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Giustizia: intervista ad Ettore Ferrara, il nuovo Capo del Dap
Vita, 18 aprile 2007
"Il lavoro per i detenuti sarà la nostra priorità", spiega l’uomo che Mastella ha messo alla testa del sistema penitenziario. Che però avverte: "Dobbiamo favorire l’impresa privata che si affaccia su questo particolare mercato. O quanto meno non penalizzarla come accade oggi". Novità anche per i volontari: "Gli operatori dovranno parteciperanno alla programmazione dei progetti". E sulla Cassa Ammende: "In tasca abbiamo 127 milioni. Li spenderemo così..." Da dicembre regna su un impero di oltre 100mila persone, fra dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, circa 60mila, di cui 42mila agenti, e i 40.500 detenuti presenti nelle nostre carceri. Tre mesi di lavoro intenso con la bocca ben cucita. Chi conosce da vicino Ettore Ferrara spiega che il neo capo del Dap ha preso tempo per "studiare" una materia che lui stesso definisce "eterogenea e problematica". È venuto però il momento di mettere le carte in tavola. In questo dialogo con Vita Ferrara alza il velo sul suo programma di governo.
Per la prima volta in questi mesi si è avvicinato al mondo del carcere. Che realtà ha trovato? Un mondo complesso, ma ricco di risorse. Mi riferisco in primis alla professionalità degli operatori della polizia penitenziaria.
Dopo l’indulto il rapporto fra agenti e detenuti è crollato a 1 a 1 e anche gli educatori non sono più sotto organico. Eppure in molti istituti si lamentano ancora carenze di organico. Come lo spiega? Questa fotografia riflette un problema ormai cronico. La stragrande maggioranza degli operatori è originaria del Sud. Gli stipendi sono bassi - 1.200 / 1.300 euro al mese - così tutti chiedono l’avvicinamento alle città di origine, lasciando scoperte le carceri del Nord.
Con pesanti ripercussioni sulla vivibilità. Come si inverte la rotta? Sarebbe necessario intervenire sul piano delle risorse economiche. Per esempio la fornitura di alloggi gratuiti per gli agenti sul modello della cittadella giudiziaria che sarà realizzata a Torino.
Lei ha più volte accennato alla necessità di un nuovo umanesimo carcerario. Cosa significa? L’attenzione verso l’uomo in quanto tale dovrà diventare centrale. Sia sul piano dell’etica che su quello religioso. Del resto è la stessa Costituzione a prescrivere l’obbligo di programmare un’attività trattamentale che miri alla rieducazione e al reinserimento sociale.
In questo senso portare il lavoro in carcere sarebbe decisivo, non crede? Il lavoro è il perno dell’attività trattamentale. Su questo punto mi impegnerò al massimo. La prima cosa è coinvolgere l’imprenditoria privata. L’impresa che si affaccia su questo particolare mercato del lavoro deve esser favorita, o per lo meno non penalizzata. Se pensiamo di soddisfare questa esigenza solo con le forze dell’amministrazione andremo incontro a una sicura disfatta. Creando un ulteriore problema, invece di risolverlo. Mi impegnerò affinché lo Stato avverta come fondamentale tale traguardo. Contrastare l’ozio in cella è l’assicurazione più valida per innescare il recupero sociale. La politica però non ci lasci soli.
In che senso? L’area della detenzione si deve ridurre. Il sovraffollamento ostacola il trattamento.
Finora non ha accennato al volontariato… Di fianco agli agenti è l’altra grande risorsa. Una stampella imprescindibile per tenere in piedi la baracca.
Il punto è questo. I volontari vorrebbero anche poter partecipare alle decisioni e non solo intervenire a cose fatte… La porta è aperta. In futuro ci dovrà essere massima collaborazione. Le iniziative saranno condivise da operatori e volontari fin dalla fase di progettazione.
A proposito di progetti, a quanto ammontano i fondi disponibili nella Cassa Ammende? Il patrimonio ad oggi è di 127 milioni di euro. Già sottratti i 3,3 milioni messi a disposizione degli indultati.
Come pensate di impegnare queste risorse? Per statuto i fondi vanno utilizzati a favore dei detenuti. Al primo punto c’è ovviamente la questione del lavoro e della formazione. Stiamo però pensando di modificare le procedure di elargizione. Fino ad ora le proposte dei progetti arrivavano dal territorio e venivano valutate dall’amministrazione centrale. Questo però comporta una mancanza di omogeneità delle iniziative che risultavano troppo slegate fra loro. L’ipotesi allo studio è di affidare al Dap la redazione di un unico progetto che poi sarà declinato a livello locale.
Seguendo il dibattito politico la chiusura degli Opg sembra sempre più vicina. Cosa ne sarà degli internati? Attualmente negli ospedali psichiatrici giudiziari si trovano 1.300 persone. Il 50% di loro non presenta più i requisiti di pericolosità che giustifichino la permanenza in luoghi di detenzione, ma restano a nostro carico perché sui territori mancano strutture in grado di accoglierli. Mi auguro che il ministero della Salute e le Regioni si attrezzino il prima possibile. Anche se nell’immediato mi sembra un passaggio di difficile realizzazione.
La norma sul garante nazionale invece è in dirittura di arrivo. Cosa ne pensa? Non sono contrario, ma ho delle perplessità.
Teme che una vigilanza esterna possa mettere in imbarazzo l’amministrazione penitenziaria? Non è questa la ragione. Ritengo però che si possano creare sovrapposizioni e momenti di confusione. Mi auguro, perciò, che la disciplina sul garante sia estremamente rigorosa.
Intervista di Stefano Arduini Giustizia: sono 17 le carceri italiane dove non esiste volontariato
Vita, 18 aprile 2007
Il 40% si trova in Sicilia. Viaggio nelle carceri senza volontari. Le associazioni locali non cercano scuse: "Manca la cultura". E la Caritas punta il dito contro i giovani: "Senza tornaconto, non si impegnano". 17 su 206. Piccole, decrepite, sperdute in campagna. Sono le carceri italiane senza volontari. Sette di loro, oltre il 40%, si trovano in Sicilia. Di chi sono le responsabilità? Vita l’ha chiesto ai capofila del volontariato siciliano. In molti fanno mea culpa. "La ragione principale risiede nella mancanza di una cultura della solidarietà", attacca Maurizio Artale, rappresentante regionale della Cnvg - Conferenza nazionale volontariato e giustizia, l’ente che ha firmato la terza rilevazione sul volontariato penitenziario, l’ultima con i dati scorporati istituto per istituto. "La gente ha perfino paura di entrare in carcere", aggiunge Artale. "È lo spirito del volontariato ad essere stravolto", rincara Giovanna Gioia, responsabile di Asvope - Associazione volontariato penitenziario che opera a Palermo. "Ci sono molti che creano associazioni perché vedono nel terzo settore un’occasione di guadagno ma nel carcere non entrano". Oggi nei 26 istituti siciliani (3.712 detenuti in totale) operano 201 volontari, concentrati quasi esclusivamente nelle carceri più grandi, come l’Ucciardone o il Pagliarelli del capoluogo. L’autocritica è d’obbligo anche per Bruno Di Stefano, presidente della sezione siciliana della Seac. "Quando manca l’offerta da parte della società civile", riflette Di Stefano, "non si può addossare tutta la colpa alla durezza dei direttori, come qualcuno è tentato di fare". La fama di duro sta stretta a Claudio Mazzeo, direttore dal 2003 della Casa circondariale di Caltagirone , uno dei sette istituti a quota zero volontari. "Sarei ben lieto di ospitarli", rivela Mazzeo, "ma l’unica figura esterna che entra da noi è una suora, altre persone che vogliano impegnarsi con continuità non se ne vedono". "In quattro anni di reggenza non ho mai rifiutato alcun volontario", gli da eco Orazio Faramo, provveditore capo a Palermo. "Ammetto che molti istituti vanno rifatti e a volte il comportamento restrittivo dell’autorità spaventa gli operatori", continua Faramo, "ma in Sicilia il fattore principale è di stampo culturale". Per monsignor Benedetto Gesualdi, responsabile Caritas Sicilia, questo fattore ha una spiegazione: "I nostri giovani, se non hanno un guadagno, vedi servizio civile, non sono interessati al volontariato". Aversa: nell'Opg i "matti" dimenticati, viaggio tra suicidi e aids
Corriere della Sera, 18 aprile 2007
Il letto dove dormiva Salvatore è una delle sei brandine gialle nella cella in fondo al corridoio al primo piano della staccata. Ora non ci dorme nessuno, non c’è più nemmeno il materasso. Qualche giorno fa Salvatore a quella brandina ci ha annodato un pezzo di lenzuolo, quando ha deciso di uscirsene da qui a piedi avanti. E ci è riuscito. Perché non è vero che quando uno si impicca è la forza di gravità che fa stringere il nodo scorsoio e spezzare l’osso del collo. Può essere pure la forza di volontà. Salvatore quella forza l’ha avuta. Un capo del lenzuolo annodato alla branda, l’altro alla gola. E poi un tuffo in avanti. Solo che così non finisce in un attimo. Ci vuole tempo per morire in questo modo. Salvatore respirava ancora quando i sorveglianti lo hanno visto e hanno aperto la porta della cella. Era pazzo Salvatore. Pazzo criminale. È inutile cercare altre parole quando la vita di quelli come lui è lasciata scorrere senza speranza in un posto che si chiama ospedale - ospedale psichiatrico giudiziario - ma che alla fine non è diverso da un manicomio. Salvatore era uno dei trecento reclusi dell’Opg di Aversa - che ne potrebbe ospitare al massimo 170 - dove negli ultimi mesi ci sono stati tre suicidi e due morti per Aids. La sezione dove stava lui la chiamano la staccata, perché è separata dal resto dell’istituto e ci stanno quelli messi peggio. L’ultima stanza dell’ultimo piano è anche l’ultimo stadio dell’incubo: due metri per quattro con tre letti uno accanto all’altro. Letti speciali, ai lati i ganci per le cinghie, al centro un buco. Chi perde il controllo e non si calma nemmeno con i farmaci finisce là sopra. Resta immobilizzato finché il medico non dà l’ok a tirarlo giù. Se gli scoppia la pancia la fa attraverso quel buco, se ha un dolore alla schiena o un prurito sulla fronte se li tiene. Il deputato di Rifondazione Francesco Caruso viene spesso a vedere come vanno le cose qui dentro. Ha fatto interpellanze al Guardasigilli Clemente Mastella, sta cercando di portare la commissione Affari sociali a fare ispezioni ad Aversa e negli altri cinque ospedali come questo che esistono in Italia, punta a una legge che chiuda definitivamente gli Opg. Accompagnarlo significa passarsi in rassegna la stanza dove è morto Salvatore e la staccata e gli altri reparti e l’infermeria, e spulciare il registro dove sono annotate le contenzioni. L’ultima è toccata a Giampiero, che ha tentato di ammazzarsi quando ha capito che la ragazza di cui è innamorato non avrebbe mai risposto alle sue lettere. Lo hanno tenuto lì un paio di giorni. Adesso ne parla quasi come se non ci fosse stato lui legato su quel letto infame: "E che dovevano fare? Non mi calmavo con niente. Ora no, ora sto meglio, ora sono tranquillo". Gli trema appena la palpebra, mentre racconta, ma è normale. Non è mica davvero tranquillo, Giampiero. Non lo è lui e non lo sono gli altri reclusi. Solo che la maggior parte non sono nemmeno più socialmente pericolosi. Su negli uffici è pieno di relazioni positive firmate dagli psichiatri del centro. Il direttore Adolfo Ferraro ha quantificato nel 60 per cento dei detenuti quelli che potrebbero uscire se ci fossero fuori strutture adatte ad accoglierli e curarli. Ma le Asl non sono in grado di occuparsene, oppure non vogliono. E comunque un recluso in Opg costa 600 euro all’anno, fuori ne costerebbe circa ventimila. E così pure a pena scontata, spesso al giudice di sorveglianza non resta altro che applicare la proroga della reclusione. Lo chiamano ergastolo bianco, nessuno sa quando finirà. Alla staccata c’è uno che si chiama Luigi, ha una quarantina d’anni, lo chiusero qui che era giovanissimo perché al suo paese dava fastidio alle ragazze e menava i ragazzi. Non se ne è mai più andato. Non si ricorda nemmeno più quale era il suo paese e non sa quanto tempo ha passato qui dentro. Il suo compagno di cella, un toscano che prima di arrivare ad Aversa ha girato una decina di carceri e un paio di Opg, lo tratta come un fratello, una volta se l’è portato pure fuori in permesso. Luigi non chiede quando uscirà un’altra volta, non chiede se uscirà mai. Chiede solo le sigarette, è capace di consumarne una con quattro o cinque boccate. Fuma e basta, Luigi. Peppino invece no, lui vuole andarsene. Ha 42 anni e ne dimostra almeno dieci in più. Indossa un vestito grigio con il panciotto e le scarpe bianche. Corre in cella a prendere la sentenza di proroga della detenzione e se la rigira tra le mani. Dice: "Io a Roma ho la mia casa, le mie cose, il mio lavoro. Ho pure un poco di soldini in banca". Chissà che troverebbe di tutto questo, se ci tornasse davvero a Roma. Sta qui da tredici anni, da quando lo presero ubriaco mentre faceva a pezzi un telefono della stazione Termini. Tredici anni per un danneggiamento. Rinaldo invece ha ucciso, ma adesso ha 81 anni e vorrebbe andarsene a morire a casa sua a Frosinone. È l’unico che sta in cella da solo, "perché qui sono tutti pazzi e scemi e io con i pazzi e gli scemi non ci voglio stare". Poi va a prendere una sagoma di cartone a forma di violino e dice: "Vedi, sono un liutaio, mica sono uno qualsiasi, io". Ognuno in questo manicomio ha a suo modo una storia straordinaria da raccontare. Storie di assassini disperati, ladri disperati, rissaioli disperati. Comunque storie di disperati. E nel momento del passeggio nel cortile della staccata - un posto che trent’anni fa chiamavano "lo zoo" - quelle storie ti assalgono tutte insieme. Giuseppe chiede aiuto perché ha un avvocato che si è dimenticato di lui, Anselmo perché "a me mi ha condannato un giudice russo, ma io non ce l’ho con la Russia", Giovanni perché vuole andare in comunità e perché non ha nemmeno le scarpe e nessun parente e nessun dente e non si capisce neanche tanto bene quello che dice. Poi però sì, che si capisce: "Peggio delle bestie", ripete ossessivamente, e si comprende anche perché dica così. "Peggio delle bestie", insiste Giovanni, e si avvia di corsa verso i gabinetti in fondo al cortile. Ecco che intendeva: cumuli di feci sul pavimento, piscio dappertutto, mosche, una puzza che manco a dirlo. Toglie l’unica illusione Giovanni, con quella sua voce che si perde nel naso e nella bocca vuota. Sembrava almeno un posto pulito l’Opg di Aversa. Invece fa pure schifo. Aversa: Caruso; l’Opg è un lager, interrogazione parlamentare
Corriere della Sera, 18 aprile 2007
Il testo dell’interrogazione parlamentare sull’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa presentata dal deputato di Rc Francesco Caruso alla fine dello scorso Gennaio. Al momento non vi sono risposte. Al Ministro della giustizia, al Ministro della salute. - Per sapere - premesso che: in data 28 dicembre 2006 l’interrogante si è recato in visita presso l’ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa "Filippo Saporito", che ospita circa 300 internati e ha visitato la Sezione cosiddetta "Staccata" e i reparti 5 e 6 della struttura; nell’Opg di Aversa, si sono registrati, nel 2006, due suicidi in soli trenta giorni, uno nel mese di ottobre e un altro nel mese di novembre; gli internati presentati nella sezione cosiddetta "Staccata" versavano tutti in condizioni di evidente degrado fisico, vestiti con abiti laceri e maleodoranti, presentando molti di loro segni di evidenti dermatiti e una ancora più evidente assenza di cura dell’igiene personale; la condizione di abbandono fisico non era legata a stati di scarsa lucidità psichica, visto che molti degli internati, durante il colloquio, si mostravano presenti a se stessi e, seppur in condizioni di disagio psichico, consapevoli dello stato di degrado in cui versavano; tra gli internati incontrati nel cortile ve ne erano, però, diversi che apparivano in stato di grave abbandono fisico e psichico, ripiegati su stessi e completamente assenti o impegnati in gesti ripetitivi nella completa indifferenza e assenza di personale medico; le celle di questi internati erano completamente spoglie, prive, cioè, al di là del letto e delle coperte, di ogni tipo di arredo o suppellettile, senza neppure un tavolo o delle sedie; la sala dei letti di contenzione è una saletta composta da tre letti adiacenti, rimasta immutata in questi anni, e alla quale ancora oggi si fa ricorso; dalla consultazione del registro è emerso che un internato Marco Orsini è stato costretto al letto di contenzione per oltre 11 giorni di seguito nel mese di dicembre 2006; pur "ospitando" la struttura circa 300 internati vi è un solo educatore, a fronte di circa, 80 agenti di custodia; gran parte del personale infermieristico e quello psichiatrico è a contratto, con un monte ore di consulenza inadeguato ad ogni principio di cura; il personale di polizia penitenziaria che lavora in Opg non riceve una specifica formazione per persone con problemi psichici e proviene da ordinari istituti di pena; la cifra per il vitto che l’Amministrazione penitenziaria spende per ciascun internato è di appena 1,50 euro al giorno; si è verificata l’assenza di farmaci, in particolare il Depatox, per la cura di epatiti, e l’impossibilità o la difficoltà ad effettuare visite dermatologiche; in molte celle manca carta igienica e sapone; molti internati lamentano che non siano concessi i colloqui telefonici straordinari; nel mese di dicembre è venuto a mancare per lungo periodo il riscaldamento; i tempi di attesa per un colloquio con l’educatore professionale sono lunghissimi; i tempi di permanenza in Opg di moltissimi internati sono sproporzionati al tipo di reato addebitato e molti degli internati sono in proroga di misura di sicurezza; ad esempio, durante la visita lo scrivente ha incontrato Costantino Corona, internato da circa 30 anni, che era in un evidente stato di abbandono e di assenza di pericolosità sociale, dato che stentava a reggersi in piedi e che si comportava come un bambino di pochi anni; non vi è nessun raccordo tra amministrazioni penitenziaria, territori, istituzioni locali e Asl, per cui, anche in presenza di protocolli di intesa, gli internati si vedono prorogata la misura di sicurezza perché la pericolosità sociale dell’internato è data dall’assenza di strutture di accoglienza -: se non ritenga opportuno, alla luce di quanto esposto, attivare una immediata ricognizione delle condizioni di internamento dell’Opg di Aversa e se non ritenga opportuno porre in essere atti e provvedimenti tesi a porre rimedio allo stato di abbandono e degrado in cui versano molti degli internati, in particolare quelli ristretti nella sezione "Staccata"; se esistano protocolli di intervento per internati costretti al letto di contenzione e quali direttive abbia il personale medico nel determinare modalità e tempi della contenzione; quanti siano, secondo le stime del ministero, gli internati in proroga di misura di sicurezza e se tale proroga sia accompagnata, invece, da una perizia psichiatrica favorevole alla cessazione della misura, nei sei Opg presenti nel nostro paese; se, contestualmente al sensibile miglioramento delle condizioni di detenzione che vanno almeno riportate a quanto prescritto dall’ordinamento penitenziario, il Ministro intenda adottare iniziative volte ad attivare percorsi di dimissione degli internati per i quali non sussista più la condizione di pericolosità sociale; se, come annunciato dalla stampa, il Governo abbia intenzione di presentare un progetto di legge per la chiusura e il superamento degli Opg. Lettere: detenuti da tutta Italia scrivono a "Radio Carcere"
www.radiocarcere.com, 18 aprile 2007
Due donne detenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere "Cara Radio Carcere e caro Arena, siamo due detenute del carcere femminile di Santa Maria Capua Vetere, reparto Senna. Ti volevamo dire che nel nostro istituto non avviene alcun tipo di riabilitazione. Dopo varie istanze ci hanno concesso il corso di preparazione al teatro e per la realizzazione di uno spettacolo ci siamo dovute affidare alla nostra fantasia ed alla nostra volontà. Non ci viene fornito il materiale necessario, neanche colori, colla ed altro perché in questo istituto non è consentito né l’ingresso tramite corrispondenza o pacco colloqui, né l’acquisto degli stessi. Siamo rimaste molto incuriosite dall’intervento del vice capo Dap dottor Emilio Di Somma durante la trasmissione "altrove" di qualche mese fa. Il dott. Di somma in tv disse che in ogni istituto è indispensabile esercitare un programma di rieducazione e di riabilitazione, per rendere la carcerazione meno afflittiva e meno disumana, ma anche al fine di restituire alla società le "persone" e non gli "ex detenuti". Vogliamo replicare a questo intervento precisando che in questo carcere, e pensiamo anche in altri, queste belle parole sono purtroppo solo utopia. Noi donne detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, tranne sporadiche iniziative, non sappiamo cosa sia la rieducazione. Poco o nulla si fa per farci uscire da qui migliori. Spesso ci sentiamo private anche della nostra dignità. Ti diciamo solo che qui gli educatori, ricordano di più quelle vecchie maestre degli anni 50, che sgridavano ed intimorivano i propri alunni. Considerando che tra di noi c’è un gran numero di mamme e nonne, tutto questo è una vera umiliazione. Abbiamo una direttrice, ma personalmente non l’abbiamo mai vista in circa 9 mesi di detenzione, l’educatore fa meno apparizioni della madonna, l’area verde esiste ma non è utilizzata nonostante le nostre richieste. Abbiamo quindi deciso di non scoraggiarci e di praticare l’auto riabilitazione. siamo iscritte entrambe alla facoltà di giurisprudenza e lo studio avviene esclusivamente con volontà e mezzi propri. Siamo consapevoli che la nostra "voce" è silenziosa ed ha meno peso di quella delle persone libere, che la nostra "verità" non ha lo stesso valore di chi vive dall’altra parte del muro, che la certezza del nostro "domani" dipende dagli altri. Questa mentalità ci fa sentire dei "diversi" e paradossalmente non ci sentiamo persone dentro ma fuori dalla società, però sempre libere di sperare. Con stima."
Angelo dal carcere di Prato "Caro Riccardo, scusa se ti scrivo dopo tanto tempo, ma ti confesso che non ho passato un bel momento. Non vedo i miei figli da parecchi mesi e sono disperato. Tanto disperato che il 7 gennaio ho tentato di impiccarmi. Mi dispiace se ho dimostrato di essere debole, ma in quel momento non avevo più speranze e ho deciso di farla finita. Per fortuna un mio amico mi ha salvato e ora lo ringrazio tanto. Dopo mi hanno addormentato per giorni e solo ora riesco a scriverti. Ciao Angelo"
Mauro dal carcere Opera di Milano "Cara Radio carcere, qui a Opera anche dopo l’indulto sopravvivere è difficile. Prima di tutto il diritto alla salute. Se uno di noi ha bisogno del medico lo deve prenotare e aspettare per settimane. Se uno di noi sta male in quel momento non hanno neanche un farmaco per il mal di testa… e se protesti ti fanno rapporto. La situazione è ancora più grave se hai un dolore specifico, come il mal di denti. Ti prende un terribile mal di denti in cella? Beh, nel carcere di Opera te lo tieni fino a che non ti passa… e se protesti ti fanno rapporto Per chi ha problemi di deambulazione la situazione è triste. C’è gente che se ne sta in cella solo perché si è stancata di chiedere la sedia a rotelle. Anche l’igiene è a rischio nel carcere di Opera. Sapone, dentifricio o detersivo per pulire la cella arriva una volta e poi… e poi non si sa… e se protesti ti fanno rapporto. Parlano tanto del lavoro in carcere, pubblicizzano corsi di computer e noi ci crediamo e facciamo la domanda per farli sti corsi o per lavorare… ma la risposta non arriva mai… e se protesti ti fanno rapporto. Noi nel carcere di Opera possiamo dire veramente che stiamo al fresco. Infatti, in molte celle i riscaldamenti non funzionano per nulla ed in altre poco… morale dormiamo vestiti. Caro Riccardo noi ti ascoltiamo sempre ma abbiamo tanta paura di parlare per le conseguenze che potremo subire… sai com’è in galera soprattutto al peggio non c’è mai fine. Ti ringrazio per avermi letto"
E. internato nella colonia agricola di Isili in Sardegna "Caro Riccardo, ti scrivo questa cartolina dalla colonia agricola di Isili, vicino Nuoro. Sono un internato, uno dei tanti che sta in galera senza condanna ma con una c.d. misura di sicurezza detentiva. Devi essere uno pericoloso per avere questa misura. Il problema è che la nostra pericolosità negli anni non viene adeguatamente verificata. E così rimani internato. Ti scrivo per dirti che anche noi ascoltiamo e leggiamo Radio Carcere. Senza di voi si spegnerebbe l’unico faro che fa luce sulla realtà della Giustizia in generale e non solo. La vostra è un’informazione reale e corretta ed è anche un invito a noi reclusi a rispettare le leggi e a far rispettare i nostri diritti che ci riconosce la legge. Una legge, come ben sai, che è troppo spesso monca quando si tratta di occuparsi di noi disgraziati. Un caro saluto dalla colonia agricola di Isili". Ancona: ha solo 16 anni, rischia di dover partorire in carcere
Corriere Adriatico, 18 aprile 2007
Forse Alice deve rassegnarsi a partorire in carcere. Sembra destinata a fallire la richiesta della difesa di ammorbidire la custodia cautelare nei confronti della spacciatrice di sedici anni che abbiamo chiamato con un nome di fantasia. "Non c’è nulla di ostativo agli arresti domiciliari dalla nonna", aveva sottolineato l’avvocato Ennio Tomassoni. Se, come pare verrà confermata la linea dura e il giudice deciderà di insistere con la detenzione, il legale farà appello. "Ritengo lesiva della dignità della nascitura e della madre una decisione del genere", lamenta il legale che si dice "sbigottito". E continua. "Non si capisce perché il Tribunale debba continuare a preferire un parto in carcere rispetto a un parto con i familiari". Il timore della fuga? "Non esiste, bisogna ricordare che il tunisino con cui la ragazza si è accompagnata è detenuto e aspetta il processo fissato per luglio. Fino ad allora non uscirà dal carcere". Darà ancora battaglia. "A mio avviso c’è incompatibilità tra gravidanza e detenzione". Lunedì la baby pusher aveva detto al giudice di non voler andare in comunità, e se proprio non la lasciavano tornare dalla nonna, era meglio restare nell’istituto di pena per minori di Casal del Marmo. Un atteggiamento non del tutto anomalo, racconta chi conosce bene il pianeta dei minori da rieducare, perché la struttura carceraria offre molte più attività e cose da fare rispetto alla comunità. In comunità, in un istituto di Fano, Alice ha dato il peggio di sé, replicando il reato di spaccio, e si è meritata un arresto bis. Era il 17 gennaio, i carabinieri l’hanno sorpresa a lanciare dalla finestra avvolto in un asciugamani un involucro che conteneva venti grammi di eroina. La droga era destinata al suo fidanzato tunisino - finito anche lui in manette - che la aspettava sotto l’edificio. Era quel che rimaneva della partita che la giovanissima spacciatrice teneva nascosta nelle parti intime quando, una manciata di giorni prima, era stata fermata dai militari dell’Arma alla stazione. Dopo aver consegnato gli 80 grammi di eroina, Alice aveva cercato di difendersi spiegando ai carabinieri che i mille euro che avrebbe guadagnato vendendo la droga sarebbero serviti a crescere la piccola creatura che aveva in grembo. E che presumibilmente dovrà nascere in carcere, a coronamento di un’adolescenza davvero difficile che la mamma ha dovuto sopportare. È il prezzo che Alice deve pagare a una situazione familiare particolarmente delicata. Il rapporto tra i suoi genitori da tempo si è frantumato, è precipitata in un cratere scavato da anni di incomprensioni e divisioni la crescita di una bambina che è stata rimpallata da una struttura protetta all’altra. In questo ping-pong nel quale è stata anche ospitata dalla nonna, ha incontrato il giovane tunisino che l’ha resa madre, ma la gioia della maternità è offuscata nella penombra del carcere. Genova: anche i detenuti impegnati nella raccolta differenziata
Il Giornale, 18 aprile 2007
"Per la prima volta non è il detenuto a beneficiare di un servizio, ma è lui stesso a offrirlo, rendendosi partecipe di un programma di politica ambientale all’interno del carcere". Così Salvatore Mazzeo, direttore della casa circondariale genovese, inquadra la curiosa iniziativa a favore della raccolta differenziata che coinvolgerà sia i detenuti, sia gli agenti di polizia penitenziaria nella struttura di Marassi. Promotori del progetto, oltre alla direzione delle "Case Rosse", sono la commissione speciale carceri della Provincia, l’assessorato al ciclo dei rifiuti del Comune e la polizia penitenziaria. Nelle vesti di partner il Comieco (consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica), il Corepla (consorzio nazionale per la raccolta e il recupero degli imballi in plastica) e l’Amiu. Ma i veri "sponsor" del progetto saranno due detenuti, privi di sanzioni disciplinari e "fortemente motivati nelle problematiche ambientali", sottolinea il direttore del carcere che al momento accoglie 450 persone. Per l’attività svolta, la coppia di detenuti riceverà due borse lavoro a carico di Amiu. Il progetto è sperimentale e avrà la durata complessiva di un anno. Durante il quale gli "sponsor" della raccolta differenziata faranno il giro delle 122 celle raccogliendo la plastica dai contenitori posizionati all’interno di ogni cella con l’ausilio di un sacchetto in carta autoreggente. "Abbiamo creato dei contenitori ad hoc - spiega Carlo Montalbetti, direttore generale Comieco - dedicati esclusivamente alla raccolta differenziata che rispondono a norme obbligatorie per la sicurezza". Non basta: giornali e riviste verranno ritirati ogni giorno dai due detenuti che provvederanno poi a smistarli in appositi "recipienti". La raccolta differenziata sarà quindi fatta solo per carta, cartone e plastica. Ma lo stesso tipo di raccolta è prevista anche negli uffici amministrativi del carcere dove verranno distribuiti contenitori in cartone accanto alle fotocopiatrici e vicino a ogni scrivania saranno posizionati sacchetti di carta dedicati alla raccolta delle piccole quantità prodotte ogni giorno. Idem per la mensa, utilizzata dal personale interno, e per il bar dove verrà effettuata la raccolta del vetro e del materiale organico. In realtà il progetto sta già muovendo i primi passi in questi giorni. Comieco, Corepla e Amiu hanno predisposto una brochure di 16 pagine tradotta in quattro lingue (italiano, arabo, spagnolo e albanese) che descrive il ciclo di vita dei materiali raccolti in maniera differenziata. E gli opuscoli sono stati già distribuiti ai singoli detenuti. Sono previsti anche incontri di formazione di un’ora e mezza per 20, 25 persone alla volta tenute da esperti del settore. "L’iniziativa - ricorda Pietro d’Alema, amministratore delegato di Amiu - in futuro potrebbe essere replicata presso altre grandi utenze, come scuole e ospedali. Oltre a carta e plastica questo progetto ci consentirà di sperimentare la raccolta di rifiuti organici finalizzata alla crescita del compost che produciamo nel nostro impianto in Val Varenna". Pare che nei primi tre mesi del 2007 i genovesi abbiano incrementato del 6 per cento la raccolta differenziata di carta e cartone rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma il vero obiettivo dell’iniziativa lo ricorda Milò Bertolotto, presidente della commissione speciali carceri della Provincia: "Rafforzare quel ponte tra carcere e società, indispensabile per restituire una prospettiva di reinserimento ai detenuti". Lombardia: Antigone e Prc visitano carceri di S. Vittore e Como
Comunicato stampa, 18 aprile 2007
Venerdì 20 aprile il deputato indipendente del Prc Daniele Farina entra in visita al carcere di San Vittore Milano, il consigliere regionale del Prc Luciano Muhlbauer ispeziona la casa circondariale di Como. Le due visite si inseriscono nell’ambito della campagna visite Antigone-Prc "Il carcere dopo l’indulto" che si propone di verificare le condizioni di detenzione post indulto, con particolare attenzione al funzionamento dell’assistenza sanitaria, oggi allo stremo, e alla mancata attuazione del regolamento penitenziario. Entrambi gli istituti di pena si caratterizzano per la fatiscenza delle strutture. A San Vittore la delegazione, composta da Daniele Farina, l’avvocato Marco Dal Toso e Melissa Turri di Antigone, porrà particolare attenzione alle condizioni di detenzione dei numerosi detenuti stranieri, tossicodipendenti e con disturbi psichici. A Como Luciano Muhlbauer, accompagnato da Massimo Algarotti e da Antonio Casella di Antigone, cercherà invece di capire perché i ristretti in alta sicurezza sono in una condizione di quasi totale inattività. Le delegazioni, al termine delle visite, incontreranno la stampa alle ore 12.30 innanzi all’istituto di San Vittore Piazza Filangieri, 2. Per informazioni: Antigone Milano 335.254354. Latina: il sindaco incontra gli agenti di polizia penitenziaria
Il Tempo, 18 aprile 2007
Il sindaco ha incontrato gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di via Aspromonte a Latina. L’appuntamento, organizzato dall’associazione culturale "Il Gattopardo", è stata anche l’occasione per parlare ampiamente e a lungo della situazione in cui versa, oggi, il carcere di Latina. Gli agenti di polizia penitenziaria con a capo il direttore del carcere Claudio Piccari, hanno chiesto a Zaccheo quali siano i progetti futuri per la Casa Circondariale di Latina. Il primo cittadino di Latina ha spiegato loro che ci sono già stati diversi incontri (voluti dal sindaco in questi anni di amministrazione) sia con i rappresentanti del Ministero di Grazia e Giustizia, che con il Prefetto e il Presidente del Tribunale di Latina nel tentativo di trovare una soluzione per una struttura, quella di via Aspromonte, ormai vecchia e sovraffollata. "Purtroppo quello del carcere non è un problema che riguarda in prima persona l’Amministrazione comunale - ha detto Zaccheo - In questi anni mi sono occupato più volte della cosa, avrei anche individuato un’area adatta ad ospitare un carcere importante come quello di Latina, seconda città del Lazio dopo Roma e quindi con una domanda di posti superiore alle disponibilità di oggi. Bisogna pensare - ha aggiunto - ad un carcere in grado di ospitare almeno 500 detenuti e che preveda, naturalmente, tutti i servizi necessari agli agenti di polizia penitenziaria". Il candidato a sindaco si è poi impegnato affinché il progetto di spostare il carcere vada a buon fine "anche perché - ha concluso Zaccheo - in via Aspromonte non ci sono più le condizioni (di mobilità e di sicurezza) per ospitare un carcere. Comunque la buona notizia - ha detto ancora Zaccheo - è che anche il Ministero di Grazia e Giustizia ha dato il suo parere favorevole allo spostamento del carcere". Milano: Fabrizio Corona; datemi una palestra... e un televisore
Il Giorno, 18 aprile 2007
Un pensiero. Anzi due, su tutti. Scrivere (e lo sta facendo) un diario-memoriale nel quale raccontare la sua verità sulla vicenda che l’ha coinvolto, travolto, sbalzato dal piccolo trono rutilante che si era costruito in questi anni. Recuperare la forma fisica intaccata dalla detenzione e che fa parte del suo personaggio, rientra nella piccola icona del bello e dannato, del personaggio baciato dal successo, ma che ora pare segnato da un destino oscuro e drammatico, una sorta di vocazione all’autodistruzione. Fabrizio Corona è in una cella al sesto raggio di San Vittore, vecchio, leggendario monumento di archeologia carceraria. La t-shirt blu svela i tatuaggi da palestrato, blu anche i pantaloni della tuta, al collo un intreccio di croci e di tre rosari. L’abbronzatura compatta e uniforme dei tempi migliori. Baffetti di fresca crescita. I lunghi capelli corvini raccolti sulla nuca. Orecchino al lobo sinistro. Quella sullo stato di salute è la prima, scontata domanda del parlamentare in visita. "Dal giorno dell’arresto - risponde Corona dopo avere ricambiato la stretta di mano - ho perso nove chili. Ma adesso va meglio. Qui mi stanno trattando bene". Cella singola con bagno. Televisore. Su un tavolo un’arancia, una mela, una pochette. Il televisore è sintonizzato su una rete Mediaset, ma le spesse mura del raggio disturbano la ricezione dei programmi. "Ho chiesto che me la sistemino, speriamo. Per me l’importante è tenermi in forma. Mi sono mantenuto facendo degli esercizi a terra, ma adesso ho chiesto al direttore di poter andare in palestra". Corona, che cosa le manca? Risponde senza esitazione: "La famiglia". Il parlamentare promette di portargli dei giornali, che tornerà presto a trovarlo. E la galera? "La faccio, la farò, finirà". Lunghe ore da vivere per il detenuto Corona Fabrizio. È mezzogiorno, ora di visite. Arriva la mamma, che lunedì si era presentata in tribunale a Milano accompagnata da uno dei difensori del figlio per chiedere il permesso. Alla stessa ora si presenta anche Antonella Maiolo, consigliere regionale di Forza Italia con delega ai diritti dei cittadini e alle pari opportunità. "Adesso - dice Corona - sto meglio. Ho sofferto la fatica del viaggio di trasferimento da Potenza a Milano, sono arrivato provato, ma mi sono ripreso. Avevo solo chiesto di avere una cella da solo per non avere attorno troppa curiosità visto che comunque sono un personaggio famoso. Mi hanno trovato questa cella tutto da solo al sesto raggio". E adesso? "Tutto a posto. Non ho problemi. Mi manca solo la palestra, ma il direttore e gli agenti mi stanno preparando qualcosa per fare attività fisica. Per il resto non ho bisogno di niente". Quello della forma fisica pare essere il pensiero dominante di Corona. Ce n’è forse un altro. Quello di sfatare l’immagine di cedimento, di debolezza filtrata dalle mura di piazza Filangieri nel giorno del suo arrivo a San Vittore con le richieste che hanno fatto il giro delle celle, come quella di riparare lo sciacquone che lo teneva sveglio la notte o quella di avere la possibilità di cambiare canale alla tv. "La mia impressione - dice Antonella Maiolo al termine del colloquio con Corona e di un ampio giro nella galassia di San Vittore - è quella di essermi trovata di fronte a un ragazzo giovane che, superati i momenti più difficili, si mostra adesso tranquillo e molto sicuro di sé. Vive una situazione alla quale non è abituato. Forse deve capire quali sono le regole di un carcere dove ci sono dei diritti umani e civili che vanno rispettati, ma esistono anche delle regole legate alla detenzione. Già il fatto che gli abbiano dato la possibilità di stare in cella da solo, quando altri si ritrovano a coabitare in quattro o cinque, è stato un modo per andargli incontro, un segnale di grande attenzione, di comprensione. Tutto questo in un carcere dove un raggio è chiuso e un altro è in ristrutturazione e dove sono ospitati circa 1.200 detenuti, il 60 per cento stranieri e 800 in attesa di giudizio". Fabrizio Corona si è ritrovato fra le mani per la quinta volta una ordinanza di custodia per l’"affaire" Vallettopoli. Dopo quella che gli aveva spalancato per la prima volta le porte di un carcere, firmata dal gip di Potenza Alberto Iannuzzi, erano venute quelle di rinnovazione firmate dai giudici di Roma, Torino, Milano. L’ultima porta la firma del gip milanese Giulia Turri per cinque episodi di presunte estorsioni ai danni del motociclista Marco Melandri, di Lapo Elkann (secondo il gip di Milano l’intervista al trans Patrizia sarebbe stata organizzata proprio da Corona), della modella Victoria Silvstedt, dei calciatori Adriano e Francesco Coco. Episodi che il tribunale del riesame di Potenza aveva trasmesso a Milano. Vicenza: detenuto sale sul tetto, la protesta dura per 7 ore
Giornale di Vicenza, 18 aprile 2007
Salvatore Greco ha una concezione tutta sua della legalità. Sei mesi fa, assieme ai corregionali Luciano Iannuzzi, Nicola Liardo e Rosario Riccioli aveva cercato di dare l’assalto agli orafi trissinesi Sebastiano e Nicola Bovo. La trappola era fallita perché i carabinieri intercettavano da tempo il basista Gaetano Palermo e così avevano sventato il clamoroso colpo che avrebbe aperto un’altra stagione di paura nel mondo orafo vicentino. Ieri mattina, ritenendo ingiusta la sua reclusione nel braccio "alta sicurezza", approfittando della sbadataggine di una guardia è salito sul tetto e c’è rimasto per sette ore: dalle 9.30 alle 16.30. In tarda mattinata, dopo una trattativa che non stava portando a niente, il pm Vartan Giacomelli ai presenti aveva detto: "Non ci possiamo certo far ricattare in questo modo, altrimenti lo faranno anche altri detenuti". Come in ogni trattativa che si rispetti il compromesso è stato raggiunto intorno alle 16.15, quando la giornata calda aveva minato la resistenza del detenuto che aveva raggiunto il tetto - una sorta di infuocato solarium - della palazzina al centro del penitenziario, allorché il suo avvocato Michele Vettore aveva raggiunto con la direttrice Irene Iannucci la possibilità di consegnare alla stampa il dattiloscritto di Greco, 44 anni, di Gela. E che cosa scrive Greco? Che non era stato progettato alcun sequestro di persona e che l’unica cosa certa era la rapina dei 25 chili d’oro che i fratelli Bovo avrebbero dovuto trasportare in Polonia dal cliente ( e indagato come secondo presunta basista) Rocco Zagarella. "Sì è vero, noi siamo venuti a Trissino - scrive - per sottrarre al Bovo 25 chili di oro quando costui sarebbe transitato con la propria automobile per recarsi all’estero. L’oro sottratto al Bovo dovevamo consegnarlo al Palermo per poi ritornare in Sicilia". Dunque, prosegue il ragionamento Greco, l’attuale sua detenzione nel braccio ad alta sicurezza è fuori luogo perché i suoi complici sono con i detenuti comuni. Ma soprattutto è ingiusto che continui a rimanere in cella perché ha già scontato sei mesi di carcere. Nelle cinque pagine Greco ripercorre i passaggi della vicenda, naturalmente dal suo punto di vista, per arrivare a concludere che dopo sei mesi avrebbe dovuto lasciare la prigione perché "chiunque avrebbe valutato coscientemente i fatti, si sarebbe reso conto dell’errore che hanno fatto gli inquirenti". Dopo che Greco è salito sul tetto è stato informato il sostituto procuratore Giacomelli, titolare dell’inchiesta sul suo conto, che poco dopo si è recato in carcere. Nel frattempo la dott. Iannucci aveva tentato inutilmente di farlo scendere. "Voglio parlare col procuratore capo di Vicenza", ha detto Greco intorno a mezzogiorno. Proprio ieri mattina, in vista degli interrogatori al termine delle indagini preliminari, gli avvocati Michele Vettore, Sonia Negro e Carmelo Calaciura hanno depositato la memoria per sostenere che il capo d’imputazione contro i loro assistiti è troppo severo. Contestano le aggravanti e la ricostruzione della fallita imboscata perché, osservano, ai loro assistiti va imputata solo la tentata rapina senza l’aggravante dell’uso delle armi perché quelle in loro possesso erano giocattolo, mentre i Bovo ne avrebbero avuto di vere. "Chiedo scusa per il gesto estremo da me attuato - ha concluso Greco, il quale ha negato anche di avere mai avuto a che fare con la mafia -, ma il mio stato d’animo è distrutto e non mi do pace a pensare che devo soffrire anche per cose non fatte, e addirittura neanche mai pensate". Appunto, una concezione tutta sua della legalità. Padova: dal Comune l'approvazione del "Piano carcere"
Il Gazzettino, 18 aprile 2007
Ridurre le recidive e dare un futuro a tutti coloro che escono dalla prigione. È questo l’obiettivo che si pone Claudio Sinigaglia, assessore alle Politiche Sociali, che l’altra sera in consiglio comunale ha presentato il "Piano carcere" che è stato approvato (ci sono state sei astensioni fra i membri dell’opposizione): il Comune spenderà 90 mila euro, a cui vanno sommati i 120 mila della Fondazione Cassa di Risparmio. Il documento che riporta le iniziative che Palazzo Moroni si accinge a concretizzare in questo ambito è suddiviso in tre parti: la prima riguarda il Due Palazzi, la seconda la Casa Circondariale (dove ci sono i detenuti in attesa di giudizio) e la terza l’Uepe, cioè l’Ufficio di esecuzione penale esterna. In seguito all’indulto in agosto nella Casa di reclusione si era registrato un decremento della popolazione che da 750 presenze era scesa a 480. "Nei trattamenti rieducativi - ha spiegato il vice sindaco - sono impegnati 2 educatori, un direttore dell’area pedagogica, un agente di polizia penitenziaria e un collaboratore amministrativo. Troppo pochi, quindi, come sono insufficienti, cioè solo 121, i posti di lavoro dentro la struttura penitenziaria. Tra le principali problematiche che emergono c’è la presa in carico di detenuti con problemi psichiatrici, la riattivazione del reparto ospedaliero per detenuti, la necessità di aumentare le opportunità lavorative all’interno dell’Istituto e anche fuori, per far sì che possano ridursi le recidive e, di conseguenza, garantire maggiore sicurezza. A mio parere queste persone vanno seguite negli ultimi sei mesi di detenzione, aiutandole a prepararsi un futuro, perché molti, una volta fuori, non hanno più neppure una residenza". La Casa circondariale presenta una situazione di costante sovraffollamento e un alto turnover: oggi ci sono in media 170 detenuti, dei quali l’80% è costituito da stranieri. "Per costoro - ha detto ancora Sinigaglia - abbiamo intenzione di istituire un tavolo di lavoro coinvolgendo vari soggetti tra cui Diocesi, Prefettura e privato sociale in modo da promuovere una serie di azioni tra cui l’accoglienza per chi esce, attività di reinserimento lavorativo e percorsi di recupero dietro alle sbarre utilizzando dei mediatori culturali". Infine l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna che a Padova segue 53 persone: 5 detenuti domiciliari, 7 in prova ai servizi sociali, 12 semiliberi, 2 scarcerati per l’indulto, 9 in libertà vigilata, 10 che usufruiscono di misure alternative e 8 casi di assistenza post penitenziaria. "Anche in questo ambito il nostro piano prevede azioni di sostegno per evitare le recidive". Dal 2 agosto al 30 gennaio le persone uscite dai carceri padovani per l’indulto sono state 312, di cui 108 si sono rivolte all’apposito sportello istituito per aiutarle a reinserirsi nella società. Rovigo: una donna guiderà gli agenti di polizia penitenziaria
Il Gazzettino, 18 aprile 2007
Capelli lunghi corvini, occhi scuri e vispi, sorriso contagioso. È Rosanna Marino, il vicecommissario di polizia penitenziaria (ruolo direttivo ordinario), che ha preso ufficialmente il comando delle guardie carcerarie di Rovigo. Dell’intero corpo di polizia penitenziaria, precisamente, 50 uomini e 16 donne. E lei, classe 1975, originaria di Bitonto, provincia di Bari, in tasca una laurea in giurisprudenza ("sono cresciuta a pane e diritto"), aspetto dolce, ma carattere fermo e deciso, è in assoluto la prima donna a ricoprire questo ruolo in Polesine. "È la prima volta che vengo al Nord - ammette - e all’inizio temevo un po’ di diffidenza, ma finora ho incontrato soltanto persone molto disponibili. E per fortuna - scherza - non ho ancora incontrato nemmeno la nebbia". La Marino ha sostituito al vertice l’ispettore Umberto Zanarini, oggi vicecomandante, nell’ambito della riforma varata nel 2000 dal Governo che ha creato i ruoli direttivi affidati a esterni. In carcere, almeno fino al 2005, era entrata soltanto per la sua professione di avvocato penalista (che ha svolto per cinque anni) prima di avere la "folgorazione". "Ho conosciuto questo mondo - spiega - proprio quando andavo a parlare con i miei clienti e mi ha affascinato". Cosa spinge una giovane donna a intraprendere una carriera così difficile? "So bene che il carcere - afferma ancora - è un ambiente molto maschilista, ma credo che al di là delle competenze professionali, qui serva un impegno umano molto profondo perché i detenuti sono prima di tutto persone. E poi vorrei che la polizia penitenziaria fosse conosciuta di più all’esterno perché troppo spesso alla gente viene proposta un’immagine sbagliata: non siamo soltanto quelli che aprono e chiudono le celle". Per questo il vicecommissario ha già in mente iniziative con le scuole e altro ancora. Sulla realtà di Rovigo la neo comandante si è fatta già un’idea. "Purtroppo mi sono resa conto che la struttura è fatiscente e per forza di cose gli spazi sono ridotti, per cui spero che presto inizieranno i lavori per il nuovo carcere. Anche il personale di sorveglianza è insufficiente, ma si tratta di un problema a livello nazionale". Intanto da oggi comincerà il suo "giro" istituzionale per farsi conoscere. E forse, anche a rivoluzionare con un tocco di femminilità il suo ufficio. "Sistemerò fotografie e fiori, perché danno un tocco di luce". Diritti: la povertà soprattutto tra anziani, giovani e immigrati
Redattore Sociale, 18 aprile 2007
Le politiche di contrasto secondo il presidente della Commissione indagine sull’Esclusione sociale. Trattamento minimo comune per gli anziani, contrasto alla povertà d’istruzione e misure di sostegno al reddito per giovani e immigrati. Al convegno "Verso il bilancio sociale del Paese", in corso di svolgimento a Roma, è intervenuto Giancarlo Rovati, presidente della Commissione di indagine sull’Esclusione sociale. Nel corso del suo intervento, Rovati ha preso in esame la situazione di anziani, migranti e giovani in povertà, citando a supporto tutta una serie di dati Istat e Ismu sulla condizione di povertà relativa di queste tre fasce di popolazione nel nostro Paese. "Le analisi sulle dinamiche della povertà relativa nel nostro paese condotte nel corso dell"ultimo decennio sulla base dei dati ufficiali - ha affermato - ha ripetutamente sottolineato che in cima alle classifiche dei gruppi sociali più a rischio vi fosse la popolazione anziana, composta per la maggior parte da donne, in ragione delle dinamiche demografiche ad esse più favorevoli. Minore attenzione è stata invece prestata alla povertà relativa delle fasce più giovani della popolazione, comprendenti sia i minori (fino a 17 anni) che le classi di età tra i 24-34 anni, essendosi innalzato fino a questa soglia estrema il convenzionale confine anagrafico per definire l’età giovanile. A rendere meno attenti a questo fenomeno - ha spiegato - è stata solo in parte la mancanza di evidenze statistiche sulla incidenza della povertà tra i minori ed i giovani, quanto la priorità politico-sociale attribuita agli anziani, sia in ragione della loro oggettiva vulnerabilità (economica, sanitaria, previdenziale ed assistenziale), sia del loro crescente numero, che ne ha fatto uno dei più rilevanti interlocutori ed arbitri del mercato politico-elettorale. Si deve a questo atteggiamento se tra tutti i target di popolazione in povertà, solo per gli anziani si sono registrati segnali di miglioramento, anche se gli anziani in povertà restano sempre al di sopra della incidenza media". "Il gruppo che è entrato per ultimo, in senso cronologico, nell’agenda delle analisi e delle riflessioni politico-sociali sulla povertà relativa è rappresentato dagli immigrati - ha aggiunto - provenienti da paesi vicini e lontani; in questo caso, ad attrarre in via prioritaria l’attenzione dei decisori e dell’opinione pubblica sono stati a lungo i problemi connessi ai flussi, alle regolarizzazioni, all’inserimento lavorativo e abitativo e solo recentemente anche gli aspetti connessi direttamente ai loro redditi e consumi, sulla cui base avvengono le stime ufficiali della povertà relativa. Un freno oggettivo alle analisi quantitative su questi aspetti è stato a lungo costituito dalla mancanza di informazioni statisticamente rappresentative ed è un merito della Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale aver avviato da quattro anni uno specifico approfondimento anche su questo tema, avvalendosi dei dati elaborati dall’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità - promosso dalla Regione Lombardia e dall’Ismu - che ha di recente pubblicato il suo 12° Rapporto. Riprendendo una serie di evidenze empiriche sullo svantaggio relativo accumulato delle più giovani generazioni nel corso degli anni Novanta, la Commissione di indagine sull’esclusione sociale ha prestato nell’ultimo triennio una costante attenzione alla condizione dei minori e ultimamente ha promosso, con il supporto dell’Istat, uno specifico approfondimento sulla povertà dei giovani, esposto nell’ultimo "Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. Anno 2005". Proprio in relazione a questa indagine, Rovati ha snocciolato tutta una serie di dati, riguardanti la condizione di povertà relativa delle tre categorie (per i dati vedi le tabelle allegate). Ma per Rovati, "le politiche di contrasto della povertà di ciascuno dei tre target debbono tener conto di un elemento distintivo di fondo: la loro collocazione rispetto al ciclo di vita". Anziani. "Le generazioni anziane si trovano in una fase del loro ciclo di vita dove tendono a manifestarsi in modo progressivo processi di infragilimento delle autonome capacità personali - ha affermato -, per ragioni in parte legate alla salute, alle malattie degenerative, alla perdita dell’autosufficienza fisica e psichica (con segnali che fortunatamente tendono ad insorgere sempre più avanti nel tempo, cioè dopo i 75anni), ma in larga misura legate a cause propriamente relazionali e sociali, di cui l’isolamento e la solitudine progressiva rappresentano fenomeni ugualmente allarmanti. Il miglioramento generalizzato delle capacità di prevenzione e cura delle malattie croniche e degenerative sta spostando continuamente il confine sociale della ‘anzianità; una parte crescente degli over 65enni mantengono inalterate la capacità e la voglia di fare a vantaggio dell’utilità per sé e per gli altri. Si può così non utopicamente immaginare l’estensione del cosiddetto quarto pilastro economico-sociale della società in via di invecchiamento ("aging society"), centrato sulla possibilità di affidare agli anziani opportunità di lavoro volontario o retribuito, a tempo parziale piuttosto che a tempo pieno". E ha aggiunto: "Le politiche di contrasto della povertà economica degli anziani (per definizione ormai fuoriusciti dal mercato del lavoro e dalla portata delle politiche attive del lavoro) passa in modo determinate attraverso le politiche previdenziali (per coloro che hanno accumulato regolari contributi pensionistici) ed assistenziali a sostegno del reddito previdenziale (quando è di basso livello) o di quel reddito di cittadinanza che coincide con l’erogazione di assegni sociali. Si deve all’efficacia (relativa) dei trasferimenti previdenziali ed assistenziali se la condizione degli attuali anziani è relativamente migliorata rispetto alle leve passate e se - in concreto - si sono avuti segnali incoraggianti di contrazione della povertà relativa tra gli over 65 anni. Non va comunque dimenticato che la persistenza e - ancor più - la progressione di questa tendenza non è affatto automatica, dato che il reddito da pensione è sottoposto a processi di erosione del potere di acquisto rapidi ed intensi, se non intervengono misure di sostegno adeguate che a loro volta hanno come condizione essenziale la presenza di processi reali di sviluppo del reddito e della ricchezza complessive". "Non si deve in proposito trascurare che le politiche previdenziali debbono rispondere al duplice criterio della sostenibilità (sul lato del sistema macroeconomico) e della adeguatezza (sul lato del bilancio familiare quotidiano) e che sotto quest’ultimo profilo esistono nel nostro paese 14,1 milioni di pensionati che debbono usufruire di integrazioni e maggiorazioni delle pensioni minime e ricevono un importo medio di 5.572 euro all’anno (pari 464 euro mensili), a fronte di un importo medio annuo di 8.985 euro pro capite (pari a 749,00 euro mensili)". In definitiva, per Rovati "l’elevata differenziazione dei trattamenti assistenziali genera non soltanto un’innegabile complessità gestionale, ma è anche fonte di alcune disparità tra i soggetti più svantaggiati che andrebbero appianate attraverso l’introduzione di un trattamento minimo comune come si è fatto con l’introduzione della maggiorazione sociale nel 2002. Questa logica perequativa e razionalizzatrice andrebbe verosimilmente estesa ad una platea più vasta di beneficiari (rivedendo le soglie di reddito per l’accesso o l’integrazione al minimo), utilizzando parametri omogenei in tutti i casi in cui è necessario garantire un minimo vitale individuale (in assenza di altre fonti di reddito accertate mediante idonee prove dei mezzi) e rideterminando i rimanenti importi in funzione di questa soglia, in modo da tener conto delle maggiori necessità derivanti da specifiche cause invalidanti. Una questione di particolare urgenza che colpisce in larga misura gli anziani riguarda l’introduzione di politiche a sostegno della non autosufficienza, che richiedono una efficace combinazione di erogazioni monetarie e di servizi domiciliari e di prossimità". Giovani. Sull’altro fronte, per Rovati "la popolazione giovanile (e la parte preponderante della popolazione immigrata) si trova nella fase ascendente del ciclo di vita, appartiene alle fasi più prossime all’inizio della vita (infanzia), al periodo della prima e della seconda formazione scolastica, si prepara ad entrare nel mondo del lavoro e delle professioni, ha bisogno dunque: a) di un ambiente familiare accogliente, stabile, libero dall’indigenza, capace di conciliare i tempi del lavoro con quelli della cura; b) di attività formative di qualità, erogate da scuole ed insegnanti capaci e motivati, in grado di valorizzare i talenti, di offrire opportunità aggiuntive a chi ne ha di meno, di operare investimenti sul futuro delle giovani generazioni; c) di un ambiente culturale e sociale in cui siano coltivate e premiate le virtù civiche, il senso di responsabilità, il gusto del fare e del ben operare; d) di un’economia e di un mercato del lavoro dinamici, capaci di offrire lavori di qualità sotto il profilo del contenuto professionale e delle condizioni contrattuali e retributive". "Le generazioni giovanili, che sul piano demografico si sono contratte ulteriormente nel corso degli ultimi 15 anni - ha affermato -, sono una risorsa preziosa su cui l’intera collettività deve investire per assicurare anche il benessere dei più anziani. Il futuro delle generazioni più giovani non è scindibile dalle politiche di sostegno alle famiglie con figli, notoriamente poco considerate nel nostro paese, sia sul piano culturale che sul piano economico-fiscale nella loro insostituibile funzione procreativa, educativa, sociale". Ha affermato ancora: "Un versante specifico delle politiche di inclusione dei giovani passa attraverso il contrasto di quella che possiamo chiamare povertà d’istruzione, che si cumula alle più tradizionali forme di povertà monetaria, ma che ne è anche una causa diretta per i suoi effetti penalizzanti sulla acquisizione di solide competenze professionali e altrettanto solide prospettive di lavoro qualificato. Sono proprio i dati sulla povertà della popolazione a segnalarci che l’incidenza della povertà aumenta in funzione del basso livello di istruzione, mentre si riduce sensibilmente al crescere della scolarità. Ciò che è oggi vero per le leve adulte della popolazione è destinato ad accentuarsi nel prossimo futuro per le leve giovanili, in considerazione del diffondersi di mercati del lavoro sempre più aperti all’apporto di popolazione immigrata con istruzione di buon livello e qualità. Il contrasto della povertà di istruzione non è meccanicamente assicurato dall’innalzamento della spesa per la scuola e l’università se non si innesta su un processo di costante riqualificazione delle capacità e delle motivazioni del corpo insegnante e docente, mediante sistemi premiali che riconoscano le capacità ed il merito di chi fa la scuola". Inoltre, "le elevate difficoltà dei giovani poveri ad acquisire una propria sostenibile autonomia dalla famiglia d’origine ripropone l’opportunità di misure di sostegno al reddito (reddito minimo) per il tempo necessario a promuovere un adeguato inserimento lavorativo e a far decollare un progetto di vita adulto. L’aumento dell’incidenza e dell’intensità della povertà proprio tra i giovani, e specialmente tra le donne giovani, che hanno accettato la sfida di una scelta familiare e procreativa ripropone l’urgenza di politiche di sostegno alle responsabilità genitoriali utilizzando sia la leva dei trasferimenti monetari, mediante le politiche fiscali o forme di reddito minimo, sia la leva dei servizi per l’infanzia e quelli per la conciliazione dei tempi lavorativi e familiari". Immigrati. Nel caso degli immigrati, infine, in gran parte in età di lavoro e in condizioni professionali, le politiche di contrasto della povertà non sono dissimili da quelle che vanno applicate alla popolazione autoctona di pari età; "in pratica - ha aggiunto Rovati - hanno a che vedere con le politiche attive del lavoro e con le politiche salariali, posto che tra gli immigrati sono principalmente diffusi i lavoratori a basso reddito, sia per la natura delle attività professionali da essi svolte, sia per le condizioni contrattuali che rendono più discontinue, incerte e ridotte le loro retribuzioni". "Tra le problematiche specifiche degli immigrati - ha concluso - vanno segnalate quelle relative ai ricongiungimenti familiari e ai contemporanei effetti di impoverimento che si manifestano al crescere dei componenti dei nuclei familiari e specialmente dei figli a carico: un aspetto quest’ultimo che avvicina la struttura della povertà relativa degli immigrati alla struttura della povertà relativa delle famiglie italiane. Un fenomeno in crescita è rappresentato dai figli degli immigrati di prima generazione che in modo sempre più numeroso vanno ad incrementare la popolazione scolastica e che nel giro di pochi anni si presenteranno sul mercato del lavoro con il bagaglio di conoscenze e competenze acquisite attraverso il loro percorso formativo. Mentre la scuola ha una enorme possibilità di diventare veicolo di integrazione culturale e sociale anche delle giovani generazioni immigrate, la sua eventuale povertà formativa si trasformerebbe in un simmetrico handicap culturale e sociale, dagli esiti altamente problematici per l’equità e la coesione sociale". Droghe: la Gran Bretagna insegue il "modello San Patrignano"
Notiziario Aduc, 18 aprile 2007
Andrea Muccioli, responsabile di San Patrignano, è partito nel pomeriggio di ieri per Londra, dove spiegherà l’esperienza della comunità al Parlamento britannico. Domani è in programma un incontro alla Camera dei Lord con 20 rappresentanti del ramo alto del parlamento britannico. A organizzare il meeting è stata la baronessa Janet Evelyn Fookes, sostenitrice di "Tomorrow people", associazione di volontariato inglese da tempo in contatto con la comunità riminese. Per giovedì è in agenda un’audizione alla Camera dei Comuni, alla "David Cameron’s Social Justice Commission Policy Group" diretta dall’ex presidente del partito Conservatore Iain Duncan Smith. Ultimo appuntamento sarà una relazione sulla comunità, seguita dalla testimonianza di un ragazzo di San Patrignano, durante l’annuale cena di gala di "Tomorrow’s People", a cui parteciperà la contessa del Wessex Sophie Rhys Jones, moglie di Edoardo, fratello di Carlo d’Inghilterra. "In Europa ci si interroga sui fallimenti delle politiche di riduzione del danno. Lo si fa valutando e studiando realtà come San Patrignano, che hanno dimostrato di essere efficaci nella prevenzione e nel recupero dalla droga", ha affermato Andrea Muccioli ricordando l’allarme lanciato dall’Independent sul nuovo pericolo spinello. Droghe: Austria; il tossicodipendente non ha diritto alla privacy
Notiziario Aduc, 18 aprile 2007
Da un mese e mezzo, in Austria vige una normativa così concepita: il tossicodipendente può accedere al trattamento sanitario soltanto se dispensa il medico curante dal segreto professionale. Ma i Garanti della riservatezza dei dati personali ritengono che la norma violi la Costituzione perché lesiva dei diritti fondamentali. Anche medici e garanti della costituzione giudicano le nuove regole come estremamente problematiche, soprattutto perché inserite in un ambito sensibile come quello della tossicodipendenza. In un’intervista a OE-1, Hans Zeger di Arge Daten, ha manifestato le sue preoccupazioni: "C’è il rischio che i pazienti interrompano le terapie o che non le prendano nemmeno in considerazione per paura che i loro dati personali finiscano nelle mani sbagliate". Si riferisce al timore che un potenziale datore di lavoro o un proprietario di casa vengano a conoscenza del loro problema con le droghe. Secondo Zeger, il provvedimento è chiaramente incostituzionale. "Ce lo siamo studiati attentamente dal punto di vista giuridico e abbiamo concluso che l’obbligo tassativo di dispensare il medico dal segreto professionale non ha base legale". Anche l’Ordine dei medici di Vienna manifesta la propria contrarietà. Il medico generalista Hans-Joachim Fuchs sta preparando una denuncia per la Corte costituzionale, riferisce OE1. Ma al ministero della Sanità le critiche sono state accolte con grande rilassatezza: la registrazione dei dati serve a tutelare il paziente, per cui non si prevede di modificare la legge.
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