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Giustizia: Amato; nelle nostre città va ricreato il senso dell’ordine
Corriere della Sera, 30 agosto 2007
Lettera del ministro dell’Interno Amato al Corriere: buona parte della percezione di scarsa sicurezza è dovuta alla illegalità diffusa e alla tolleranza verso gli abusivi nelle strade. "Una delle cose che più mi inquietano nel mio ruolo attuale di ministro dell’Interno è il divario fra le immagini che vengono costruite sulla nostra sicurezza e i risultati del lavoro, che non è mio - e cioè di una figura politica esposta come tale a qualunque critica - ma delle Forze dell’ordine, delle migliaia di uomini e di donne che ogni giorno ed ogni notte lavorano per noi. Troppo spesso la politica costruisce polemiche su uno stato della sicurezza che, nella migliore delle ipotesi, amplificano stati d’animo di cui vanno capite le ragioni (e su queste ragioni tornerò alla fine), ma che non possono valere come giudizi generali. Parlate con signore, che hanno subito furti in casa di notte mentre erano a letto. Le troverete sconvolte, tese, arrabbiate. Se vi diranno "qui tutti rubano e nessuno li arresta", vi diranno ciò che da parte loro è più che comprensibile. Non è così, però, se la stessa cosa viene ripetuta da chi ha responsabilità più generali. A quel punto, una reazione più che naturale da parte di chi ha subito un reato tra i meno tollerabili, diviene un gravissimo errore, perché è semplicemente non vero che davanti alle rapine in casa vi sia impotenza e che "tutti rubano e nessuno viene arrestato". I dati ci dicono un’altra cosa, ci dicono che polizia e carabinieri hanno arrestato, nel periodo gennaio-luglio 2007, ben 907 autori di rapine in villa rispetto ai poco più di 1.000 arrestati in tutto il 2006. E 907 non corrispondono necessariamente a 907 rapine, ma corrispondono di sicuro a diverse centinaia che non resteranno impunite. La cosa si ripete davanti ai gravi incidenti automobilistici provocati da ubriachi al volante. Non è vero, come ho letto, che "i controlli latitano". Sì, siamo partiti da livelli ben più bassi di quelli di altri Paesi e nel 2005 eravamo il distanziato fanalino di coda europeo. Ma ad oggi, nel 2007, sono stati fatti controlli su chi guida, che sono più del doppio dell’anno scorso. E davanti alle discoteche sono stati disposti il sabato sera ben 8.500 posti di controllo con l’impiego di oltre 10.000 pattuglie. Ci si lamenta della criminalità straniera e me ne lamento anch’io. Ma chi si lamenta perché magari erano rumeni quelli che sono entrati in casa sua, e pensa quindi che questi delinquenti rumeni scorazzano impuniti per l’Italia, sa poco o nulla dell’operazione Itaro: un’operazione comune di polizia italiana e rumena, che solo negli ultimi due mesi e mezzo, tra il maggio e i primi di agosto di questo anno, ha portato ad arrestare 255 rumeni per reati contro il patrimonio e a denunciarne a piede libero oltre 200. Del terrorismo internazionale sappiamo che a Perugia ci sono stati quattro arresti e c’è sulla vicenda un’indagine in corso. Non tutti sanno che quegli arresti sono parte di una azione ramificata e continua che, sempre in questi primi mesi del 2007, ha portato a controllare 2.600 luoghi di aggregazione islamica, tra cui, ma non solo, le moschee. Oltre 10.000 persone sono state controllate e 200 e più sono state espulse. La stessa cosa riguarda il terrorismo interno. Per la prima volta quest’anno si sono trovate prove consistenti per ottenere l’arresto di brigatisti prima che commettessero gli attentati a cui lavoravano. Ma se questo è accaduto, è perché c’è una vigilanza attenta e continua, che sfugge a chi critica e grida. Come magari è sfuggito che il centro sociale Gramigna di Padova, sul quale tante parole erano state spese e riportate con rilievo dai giornali, è stato chiuso e sgomberato destando per questo una attenzione ben più scarsa. Le lacune ci sono e i rafforzamenti e i miglioramenti da fare sono tanti. Ma per ridurre la percezione di insicurezza, e quindi attenuare quello stato d’animo esasperato che porta a dire "qui tutti rubano e nessuno viene arrestato", c’è qualcosa di pregiudiziale che va fatto e che non riguarda direttamente i furti. Buona parte della percezione di scarsa sicurezza di quel 30% di cittadini che la dichiarano è dovuta, infatti, non tanto alla visibilità del criminale pericoloso, quanto al clima di disordine nel quale vivono le nostre città, alla illegalità diffusa, alla tolleranza che consente agli abusivi più diversi - e a quel punto anche ai borseggiatori più diversi - di trovare il contesto ideale per svolgere le loro attività a danno della gente per bene. E in questo clima di insicurezza crescono anche l’ostilità e la diffidenza verso chiunque sia malvestito o malmesso e ci venga vicino. Col che anche la solidarietà va a farsi benedire. Va aggiunto poi che l’illegalità diffusa, oltre a generare percezione di insicurezza, finisce per fornire altresì copertura alla criminalità definita "grande", in quanto crea collusioni e complicità. L’imprenditore o il commerciante che usa una parte di lavoro nero, o che vende una parte della sua merce senza fatturarla e senza Iva, difficilmente denuncerà l’estorsore di cui è vittima, perché teme di mettersi in evidenza e di mettere in evidenza così i suoi altarini interni. Tutto questo porta dritto ad una conclusione: serve una lotta all’illegalità a 360 gradi, così come fece Rudolph Giuliani, da sindaco di New York. Combattere la piccola illegalità è propedeutico e a volte strumentale a combattere la grande. Ovviamente non sostituisce la lotta alla grande criminalità, ma la deve affiancare e deve creare nelle nostre città il senso di un ordine che è fatto di regole alle quali tutti ci atteniamo e che a tutti facciamo rispettare. È qui che la collaborazione del mio Ministero con gli enti locali e con le polizie municipali dovrà dare i suoi frutti, giacché il tema, dopo il passaggio ai Comuni di tanti poteri amministrativi in precedenza spettanti alla pubblica sicurezza, investe in primo luogo le loro responsabilità. Ma noi saremo al loro fianco. Perché interventi nazionali - che, sia chiaro, non dovranno paralizzare le iniziative locali - eviteranno il rimbalzo dall’una all’altra città di attività trattate da ciascuno con regole diverse. E perché la legalità non può valere a singhiozzo".
Giuliano Amato, Ministro dell’Interno Giustizia: Antigone; consulenza legale per tutti lavavetri denunciati
Redattore Sociale, 30 agosto 2007
Antigone e Progetto Diritti offrono la loro consulenza legale a tutti quei lavavetri che a Firenze saranno denunciati a seguito dell’ordinanza del Comune. Lo hanno fatto sapere oggi le due associazioni che precisano anche gli ambiti delle consulenze: 1) gli eventuali strascichi penali provocati dalla denuncia della polizia municipale; 2) l’effettuazione di pratiche di regolarizzazione; 3) l’eventuale ricorso al Tar e successivo ricorso alla Consulta, alla luce dei possibili profili di illegittimità costituzionale del provvedimento assunto dal Comune di Firenze. Per organizzare il lavoro di consulenza, Antigone e Progetto Diritti mettono a disposizione le loro strutture fiorentina e nazionali. "Il provvedimento fiorentino - hanno spiegato oggi Patrizio Gonnella, presidente nazionale di Antigone, e Mario Angelelli, presidente nazionale di Progetto Diritti - è un provvedimento che si muove nel senso dell’esclusione sociale e non invece del buon senso e dell’integrazione. Noi che le carceri le conosciamo da vicino possiamo ben dire agli amministratori di Firenze che di tutto c’era bisogno tranne che di una stretta punitiva nei confronti di pacifici lavoratori". Ecco i riferimenti utili a chi fosse interessato alla consulenza legale: Associazione Antigone - Sede nazionale - tel: 06.44363191 - mail: segreteria@associazioneantigone.it; Associazione Antigone - Sede di Firenze - tel: 3291252107 - mail: A.Scandurra@tsd.unifi.it; Associazione Progetto Diritti - Sede Nazionale - tel: 06.298777 - mail segreteria@progettodiritti.it. Giustizia: solo con movimento di opinione verrà la vera riforma
L’Opinione, 30 agosto 2007
Più d’ogni altro è forse il tema della giustizia a fotografare lo stato di turbolento immobilismo in cui versa la situazione politica nazionale. Quel che è stato con una felice espressione definito "il primo dei diritti civili" - e che dovrebbe essere al centro dell’azione di qualsiasi esecutivo in carica - finisce per agitare ogni tipo di polemica, di attrarre a sé questa o quella vicenda di cronaca giudiziaria fino a generare interventi legislativi che, nella migliore delle ipotesi, assumono valenza poco più che simbolica: con la conseguenza di provocare un repentino ritorno al punto di partenza nel drammatico gioco dell’oca che da circa vent’anni caratterizza la materia. Ad onor del vero non può dubitarsi della portata riformatrice della Riforma Castelli: sarebbe stato sufficiente osservare la reazione della Magistratura associata per persuadersi dell’incisività (e della bontà) di quell’intervento. Fuor di polemica, deve essere ascritto a merito del secondo governo Berlusconi quello di aver introdotto un sistema di separazione delle funzioni, un criterio di selezione e formazione dei magistrati, l’istituzione della Scuola superiore della magistratura, di aver introdotto criteri meritocratici nella procedura di progressione della carriera e di aver perfino rivisto la materia delle procedure disciplinari cui i magistrati avrebbero dovuto sottoporsi.
Lo strapotere dei magistrati
Pur senza entrare nel merito della riforma del ministro leghista - ma confermando un giudizio ampiamente positivo - va anche annotato come persino in un intervento tutt’altro che simbolico come quello in questione non sono mancate polemiche di valore meramente simbolico (si pensi a quella legata all’affissione nelle aule della scritta "La giustizia è amministrata nel nome del popolo" voluta da Castelli in luogo del tradizionale "La legge è uguale per tutti"). La reazione della Magistratura associata alla riforma Castelli è questione recente e probabilmente nota ai più: iniziata con la benedizione ad un guardasigilli obbediente ed ossequioso - tanto da accorrere fin dalla sua primissima uscita pubblica ad omaggiare i magistrati - costantemente inchinato dinanzi ai voleri dei magistrati al punto da delegare direttamente a questi la scrittura della controriforma. Quella della controriforma costituiva una prova di forza e tutt’altro che semplice per i magistrati se si considera la strettezza dei tempi in cui si sarebbe dovuta pervenire all’approvazione e le note difficoltà della maggioranza in Senato. E la prova di forza è stata non vinta ma stravinta dai magistrati che non solo sono riusciti ad azzerare la riforma Castelli ma perfino ad incastonare nel provvedimento qualche perla come l’esclusione dell’avvocatura dai Consigli giudiziari. Un dettaglio, se considerato in concreto ma - ancora una volta - una rappresentazione simbolica dello strapotere con cui i magistrati hanno scippato al parlamento la sua funzione fondamentale. Si è tornati così al punto di partenza in virtù di quel turbolento immobilismo di cui s’è detto in principio. Non v’è dubbio, dunque, che vi sia qualcosa di geneticamente viziato in un meccanismo che non riesce a generare altro che stantie rappresentazioni di se stesso. C’è stata invero - e non sembra che possa contestarsi - una fase storica in cui il meccanismo è sembrato entrare davvero in crisi: ci riferiamo naturalmente alla stagione successiva al Caso Tortora.
Caso Tortora, un’occasione persa
La notorietà del personaggio, la gravità delle imputazioni, la vacuità dell’impianto accusatorio, unite alla lucidità dell’uomo Tortora - che seppe e volle fare della sua vicenda la battaglia per la giustizia giusta - ed alla pervicacia del movimento radicale che intuì l’eccezionalità del momento, generarono un movimento di opinione di tale portata da costituire l’humus necessario per una riforma davvero tout court della giustizia italiana. Quella stagione vide il suo culmine con l’approvazione a larghissima maggioranza del referendum che avrebbe dovuto sancire la responsabilità civile dei giudici. Da quel momento - a cominciare con l’approvazione della legge truffa sulla responsabilità civile dei magistrati, passando per il golpe giudiziario di Mani Pulite - può segnarsi l’inizio della crisi profondissima da cui la giustizia (ma meglio sarebbe dire la politica) non ha saputo riprendersi.
Dove eravamo rimasti?
"Dove eravamo rimasti?": con queste parole Enzo Tortora, pochi mesi prima di morire, inaugurò la serie di Portobello successiva alla sua tragedia giudiziaria. Con le medesime parole, con quel "Dove eravamo rimasti?", occorre che un movimento liberale approcci al tema della giustizia, promuovendo la ricostituzione di quel larghissimo movimento di opinione che era sorto dalla vicenda Tortora: e ciò a cominciare da subito, celebrando il ventennale del referendum che proprio il prossimo otto novembre andrà a ricorrere. Sulla necessità di un movimento di opinione che si ponga a base dell’azione riformatrice in materia di giustizia s’è soffermato più di una volta Mauro Mellini. Scrive l’ex parlamentare radicale: "…nessuna politica, nessun progetto riformatore può muovere i primi passi con la prospettiva di arrivare ad un risultato consistente, se non spostando la battaglia dal piano esclusivamente legislativo ed istituzionale a quello del dibattito del problema nel Paese, tra le categorie professionali, tra le persone colpite dalla "malagiustizia" etc. La magistratura gode oggi nel Paese di una situazione di privilegio nei mezzi di comunicazione di massa e, in conseguenza, nella pubblica opinione. Non si può dire che la fiducia nella giustizia da essa amministrata sia elevata; è vero semmai, il contrario. Ma il diffuso senso di sfiducia e, magari, di riprovazione è privo di orientamento, non trova punti di riferimento, adeguata informazione, chiaro indirizzo in ordine alle responsabilità. Se, a fronte di ogni caso luttuoso, anche se, magari, rientrante nei limiti statisticamente fisiologici, verificatosi negli ospedali o, comunque, in relazione all’assistenza medica, scatta la protesta, la denuncia per "l’ennesimo caso di malasanità", a fronte delle sentenze più stravaganti, dei più abominevoli abusi della carcerazione preventiva, dell’uso dei pentiti, della fantasia onirica nella formulazione delle imputazioni, della faziosità più manifesta ed, a volte, ostentata, la stampa tace o acconsente o, al più, si rifugia nel generico disappunto, che, peraltro, è più spesso e più smaccatamente espresso e fonte di una sentenza assolutoria, che, magari, rimedi a clamorosi errori, ma che lasci, come sconciamente scrivono i giornali, un delitto "senza autori", che non per autentiche strampalatezze ed enormità giudiziarie. Portare la politica per una giustizia gusta tra la gente è oggi difficile, ma non impossibile: c’è sete di giustizia, né questo dà "beatitudine". Si tratta di incanalare e razionalizzare tale sconcerto, fornire informazione e giusti parametri di giudizio."
Ripartire si può
L’impostazione di Mellini, pur se ambiziosa, costituisce l’indifferibile punto di ri-partenza: un’azione che si presenta tanto più difficoltosa a causa della latitanza del movimento radicale, vero animatore della battaglia per la giustizia giusta della seconda metà degli anni ‘80, progressivamente allontanatosi dal tema al punto da aver derubricato l’intera questione alla ossessiva ripetizione della necessità di un provvedimento di amnistia da affiancarsi a quello di indulto recentemente approvato: quasi che la questione giustizia si risolvesse o potesse essere sussulta nella pur rilevantissima vicenda del sovraffollamento carcerario o nella necessità di smaltimento dei procedimenti penali tuttora pendenti. "Dove eravamo rimasti?", dunque. Da lì, ripartire. Messina: reinserimento, dal dopo-indulto all’inclusione sociale
Tempo Stretto, 30 agosto 2007
Non basta uscire di galera, bisogna anche avere una possibilità di ricominciare. Questo è il principio che anima il progetto "Lavoro nell’inclusione sociale dei detenuti beneficiari dell’indulto", che verrà presentato alla stampa domani, coordinato tra Comune, Provincia, cooperative sociale e Italia Lavoro. Il progetto coinvolge complessivamente quattordici aree metropolitane nazionali e mira a promuovere il reinserimento lavorativo di ex detenuti beneficiari dell’indulto, attraverso la possibilità di seguire tirocini formativi della durata di sei mesi. Una misura che è alla base del percorso di rientro nella normalità sociale. All’incontro saranno presenti l’assessore comunale alle Politiche sociali, Pippo Rao, l’assessore provinciale alle Politiche del Lavoro, Antonino Reitano, Mario Conclave, responsabile dell’area inclusione sociale di Italia Lavoro, l’Agenzia che per conto del Ministero del Lavoro, della Previdenza Sociale e del Ministero della Solidarietà Sociale gestisce il progetto. I potenziali destinatari degli interventi sono circa 300 indultati, residenti nel territorio messinese e sono stati già avviati gli incontri operativi per l’inizio delle attività; in tale quadro Legacoop e Confcooperative si sono impegnate a sollecitare le proprie imprese a mettere a disposizione i posti per i tirocini. La legge denominata "Concessione di indulto" risale al 31 luglio 2006: ha introdotto uno sconto di pena di tre anni per i reati commessi fino al 2 maggio 2006. Per ogni beneficiario è previsto un contributo al reddito di 2.700 euro, concesso secondo queste modalità: o 450 euro al mese per un massimo di sei mesi; o 675 euro al mese per un massimo di quattro mesi. Per le aziende disposte ad accoglierli è previsto: un contributo di 1.000 euro per la formazione in caso di assunzione a tempo indeterminato o a tempo determinato (almeno 12 mesi); la capitalizzazione della parte restante della dote in caso di assunzione anticipata; il cumulo con altre agevolazioni stabilite a livello nazionale e locale. Como: i detenuti del Bassone ripuliranno boschi e montagne
Corriere di Como, 30 agosto 2007
I detenuti del Bassone si occuperanno della pulizia dei boschi e della strada che porta al Monte Bisbino. L’idea dell’associazione "Amici del Bisbino" potrebbe prendere corpo già entro la fine di settembre, i contatti tra il presidente dell’ente, Franco Edera, le amministrazioni pubbliche e il Provveditorato regionale delle Case circondariali è stato avviato da tempo. L’associazione ha denunciato lo stato di degrado in cui versa oggi la vetta. "Vi è un muro franato da un anno ancora pericolante e rottami di tutti i tipi che circondano parte dell’area. La strada della vetta, poi, molto battuta da ciclisti e turisti, in alcuni tratti è una vera e propria giungla", spiega Edera, che denuncia come da anni non venga effettuata la manutenzione della strada, cosicché in particolare d’estate, rovi e sterpaglie entrano tranquillamente nella carreggiata. Da qui l’idea di impiegare gli "ospiti" del carcere del Bassone per la pulizia della sede stradale e la piantumazione dell’area sottostante il santuario. Il progetto prevede l’impiego di una squadra di 4 o 6 detenuti volontari che operino per una decina di giorni due volte all’anno. Gli addetti naturalmente sarebbero accompagnati dal personale del consorzio forestale, dotati di attrezzature adeguate e di un’assicurazione sugli infortuni. Per i detenuti sono previsti inoltre il vitto e una sorta di gettone per ogni giornata di lavoro svolto. "Lo scopo è anche insegnare un mestiere a questa gente - aggiunge Edera - in modo che una volta scontata la pena possano magari trovare un’occupazione nel settore del giardinaggio o della manutenzione". Tutto pronto, si diceva o quasi. Gli Amici del Bisbino hanno già ricevuto rassicurazioni dai comuni di Moltrasio e Maslianico, dall’Api di Como che si è detta disposta a fornire il vestiario. Nei prossimi giorni è previsto un nuovo incontro con la direzione della Casa Circondariale, che dopo il via libera regionale dovrà meglio definire l’operazione. Ancora da perfezionare, invece, il rapporto con la Comunità montana e il Comune di Cernobbio. "È indispensabile - conclude Edera - che la Comunità montana o i Comuni forniscano il mezzo di trasporto per i detenuti, oltre al personale tecnico competente. La speranza è di riuscire ad avviare la prima fase della manutenzione entro fine settembre". Immigrazione: costruire risposte alla precarietà e all'insicurezza di Roberta Fantozzi (Responsabile area Diritti sociali e Immigrazione Prc)
Liberazione, 30 agosto 2007
Sono due i messaggi che ci arrivano dalla vicenda dell’ordinanza del Comune di Firenze. Entrambi pesantemente negativi. Il primo più evidente riguarda la politica. Come ha scritto ieri Ritanna Armeni, è andata avanti con enfasi crescente in questi mesi, il tentativo di costruire una "ideologia", una vera e propria cultura politica da parte del nascente Partito Democratico per cui ai problemi, alle contraddizioni e ai conflitti posti dalla società non esisterebbero risposte di destra o di sinistra, ma solo risposte, neutrali, oggettive che si impongono per auto evidenza. "E siccome quelle di destra sono belle e pronte e si fondano sulla paura, sull’istintiva difesa della grandi e piccole comodità della vita quotidiana, sul rifiuto di chi ha meno, di chi è ai margini del proprio benessere, ecco che quelle risposte diventano le uniche…". Così ogni freno scompare, ogni dubbio si dissolve nell’ampio campo delle iniziative che si possono assumere per ergersi a tutori della "sicurezza" dei cittadini. Non l’interrogativo - evidentemente di sinistra - su quali iniziative si possano assumere per costruire percorsi di inclusione sociale, di fuoriuscita dalla marginalità, né quello "funzionalista" sulla sensatezza di riempire le carceri di "lavavetri", e nemmeno il dubbio garantista, liberale, sulle responsabilità sempre individuali di ogni comportamento sfiorano l’assessore Cioni e la giunta di Firenze: i lavavetri, tutti i lavavetri, sono responsabili di "aggressioni giornaliere", sono tutti pericolosi, e dunque la soluzione deve riguardare la categoria in quanto tale. La retorica della sicurezza impone ovviamente anche di ingigantire il fenomeno quantitativamente, di dare per acquisite interpretazioni della realtà tutte da dimostrare (come il fatto che esista un racket dei lavavetri - ipotesi esclusa ad esempio da un’inchiesta della procura di Bologna, ma assai poco credibile anche semplicemente considerando il fatto che i racket si costruiscono di solito su attività redditizie), di indicare i soggetti particolarmente vulnerabili che si vogliono difendere: in questo caso l’assessore Cioni parla delle "donne sole al volante". Le donne aggredite quotidianamente nelle mura domestiche ma che sempre più vengono "usate" per giustificare gli attacchi ad altri soggetti fragili. Le donne evocate da Cioni in un modo che ci ricorda il manifesto di An di qualche tempo fa. Non c’è esigenza di rigore di analisi, non c’è esigenza di costruire percorsi e proposte, verrebbe da dire semplicemente civili, perché l’enfasi securitaria tutto copre e tutto giustifica. E però l’"ideologia" che la parte prevalente del Partito Democratico - prevalente, perché qualche distinguo per fortuna è arrivato - è solo una parte del problema . Giacchè con tutta evidenza di problema ne esiste un altro, persino più grande, persino più drammatico. Da quando la questione ha occupato lo spazio mediatico, si rincorrono su siti e forum sondaggi, evidentemente privi di certezza statistica, giacché rispondono esclusivamente al criterio di chi sceglie di inviare una mail, ma certo non privi di ogni valore. Più dell’80% di chi si è espresso è a favore dell’ordinanza del Comune di Firenze. Va in onda on-line l’incattivimento, la regressione di valori e prospettive che attraversa la società italiana. Ed è forse su questo che è necessario interrogarsi e cercare di costruire risposte. Certo non è un dato che possa prescindere dai processi di vera e propria costruzione dell’opinione pubblica che il sistema politico-mediatico quotidianamente opera. Se continuamente leader di diversi schieramenti evocano la "sicurezza" come problema prioritario, se la retorica della paura diventa ingrediente quotidiano di costruzione del discorso della politica, il terreno è abbondantemente seminato ed una parte di quell’80% è sicuramente il prodotto dell’offensiva ideologica di questi mesi, è responsabilità immediata e diretta del "razzismo istituzionale". Ma questa spiegazione certo non basta. C’è di più. C’è probabilmente quello di cui parlava qualche giorno fa Marco Revelli. Una parte della società vive la "miseria dell’opulenza", non prova nemmeno più a mettersi nei piedi dell’altro, delle condizioni di difficoltà, di disagio, vuole allontanare da sé il "fastidio" che provoca persino la visione di chi è marginale e magari crea un qualche disturbo ai propri affari. Non per niente è arrivato immediato il plauso delle categorie di esercenti commerciali, gli stessi che si sono sollevati a Livorno quando il Comune ha proclamato il lutto cittadino per i bambini rom. Ci sono "scarti" che vanno allontanati dalla vista, con cui non si condivide forse più nemmeno una comune condizione umana. E c’è un’altra parte della società che vive il risentimento, la frustrazione e il rancore dei "penultimi". Quelli che sono in larga parte realmente soggetti deboli, deprivati nella materialità della propria condizione di vita come nella capacità di pensare e costruire percorsi di riscatto individuale e collettivo. Che percepiscono gli "ultimi" come quelli che competono per l’accesso alla casa popolare o magari all’asilo nido, che possono portare via brandelli di diritti sempre più residuali e meno garantiti. Ma tutto questo chiama di nuovo in causa la politica. La capacità di costruire risposte alla precarietà e all’insicurezza, e insieme nuovi legami sociali e prospettive di senso. Le due cose con tutta evidenza si tengono. E l’"incattivimento" che attraversa la società italiana ha anche a che vedere con la delusione delle aspettative che tanta parte degli strati più deboli della società avevano riposto nel governo Prodi. Verrebbe da dire che c’è un motivo in più per far crescere la mobilitazione del 20 ottobre, per fare appello a tutte le donne e gli uomini di sinistra perché sentano il valore di quell’appuntamento. Non contro il governo, ma per l’urgenza e la necessità di un cambiamento. Perché con tutta evidenza o la politica ridiventa uno strumento collettivo di trasformazione, e si danno risposte capaci di incidere sulle deprivazioni materiali e simboliche della nostra società, o la caccia al capro espiatorio non è che cominciata. Droghe: Amato; contro consumo famiglie non fanno abbastanza
Notiziario Aduc, 30 agosto 2007
In Italia "c’è un consumo spaventosamente alto" di droga, il suo "giganteggiare è una cosa di cui siamo tutti responsabili". Nei bagni delle scuole, nelle discoteche "si trova droga: le famiglie si debbono porre il problema". Giuliano Amato interviene alla Festa dell’Udeur e coglie l’occasione per parlare del traffico della droga, alimentato da un consumo da parte "dei nostri figli". Amato non ha dubbi, "se sequestriamo tonnellate di droga sul nostro territorio questo vuol dire che c’è una domanda alta da parte di migliaia di italiani". Insomma, prosegue il responsabile del Viminale, questo problema "si deve affrontare in famiglia. Ne parlino ai figli almeno i genitori che non consumano droga, perché poi ci sono anche le famiglie in cui anche i genitori abusano di stupefacenti". Amato chiede che non ci si rivolga al suo ministero chiedendo di sequestrare la droga "se poi - dice - noi italiani ne facciamo un abuso spropositato". Ma non è solo il tema della droga che preoccupa il ministro dell’Interno, c’è anche la piaga dell’alcol. "Quello dei giovani e l’alcol è un altro grande tema", dice il Amato rilevando che ormai "sono tantissimi i giovani che, fermati dalla polizia, risultano sopra i limiti". Un consumo, continua, "aumentato in maniera vertiginosa". Amato, fatto questo quadro con in aggiunta un riferimento al terrorismo interno ("Per la prima volta la polizia ha fatto arrestare dei brigatisti rossi prima che commettessero un attentato") e agli immigrati irregolari ("Soprattutto al nord la criminalità è collegata agli ingressi clandestini"), cerca di rassicurare gli italiani. "C’è una tendenza ad estremizzare i fenomeni criminali che fa parte della tendenza naturale di ciascuno di noi". Certo, continua, "siamo in presenza di una situazione caratterizzata da molteplici fattori criminogeni ma - è la conclusione del ministro - la possiamo governare". Pena di morte: Nessuno Tocchi Caino; 5.628 le esecuzioni in 2007
Adnkronos, 30 agosto 2007
Sono state almeno 5.628 le esecuzioni capitali compiute in 27 paesi nel 2006. Una cifra in aumento considerato che nel 2005 le esecuzioni capitali sono state 5.494 e nel 2004 sono state 5.530. Il triste primato è detenuto sempre dalla Cina con almeno 5 mila esecuzioni, al secondo posto si trova l’Iran con 215 esecuzioni, seguito dal Pakistan con 82, dall’Iraq (almeno 65), dal Sudan (almeno 65) e al sesto posto si trovano gli Stati Uniti con 53 esecuzioni. Sono alcuni dei dati contenuti nel Rapporto 2007 sulla Pena di morte nel mondo redatto da Nessuno tocchi Caino, l’associazione che da 14 anni opera per abolire la pena capitale attraverso una moratoria, che sarà presentato nel pomeriggio a Roma.
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