per la sicurezza dei Poliziotti dei Cittadini congiuntamente ai Sindacati di Polizia Sappe e Sap, quando abbiamo chiesto di non fare più parcheggiare i pullman dei tifosi che si recano allo stadio davanti al carcere di Marassi per evidenti ragioni connesse alla sicurezza della struttura penitenziaria. E proprio in virtù di quanto accaduto venerdì sera chiediamo che per motivi di sicurezza il piazzale del carcere venga riservato ad uso esclusivo dell’Amministrazione e della Polizia Penitenziaria".

Ragusa: una "bambinopoli" per la casa circondariale

 

La Sicilia, 24 febbraio 2007

 

Una bambinopoli all’interno della casa circondariale del capoluogo ibleo. È stata realizzata, unitamente ad una sala attesa colloqui, grazie al progetto "Grisu", finanziato dalla Provincia regionale di Ragusa. L’inaugurazione delle due strutture è prevista per giovedì 27 febbraio alle ore 10,30 alla presenza del presidente Ap, Franco Antoci, dell’assessore provinciale ai Servizi sociali, Paolo Santoro, e del direttore della Casa circondariale, Aldo Tiralongo.

"Il progetto "Grisu" - si legge in una nota della direzione della Casa circondariale - si integra ed è funzionale con gli obiettivi del progetto pedagogico dell’istituto penitenziario per il 2007. Nello specifico il recupero e la normalizzazione dei rapporti familiari ed affettivi dei detenuti, nella prospettiva di una maggiore umanizzazione della pena detentiva e del futuro reinserimento sociale. Il progetto "Grisu", in questo contesto, rappresenta un elemento fondamentale in quanto consente un primo e propedeutico intervento sui figli dei detenuti prima del colloquio con il genitore, attraverso un’attività di accoglienza da parte di alcuni animatori che si avvarranno della zona destinata ed attrezzata a bambinopoli. Anche la sala attesa è stata resa più gioiosa ed accogliente".

Vicenza: i detenuti incontrano gli studenti dell’alberghiero

 

Giornale di Vicenza, 24 febbraio 2007

 

Detenuti in cattedra ieri mattina all’istituto alberghiero Artusi di Recoaro Terme. L’iniziativa, che rientra nell’ambito del progetto Carcere e Scuola portato avanti dal Csi di Vicenza e dall’associazione Progetto Carcere 663 Acta non verba, ha avuto come principali relatori Maurizio, Massimo e Francesco, tre detenuti al San Pio X che, accompagnati dal cappellano del carcere don Agostino Zenere e dal presidente del Csi Vicenza Enrico Mastella ed dal presidente dell’associazione Progetto Carcere Maurizio Ruzzenenti, hanno risposto alle domande dei circa 250 studenti presenti.

Come è la vita dentro? Monotona, ripetitiva e restrittiva. Il carcere hanno raccontato - è un mondo a sé, dove per compiere qualsiasi azione, anche la più banale, bisogna sempre chiedere il permesso. Quello che si vede nei film ha poco a che vedere con la nostra realtà. Se la detenzione è rieducativa? Solo se c’è una motivazione personale, gli aiuti, i sostegni sono davvero pochi. Oltre alla mancanza anche delle più piccole libertà, pesa soprattutto il fatto che una volta dentro sei segnato: c’è molta più umanità in carcere che fuori.

Sveglia alle 8, la colazione, i cancelli che si aprono per i fortunati che possono lavorare, poi il pranzo, di nuovo al lavoro, la doccia, le ore di solidarietà (scambi di visite fra detenuti ma in numero non superiore a quattro, e alle 20.30 le luci che iniziano a spegnersi. Una routine che si sussegue giorno dopo giorno, con la possibilità di vedere i propri famigliari, o di telefonare, una volta alla settimana.

L’indulto? Per Vicenza ha dichiarato a margine dell’assemblea Maurizio, trevigiano, bibliotecario al san Pio X è un’opportunità da sfruttare. Non è vero che chi è uscito c’è ritornato in breve tempo. Attualmente funzionano solo due sezioni delle quattro complessive, non c’è affollamento: auguro quindi che verso i detenuti sia possibile porre maggior attenzione e velocizzare tutte le pratiche burocratiche.

Siena: "Sing Sing Cabaret", detenuti in scena al Teatro dei Rozzi

 

Ansa, 24 febbraio 2007

 

Il Teatro dei Rozzi martedì 27 febbraio alle ore 21, farà da palcoscenico al concerto spettacolo "Sing Sing Cabaret", realizzato dai detenuti attori della Compagnia della Fortezza con Ceramichelineari: un’esperienza per portare al di fuori delle mura carcerarie i detenuti, attraverso un percorso pedagogico che offre loro la possibilità di un migliore reinserimento sociale.

Il gruppo rock Ceramichelineari, che ha fatto anche da supporter al concerto di Manu Chao tenutosi a Volterra nell’agosto 2003, ha iniziato la sua collaborazione con la Compagnia della Fortezza nella primavera del 2003, creando sin da subito un intenso feeling artistico con Armando Punzo, regista dello spettacolo.

Risultato di mesi di lavoro, è stata la creazione di brani straordinari che hanno fatto da colonna sonora live allo spettacolo I Pescecani - ovvero quello che resta di Bertold Brecht. Il concerto incentrato su un insieme di brani dalla particolare mescolanza di generi tra il rock, lo ska, il funky e il reggae lancia un grido di disagio contro le prevaricazioni e i soprusi della società contemporanea, attraverso una descrizione delle azioni quotidiane contraddistinte da un’insolita pazzia. I biglietti per lo spettacolo potranno essere acquistati alla biglietteria del teatro dal giorno precedente con orario 17-20. Per ulteriori informazioni contattare il call center ai numeri 0577.41169, oppure 0577.226230.

Sicurezza: in Italia 100 "centri antiviolenza" per le donne

 

Redattore Sociale, 24 febbraio 2007

 

I centri antiviolenza sono un centinaio su tutto il territorio italiano ed esiste una rete nazionale. Incontro e racconti di esperienze oggi alla Sapienza, per l’avvio del laboratorio "Storia e studi di genere".

Fisiche, psicologiche, economiche, sessuali. Sono tante le forme di sopraffazione e abuso perpetrate da uomini violenti nei confronti di donne che nella maggior parte dei casi sono mogli, conviventi o ex. Su questi aspetti si è soffermata Merete Amann Gainotti, dell’università di Roma Tre, oggi nel corso del convegno "I centri antiviolenza a Roma e in Italia: prassi e ricerche", tenutosi alla facoltà di Scienze della formazione della Sapienza.

Le argomentazioni di Gaoinotti prendono spunto da una ricerca condotta nel centro antiviolenza della provincia di Roma su un campione di 12 donne con due obiettivi: ricostruire la storia e le dinamiche delle relazioni interne che hanno portato alla violenza, usando lo strumento della narrazione; capire se e quali costanti ci sono. I comportamenti violenti domestici si susseguono ciclicamente e con un crescendo che si trasforma in spirale.

Sono tre le fasi, ha spiegato Gainotti: l’accrescimento della tensione, l’esplosione della violenza e la fase del pentimento. La prima comincia con cattivo umore, critiche, urla, ingiurie, minacce, insulti, atti dispettosi, rifiuto di comunicare e tentativo di isolare la vittima, umiliazioni, imposizioni nel modo di vestire; la reazione della donna sono i tentativi di calmare uomo e figli, non cerca contatti esterni.

La violenza esplode con percosse, stupri, tentativi di strangolamento o altro; la donna reagisce tentando di proteggere se stessa e i figli; la richiesta di aiuto alla polizia o ai parenti viene da amici e vicini, non da lei; la donna scappa e decide di denunciare. Scaricata la tensione, l’uomo torna tranquillo e promette di cercare aiuto, piange, manda fiori; la donna reagisce accettando il pentimento, ritira la denuncia, con la speranza di ricominciare.

Quali possono essere le cause della violenza? "Nessuna certezza esiste - spiega Gainotti - ma solo dei tentativi di spiegazione, certo si tratta di con-cause". C’è chi ha ipotizzato fattori predeterminanti a livello biologico, collegabili agli studi sul comportamento di Lorenz, mentre recenti studi di neuro-scienze potrebbero aprire qualche strada mettendo in luce che la "amigdala", sede dell’istintualità, nell’uomo è più grande; sembrerebbe, di contro, che la parte della corteccia cerebrale che regola la razionalità è più sviluppata nella donna.

Ci sono poi gli aspetti psico-patologici, gli infantilismi, l’insicurezza, disturbi di disorganizzazione della personalità; sono in corso studi che collegano alle prime relazioni di attaccamento del bambino e studi sul rapporto bambino-adulto. Chiamati poi in causa fattori sociali come lo stress, problemi economici, la forza degli stereotipi e il sistema di valori e di rappresentazioni in cui la donna è dominata.

Gli uomini sono violenti in maniera trasversale, senza differenza di ceto sociale, status economico, cultura. È un fenomeno trasversale e universale, dice Gainotti. E nella spirale rischiano di rimanerci impigliati anche i bambini. Le donne vengono picchiate durante la gravidanza o i figli sono costretti ad assistere alla violenza. Sul campione di 12 donne, 7 dicono che la violenza è iniziata durante la gravidanza o subito dopo la nascita del bimbo. "L’aumento dello stress e la frustrazione che la gravidanza comporta per l’uomo possono essere le ragioni, l’uomo vive con incertezza la propria paternità. Ma occorre ancora molto studio".

Una madre maltrattata è una madre traumatizzata. E lo stress post traumatico può compromettere il rapporto con il figlio e la capacità di accudirlo e proteggerlo. Assistere alla violenza per un bambino, invece, è uno dei fattori di rischio per la trasmissione intergenerazionale degli stessi schemi e modelli.

 

Ogni anno 1500 donne si rivolgono ai Centri antiviolenza della provincia di Roma La stragrande maggioranza ha subito violenza nell’ambito familiare; il 55% è costituito da straniere. I centri del territorio si devono all’impegno dell’associazione "Differenza donna", nata 17 anni fa.

Ogni anno 1500 donne si rivolgono ai Centri antiviolenza della provincia di Roma. La stragrande maggioranza ha subito violenza nell’ambito familiare (il dato è ribadito dalla prima indagine dettagliata nel settore condotta dall’Istat e presentata qualche giorno fa, indagine che nella sua fase preparatoria si è avvalsa del contributo fondamentale dei centri antiviolenza). Il 55% sono straniere. I centri del territorio si devono all’impegno dell’associazione "Differenza donna", nata 17 anni fa. Uno dei primi intenti che le componenti dell’associazione si posero fu: "Ci dobbiamo formare".

Si era nel 1989, appena ieri, ma la prima cosa che dovettero verificare fu la mancanza di testi utili tradotti in italiano. "Così, abbiamo cominciato creando un gruppo di traduzione" spiega Nora Lazzarotti, una delle fondatrici dell’associazione. Si è dovuto tradurre testi dallo svedese, dal francese e soprattutto testi americani. "È indispensabile che il fare si sposi con il sapere. Perché non si sa mai abbastanza".

La peggiore forma di violenza si verifica dentro i rapporti affettivi, in famiglia: è perpetrata soprattutto dagli ex. "La formazione andrebbe fatta ai nostri uomini - dice Lazzarotti - che spesso dimostrano inadeguatezza ad accettare il fallimento di una relazione". Le donne arrivano al centro, per lo più, dopo anni di sopportazione, e non dopo i primi segni.

"Vi do questo messaggio - ha detto Lazzarotti al folto uditorio, in maggior parte ragazze, presenti oggi a Roma alla Sapienza nell’aula Volpi di Scienze della Formazione, dove si è tenuta una mattinata di racconti ed esperienze sul tema, in concomitanza con l’avvio del laboratorio "Storia e studi di genere" della facoltà -: siate attente alle prime avvisaglie, non trascurate i primi segnali della violenza. La gelosia, per esempio, che spessi ci lusinga, cercate di analizzarla, di capire se è desiderio di possesso e non affetto. Cerchiamo di insorgere ma diamo voce alla nostra paura, abbiamo la forza di staccare la nostra parte emotiva dalla razionalità". Lazzarotti ha anche invitato le universitarie presenti a frequentare i corsi che l’associazione organizza ogni anno. Nei centri gestiti dall’associazione le diverse figure di sostegno, da operatori sociali a psicologi e avvocati, seguono tutte questo percorso teorico-pratico.

"Differenza donna" è nata nel 1989, nel 1992 aprì il primo centro, poi altri sono stati avviati nel 1997 e nel 2000 nacque il centro "Maree", mentre nel 2006 ha aperto la struttura per donne vittime di tratta, soprattutto minori. I centri antiviolenza sono un centinaio su tutto il territorio italiano ed esiste una rete nazionale., come ha ricordato oggi Enza Pasconcino del Centro antiviolenza del Comune di Roma. "L’aspetto fondamentale è l’incontro tra donne, questa è la forza. Da noi arrivano quando hanno perso tutte le speranze di salvare il rapporto. E per tutelare i figli hanno resistito. Noi ci definiamo tutte volontarie di noi stesse, partendo dalla considerazione che tutte le donne sono potenzialmente vittime. Facciamo percepire che si tratta di un incontro alla pari, per far sì che le donne che cercano aiuto possano sperimentare alternative alla dominazione, anche a livello psicologico.

Abbiamo un numero telefonico attivo 24 su 24 e forniamo consulenze legali (anche per permessi di soggiorno), ci occupiamo dell’accompagnamento dei bambini, etc: la priorità è quella di aiutare la donna a ritrovare l’autonomia dal compagno violento, nelle cose quotidiane prima di tutto. "Perché c’è poco da mediare con la violenza - afferma Pasconcino -, la nostra esperienza dimostra che il partner violento non cambia, è un problema del partner e l’unica soluzione per la donna è allontanarsi e ritrovare tempo per se stessa".

Continua Pasconcino: "Preferiamo che siano le donne stesse, come primo contatto, a chiamarci, affinché si tratti di una scelta. Subito dopo diamo un appuntamento". La prima attenzione è quella a non giudicare: "Il giudizio allontana dalla libertà. Arrivano da noi sentendosi in colpa, si sentono anche stupide per essere cadute nella rete ed esserci rimaste tanto a lungo, e non vorrebbero porgere denuncia per non rovinare il marito".

Oltre al primo livello di assistenza che prevede anche gruppi di auto-aiuto, il circuito dei centri antiviolenza provinciali di Roma offre una casa-rifugio dove le donne possono stare per un tempo massimo di 5 mesi: ci vengono le donne che sono in pericolo di vita, che devono lasciare la propria città e allontanare dal maschio violento anche i figli. L’associazione provvede anche a iscrivere i figli a scuola nella nuova città. Confida Pasconcino: "Non potrei fare questo lavoro se non vedessi la differenza tra come arrivano e come se ne vanno: quel ritorno è una gioia, un’altra donna è libera e si può auto determinare.

Droghe: Bologna; scoperta Clinica per "finte disintossicazioni"

 

Apcom, 24 febbraio 2007

 

Avrebbero speculato sul problema della tossicodipendenza proponendo, anche tramite un sito Internet, una terapia di disintossicazione che, in particolare per la cocaina, non avrebbe nessuna base scientifica ed efficacia. È quanto è stato scoperto da un’inchiesta della Pm di Bologna Lucia Musti e del Nas dei carabinieri, che vede 14 indagati tra medici, infermieri, direttori sanitari di due cliniche, e un intero nucleo familiare, padre, madre e figlio. Sarebbe stato il figlio a organizzare la terapia a pagamento. Le accuse vanno, a seconda dei casi, dall’associazione per delinquere, all’abuso di ufficio, al falso, al peculato, all’abbandono di persone incapaci.

Tra le persone che si sono sottoposte al trattamento anche l’attore Paolo Calissano: rimase ricoverato per disintossicarsi in una clinica bolognese dal 25 maggio al 3 giugno 2005, ma non funzionò; poco tempo dopo, il 25 settembre dello stesso anno, finì in carcere per aver causato la morte della ballerina brasiliana Ana Lucia Bandeira Bezerra durante un festino a base di cocaina a casa sua.

Il sito web -che nel frattempo ha cambiato contenuti- proponeva trattamenti di disintossicazione applicabili a eroina, metadone, morfina, oppio, buprenofina, cocaina e alcol, vantando una equipe che in 10 anni aveva effettuato centinaia di disintossicazioni da oppiacei e cocaina composta da anestesisti con esperienze di responsabili di reparti di rianimazione e terapia intensiva in importanti ospedali di Bologna e indicava come strutture di ricovero "Case di cura private" di Bologna con possibilità di trattamento Vip per la disintossicazione di cocaina. Ma la realtà era un’altra: quella di una organizzazione che, facendo leva sul disperato tentativo degli utenti di risolvere in breve tempo il problema dell’astinenza dall’assunzione di stupefacenti, non ha avuto scrupoli a rappresentare una falsa realtà sulla innocuità e sulla buona riuscita dei trattamenti, abbandonando i pazienti, dopo aver conseguito l’illecito introito, al forte pericolo di ricadute e al conseguente rischio di overdose.

La Pm Musti aveva chiesto anche misure cautelari nei confronti di cinque persone -tra cui due medici- ma il Gip Andrea Scarpa non le ha concesse perchè tutti, in ipotesi di condanna, beneficeranno dell’indulto. Il giudice, però, nel suo provvedimento, spiega che l’indagine si fonda su un elemento che allo stato pare evidente, vale a dire l’assoluta consapevolezza da parte dei protagonisti della vicenda dell’assoluta inutilità -se non della probabile dannosità- del trattamento terapeutico. Inoltre dalle intercettazioni si capisce come l’obiettivo principale sia quello di conseguire il guadagno derivante dai trattamenti. Per il giudice la terapia usata per la disintossicazione da cocaina utilizzata non ha alcuna base scientifica, e quanto agli oppiacei c’è una non documentata efficacia oltre a rischi legati all’anestesia totale.

Gran Bretagna: in 10 anni sestuplicate le violenze in carcere

 

Associated Press, 24 febbraio 2007

 

Il sistema carcerario britannico è nuovamente sotto il fuoco delle polemiche. Dopo un recente rapporto del ministero dell’Interno, che ha denunciato l’esplosione demografica all’interno dei penitenziari (la popolazione carceraria è raddoppiata in 13 anni, toccando quota 80 mila), è di oggi la notizia che, negli ultimi 10 anni, la violenza nelle prigioni è aumentata del 600 per cento.

Violenza in gabbia. Juliet Lyon, direttrice del Prison Reform Trust, organizzazione che si occupa della riforma del sistema carcerario, ha lamentato che tale problema è conseguenza diretta del sovrappopolamento. Il numero delle violenze è salito dai 2.342 del ‘96 ai 13.771 del 2005, ha rivelato ieri il ministro dell’Interno britannico, John Reid.

Quello di Reid non è stato un annuncio pubblico, bensì una risposta parlamentare a un’interrogazione presentata dal partito liberal democratico. Nella lettera, si spiega che l’aumento di episodi di violenza si è verificato sia tra carcerati che per mano di questi ai danni dei secondini. Quasi tremila membri del personale carcerario sono stati attaccati nel 2005, contro i 551 del 1996. Gli incidenti violenti tra carcerati sono stati, sempre nel 2005, quasi 11 mila, a paragone dei 1.791 del 1996.

L’amministrazione penitenziaria, nel tentativo di minimizzare l’ampiezza del problema, ha dichiarato che l’aumento potrebbe essere dovuto ad un miglioramento del sistema di classificazione e registrazione degli incidenti, ma la direttrice del Prison Reform Trust, organizzazione che si occupa del miglioramento del sistema carcerario, non ha dubbi: "Il numero dei prigionieri - ha detto juliet Lyon - ha subito un incremento rilevante, dai 61 mila del ‘97 agli oltre 80 mila attuali. Non c’è stato un aumento proporzionale nel numero dello staff carcerario, il periodo di formazione dei secondini è stato ridotto a otto settimane e i direttori delle carceri dopo due anni sono già altrove".

Incentivo a chi se ne va. Un j’accuse al quale è seguito quello di Menzies Campbell, leader dei liberal democratici: "Dieci anni di cattiva gestione delle carceri e del sistema giudiziario britannico hanno provocato una crisi profonda nelle nostre prigioni, esponendo la cittadinanza a numerosi rischi. Se si continua a stipare di persone una nave già affollata, la nave affonderà presto".

Il sistema britannico è da tempo nell’occhio del ciclone per la riforma, annunciata nell’ottobre del 2006, cui verrà sottoposto a breve termine. Tra le misure più contestate rientra quella di incentivare i detenuti stranieri. Secondo il progetto, i detenuti extracomunitari potrebbero ricevere dai 700 ai 2.500 euro, qualora decidessero di lasciare il Paese una volta terminata la condanna in carcere, senza pertanto attendere l’ordinanza di rimpatrio. Tre mesi fa, come misura-tampone contro l’affollamento, è stato concesso l’uso di 500 celle nei commissariati di polizia, in attesa della creazione, da qui al 2010, di 8 mila nuovi posti. Inoltre, allo studio del ministro Reid vi sarebbe anche l’eventualità di ospitare i detenuti maschi nelle celle di detenute femmine. Quelle lasciate vuote, ovviamente.

 

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