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Giustizia: pene sempre più severe, ma punizioni più indulgenti di Michele Ainis (Docente di Diritto Pubblico all'Università di Teramo)
La Stampa, 6 agosto 2007
Nella seconda Repubblica vige una regola non scritta: pene sempre più severe, punizioni sempre più indulgenti. Da parte sua il governo Prodi non si sottrae all’impero della regola. Il decreto sulla sicurezza stradale, entrato in vigore nel weekend, promette multe da 600 euro se parli al cellulare mentre guidi; da 1.500 euro se superi di 40 km/h i limiti di velocità; fino a 2.000 euro se hai bevuto un po’ di vino a tavola, bastano due bicchieri; 3 mesi di carcere o altrettanti di lavori forzati presso i reparti di traumatologia degli ospedali, se al vino hai aggiunto un digestivo. Eppure non risultano né arresti né deportazioni in massa. Sicché questo decreto ha celebrato un miracolo a due teste: o improvvisamente gli italiani sono diventati astemi, o i poliziotti sono diventati ciechi. D’altronde non è che l’ultimo episodio della serie. In primavera il decreto sulla violenza negli stadi ha proibito i cartelli ingiuriosi, castigandoli con un anno di galera; i tifosi della Sampdoria hanno subito reagito inalberando scritte con l’articolo 21 della Costituzione, che protegge la libertà d’espressione. La legge finanziaria ha inasprito le sanzioni fiscali, però intanto il sommerso vale un quarto della ricchezza nazionale. Quella comunitaria trasforma ogni sua infrazione in un reato, compreso il delitto compiuto da chi "modifica le specifiche delle tecniche di classificazione delle carcasse bovine" (articolo 14). Nel frattempo il governo annunzia un giro di vite sui reati a sfondo razziale; il pugno di ferro nelle scuole; la caserma obbligatoria, con la resurrezione della vecchia naja. E per sovrapprezzo tiene in piedi tutti i divieti introdotti dal governo precedente, dalla legge sulla fecondazione assistita a quella sulle droghe leggere. Quest’indirizzo normativo accampa di volta in volta le più nobili ragioni: il salutismo, l’onestà, la sicurezza, perfino la buona educazione, imposta ai più riottosi con tutti i crismi del diritto. Ma ha il torto di trasformare ogni ministro in un angelo vendicatore, in un fustigatore dei costumi. Ha il difetto di convertire qualsiasi peccato in un reato. E soprattutto ha il limite di provenire da una politica debole, che a sua volta non rappresenta certo un modello di virtù. Perciò non è credibile, e infatti nessuno ci crede mai davvero. Come potremmo, se i primi a violare il codice stradale (lo ha ricordato Piero Ostellino) sono i Comuni, che avrebbero l’obbligo di destinare il 50% delle multe incassate alla manutenzione delle strade? E perché dovremmo, quando il salasso indiscriminato è in se stesso ingiusto, sfilando la medesima somma dalle tasche del multato, senza curarsi se quelle tasche siano gonfie o vuote? Ma il vero scopo di quest’atteggiamento arcigno e un po’ bigotto non è punire i reprobi. No, il fine è piuttosto mascherare con un’efficienza di carta, confinata al microcosmo delle Gazzette ufficiali, l’inefficienza dei servizi, dei controlli, dei presidi pubblici. E allora giù reati su reati, come se i 35 mila già introdotti nel nostro ordinamento non fossero abbastanza. Tanto in Italia il rigore della legge è mitigato dal lassismo nella sua (dis)applicazione. Tanto se ti beccano con le mani nel sacco puoi sempre cavartela con una prescrizione, oppure con l’indulto. Sta di fatto che l’80% dei reati non viene perseguito; quando invece il delitto fa capolino in un’aula giudiziaria, per lo più si prescrive in forza dell’eccessiva durata dei processi (oltre un milione di casi fra il 2000 e il 2005). Sennonché questa miscela di leggi ferree e d’indulgenti applicazioni non è del tutto inoffensiva. Ci abitua infatti a non prendere sul serio il diritto, e perciò i nostri diritti. E in conclusione ci impartisce una lezione di cinismo, in luogo del civismo. Giustizia: Pecoraro Scanio; piromani non vanno mai in carcere
La Repubblica, 6 agosto 2007
Gli incendiari devono pagare. Scatta così l’offensiva anti-piromani del ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che lancia un piano d’azione per fermare chi appicca i roghi. "Condannate gli incendiari", tuona il ministro aggiungendo: "I parchi si costituiscano in giudizio contro i piromani". Servono, dice, "condanne esemplari contro chi distrugge il nostro patrimonio". E domani "partirà una circolare che dà disposizioni ai presidenti dei parchi perché si costituiscano in giudizio". L’offensiva del responsabile dell’Ambiente, arriva nell’ennesima giornata di emergenza roghi che hanno divorato mezza Italia coinvolgendo soprattutto i parchi, quelli del Pollino e del Cilento, e i gioielli nazionali come la Costiera Amalfitana, con le fiamme che arrivano anche vicino alle strade e alle abitazioni. L’Italia brucia ma nessuno sembra essere mai stato condannato per il reato. Fino a oggi, dal 2000, afferma lo stesso Pecoraro Scanio, "a quanto risulta al ministero dell’Ambiente non c’è stata nemmeno una condanna definitiva rispetto al 423 bis che fu introdotto nel 2000 e che prevede punizioni fino a 10 anni per chi incendia con l’ aggravante se si tratta di aree protette. Stiamo inoltre valutando l’eventualità di riconoscere il danno ambientale. Un’azione successiva che ci permetterà di aggredire i patrimoni e non solo di punire gli incendiari ma anche di scovare i mandanti". Il ministero impegnato anche sul fronte dei controlli e della prevenzione. "I prossimi 200 forestali saranno destinati ai parchi nazionali". Inoltre in caso di forte vento come lo scirocco per gli incendi passati o la tramontana di ieri - spiega Pecoraro - vanno potenziate tutte le azioni di prevenzione. E in questo le previsioni meteorologiche possono essere un utile strumento". Nel mirino del piano anti-roghi messo a punto da Pecoraro Scanio anche il post-incendi. E il riferimento è alla Puglia. "Sono preoccupatissimo. Dopo i gravi incendi, il Gargano è ad alto rischio di dissesto idrogeologico". Intanto sono al lavoro gli 007 anti-roghi del Nucleo investigativo antincendi boschivi che dopo il Pollino si recheranno nel Cilento "per iniziare subito a cercare questi criminali che hanno appiccato il fuoco". Giustizia: Sappe; senza riforme risultati dell'indulto vanificati
Comunicato Sappe, 6 agosto 2007
"L’indulto varato un anno fa dal Parlamento (con una maggioranza abbondantemente superiore ai 2/3 richiesti, è opportuno ricordarlo a chi ancora oggi vorrebbe imputarne la potestà esclusivamente al ministro della Giustizia Clemente Mastella) era un provvedimento inevitabile per il grave sovraffollamento dei penitenziari nazionali e liguri in particolare, ma oggi rischia di essere vanificato dalla mancata approvazione di alcune riforme fondamentali per la giustizia proprio da parte delle Camere parlamentari e dalla scarsità di risorse destinate al settore penitenziario". È quanto afferma Roberto Martinelli, Segretario Generale Aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’Organizzazione più rappresentativa del Personale con 12mila iscritti, commentando i dati relativi alla situazione penitenziaria ad un anno dall’approvazione dell’indulto. "A livello nazionale i soggetti usciti dalle patrie galere per effetto dell’indulto sono stati 26.632. Dai sette penitenziari della Liguria sono stati scarcerati 863 detenuti: 42 da Chiavari, 57 da Imperia, 98 da La Spezia, 386 da Marassi, 139 da Sanremo, 105 da Pontedecimo e 36 da Savona. Rientrati in carcere dopo aver beneficiato dell’indulto sono stati ad oggi 5.699 persone (5.553 uomini e 146 donne) e di questi 206 in Liguria (204 uomini e 2 donne). Purtroppo, la mancata programmazione da parte di Governo e Parlamento di interventi strutturali per il sistema carcere - chiesti anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano - contestualmente all’approvazione dell’indulto ha vanificato in pochi mesi gli effetti di questo atto di clemenza. Oggi i penitenziari si stanno nuovamente affollando. La capienza nazionale regolamentare di circa 43mila posti è stata ampiamente superata, con circa 45mila detenuti attualmente presenti. E quella ligure è al limite, con 1.140 posti a disposizione e 1.028 detenuti presenti. Pensare che a pochi mesi dall’approvazione dell’indulto il numero dei detenuti si era drasticamente ridotto. Al 30 settembre 2006, ad esempio, erano presenti a livello nazionale 38.326 detenuti e in Liguria ce n’erano poco meno di 800. La mancata adozione di interventi strutturali sulla pena ha quindi vanificato l’effetto indulto." Spiega Martinelli: "A tutt’oggi non ci risulta che classe politica e governativa abbiano fatto seguire all’indulto i necessari interventi strutturali sull’esecuzione della pena, che garantiscano la giusta sanzione a chi commette reati soprattutto a tutela delle vittime della criminalità e che rendano la pena uno strumento efficace per ripagare la società del reato commesso. A cominciare dall’individuazione di provvedimenti legislativi che potenzino maggiormente l’area penale esterna (destinando i soggetti a misure alternative alla detenzione e impiegandoli in lavori socialmente utili non retribuiti) e dall’incremento degli organici della Polizia Penitenziaria, unico Corpo di Polizia cui affidare completamente l’esecuzione penale esterna a tutto vantaggio della cittadinanza, destinando le unità di Carabinieri e Polizia di Stato oggi impiegate in tali compiti nella prevenzione e repressione dei reati, specie di quelli di criminalità diffusa. In tal senso è apprezzabile e va sostenuta con forza la determinazione del Ministro Mastella di impiegare, per effetto di un proprio Decreto stilato di concerto con il Ministero dell’Interno ed attualmente in discussione con le Organizzazioni Sindacali di Categoria, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria proprio negli Uffici per l’Esecuzione Penale esterna. È davvero necessario "ripensare" il carcere, ma bisogna farlo con urgenza prima che la situazione del sistema penitenziario torni di nuovo ad essere allarmante". Giustizia: cellulare di Mastella pubblicato da radiocarcere.com di Riccardo Arena (Direttore di Radio Carcere)
www.radiocarcere.com, 6 agosto 2007
Sabato 28 luglio è mattina. Vado a comprare i giornali. Ne apro uno, titolo: "Radio Carcere pubblica sul web il telefonino di Mastella. Il Ministro: farabutti!". Sfoglio in fretta gli altri quotidiani. Quasi tutti parlano di Radio Carcere e del suo sito. La causa: un mio errore. Mentre vacillo davanti all’edicola, mi telefona un mio compagno delle elementari: "Bravo Riccardo, complimenti!". Attacco perplesso. Il cellulare continua a squillare. 30 telefonate: "bene, così si fa!". Ma come, ho fatto un errore e mi dite bravo? Fa caldo, mi rifugio in un bar con l’aria condizionata. Mi siedo e provo a ragionare. Non c’è dubbio, è l’effetto Corona: ricevere notorietà e consensi, non per aver fatto bene, ma per un errore commesso. È l’Italia che va al contrario. Ne sono sconcertato. Io, "farabutto"- famoso per errore. Il fatto è che nella borsa di un "farabutto" come me ci sono tante carte. Molte sono carte processuali. Si tratta di letture indispensabili per Radio Carcere. Conoscere gli atti, studiarli è la premessa necessaria per capirli e spiegarli al lettore. Giovedì 26 luglio, verso sera nella borsa del "farabutto" c’era anche la consulenza tecnica redatta da Gioacchino Genchi. Scritta su incarico del p.m. di Catanzaro Luigi De Magistrs nell’ambito dell’indagine "Why Not". Alle 13.27 il settimanale Panorama, con un’agenzia anticipava: "Nella consulenza Genchi le intercettazioni del Ministro della Giustizia Mastella con gli indagati". Evidente che si trattava di un documento importante. È la notte di giovedì e studio la consulenza "Genchi". Ad una prima lettura non ci trovo nulla di penalmente rilevante, ma forse non ho capito. La rileggo. Macchè! Ripeto l’operazione più volte. Niente. In quelle 21 pagine, ci sono solo sms e frasi intercettate tra politici e indagati. Nessuna traccia di ipotesi di reato nel contenuto delle intercettazioni. Certo, i nomi dei politici menzionati sono famosi, ma questo evidentemente non rileva ai fini del processo penale. Al di là dei messaggini, delle frasette e dei nomi eccellenti, la consulenza contiene, e qui sta il bello, intuizioni e deduzioni del Genchi, oltre che a dei bellissimi grafici. Difficile coglierne la logica. Il criterio del consulente sembra solo uno: politici di destra e di sinistra parlano o si mandano sms con alcuni indagati. Quanto basta per dimostrare la cupola, la loggia: affari-politica. E no che non basta. Queste deduzioni sono nulla per un’indagine penale, mentre sono molto se si vuole infangare il politico di turno mediante un uso strumentale dell’informazione. Mi innervosisco. L’indagine penale è altra cosa. L’informazione è altra cosa. Cosa posso fare? Ora, ad essere onesto, nasce così il mio errore. E già perché pur essendo fortemente contrario alla pubblicazione degli atti di indagine, una delle soluzioni che ho pensato è stata: pubblicare su radiocarcere.com la consulenza Genchi. In questo modo si può svelare la verità degli ingiusti coinvolgimenti dei politici. In questo modo si può far comprendere l’inutilità di questa consulenza per l’indagine "Why Not". Indagine che proprio non gira neanche per gli indagati. La decisione nella mia testa tarda ad arrivare. Molte sono le resistenze nel pubblicare un atto di indagine. Poi mi convinco a fare un’eccezione. Un’eccezione dovuta dal fatto che con questa consulenza si era veramente superato il limite di una Giustizia rigorosa ed equilibrata. Decido e la mattina di venerdì 27 luglio avviso delle mie intenzioni lo staff del Ministro Mastella. Poi, per pubblicare su radiocarcere.com la consulenza Genchi devo, come è giusto, eliminare le utenze telefoniche. Fatte le cancellature, nel pomeriggio di venerdì la consulenza Genchi è on line su radiocarcere.com, e con essa i motivi che mi hanno determinato a divulgarla. Continuo a lavorare. Mentre vedo che la consulenza è stata letta da un centinaio di utenti, squilla il telefonino. È il capo ufficio stampa del Ministro Mastella: "Arena, scusa ma sulla consulenza Genchi, su radiocarcere.com, c’è ancora il cellulare del Ministro, puoi levarlo?". M’ha preso un colpo! Immediatamente sospendo la pubblicazione dell’intero documento dal radiocarcere.com. Richiamo il capo ufficio stampa del Ministro e lo informo che a causa di un errore tecnico le utenze telefoniche che erano state cancellate, poi sono risultate leggibili. Tra queste: il cellulare di Mastella. Insomma un errore non voluto, durato pochi minuti. Alle 17.30, tutto sembra risolto e su radiocarcere.com la consulenza, telefoni compresi, non c’è più. Se non chè, un’ora dopo, flash di agenzia: "Mastella: il mio cellulare è su radiocarcere.com". Io, salto sulla sedia. Ed ancora: "Mastella: sono allibito, chi ha pubblicato il mio numero è un farabutto". Risalto sulla sedia. Le agenzie impazzano. Mai si è parlato tanto di Radio Carcere, tantomeno del sito. Sito che, grazie al Ministro e senza più la consulenza Genchi con il suo cellulare, va in tilt per le troppe visite. In pochi minuti, radiocarcere.com è su Dagospia, su repubblica.it, i miei telefoni esplodono. Li stacco. Preparo un’agenzia per chiarire. Il Ministro apprezza e sembra che non ce l’abbia tanto con Radio Carcere ma : "con chi gli ha dato la notizia". Panorama in primis. Ma ormai è tardi. L’effetto Corona è iniziato. Sono un "farabutto", famoso per un errore. Giustizia: da Forleo a De Magistris... lo stesso vizio genetico
www.radiocarcere.com, 6 agosto 2007
Il reato. Gli editoriali non aiutano. Neanche i dotti scritti dei giuristi o le loro forbite interviste. Alcuni sostengono la legittimità della richiesta. Altri censurano la motivazione. Un illegittimo giudizio di colpevolezza sentenziano. Un evidente abuso, un illecito disciplinare o addirittura penale. La domanda però rimane inevasa. È difficile capire quale è il reato che ha giustificato la richiesta di autorizzazione a Camera e Senato. Forse, la partecipazione, non da semplici spettatori, ad una operazione finanziaria dai contorni non chiari. Il tentativo di acquisizione da parte di Unipol della Bnl. No, non costituisce un reato. Ed allora la ricerca continua. La risposta, nelle sessanta pagine che sorreggono la richiesta ai rami del Parlamento. Un groviglio d’intercettazioni telefoniche, ciascuna delle quali dotata di specifica chiosa Le ultime tre pagine del manufatto argometativo. La conclusione. Il formidabile j’accuse contro gli sventurati ex comunisti, convertiti alla logica capitalistica del mercato. Il tanto vilipeso j’accuse ci consegna il fatto: il disegno "criminoso a danno dei risparmiatori, in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale". La partecipazione a questo. Il non essere né "tifosi", né spettatori. Il fatto che ha determinato la richiesta di autorizzazione. Un fatto apprezzabile negativamente, ma non illecito penale. Nessun reato. Né tantomeno un aggiotaggio. Un provvedimento giudiziario sganciato da un reato. Illegittimo. Non un eccezione. Una patologia diffusa nel sistema giudiziario. L’indagine che prescinde da un reato. Il giudizio penale sostituito da un giudizio morale. Patologia però non limitata al solo provvedimento milanese. Catanzaro. Altro capoluogo di provincia. Altra indagine. Altro personaggio politico. Si sale di livello dal Vice si passa al Presidente. L’assenza del reato è certificata. L’afferma ripetutamente il Tribunale del riesame. Definisce nebulosa l’ipotesi accusatoria. Anche in questo caso si sostituisce il giudizio penale con quello morale. Anche in questo caso si contestano al politico contatti telefonici con persone sottoposte ad indagini per operazioni economico. In questo caso però i contatti tra politico ed imprenditore-finanziere sarebbero addirittura indiretti. In questo caso la prova è costituita da tabulati e non da intercettazioni. Le parole mancanti le aggiunge il Consulente. Genchi. La relazione è ormai conosciuta. Leggerla interessante. Tabulati telefonici, applicati ai quali parametri logici innovativi possono colmare l’assenza delle parole. La così detta logica della circolarità. Il contatto con due persone investite da una indagine prova i contatti anche con le altre. La costanza nei contatti determina la confidenzialità dei rapporti. La confidenzialità con persone di rilevanza istituzionale determina il potere del singolo. Quadro che porta a concludere circa il fatto che l’insieme dei sospetti è preoccupante. Neanche l’embrione di un reato. "La rilevazione di contatti telefonici, di dialoghi, o di rapporti interpersonali e polititici, non può costituire né la prova, né l’indizio di collusioni illecite" (così disse lo stesso Genchi). Milano e Catanzaro. Stessa patologia. Nessun fumus persecutionis. Solamente il degrado della giustizia penale. Degrado che nel capoluogo calabrese assume contorni inquietanti. Una Procura che indaga l’altra. Catanzaro indaga su Matera. Matera indaga su Catanzaro. Salerno indaga su Catanzaro. Matera addirittura ha coniato un associazione a delinquere, che non sembra avere precedenti. L’associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione. Creazione che potrebbe fare nascere il sospetto che sia stata determinata per giustificare competenza ed intercettazioni. Il sostituto in rotta con il Procuratore capo. Eccellenza che siede sulla importante poltrona da più di vent’anni. Un potentato. Procuratore accusato di avere assegnato ad altri un complicato procedimento, che il Sostituto dopo un faticosissimo lavoro stava portando a compimento. Un procedimento importante. Indagati i politici locali. Il Csm guarda, svolge audizioni, ma non interviene. Il Ministero invia gli ispettori. La Procura generale latita. Stranamente si occupa solo di Milano. L’autonomia del magistrato. Baluardo del sistema democratico. Principio che sembra rendere impossibile qualunque controllo sul singolo. Atti del quale possono essere giudicati solo nel processo penale. E che anche quando vengono ritenuti illegittimi, esempio Tribunale del riesame di Catanzaro, non producono nessuna conseguenza sul loro autore. Autonomia che diventa sinonimo di irresponsabilità, di impunità e di anarchia. Giustizia: caso Forleo; quando politica e giudici non s'intendono
www.radiocarcere.com, 6 agosto 2007
Non è un Paese normale quello in cui le fibrillazioni tra ceto politico e magistratura sono sempre all’ordine del giorno. La vicenda e le polemiche seguite all’ordinanza del gip Forleo sono la spia evidente di un malessere che continua a serpeggiare, di una ruggine di antica data, non sopita né spenta. Si rivendicano, di qua e di là, a volte a sproposito, i relativi "primati": quello della politica e quello della giurisdizione. Resta l’irresolubile disorientamento dell’uomo della strada, che non conosce codici e cavilli e, dinanzi a eventi che vedono litigare anche politici tra loro, si domanda da che parte stia la verità. Per solito, il cittadino comune si forma il convincimento sulla base delle notizie che diffondono giornali e altri mezzi di informazione. Non solo: diffidando anche di questi, spesso si affida anche all’istinto, alla propria "esperienza", nutrita di atavica, e spesso qualunquistica, diffidenza verso i politici e di non particolare simpatia verso i componenti dell’ordine giudiziario, troppe volte riguardati come appartenenti anch’essi alla categoria di "lor signori". Però, nell’immaginario collettivo, nel conflitto tra giudici e politici, soprattutto quando vengano in rilievo, perché all’attenzione dell’autorità giudiziaria, condotte legate alla morale corrente tra le persone che governano, il prevalente "tifo" dell’opinione pubblica è per i primi: come se vi fosse il convincimento che i secondi siano il più delle volte, e più facilmente, inclini a una certa disinvoltura di comportamento, indifferenti all’osservanza delle leggi, tendenti alla prevaricazione. Specularmente allo stereotipo di don Rodrigo immaginato per i politici, al giudice si fanno vestire spesso i panni di Robin Hood, del difensore dei diritti del più debole; quanto questa semplificazione sia lontana dalla realtà si può vedere anche dal caso che attualmente occupa l’interesse dell’opinione pubblica. Lunedì 23 luglio, dinanzi al Csm, il Presidente della Repubblica fa appello, con un richiamo ineccepibile nei contenuti, alla "massima responsabilità e riservatezza nello svolgimento di tutte le funzioni proprie dell’autorità giudiziaria" e, pur senza citare il caso Forleo, pare ad esso riferirsi quando afferma la necessità di "non inserire negli atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti". Questioni di metodo, non di merito: richiamo corretto. E la cosa potrebbe (dovrebbe) finire lì. Ma il giudice replica, sia pure con l’ovvio riferimento al principio della sua esclusiva soggezione alla legge. Né si arresta, e qualche giorno dopo appaiono sue dichiarazioni in un diffuso quotidiano (Repubblica del 26 luglio), nelle quali vanta il giudizio espresso sulla sua ordinanza dal massimo studioso di procedura penale (il quale, peraltro, l’aveva ritenuto erronea nella parte in cui, non avendo il p.m. "mosso un dito verso gli onorevoli collocatori… non spetta al giudice ventilare ipotesi delittuose rispetto ad essi"). Forse un costume di maggiore discrezione sarebbe stato auspicabile. E non solo perché appena due giorni prima il Capo dello Stato era tornato esplicitamente sul tema della riservatezza dell’autorità giudiziaria; ma soprattutto perché la deontologia professionale impone ai giudici di esprimersi solo attraverso i loro atti, non commentandoli o difendendoli, sia pure indirettamente, in sedi improprie. Specie quando un altro potere dello Stato ne è stato frattanto investito formalmente e deve assumere decisioni in ordine a una richiesta in essi formulata. Allo stato, sulla vicenda penale della quale si occupa il giudice milanese non è agevole formulare prognosi, anche perché sulla sua sorte pende un giudizio affidato al Parlamento della Repubblica. Chi ha a cuore le sorti dello Stato di diritto e il principio di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, massimamente di quelli cui è affidata la gestione della cosa pubblica, deve augurarsi che le Camere non frappongano ostacoli all’azione della giustizia ordinaria, pena, in caso contrario, l’approfondirsi del solco, già enorme, tra politica e cittadini. Non è motivo di conforto sapere che una parte cospicua dei rappresentanti parlamentari si sia già espressa per il diniego all’utilizzazione richiesta dal giudice. Se dovesse andare in porto tale disegno, difficilmente l’opinione pubblica - che sul piano emotivo tende a parteggiare, pur nelle incertezze della questione presentata dalla stampa in termini non sempre univocamente interpretabili, per l’operato dell’autorità giudiziaria - potrebbe non vedere in un altolà al giudice un gesto di irriducibile protervia. Giustizia: don Gelmini, già giudicato dalla stampa e dalla politica
www.radiocarcere.com, 6 agosto 2007
Sabato, 4 agosto 2007. I quotidiani titolano: don Gelmini indagato per violenza sessuale. Pagine intere dedicate alla notizia del giorno. Le opinioni si sprecano. Giornalisti e politici esprimono la loro opinione. Lo santificano, lo processano, lo condannano, lo assolvono. Il processo però non è ancora iniziato. Non si sa neanche se ci sarà un processo. Il caso potrebbe ancora essere archiviato. Chiedere che un individuo venga processato non sulla stampa, ma nelle aule di giustizia. Chiedere di non giudicare, lasciando questo compito ai giudici. Chiedere di pubblicare la notizia, evitando commenti, per lo più inutili se non dannosi. Chiedere il rispetto della persona e della giustizia. Chiedere che questa faccia il suo corso e chiedere di non anticipare sommarie condanne o assoluzioni. È chiedere troppo? Giustizia: don Gelmini; mi chiesero dei soldi per ritrattare
La Repubblica, 6 agosto 2007
All’inizio di questa settimana - "non sono qui perché sono scappato, sono arrivato quando ancora doveva cominciare questa storiaccia" - lo hanno accolto con la banda del paese. "Bentornato papà", firmato "I tuoi figli dell’amore", è scritto nel cartellone appeso all’ingresso della comunità di Zervò, un vecchio sanatorio a più di mille metri d’altezza, fra cascate e boschi. Don Gelmini è seduto in un prato inglese tra ortensie, faggi e pioppi, sotto una pianta enorme che lui chiama "l’albero di Giobbe". Intorno, seduti in cerchio, una cinquantina di ospiti della comunità. Tutti ex tossicodipendenti pronti a difenderlo dalle accuse di "delinquenti e infami". "Chi pensava di trovarmi appeso impiccato a un albero come è successo al povero Marco Agostini, il parroco di Latina accusato di pedofilia, si sbagliava. Io sono qui, più tosto di prima, accanto ai miei ragazzi che mi danno forza".
Le accuse sono pesanti... "Il mio accusatore è un pregiudicato barese, uno che viene da una famiglia di boss. Vuole ricattarmi. La prima volta mi ha denunciato due, tre anni fa, ma non gli credettero. Ad agosto dell’anno scorso anno tornò in comunità dopo l’indulto. Mi chiese scusa e io gli trovai un lavoro. Conservo ancora una lettera: mi scriveva che "la miglior vendetta è il perdono". Ritrattò la denuncia e a Natale tornò in comunità e si scusò pubblicamente, sul palco (ndr, i ragazzi seduti a terra annuiscono). Ma forse voleva di più: soldi. Io l’ho mandato via e lui ha rifatto la denuncia".
Non è l’unico accusatore, e gli altri? "Ce n’è un altro che questo barese avrà reclutato in carcere. E poi ci sono cinque miei ex ospiti che io avevo denunciato perché derubarono una mia collaboratrice".
Una cospirazione? "Mo fratello, padre Eligio, pensa ci sia un movimento politico contro di me perché sono schierato da una parte precisa".
Si sente il prete del Polo? "A mettere in giro la voce è stato don Mazzi che per accreditarsi ha detto che lui è il cappellano del centrosinistra e io quello del centrodestra. Sono sciocchezze, io rispondo solo al signore. Voto, certamente, e Berlusconi è un mio amico. Ma questa storia non c’entra niente con tutto questo".
E dunque che idea si è fatta? "Probabilmente i miei accusatori hanno trovato qualche giudice anticlericale".
Si sente un martire della magistratura? "Non ho fiducia incondizionata. Certo, ho incontrato giudici splendidi, ma ci sono anche giudici mascalzoni che pur di finire in prima pagina fanno soffrire ad arte la gente. C’è chi ti obbliga a mantenere il riserbo su un interrogatorio, come è successo a me, e poi sei mesi dopo ti fanno finire sui giornali con delle menzogne. Contatterò presto il professor Coppi, pretendo da chi sta dicendo stupidaggini milioni di euro".
A cosa fa riferimento? "Questa storia della stanza del silenzio con la moquette e le poltroncine rosse dove io avrei molestato i ragazzi. Come la raccontano sembra quella roba del Grande Fratello...".
Cioè? "Sembra una stanza a luci rosse. E invece è un posto con le vetrate, le panche delle chiese, un camino acceso da trent’anni dove io, insieme con i miei collaboratori, incontro i ragazzi insieme con le loro famiglie. Alla fine di questa storia scriverò un libro: "Il serpente nella stanza dei magistrati"".
Ha visto quante reazioni ha scatenato. Si considera un potente? "Non sono certo una testa di cavolo, ho centri in tutto il mondo. Non sono come quei giudici che sono dietro a una scrivania perché non sono diventati grandi avvocati".
Attacca ancora i magistrati? "Io sono tranquillo, con loro non vado più a parlare salvo non mi arrestino. Siamo alla gogna. Una volta mentre dormivo, anni fa, mi chiama la mia segretaria e mi dice: "Ma allora non l’hanno arrestata per un traffico di bambini con la Thailandia!". Lo dicevano i telegiornali".
Visto quello che è successo negli Stati Uniti, secondo lei esiste un problema pedofilia nella Chiesa? "È una montatura, hanno tirato fuori cose di 50 anni fa. Secondo me il Vaticano ha sbagliato a pagare gli indennizzi, quelle sono responsabilità personali. La verità è che, partendo dagli Stati Uniti, è in atto un’offensiva ebraico-radical-chic che mira a screditare la chiesa cattolica. I pedofili sono ovunque nella società".
Chi l’ha chiamata per esprimerle solidarietà? "Silvio, subito: "Dimmi Don, sono a disposizione". Ci ha già dato 100 miliardi di lire, è pronto a darmene 200, 300 alla faccia di chi mi vuole fermare. Cossiga mi ha detto che è pronto a dire di tutto in mia difesa. Mi ha chiamato anche il generale Speciale, ha studiato dai salesiani, è un buon cristiano. C’è Pier Ferdinando che mi cerca".
Hanno telefonato soltanto politici del Polo? "No, anche Lusetti e la Belillo. E pure Amedeo Minghi. E molti arcivescovi".
Cosa vuole dire ai suoi accusatori? "Nessun messaggio. Li ho perdonati, ma sappiano che raccoglieranno quello che hanno seminato. Io ho fatto quello che potevo: una bella iattura...". Giustizia: don Gelmini; da probabile diffamato a straparlatore di Vincenzo Donvito (Associazione Utenti e Consumatori)
Notiziario Aduc, 6 agosto 2007
È incredibile come don Gelmini, accusato di azioni di pedofilia, in soli pochi giorni dall’accusa e dalla bomba mediatica che ne è seguita, sia riuscito a passare da probabile diffamato a straparlatore pericoloso. I fari che illuminano la vittima gli hanno fatto male? Non lo so, ma prendo atto di quanto ha detto e continua a dire, pur con i cambiamenti/smentite che ha fatto circolare in seguito. Quello che è accaduto sarebbe dovuto - secondo don Gelmini - ad un complotto ebraico-radical chic... e - aggiungo io perfezionando la chiave politica usata dal nostro - il complotto degli anziani di Sion si esplicherebbe nel costringere le chiese cattoliche vaticane degli Usa a pagare somme ingenti per le transazioni dei preti di quel Paese che in questo modo si sono dichiarati rei-confessi di atti di pedofilia. Oggi don Pierino dice che si era sbagliato e voleva dire "massonico-radical chic" ed ha esternato gli abituali complimenti che si fanno in questi casi agli ebrei, suoi amici, suoi fratelli, bla bla... complimenti che detti in questo contesto suonano come quelli che a metà del secolo scorso venivano fatti alla integrità del pensiero ebraico da chi, poco dopo, apriva i rubinetti delle camere a gas per ottemperare agli ordini di salvaguardia razziale. Un tempo si diceva che il complotto era giudaico-massonico, la nuova versione di don Gelmini (ebraico-radical chic) mi sembra un adeguamento ai nostri tempi... del resto radicali e massoni, grossomodo, fanno riferimento al medesimo pensiero anticlericale della fine del secolo 1800, anche se poi hanno seguito strade diverse. E intorno a don Gelmini una pletora di solidarietà. Meno male, per gli atti di pedofilia, ma sul ebraico-radical chic... devo registrare la nascita di un nuovo fronte di lotta al complotto degli anziani di Sion? Per fortuna so che non è così e molti di quelli che solidarizzano con don Gelmini non hanno bisogno di alcuna lezione per la difesa dell’ebraismo e di Israele. Ma rimane il problema don Gelmini. Sì, il problema. Perché se don Pierino intende difendere la sua opera di salvezza umana dei tossicomani e disperati in questo modo, credo che lo faccia male. Io combatto sul medesimo fronte di don Gelmini ma con una strategia diversa: entrambi desideriamo che le persone non si facciano male da sole, don Gelmini attraverso la dimensione religiosa in cui vuol riportare quelli che per lui sono peccatori, io attraverso la crescita della consapevolezza individuale e la lotta a leggi punizioniste che hanno creato una situazione come quella odierna, di sfascio istituzionale e umano. Ma se qualcuno dovesse accusarmi di atti di pedofilia, credo che difficilmente penserei e griderei ad un complotto della chiesa vaticana e di don Gelmini stesso contro di me... sarebbe ridicolo e sminuirebbe la mia credibilità per l’impegno in materia. Credo che, purtroppo, è ciò che sta accadendo con don Pierino, che si sta facendo male da solo. Giustizia: don Gelmini; anche quattro anni passati in carcere
Quotidiano Nazionale, 6 agosto 2007
Francesco Grignetti su La Stampa ricostruisce il passato del prete in lotta contro la droga che in giardino aveva una Jaguar: per due volte finì dietro le sbarre con accuse di truffa e bancarotta fraudolenta. C’è stato un altro don Pierino prima di don Pierino. Un prete che ha sempre sfidato le convenzioni, ma che di guai con la giustizia ne ha avuti tanti, ed è pure finito in carcere un paio di volte. A un certo punto è stato anche sospeso "a divinis", salvo poi essere perdonato da Santa Romana Chiesa. È il don Gelmini che non figura nelle biografie ufficiali. I fatti accadono tra il 1969 e il 1977, quando don Pierino era ancora considerato un "fratello di". Una figura minore che viveva di luce riflessa rispetto al più esuberante padre Eligio, confessore di calciatori, amico di Gianni Rivera, frequentatore di feste, fondatore delle comunità antidroga "Mondo X" e del Telefono Amico. Anni che furono in salita per don Pierino e che non vengono mai citati nelle pubblicazioni di Comunità Incontro. Per forza. Era il 13 novembre 1969 quando i carabinieri lo arrestarono per la prima volta, nella sua villa all’Infernetto, zona Casal Palocco, alla periferia di Roma. E già all’epoca fece scalpore che questo sacerdote avesse una Jaguar in giardino. Lui, don Pierino, nella sua autobiografia scrive che lì, nella villa dell’Infernetto, dopo un primissimo incontro-choc con un drogato, tale Alfredo, nel 1963, cominciò a interessarsi agli eroinomani. In tanti bussavano alla sua porta. "Ed è là che, ospitando, ancora senza tempi o criteri precisi, ragazzi che si rivolgono a lui, curando la loro assistenza legale e visitandoli in carcere, mette progressivamente a punto uno stile di vita e delle regole che costituiranno l’ossatura della Comunità Incontro". All’epoca, Gelmini aveva un certo ruolo nella Curia. Segretario di un cardinale, Luis Copello, arcivescovo di Buenos Aires. Ma aveva scoperto la nuova vocazione. "Rinunciai alla carriera per salire su una corriera di balordi", la sua battuta preferita. I freddi resoconti di giustizia dicono in verità che fu inquisito per bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto, e truffa. Lo accusarono di avere sfruttato l’incarico di segretario del cardinale per organizzare un’ambigua ditta di import-export con l’America Latina. E restò impigliato in una storia poco chiara legata a una cooperativa edilizia collegata con le Acli che dovrebbe costruire palazzine all’Eur. La cooperativa fallì mentre lui rispondeva della cassa. Il giudice fallimentare fu quasi costretto a spiccare un mandato di cattura. Don Pierino, che amava farsi chiamare "monsignore", e per questo motivo si era beccato anche una diffida della Curia, sparì dalla circolazione. Si saprà poi che era finito nel cattolicissimo Vietnam del Sud dove era entrato in contatto con l’arcivescovo della cittadina di Hué. Ma la storia finì di nuovo male: sua eminenza Dihn-Thuc, e anche la signora Nhu, vedova del Presidente Diem, lo denunciarono per appropriazione indebita. Ci fecero i titoloni sui giornali: "Chi è il monsignore che raggirò la vedova di Presidente vietnamita". Dovette rientrare in Italia. Però l’aspettavano al varco. Si legge su un ingiallito ritaglio del Messaggero: "Gli danno quattro anni di carcere, nel luglio del ‘71. Li sconta tutti. Come detenuto, non è esattamente un modello e spesso costringe il direttore a isolarlo per evitare "promiscuità" con gli altri reclusi". Cattiverie. Fatto sta che le biografie ufficiali sorvolano su questi episodi. Non così i giornali dell’epoca. Anche perché nel 1976, quando queste vicende sembravano ormai morte e sepolte, e don Pierino aveva scontato la sua condanna, nonché trascorso un periodo di purgatorio ecclesiale in Maremma, lo arrestarono di nuovo. Questa volta finì in carcere assieme al fratello, ad Alessandria, per un giro di presunte bustarelle legate all’importazione clandestina di latte e di burro destinati all’Africa. Si vide poi che era un’accusa infondata. Ma nel frattempo, nessuna testata aveva rinunciato a raccontare le spericolate vite parallele dei due Gelmini. Ci fu anche chi esagerò. Sul conto di padre Eligio, si scrisse che non aveva rinunciato al lusso neppure in cella. Passata quest’ennesima bufera, comunque, don Pierino tornò all’Infernetto. Sulla Stampa la descrivevano così: "Due piani, mattoni rossi, largo muro di cinta con ringhiera di ferro battuto, giardino, piscina e due cani: un pastore maremmano e un lupo. A servirlo sono in tre: un autista, una cuoca di colore e una cameriera". Tre anni dopo, nel 1979, sbarcava con un pugno di seguaci, e alcuni tossicodipendenti che stravedevano per lui, ad Amelia, nel cuore di un’Umbria che nel frattempo si è spopolata. Adocchiò un rudere in una valletta che lì chiamavano delle Streghe, e lo ottenne dal Comune in concessione quarantennale. Era un casale diroccato. Diventerà il Mulino Silla, casa-madre di un movimento impetuoso di comunità. Gli riesce insomma quello che non era riuscito al fratello, che aveva anche lui ottenuto in concessione (dal proprietario, il conte Ludovico Gallarati Scotti, nel 1974) un rudere, il castello di Cozzo Lomellina, e l’aveva trasformato, grazie al lavoro duro di tanti volontari e tossicodipendenti, in uno splendido maniero. Ma ormai la parabola di padre Eligio era discendente. Don Pierino, invece, stava diventando don Pierino. Udine: intervista al cappellano; il lavoro in carcere è la medicina
Il Gazzettino, 6 agosto 2007
"Sono un po’ come quegli artigiani che possono star via solo pochi giorni, altrimenti gli si accumula il lavoro". E il mestiere di don Flaviano Veronesi è difficile: ascoltare senza giudicare, avvicinare i detenuti, raccoglierne gli sfoghi e aiutarli a risalire. Sperando che poi, fuori, ci sia ad attenderli un lavoro, qualcuno e qualcosa in grado di accompagnarli. Il sacerdote che da nove anni fa il cappellano nel carcere di Udine, dopo un’ora abbondante di chiacchierata, ci fa due sole raccomandazioni: "Scriva quel che ci siamo detti" e "non scriva che sono bravo". Non ama la retorica, e si capisce subito. Però una vocazione speciale al contatto con il mondo del dolore ce l’ha davvero, quest’uomo che ha fatto per dieci anni il prete operaio e alla fine, quando la fabbrica Cumini cucine decise la cassa integrazione, disse "no grazie" alla proposta di restare, "perché altri operai avevano più bisogno di lavorare". Poi per caso è arrivato il carcere. Colpa (anzi merito, ce lo lasci dire don Flaviano) di un collega sacerdote che gli chiese aiuto. "Andai dal vescovo Battisti e gli dissi che non mi sentivo preparato. Lui rispose: "Ti ho ordinato io, so che puoi farlo". Aveva ragione l’arcivescovo emerito, che fu tra parentesi "l’unico ad appoggiare noi preti operai in tutt’Italia" come ricorda don Flaviano. Ma aveva ragione anche Veronesi quando pose al suo pastore la condizione di poter continuare a reggere la sua parrocchia, a Cergneu di Nimis, perché la prigione è un’esperienza che rischia di estraniarti e c’è bisogno del contatto con la vita di fuori. Non per questo l’impegno di don Flaviano è minore: ogni mattina varca il portone di via Spalato, si informa sulle novità, apre l’armadio dove vengono custodite le domande di colloquio. È questo il "lavoro" che si accumula se manca il sacerdote. E i faccia a faccia con i detenuti sono spesso intensi: "Per loro è importante, possono sfogarsi. Il pentimento spesso c’è, anche se magari non viene espresso a parole. Lì la pena è grande, è restare separati da quel che succede fuori, non sapere cosa si farà una volta usciti dal carcere". Sono proprio le opportunità di futuro il vero problema, ripete don Flaviano: "Se l’indulto, oltre a svuotare le carceri, avesse dato il lavoro... Perché se uno lavora non finisce in carcere. Quando vedo entrare ragazzi di vent’anni, mi vengono sempre i capelli dritti. Mi chiedo: ma era proprio necessario mandarli qui? Bastano 15 giorni e sei "segnato", l’ho detto anche di recente a dei giovani: cominciate subito a dimostrare di aver capito la lezione, perché poi quando tornerete in paese vi accuseranno appena succede qualcosa...". Tanto è pedagogico il lavoro che don Flaviano un’idea ce l’avrebbe: anziché mettere dentro chi ruba qualcosa, farlo faticare finché non l’ha ripagata. E l’aspetto spirituale? "A messa c’è un gruppo di circa 25 persone, e sono funzioni partecipate: recitano le Letture, collaborano, ci sono detenuti di colore che cantano l’Allelujah e il Santo". Nei suoi nove anni di esperienza - aiutato dal diacono Paolo Collavini, da suor Rita, suor Isolina e suor Gianna che collaborano con le associazioni di volontariato Icaro e Speranza - don Flaviano ha celebrato battesimi e cresime, mentre la comunione è la norma per chi frequenta la messa. Il sacramento della riconciliazione è meno attraente, "ma le assicuro che fuori accade lo stesso". Né l’alta percentuale di detenuti stranieri crea tensioni o impedisce il confronto: "Per un periodo i musulmani organizzarono la preghiera del venerdì, e questo mosse anche i cattolici a un maggiore impegno". Don Flaviano si concede una battuta: "I buddisti invece non ci sono: troppo buoni". È anche spiritoso, il sacerdote del carcere. Ma non ditegli che fa cose speciali... Roma: senza fondi, chiude la biblioteca degli ex detenuti
Il Giornale, 6 agosto 2007
È durato un anno appena il sogno di una biblioteca in periferia che permettesse il recupero sociale degli ex detenuti. Inaugurata nel giugno 2006 davanti a politici delle più diverse istituzioni (presenti Comune, Provincia, Regione e Parlamento) la "Biblioteca del Casale Ponte di Nona" ha dovuto chiudere i battenti il 16 luglio. Troppo alti i costi di gestione (57mila euro l’anno, quelli ordinari) per la piccola associazione culturale che l’ha creata, la "Papillon - Rebibbia Onlus". Troppe, soprattutto, le promesse disattese dei politici. "Abbiamo iniziato a lavorare alla raccolta dei volumi nel 2003 - racconta Vittorio Antonini, il responsabile -. Dodicimila, tra cui ne abbiamo selezionati 5mila e seicento per la catalogazione. E finora sono oltre tremila quelli a disposizione". I fondi iniziali, oltre 50mila euro, provengono dalle risorse proprie dell’associazione. La decisione di aprire in ogni caso era dovuta proprio ai finanziamenti promessi dalle varie istituzioni. "Da subito avevamo avuto molte rassicurazioni dai politici - prosegue Antonini -. Il giorno dell’inaugurazione erano presenti il presidente del municipio VIII Scorzoni, il presidente della Provincia Gasbarra, quello della Camera Bertinotti, l’assessore capitolino alle Periferie Pomponi e il sottosegretario alla Giustizia Manconi. E tutti hanno promesso di aiutarci a far sopravvivere questa esperienza". Più tardi arrivano anche le parole dell’assessore regionale al Bilancio Nieri che in una trasmissione televisiva si assume l’impegno di sostenerla. "E invece in un anno non si è mosso quasi niente. A ognuno abbiamo chiesto di muoversi secondo le proprie competenze. A Manconi di verificare la possibilità di utilizzare i soldi della "cassa delle ammende", per esempio. La verità è che servirebbe un tavolo interistituzionale tra i vari enti". Inutili le successive riunioni, con Scorzoni a gennaio e con l’assessore Di Francia a febbraio. Tutti si spendono a parole ma i soldi, di fatto, non arrivano. Così il 16 luglio la biblioteca è costretta alla chiusura. "Non avevamo più fondi per pagare i 4 stipendi (per 3 ex detenuti e un bibliotecario professionista), così abbiamo dovuto chiudere". Finito il sogno di creare un vero e proprio polo socio-culturale con tanto di sala musica e spazi verdi, per il momento. "Adesso l’assessore provinciale alle Politiche sociali Cecchini ci ha fatto sapere che fino a dicembre la Provincia vuole coprire i costi. Staremo a vedere. Finché non arriveranno i soldi, però, rimarremo chiusi. Ma anche se arrivassero, l’anno prossimo come faremo? Se le cose dovessero andar male, comunque, siamo pronti a donare tutti i libri a una delle realtà giovanili che combattono la mafia nel sud Italia". Iraq: scontri nel carcere di Badoosh, ucciso un detenuto
Associated Press, 6 agosto 2007
Un detenuto ucciso e altri due feriti. È il bilancio di alcuni scontri avvenuti nei giorni scorsi nel carcere di Badoosh, nei pressi di Mosul, a nord di Bagbdad. I disordini sono scoppiati giovedì sera durante il trasferimento di alcuni detenuti nel carcere di isolamento, e sono proseguiti fino ad oggi, quando la polizia è riuscita a sedare la rivolta. Un prigioniero ha tentato di fuggire ed è stato ucciso dai militari. Lo riferiscono fonti dell’esercito Usa. Il carcere di Badoosh è noto alle cronache per la scarsa sorveglianza: a marzo un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel penitenziario ed ha liberato 150 detenuti, quasi tutti subito nuovamente catturati.
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