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Giustizia: 50 carceri in sciopero della fame contro l’ergastolo di Alberto Custodero
La Repubblica, 1 dicembre 2007
Contro il carcere a vita, per protestare contro il "fine pena mai", centinaia di ergastolani cominciano da oggi uno sciopero della fame. E per 50 istituti penitenziari italiani è rischio paralisi. I 755 reclusi che hanno annunciato l’astensione dal cibo, avranno diritto all’assistenza sanitaria di medici che dovranno tenere sotto controllo costantemente le loro condizioni di salute. Per i 40 che hanno deciso di scioperare ad oltranza si prospetta una situazione etica di non facile soluzione: potrà il direttore del carcere costringerli a nutrirsi? A questo dilemma risponde la senatrice Maria Luisa Boccia, fra i pochi politici a sostenere i detenuti "fine pena mai" in lotta e per questo da loro battezzata la "fata rossa degli ergastolani". "I detenuti a vita - ha dichiarato la senatrice Boccia - hanno diritto di fare lo sciopero della fame. E i direttori delle carceri non hanno alcuna facoltà di impedirglielo con la nutrizione coatta". L’organizzazione della protesta è affidata al sito Internet dell’associazione di volontariato fiorentina "Pantagruel". È proprio su questo network del detenuto italiano che approda il tam-tam carcerario e consente a chi sta in prigione di "mettersi in rete", pubblicando tutto ciò che la censura gli consente: racconti, poesie, lettere. Ma anche denunce di condizioni disumane di vita. L’idea di organizzare uno sciopero della fame l’ha avuta un ergastolano di Spoleto, Carmelo Musumeci: la sua lettera, pubblicata su Internet ("consapevole che le cose non si ottengono solo con la speranza, ho deciso di fare qualcosa: non mangiare"), ha fatto ben presto il giro dei lunghi corridoi delle prigioni. E in poche settimane sul sito sono comparse le risposte, centinaia di adesioni da tutte le carceri italiane. Con un testo sempre uguale: "Per il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, dichiaro che dal primo dicembre 2007 inizierò uno sciopero della fame ad oltranza a sostegno dell’abolizione dell’ergastolo". Lo slogan dello protesta Internet degli ergastolani è "Non abbiamo niente da perdere, se non le nostre catene". E a dimostrazione che l’ergastolo sia spesso davvero una condanna a vita, c’è la storia di Giuseppe Sanzone, 58 anni, in cella dal 3 febbraio del 1969. Pur fra alterne vicende, compreso un delitto commesso durante un’evasione, è lui il "nonno" degli ergastolani: aveva 21 anni quando entrò in carcere, ne ha trascorsi dentro 38, attualmente si trova a Milano Opera. Altri due uomini risultano imprigionati - anch’essi con storie complesse alle spalle - dal 1970, Angelo D’Auria e Vito D’Angelo, entrambi a Favignana. Per gli ergastolani la fine della pena, sulla sentenza, è indicata non con una data, ma con un avverbio: "mai". Da qui lo spunto per chiamare provocatoriamente la loro campagna per l’abolizione dell’ergastolo con il titolo del film del regista Irvin Kershnre, "Mai dire mai". Lo spirito che anima questa mobilitazione carceraria è contenuto nella lettera di uno dei più "anziani" detenuti a vita, Antonino Marano - in carcere da 30 anni - scritta dall’Ucciardone. Diventata, se così si può dire, il manifesto politico del movimento "ergastolani in lotta". "All’ergastolo - dice Marano - preferisco la pena di morte. Ma mi devono fucilare loro, perché io, da vero siciliano, considero il suicidio un atto di vigliaccheria. E non lo farò mai". Lo sciopero della fame è stato sottoscritto non solo dai 750 ergastolani, ma anche da altre 10 mila persone, fra familiari, detenuti comuni, politici. Fra questi anche il deputato di Rc Francesco Caruso. Nell’elenco di chi ha aderito alla protesta spiccano boss del calibro di Carlo Greco, uno dei 16 mandanti, secondo la Corte d’Assise d’Appello di Catania, delle stragi del ‘92 in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Compaiono anche Domenico Belfiore, condannato per l’omicidio del procuratore torinese Bruno Caccia, e Bernardo Riina, l’uomo che poteva raggiungere direttamente il covo di Bernardo Provenzano. Ma c’è anche il re delle evasioni Klodjan Ndoj, protagonista di una fuga rocambolesca, nell’aprile del 2005, da San Vittore. E Angelo Nuvoletta, accusato dell’omicidio del giornalista Giancarlo Siani. La protesta anti-ergastolo ha provocato, in carcere, un fenomeno del tutto nuovo sotto osservazione ora da parte dell’Ucigos: la solidarietà ai carcerati in sciopero della fame da parte di alcuni detenuti accusati di terrorismo islamico. Anche Yamine Bouhrama, sospettato insieme ad altri sei magrebini di far parte del "Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento", rifiuterà da oggi il cibo. È difficile, tuttavia, che dopo le polemiche sollevate dall’indulto, il governo metta all’ordine del giorno una discussione parlamentare per l’abolizione dell’ergastolo. "Le proteste dei detenuti - ha dichiarato Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia - evidenziano un problema reale. Sono favorevole al superamento della pena a vita, anche perché non ha la minima relazione con le esigenze di sicurezza dei cittadini. Ma non è questo l’orientamento del ministro e del governo che non ritengono attuale la questione". Premesso ciò, per Luigi Manconi "lo sciopero della fame dei carcerati è uno strumento legittimo di manifestazione della propria opinione, come tale va rispettato. E, nei limiti del possibile, ascoltato". Giustizia: Caruso (Prc); anch'io in sciopero contro l'ergastolo
Prima da Noi, 1 dicembre 2007
Sciopero della fame ad oltranza, da oggi, in 50 carceri italiane, per chiedere l’abolizione dell’ergastolo. La protesta viene annunciata dal parlamentare del Prc Francesco Caruso che parteciperà personalmente allo sciopero della fame entrando nel carcere di Catanzaro alle ore 12, al termine del presidio di lotta indetto dalle associazioni e dai centri sociali calabresi all’esterno dell’istituto. "Si tratta di una mobilitazione senza precedenti, in quanto vede coinvolti la maggior parte degli ergastolani attualmente detenuti in oltre 50 carceri", afferma il deputato no-global. Alla protesta hanno aderito oltre 400 ergastolani detenuti in una cinquantina di istituti penitenziari, tra cui quelli di Nuoro, Ucciardone, Volterra, Porto Azzurro, Poggioreale, Pagliarelli di Palermo, Benevento, Pavia, Torino, Potenza, L’Aquila, Trapani, Spoleto, Livorno, Secondigliano-Napoli, Sulmona, Roma Rebibbia, Novara, Velletri, Vicenza, Viterbo, Biella. "Lo sciopero della fame - afferma Caruso - si pone l’obiettivo di riaprire la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, una campagna che rischia di finire stritolata nel clima securitario di questi ultimi mesi, e per questo motivo gli ergastolani hanno scelto di mobilitarsi in prima persona, senza aspettare o delegare i tempi della politica: non è un caso che le proposte di legge sull’abolizione dell’ergastolo, che mirano a tramutare l’ergastolo in 30 anni di carcere, ancora non vengono calendarizzate in Parlamento e per questo motivo alcuni ergastolani hanno scelto di procedere allo sciopero ad oltranza fino alle estreme conseguenze per accendere i riflettori sulla loro condizione, dilazionata nel tempo, di condannati a morte". "Domani - conclude il parlamentare del Prc - ci saranno inoltre presidi e manifestazioni all’esterno delle carceri affinché la protesta degli ergastolani riesca ad avere visibilità e voce oltre le mura e le sbarre delle carceri nelle quali rischia di restare relegata, nell’indifferenza generale della società e della politica. Si va dal presidio di lotta dei centri sociali calabresi fuori del carcere di Catanzaro alla veglia di preghiera indetta all’esterno del carcere di Spoleto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII di cui Don Oreste Benzi è stato il fondatore". Giustizia: Manconi; carceri dimenticate, dopo l’indulto è peggio
Dire, 1 dicembre 2007
"Mai come ora il carcere è stato così isolato. E l’indulto ha peggiorato la situazione, perché ha portato al rifiuto, da parte della società, di chi ha beneficiato del provvedimento". L’allarme arriva dal sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, oggi a Bologna per un convegno sul tema del lavoro per i detenuti. Secondo Manconi, che dal 2003 è stato Garante dei diritti dei carcerati per il Comune di Roma, l’istituzione carceraria italiana oggi vive "in una condizione di totale solitudine che io non ho mai visto". E l’indulto "ha peggiorato la situazione", per il rifiuto della società di chi ha beneficiato del provvedimento. Ma questo "è stato un grave errore - sostiene Manconi - perché l’indulto ha avuto effetti importanti per la sicurezza dei cittadini". E ricorda che il tasso di recidiva, a fine pena, varia tra 60 e 68%, mentre per gli indultati si è attestato intorno al 15%. In particolare, critica il sottosegretario, "a latitare sono sempre gli imprenditori". Il lavoro, soprattutto se esterno al penitenziario, afferma infatti Manconi, è il metodo migliore per il reinserimento dei detenuti in società. Al momento, fa notare il sottosegretario, "il 28% dei carcerati ha un’occupazione, ma di loro ben l’87% lavora dentro al carcere, per far funzionare la macchina che li reclude. E questo dovrebbe far riflettere", anche alla luce del fatto che del restante 13%, molti sono impiegati dalle cooperative sociali mentre "un numero irrisorio di detenuti lavorano presso privati". Non solo isolamento, comunque. L’indulto, continua Manconi, ha avuto anche l’effetto di "concentrare tutte le energie su coloro che ne hanno beneficiato, dimenticando che ogni anno escono in media, senza il provvedimento, 88.000 detenuti, di cui almeno 35.000 hanno scontato una pena inferiore a un mese". A proposito di carceri e detenuti, dunque, occorre "un’assunzione di responsabilità da parte di tutti - prosegue il sottosegretario - non si può continuare a considerare il carcere come un bubbone esterno alla società". Il Governo in parte è già in moto. Nel 2008, infatti, dovrebbe terminare l’iter per la legge che istituisce la figura del Garante dei carcerati a livello nazionale. E sempre l’anno prossimo, sottolinea con orgoglio Manconi, "daremo finalmente compimento alla riforma sanitaria iniziata con la legge Bindi nel 1999", completando quindi il passaggio delle competenze sanitarie dentro le carceri al Servizio sanitario nazionale. Giustizia: con legge Bossi-Fini la "rieducazione" diventa spreco
Garante dei detenuti del Lazio, 1 dicembre 2007
Sprechi e cattiva amministrazione di fondi pubblici investono anche il mondo delle carceri. Il Garante Regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni denuncia il nuovo scandalo: "Per colpa della Bossi - Fini lo stato investe migliaia di euro nel recupero dei detenuti stranieri, consente loro di studiare in carcere, in alcuni casi fino alla laurea, e di imparare un lavoro. Poi, una volta scarcerati, li espelle". Credere nel recupero sociale dei detenuti extracomunitari, investire decine di migliaia di euro per consentire loro di studiare (in alcuni casi fino ad una laurea di eccellenza) e di apprendere un lavoro. Far credere loro che una nuova vita è possibile. E poi, una volta scarcerati, espellerli dall’Italia o riarrestarli di nuovo in base alla legge "Bossi - Fini". È questo il nuovo capitolo degli sprechi della pubblica amministrazione denunciato, per la parte di sua competenza, dal Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni. "Ci stiamo occupando del caso - ha detto Marroni - di ex detenuto di origine africana che ha scontato la pena ed ha creduto nella possibilità di rifarsi una vita laureandosi in carcere in ingegneria informatica. Ora ha una scelta dolorosa da fare: lasciare l’Italia perché la "Bossi - Fini" preclude, per gli stranieri autori di una serie specifica di reati, la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, anche se si tratta di ex detenuti reinseriti nella società. Oppure scontare una pena che può arrivare a 4 anni di carcere per non aver ottemperato al decreto di espulsione". In sostanza per gli ex detenuti extracomunitari (anche se in possesso del permesso di soggiorno al momento dell’arresto), la "Bossi - Fini" non lascia possibilità di restare in Italia da regolare, anche se questi hanno effettivamente concluso un percorso di reinserimento sociale. Lo scorso maggio il nigeriano Stephen (nome di fantasia) - 39 anni, gli ultimi 9 dei quali trascorsi in carcere per traffico internazionale di droga - si è laureato con lode nella facoltà di Ingegneria informatica dell’Università di Tor Vergata, studiando nella sua cella della sezione di alta sicurezza di Rebibbia. Uscito dal carcere a luglio, Stephen oggi collaborare con una società di informatica ed ha passato questi mesi dividendosi fra lavoro, la moglie e gli incontri con gli studenti delle scuole di tutto il Lazio per raccontare loro la sua esperienza "da non ripetere". La storia a lieto fine di Stephen rischia di finire o con il ritorno in Nigeria o con un nuovo arresto per violazione della "Bossi - Fini". "La morale è che la collettività ha investito migliaia di euro per favorire il recupero sociale di questa persona rischiando seriamente di non averne indietro nessun beneficio - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni -. La realtà è che la "Bossi - Fini" costringe gli extracomunitari che dopo il carcere vogliono ricominciare una vita ad essere dei fantasmi, senza diritti e senza possibilità di usufruire delle cose più elementari come affittare regolarmente una casa, aprire un conto corrente o, riconoscere i figli. Ci eravamo illusi che il governo potesse mandare in soffitta la "Bossi - Fini" e le sue odiose contraddizioni. Ad oggi posso solo constatare che la montagna di buone intenzioni non ha partorito neanche il classico, striminzito, topolino". Giustizia: Fini (An): Roma affonda, siamo pronti a governarla
Il Messaggero, 1 dicembre 2007
Mentre a Montecitorio Veltroni e Berlusconi discutono della legge elettorale, Gianfranco Fini sperimenta di persona la nuova strategia di Alleanza nazionale, che parte da "un’immersione nella realtà del degrado di Roma" per lanciare una campagna elettorale permanente, che prende le mosse nella Capitale, senza perdere di vistala sfida della politica nazionale. "Il modello Roma non esiste - attacca il leader di An - e Veltroni non potrà scalare il governo del Paese, prendendo ad esempio la sua esperienza di amministratore". Della situazione disastrosa delle periferie, l’ex vicepremier si è reso conto personalmente quando ha sorvolato i campi rom, cresciuti a dismisura ai bordi della città, le stazioni abbandonate, invase dall’immondizia, le strade consolari, punteggiate fin dalla mattina da nugoli di prostitute bambine. Quel suo viaggio sull’elicottero sopra Roma, "come un novello top gun", scherza Fini, è diventato un piccolo documentario, uno dei tanti sullo stato di abbandono di Roma, presentati ieri dal presidente della Federazione romana di An, Gianni Alemanno, dal responsabile sicurezza, Fabio Rampelli, noto come "il gabbiano dell’Esquilino" per il simbolo con cui si è sempre firmato, che il leader ribattezza sul campo "il nostro gabibbo", a cui hanno lavorato Roberta Angelini e Barbara Saltamartini. "Abbiamo il dovere di denunciare con le immagini l’inesistenza del modello Roma. La nostra città ha un’identità e una storia importante, ma se Veltroni crede di acquistare punti in campagna elettorale solo per aver governato la città, dovrà confrontarsi con il giudizio pessimo che abbiamo noi e che hanno i cittadini", insiste il leader di An, che attacca anche il precedente sindaco di Roma, Francesco Rutelli. "Se lui e Veltroni pensano di fare all’Italia domani ciò che hanno fatto a Roma negli ultimi dieci anni dovranno fare i conti con noi", promette. Sullo schermo dello spazio Etoile, e fuori, in piazza in Lucina, passano le immagini delle stazioni chiuse, invase dall’immondizia, come quella di Vigna Clara e della Bufalotta, delle altre, sommerse dalle erbacce e dal fango, come quella di Tor di Quinto, tragico teatro della morte di Giovanna Reggiani, giusto un mese fa, delle prostitute bambine che si spogliano tra due cassonetti sulla Salaria, delle distese di baracche nei campi zingari vecchi e nuovi, delle scuole devastate nelle periferie, delle bancarelle che assediano le più belle strade del centro storico. Sono l’ossatura di quello che l’immaginifico Rampelli definisce "il nostro festival della realtà, che a settembre opporremo ai tappeti rossi della Festa del cinema di Veltroni". "Il fatto è che Roma non è un cinema - sottolinea Alemanno, citando lo slogan che accompagnerà i filmati di An, che gireranno sui camion in tutti i quartieri di Roma -. Non abbiamo perso la voglia e il gusto di dire le cose come stanno. Secondo noi, il primo dovere di chi fa politica è informare la gente. Chiedo a Fini e al partito di aiutarci a costruire un centro di documentazione per continuare a fare questo lavoro. E voglio vedere se Veltroni lunedì, nel consiglio comunale straordinario sulla sicurezza, chiesto e ottenuto da An, avrà la faccia di tornare a dirci che Roma è una città sicura e che nessuno si deve permettere di negare questa realtà". E da Roma parte la strategia con cui Fini intende proporre An come "nuovo motore del centrodestra". E, confortato dai risultati del sondaggio che, dopo i suoi interventi sulla sicurezza, hanno fatto decollare il partito, non fa sconti né al sindaco di Roma, né agli alleati della ormai ex Cdl "sono certo che Veltroni si dimetterà dal Campidoglio solo un minuto dopo che si saranno sciolte le Camere, cosa che gli consentirà di correre come candidato premier per il suo partito", spiega il leader di An, convinto che "si voterà nel 2009 sia per il Comune di Roma, sia per le politiche". Doppio appuntamento, quindi. Ma per l’ex vicepremier "An ha tutti i titoli per vincere tutte e due le partite". Convinzioni diverse, ancora una volta, da quelle di Berlusconi, che, tuttavia, gli consentono di rafforzare il ruolo del suo partito. E non lo spaventa la prospettiva di un anno di campagna elettorale. Anzi, sprona i suoi "a non rinchiudersi nei palazzi, a stare piuttosto sempre più in mezzo alla gente. Noi siamo certissimi - assicura - che un partito con una storia, un radicamento e un consenso non deve temere nulla, né il venir meno di alleanze né le riforme della legge elettorale". Caserta: Opg di Aversa, detenuto 57enne muore nella sua cella di Laura Ferrante
Caserta Oggi, 1 dicembre 2007
Detenuto è deceduto nella sua cella, ad accorgersi sono state le guardie. Ieri mattina, erano circa le 8.00, le guardie dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa hanno fatto l’usuale giro per aprire le celle dei internati che sarebbero andati a svolgere i loro compiti ai quali erano stati destinati, ma quando hanno aperto una delle celle ed hanno incitato gli occupanti ad alzarsi ed uscire dalle stanze, uno di loro era rimasto immobile nel letto e non aveva neppure risposto alla chiamata. La guardia di turno si è avvicinata alla persona pensando che si trattasse di un atto di disubbidienza, lo ha chiamato più volte poi ha cercato di scuoterlo e così si è accorto che lo stesso era deceduto. Si tratta di Antonio Romanelli, nato a Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina il primo febbraio del 1951. L’uomo era detenuto presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa per un reato commesso tempo fa, sembra che si sia macchiato del reato di omicidio, le vittime sono state delle persone di famiglia, e del quale era ancora in corso il processo definitivo, per cui si trovava in misura di sicurezza provvisoria presso l’Opg da circa un anno. Il Romanelli in carcere era una persona piuttosto tranquilla, si rendeva utile aiutando nei lavori di giardinaggio e non sembra fosse in contrasto con qualche altro detenuto, anzi, sembra che vi andasse d’accordo. Sembra che il suo decesso sia stata un’ amara sorpresa anche per le persone che dividevano la cella con lui che non si erano accorti di nulla. Sembrava che dormisse, era improbabile quindi, che si potesse ipotizzare che il poveretto fosse invece spirato nel sonno. Almeno è quello che sembra dalle prime indagini sia mediche che giudiziarie, ma le cause del suo decesso per ora restano un mistero. L’uomo ieri sera era andato a dormire tranquillamente, sembra che non si fosse lamentato di sentirsi poco bene, probabilmente è passato dal sonno alla morte senza che neppure se ne accorgesse, o verosimilmente è stato colto da un attacco cardiaco che lo ha portato via in una manciata di secondi. Almeno questo è quanto è stato detto dai detenuti presenti, ma questo è da verificare dalle indagini che saranno aperte per chiarire la faccenda..., non si può totalmente escludere che qualcuno abbia attentato alla vita della vittima, per uno sgarro o per altro, anche se le apparenze possano dimostrare il contrario. Ma le cause della sua morte si possono solo ipotizzare, per saperne di più occorre aspettare la visita del medico legale. Il corpo dello sfortunato è stato trasportato presso il reparto di medicina legale dell’ospedale civile San Sebastiano e Sant’Anna di Caserta e si trova a disposizione dell’autorità giudiziaria, in attesa della visita autoptica disposta dal sostituto procuratore di turno alla Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, dott. Ricci che è stato avvertito telefonicamente dell’accaduto dalle guardie penitenziarie. Solo al termine della visita si possono trarre le dovute conclusioni circa l’improvviso decesso del poveretto. Intanto, essendo detenuto per omicidio, la causa decade per la morte dell’autore. Milano: San Vittore è al collasso; 1.200 detenuti per 580 posti
Affari italiani, 1 dicembre 2007
San Vittore scoppia e l’indulto ha già esaurito i suoi effetti benefici. Dai dati forniti dagli istituti di pena, la capienza regolamentare del carcere milanese è d 582 detenuti, ma ad oggi sono 1212 i reclusi. "L’indulto è stato un provvedimento demenziale, ne è prova il fatto che le carceri sono di nuovo strapiene e in più la criminalità è aumentata". Così, il capogruppo della Lega Nord in Comune Matteo Salvini, commenta gli effetti della legge sull’indulto, e annuncia la partecipazione del Carroccio, "a sostegno dell’iniziativa dell’associazione delle vittime della violenza", a una manifestazione, domani, dalle 17 in piazza Sant’Ambrogio, che arriverà fino al carcere di San Vittore, alle 18. Al termine del corteo, prosegue Salvini: "accenderemo dei lumini cimiteriali sotto il carcere", per testimoniare il "fallimento dell’indulto". A conferma dei dati divulgati a Milano ci sono le cifre rese note durante il convegno annuale del Seac da cui si evince che l’indulto sta già esaurendo i suoi effetti benefici in termini di riduzione della popolazione carceraria. Se dopo il 31 luglio 2006 i detenuti erano scesi a 38 mila unità, oggi stiamo di nuovo sfiorando quota 49.000, con un ritmo di crescita mensile di 1.000 - 1.200 nuovi ingressi. A renderlo noto nel corso del quarantesimo convegno annuale del Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario) è stato questo pomeriggio Ettore Ferarra, direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, che ha spiegato come si stia rapidamente scivolando verso una situazione di sovraffollamento del tutto analoga a quella precedente il provvedimento di clemenza. L’indulto è stato dunque inutile? "No - si è risposto - Ferrara perché grazie ad esso si è aperto uno spazio di azione", che ha consentito di pensare a risposte "che non possono ridursi ad un programma di edilizia carceraria assolutamente inadeguato sia in termini numerici che economici". Nei prossimi anni, ha aggiunto il direttore del Dap, è previsto comunque un incremento di appena 4.000 - 4.500 posti. Le soluzioni, dice Ferrara, vanno cercate piuttosto "nell’estensione dell’area delle esecuzioni esterne", cioè nello sviluppo di sanzioni e misure alternative, del potenziamento della giustizia riparativa e di spazi normativi "che devono aiutarci ad applicare concretamente il dettato costituzionale nelle nostre carceri". In una situazione sempre più complessa e resa più problematica dal vertiginoso aumento di cittadini stranieri dietro le sbarre - siamo oggi al 37% secondo i dati elaborati dal Centro studi "Ristretti Orizzonti", contro il 33 % dello scorso anno - il ruolo del volontariato carcerario diventa sempre più fondamentale. Nel ringraziare il Coordinamento per il lavoro svolto in questi 40 anni, Ferrara ha rinnovato l’impegno dell’amministrazione penitenziaria a lavorare in piena collaborazione con il volontariato. Di qui l’idea di creare un Osservatorio di monitoraggio sulle diverse realtà territoriali che aiuti a rimuovere gli ostacoli che ancora esistono per il pieno dispiegamento dell’attività dei volontari che hanno raggiunto, secondo i dati del Seac, la quota di 1.860 unità. Como: 500 detenuti, è colpa dell’indulto e dell’immigrazione di Andrea Bambace
Corriere di Como, 1 dicembre 2007
Le parole del Prefetto di Como non sono rimaste sospese a mezz’aria. Sante Frantellizzi, rappresentante del governo sul Lario, ha individuato in "indulto e immigrazione" le cause principali della recrudescenza della criminalità nel Comasco. E oggi torna sui propri passi un’esponente della maggioranza che più di un anno fa votò l’indulto: Rosalba Benzoni, comasca e deputata ulivista, alla luce delle parole del prefetto rivede quel provvedimento con un piglio - quantomeno - critico. Lo definisce una misura "votata di fretta", esclude che possa "risolvere il sovraffollamento delle carceri". E cita i numeri: "In Lombardia su 3.893 detenuti che hanno beneficiato dell’indulto, 1.058 sono rientrati in carcere". Chi, invece, nel 2006 votò contro l’indulto è il senatore di An Alessio Butti. An, Lega e Italia dei Valori furono gli unici tre partiti a opporsi, compatti, all’apertura delle carceri. "Credo che il prefetto abbia ragione nell’identificare in indulto e immigrazione le cause dell’aumento della criminalità - dice l’esponente di Palazzo Madama - Noi avevamo detto chiaramente che, contrariamente al volere di Udc e Forza Italia, avremmo condotto una durissima battaglia contro l’indulto. E il fatto che il prefetto, senza con questo volergli attribuire alcuna legittimazione politica, abbia ritenuto opportuno intervenire in modo così chiaro e autorevole, conferma come l’impianto legislativo e giudiziario del provvedimento, promosso dalla sinistra e incentivato da alcuni settori del centrodestra come Udc e Forza Italia, sia del tutto inadatto". Poi, c’è il dibattito sull’espulsione dei cittadini comunitari che delinquono. "È evidente - conclude il senatore di An - che i cittadini dell’Est europeo vengono a delinquere da noi perché nei loro Paesi le leggi sono durissime. Se vogliamo una convivenza civile abbiamo bisogno di regole chiare e rigorose". Tornando al centrosinistra, Rosalba Benzoni osserva che "il pacchetto sicurezza varato con un recente decreto legge introduce un tratto di forte severità per i crimini commessi dagli stranieri". Il prefetto sostiene che il 40% dei reati arrivi da mano straniera, la Benzoni risponde che sarebbe interessata a conoscere le tipologie di reato. Poi, i dubbi e le perplessità sull’indulto. "Non va decontestualizzato - dice la deputata lariana - e nel momento in cui è stato approvato serviva a contrastare un’emergenza. So che in Lombardia, su 3.893 condannati che hanno beneficiato dell’indulto, 1.058 sono tornati in carcere. In effetti non sono pochi - ammette - e l’affollamento delle carceri non si risolve con questi provvedimenti". Oggi, quindi, non lo voterebbe "Ripeto, non possiamo toglierlo dal contesto in cui è stato approvato. Ma uno degli errori è stato non distinguere la tipologia di reati per i quali si poteva beneficiare dell’indulto. L’importanza di questa attenzione era stata sottolineata anche dal senatore Gerardo D’Ambrosio (l’ex magistrato di Mani Pulite, ndr). L’indulto è un provvedimento votato con fretta, senza il giusto livello di analisi". Il giudizio del sindacato di polizia non è certo più tenero. "Abbiamo sempre detto che l’indulto ci avrebbe costretto al doppio lavoro. Così è stato - commenta Ernesto Molteni, segretario comasco del Sap (Sindacato autonomo di polizia) - Abbiamo riportato in galera quasi la metà delle persone che hanno beneficiato dell’indulto. E quanto sostenuto dal prefetto, ossia che il 40% dei reati viene commesso dagli stranieri, è un dato di fatto. Secondo noi, però, le soluzioni esistono: certezza della pena, in primis. E poi chiediamo che i clandestini sorpresi a delinquere scontino la pena nel Paese d’origine". "Sugli oltre 500 detenuti di Como - spiega Massimo Corti, responsabile sindacale della Cisl al Bassone - la base di stranieri è parecchio vasta. Oltre agli ovvi problemi di comunicazione, i detenuti extracomunitari non possono usufruire delle forme alternative alla detenzione. Quindi, detto in parole povere, non hanno nulla da perdere, mentre gli italiani hanno interesse nel tenere una buona condotta". Como: Azouz Marzouk arrestato in inchiesta su traffico droga
Agi, 1 dicembre 2007
Clamoroso arresto nelle ultime ore: in manette è finito Azouz Marzouk, il tunisino 36enne vedovo di Raffaella Castagna, una delle quattro vittime della Strage di Erba avvenuta quasi un anno fa. Il giovane è stato arrestato per traffico di droga insieme al fratello Sadok e ad altre 4 persone. Da tempo, infatti, era noto che sul suo conto si stava indagando per un traffico di sostanze stupefacenti nella zona dell’Erbese, in particolare cocaina. Gli investigatori avrebbero contestato a Marzouk una serie di episodi di spaccio di droga che, a quanto pare, veniva portata in Italia dalla Tunisia dallo stesso Azouz a partire dal 2002 per essere poi spacciata attraverso vari canali in un’ampia area della Lombardia. Le indagini erano in corso prima del massacro in cui persero la vita la moglie, il figlioletto Youssuf di due anni e la suocera Paola Galli, oltre alla vicina di casa Valeria Cherubini. Poi, proprio per quanto accadde mentre lui si trovava a Zoughuan, il suo paese d’origine, le indagini furono sospese. Azouz era già finito in cella insieme al fratello Fahmi, residente a Merone (Como) per una indagine del 2004 che portò la Guardia di Finanza di Como a far scattare una serie di arresti proprio per un traffico di sostanze stupefacenti. Da quell’indagine ne era nata una successiva con indagati, ancora una volta, i due fratelli e altri loro parenti. Azouz è stato prelevato dagli uomini della Guardia di Finanza di Erba stamani alle sette a Merone mentre camminava per strada non lontano dall’abitazione dei suoi parenti dove lo cercarono nelle ore immediatamente successive alla strage di Erba e dove si è trasferito negli ultimi mesi, tra un viaggio e l’altro in Tunisia. Al momento dell’arresto era solo e non ha opposto alcuna resistenza. Ora si trova nello stesso carcere del Bassone dove sono detenuti Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi accusati di avergli sterminato la famiglia per "banali litigiosità di condominio", come affermò all’indomani dell’arresto dei due coniugi il Pm Astori, lo stesso che ha condotto l’indagine che ha portato in cella Azouz. Con lui in carcere non solo un fratello. Due delle dieci ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip Luciano Starace sono state notificate a persone già detenute, una, invece, a una donna. L’attività di spaccio che sarebbe stata gestita da Marzouk è riassunta un una ordinanza composta da ben 400 pagine contenenti, fra l’altro, decine di intercettazioni telefoniche. Pare che l’attività di spaccio sia proseguita anche dopo il massacro di Erba, come sembrerebbero dimostrare le stesse intercettazioni. Forse già lunedì potrebbe essere sottoposto a interrogatorio di garanzia. Due delle dieci ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip Luciano Starace sono state notificate a persone già detenute, una, invece, a una donna. L’attività di spaccio che sarebbe stata gestita da Marzouk è riassunta un una ordinanza composta da ben 400 pagine contenenti, fra l’altro, decine di intercettazioni telefoniche. Pare che l’attività di spaccio sia proseguita anche dopo il massacro di Erba, come sembrerebbero dimostrare le stesse intercettazioni. Forse già lunedì potrebbe essere sottoposto a interrogatorio di garanzia. Genova: un convegno sulle malattie infettive nel disagio sociale
www.quotidianoligure.it, 1 dicembre 2007
Il convegno "Hiv e malattie infettive nel disagio sociale" si tiene oggi - in concomitanza con la "Giornata mondiale dell’Aids - presso il Centro Congressi del Castello "Simon Boccanegra", situato all’interno dell’area del "San Martino" di Genova (Largo Rosanna Benzi, 10). In tale occasione i Primari di Malattie Infettive della Liguria saranno ancora a disposizione della stampa per illustrare le loro esperienze e peculiarità. Al convegno parteciperà anche Claudio Montaldo, assessore regionale alla Salute. Di seguito la presentazione del convegno "Hiv e malattie infettive nel disagio sociale" da parte del professor Claudio Viscoli. Anche quest’anno il 1 dicembre rappresenta un appuntamento irrinunciabile per quanti operano nel campo della patologia da Hiv. La Giornata mondiale è l’occasione di incontro, scambio di opinioni ma anche di acceso dibattito tra pazienti, istituzioni, medici e ricercatori impegnati in questa realtà quotidianamente. Grazie all’ampia risonanza offerta dai "media" emergono non solo gli eclatanti successi della terapia anti-retrovirale ma anche le ombre di una realtà spesso eterogenea, con differenze enormi tra nord e sud del mondo. Infatti ancora oggi, nonostante anni di promesse e lodevoli iniziative la situazione nelle aree più povere del mondo rimane tragica in termini di mortalità e sopravvivenza. Anche nei paesi industrializzati esistono zone d’ombra, in particolare il virus dell’Hiv continua a mietere le proprie vittime tra le persone più povere, gli immigrati ed i detenuti. Molto spesso per queste categorie di persone è difficile sottoporsi ad un test dell’Hiv, ma spesso diventa complicato non solo l’inizio della terapia ma anche il proseguimento corretto dello schema anti-retrovirale prescritto. I termini "counselling" ed aderenza trovano la loro giusta collocazione in questo ambito; infatti, per superare le carenze culturali, le differenze di lingua e costumi e le rigide regole detentive, molto spesso gli operatori devono perseguire questi due obiettivi nella loro attività giornaliera. La Giornata si propone quindi come occasione di dibattito tra quanti operano nelle case circondariali, negli ambulatori con i pazienti immigrati e le persone socialmente più deboli. Libri: "Strage all’italiana"; stazione di Bologna, 2 agosto 1980
Asg Media, 1 dicembre 2007
"Strage all’italiana", di Tommaso Della Longa - Edizioni Trecento. Il più grave atto di terrorismo sul suolo italiano ed europeo. Un’apocalisse che ha segnato duramente la storia d’Italia, lasciando sul campo 85 morti, 217 feriti e uno strascico di polemiche e divisioni. La strage di Bologna è tutto questo, ma non solo. È il simbolo di un storia fatta di misteri e depistaggi, è l’icona del giallo che si è subito tinto di nero, il colore dell’eversione neofascista. Ancora oggi però una larga parte dell’opinione pubblica ha molti dubbi al riguardo e la parola "fine" per una storia del genere ancora è lontana dal venire. Ci sono troppi interrogativi, troppi dubbi, troppe stranezze. E non basta, quindi, che in carcere ci siano tre persone che pagano e fungono da capri espiatori di un intero mondo, di un’intera epoca buia che l’Italia ha tristemente vissuto. Si è scritto molto su quel tragico 2 agosto 1980. Si è discusso e parlato. Ma ancora si è lontani da una storicizzazione dell’evento e dal vedere anche in lontananza la costruzione di una "memoria condivisa". Oggi si aggiunge un altro tassello al grande dibattito sulla strage di Bologna. Esce nelle librerie un volume destinato a far discutere. E forse proprio questo era uno degli intenti principali dell’autore di "Strage all’italiana" (Edizioni Trecento), l’avvocato Valerio Cutonilli, portavoce del Comitato "L’ora della verità". Non basta infatti la condanna dell’11 aprile 2007 di Luigi Ciavardini, con la quale sembrava essersi conclusa la vicenda giudiziaria relativa alla Strage. Non basta perché le polemiche non accennano a smettere e soprattutto perché non esiste ancora una chiara verità sull’accaduto. È quindi giusto che il portavoce di un Comitato che da anni si batte in maniera trasversale per ristabilire la chiarezza nei fatti avvenuti a Bologna abbia scritto un libro. Un atto giusto e doveroso. Soprattutto in questo preciso momento, in cui continuano ad uscire pubblicazioni su quegli anni, ma sempre da ambienti vicini alla sinistra, c’era bisogno di un libro di destra che raccontasse quel periodo e la tragica storia di Bologna, anche perché è proprio la destra ad essere stata infangata ed infamata da quel 2 agosto 1980. E ancora, proprio oggi escono fuori nuovi colpi di scena: un testimone misterioso che confermerebbe le accuse contro Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, il figlio del supertestimone Massimo Sparti che rivela a milioni di telespettatori i segreti inconfessabili del padre, mettendo in dubbio la genuinità delle sue deposizioni nei processi bolognesi. Intanto poi anche in ambito parlamentare continua la battaglia di tutti quelli che sono convinti che l’attentato del 2 agosto 1980 abbia una matrice diversa da quella attestata nelle sentenze. "Si delinea quindi - si legge nell’introduzione del libro - in modo sempre più evidente, una situazione paradossale che difficilmente potrebbe verificarsi in altri paesi. La forbice che oggi allontana la "verità" processuale dalla "verità" storica appare gravida di effetti. Conseguenze amare che non sarà semplice ignorare". Già perché poi ogni 2 agosto la famosa e tanto decanta memoria condivisa scompare e viene sepolta dalla strumentalizzazione di un evento tragico. "La ricostruzione giudiziaria della strage di Bologna non ha convinto l’opinione pubblica - continua l’introduzione - Le condanne sono percepite da una parte non trascurabile della società italiana come un’ingiustizia, i contenuti delle commemorazioni del 2 agosto un’umiliazione. Noi ci sentiamo di appartenere a quest’Italia. Tali sentimenti sono particolarmente intensi nelle nuove generazioni, diffusi tra quei ragazzi destinati a rappresentare una porzione rilevante della futura classe dirigente del paese. Ciò sembra costituire un ostacolo insormontabile per l’edificazione di quella "memoria condivisa" invocata dai rappresentanti delle istituzioni durante ogni anniversario dell’attentato di Bologna che dovrebbe caratterizzare una nazione civile". Nel libro non viene raccontata una verità di parte o una verità assoluta. Leggendo "Strage all’italiana", però, si capisce molto chiaramente che qualcosa è mancato, che nelle indagini è stata seguita da subito una sola pista e non si è guardato a 360 gradi come sarebbe stato doveroso fare davanti ad un tragedia di tali proporzioni. È chiaro che c’era una volontà politica. La teoria dei cerchi concentrici in cui la testa sarebbe stata la Loggia P2 di Licio Gelli, con subito dietro i vecchi del neofascismo italiano e ancora all’interno i giovani dello spontaneismo armato dei Nar, faceva acqua da tutte le parti già dopo poco tempo dall’inizio delle indagini. "La strategia degli inquirenti si delineò quando le macerie della stazione di Bologna giacevano ancora sul terreno - si legge all’inizio del secondo capitolo del libro - Il vaglio delle piste percorribili era durato poche ore. La mattina del 3 agosto 1980 - alle ore 5.30 - il Presidente della Repubblica Sandro Pertini incontrò i magistrati a cui sarebbe stata affidata l’inchiesta. Poche ore dopo il summit vi fu l’apertura ufficiale delle indagini. Sin da allora, i responsabili della strage vennero ricercati all’interno di un’area politica circoscritta: l’estrema destra. Ogni altra ipotesi investigativa fu posta in secondo piano. Il 5 agosto 1980 il quotidiano La Repubblica esibiva in prima pagina un titolo destinato a passare alla storia: "Torna il terrore nero. Per i giudici l’unica pista valida è quella fascista". È quanto meno strano il non aver verificato tutte le piste possibili, vista anche la situazione geopolitica che vedeva il nostro Paese come ponte verso il mondo arabo, con una politica estera italiana a due velocità che poteva essere mal vista tanto dagli occidentalisti, quanto dai filoarabi. E poi il modus operandi desta chiaramente qualche sospetto. "A ritmi quasi cadenzati - risponde Cutonilli al giornalista Gianluca La Penna che lo intervista e lo accompagna in ogni pagina del libro - comparve dal nulla un detenuto pronto a rivelare ai magistrati le confidenze ricevute - in modo più o meno diretto - dai presunti esecutori della strage". Testimoni inaffidabili, detenuti comuni che si inventano storie fantascientifiche, elementi dello Stato che inquinano le prove. Questo è lo scenario delle indagini. E quindi le domande sorgono spontanee. Per quale motivo tre persone sono condannate in via definitiva per una strage di cui non sono responsabili? Perché esiste una parte della nostra nazione che non è disponibile a riaprire il dibattito? Perché nessuno ha voluto indagare su altre piste? Non è importante gettare la croce sui palestinesi piuttosto che sul Mossad, né servono gli atteggiamenti da tifoseria calcistica. Quel che deve essere richiesto a gran voce è solo ed esclusivamente la verità. Il libro, che si svolge in otto capitoli, non ci dà una verità, ma forse una chiave di lettura di quegli anni e di quelle indagini. "Strage all’italiana" è un resoconto tecnico dei fatti. Forse l’unico modo per vederli in maniera obiettiva. Adesso bisognerà vedere come sarà accolto dall’opinione pubblica italiana. Una cosa però è certa: da oggi in poi la destra ha messo nero su bianco il proprio punto di vista, chiunque abbia il coraggio di dialogare e cercare la verità sulla strage di Bologna non ha più alcun alibi. Droghe: Ferrero; con Fini-Giovanardi riduzione danno illegale
Notiziario Aduc, 1 dicembre 2007
Sul versante della riduzione del danno in materia di tossicodipendenza l’Italia appare ancora indietro rispetto ad altri paesi europei e, per recuperare terreno, occorrerebbe cambiare a livello normativo poiché "con l’attuale legislazione è sostanzialmente impossibile". A sostenerlo, a margine della conferenza latina sulla riduzione dei danni correlati dovuti al consumo di droghe, è il ministro per la Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero. "Sì, assolutamente" ha replicato a chi gli chiedeva un commento sulla possibilità di avviare nuove politiche in materia di riduzione del danno. Tuttavia, ha aggiunto, "con l’attuale legislazione è sostanzialmente impossibile". È evidente il riferimento alle stanze del consumo, o narco-sale, in discussione a Torino e sulle quali anche il ministro della Salute, Livia Turco, aveva espresso identica posizione. Occorre cambiare la normativa, quindi? È stato chiesto. "Sì, ci sono dei vincoli tali... la legge Fini-Giovanardi rende sostanzialmente impossibile un intervento in materia di riduzione del danno". Oltre alla questione legislativa, secondo Ferrero, "c’è poi un problema più generale. Nella maggior parte dei paesi europei le politiche di riduzione del danno non sono né di destra né di sinistra, ma esiste un approccio alla materia scientifico. In Italia c’è un’egemonia del pensiero iper-ideologico di destra, che rende difficile il cambiamento". A giudizio di Ferrero, quindi, esiste "un problema legislativo e di arretratezza culturale". Droghe: Torino; contro gli spacciatori arriva la polizia a cavallo
La Stampa, 1 dicembre 2007
L’ordine della carica, ai cavalieri del distaccamento di Torino della polizia, è partito esattamente alle 15.26. Niente squilli di tromba, solo un "ok" via radio, inviato dal tetto al decimo piano di uno dei grandi palazzi del quartiere. Qui, s’era stabilito il comando delle operazioni, con il vicequestore Michelangelo Gobbi, i capi dell’Argo e delle Pegaso. Spettacolo impressionante, da lassù. Una marcia ininterrotta, durata ore, di tossicomani diretti verso i pusher, infrattati nel bosco. Il problema era quello di circondare l’intero perimetro. Il boss non è più il gigantesco nigeriano "Tyson", ma un gaboniano smilzo, dall’aria torva, circondato da una squadra di body guards che non lo perdono di vista un attimo. È lui che controlla i depositi di eroina white e di cocaina, nascosti nella macchia; divide i settori tra i suoi gregari e controlla il flusso di droghe. Ieri non c’era. Nuove anche le tecniche per battere le forze dell’ordine, sfruttando con astuzia leggi inadeguate. Al tossico vengono cedute non più di un paio di dosi, con l’obbligo di usarle subito, così non c’è pericolo di essere fermati in possesso degli stupefacenti, all’uscita, vanificando in questo modo i controlli. I cavalli hanno attraversato il fiume al galoppo, e si sono inoltrati nell’isola, nel cuore di un vasto canneto. La via di fuga preferita dai pusher di tossic park. Questa volta è andata male. Cinque africani, di cui uno smascherato da uno delle decine di consumatori fermati dalla polizia (riconosciuto come lo spacciatore che gli aveva ceduto, pochi istanti prima, una dose di white) sono stati fermati. La squadra poi, è risalita lungo gli anfratti del fiume, stanando via via i tossici e gli africani che si erano nascosti tra gli alberi e cumuli di rottami. Una ritirata surreale, al tramonto, con le sagome che si stagliano nitide sullo skyline, a pochi metri dagli svincoli di corso Giulio Cesare. Incalzati e inseguiti dai cavalieri. Stupiti, e anche un po’ divertiti, finalmente convinti a lasciare in pace, almeno per un giorno, una dei quartieri più tormentati della città. "La vera sfida - spiega il vicequestore Gobbi - è quella di non dare mai l’impressione di abbandonare il quartiere al suo destino. L’operazione di oggi va in questa direzione, al di là dei risultati". Ci avevamo quasi creduto che il parco dello Stura, e le sponde del fiume, fossero state davvero ripulite da pusher e tossicomani. Non solo grazie alla repressione ma anche e soprattutto per il tentativo di recupero delle aree verdi. Era bello, rassicurante, scrivere "ex tossic park", a proposito del parco Stura. Invece, con un processo lento e con qualche - piccolo ma significativo -cambiamento, questo pezzo di città è tornato ad essere il più importante ipermarket della droga di tutto il Piemonte. I cambiamenti riguardano il trasloco dell’epicentro dello spaccio che, dai giardini a fianco di corso Giulio Cesare s’è trasferito verso i canneti e il bosco di Sherwood, come le vedette italiane dei pusher africani lo definiscono nelle intercettazioni. Così, nella tarda mattinata di ieri, la polizia, con un’operazione voluta dal questore Stefano Berrettoni, ha deciso di dare un segnale forte al racket, che va di nuovo militarizzando gli argini dello Stura. Sudan: offende Maometto, folla chiede la condanna a morte
Ansa, 1 dicembre 2007
Era stata chiesta una condanna. Ottenuta. Si pensava quindi che la brutta avventura di una maestra britannica in Sudan che aveva "insultato il profeta", permettendo ai suoi alunni dare il nome di Maometto ad un orsacchiotto, fosse finita. Ora invece, migliaia di persone hanno manifestato a Khartoum chiedendo addirittura che venga messa a morte, ritenendo 15 giorni di carcere una pena troppo lieve. La protesta è esplosa nella capitale sudanese dopo la preghiera del venerdì e molti dimostranti hanno brandito coltelli e bastoni, gridando "esecuzione, nessuna tolleranza" e "uccidiamola, uccidiamola con il plotone di esecuzione". Tutto sotto gli occhi degli agenti anti-sommossa sudanesi che sono stati schierati ma non sono intervenuti per mettere fine alla manifestazione. Gilian Gibbson era stata condannata a due settimane di carcere per blasfemia. Scontata la pena la Gibbson sarà deportata in Gran Bretagna, hanno stabilito i giudici sudanesi. Da parte sua, il ministro degli Esteri britannico, David Miliband ha espresso "la massima preoccupazione" di Londra per la detenzione della cittadina britannica ed il Foreign Office ha rinnovato la richiesta di un suo immediato rilascio. Dopo la sollevazione popolare a Khartum, l’insegnante è stata trasferita dal carcere in un luogo di detenzione che resterà segreto. "Hanno spostato - spiega il suo avvocato dopo averla incontrata - la signora dal dipartimento penitenziario per affidarla a altre mani e in altri posti in modo da proteggerla. Vogliono essere certi che completi questi nove giorni senza problemi che possano avere conseguenze sulle loro relazioni estere" conclude il legale.
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