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Giustizia: Udeur; basta con le polemiche strumentali sull’indulto
Apcom, 12 agosto 2007
"Le forze politiche non facciano polemiche strumentali sugli avvenimenti di cronaca di questi giorni. Non è possibile ogni volta tirare in ballo l’indulto, come se fosse l’unica causa di tutti i mali italiani". Lo afferma, in una nota, l’Udeur, ricordando che la misura fu votata "da oltre due terzi del Parlamento, quindi da molti che oggi in modo artificioso la criticano". "Continuare a usare la giustizia per alimentare uno sterile scontro politico - si legge ancora nella nota - non serve a nessuno, né ai singoli cittadini né tanto meno alle vittime di un atto criminoso. In questo anno di governo, il nostro partito si è impegnato affinché venissero varate riforme che rendessero la giustizia efficiente e in grado di dare risposte rapide, certe e a misura d’uomo. Il recente decreto, varato dall’esecutivo prima della vacanze estive - conclude l’Udeur - ne è uno degli esempi. Al bando le polemiche dunque, è necessario lavorare tutti insieme, per il bene del Paese e dei cittadini tutti". Giustizia: Sappe; dopo un anno già sfumati gli effetti dell’indulto
Il Giornale, 12 agosto 2007
A poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge 31 luglio 2006 n.241, quella sull’indulto per capirci, il bilancio è largamente in rosso. A uscire dal carcere grazie al provvedimento, approvato con larga maggioranza in Parlamento, furono oltre 26 mila detenuti (26.632 per l’esattezza). Ebbene di questi 5.699, cioè circa il 21 per cento, ha già fatto ritorno nelle patrie galere. Un numero destinato a salire secondo Aldo Di Giacomo, consigliere nazionale del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria, visto che il "ritmo di rientro è molto alto". Per cui, nonostante le "rassicurazioni" del guardasigilli Mastella, c’è poco da stare tranquilli: "Il 79 per cento di non rientri sarebbe un buon dato - spiega Di Giacomo - se fosse registrato a 7 anni dall’indulto, non ad appena uno". Una percentuale che "non evidenzia la presenza di persone reinserite nella società ma, accanto ai redenti, di una smisurata riserva di criminalità". Con buona pace della sicurezza dei cittadini. E a spazzare il campo dalle interpretazioni parlano i dati dell’ultima relazione del Dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno trasmessa alla commissione Affari costituzionali della Camera. Il documento evidenzia che dopo l’indulto c’è stato un aumento dei reati "predatori", come furti e rapine. Secondo il Viminale, fino al luglio 2006 (quando è scattato il provvedimento) questi reati erano in flessione rispetto all’anno precedente, rispettivamente del 5 e del 7 per cento. In particolare, tra gennaio e luglio 2006 ci sono stati, rispetto allo stesso periodo del 2005, 1.048 rapine e 23.323 furti in meno. Ma tra agosto e settembre 2006, dopo l’indulto, sempre rispetto agli stessi mesi del 2005 c’è stato un incremento di 1.952 rapine e di 28.830 furti. Dati che fotografano una realtà opposta a quella di cui parla il ministro della Giustizia, che rivendica un calo dei reati e ricorda che non si è verificata "quell’apocalisse che molti avevano prefigurato". E suonano malinconiche le parole del ministro dell’Interno Giuliano Amato, che sulla rivista della Polizia di Stato, sull’indulto aveva detto: "Da ministro dell’Interno ho dovuto prendere atto della volontà del Parlamento. Non senza sofferenza. È chiaro che un provvedimento del genere crea un problema a chi fa il nostro lavoro". Speciale: dibattito sulle cosiddette "scarcerazioni facili"
Carlo Federico Grosso: tre casi diversi, vediamoli nel dettaglio
La Stampa, 12 agosto 2007
Tre casi di criminali "liberati" dall’autorità giudiziaria di cui si è occupata la scandalizzata cronaca nera di ieri rispondono in realtà a logiche giudiziarie molto diverse, per cui è difficile inquadrarle in un unico discorso. Torino, il Tribunale del Riesame ha valutato che un ubriaco che aveva travolto e ucciso una ragazza non avesse agito con dolo come ipotizzato dall’accusa e ha pertanto ordinato la scarcerazione dell’imputato, in quanto l’omicidio colposo non giustificherebbe la misura cautelare più grave. A Sanremo, un giovane ha sgozzato la sua ex fidanzata sulla pubblica via; tre mesi fa non era stato incarcerato dall’autorità giudiziaria nonostante fosse stato fortemente sospettato di avere ucciso una donna nei vicoli di Genova. A Latina, un piromane, colto sul fatto mentre si accingeva ad appiccare il fuoco, con ben 26 inneschi pronti per l’uso, 17 dei quali già posizionati, non è stato arrestato. Ridicolizzando la tolleranza zero di cui avevano parlato nei giorni scorsi le competenti autorità politiche di fronte al dilagare della criminalità piromane. La vicenda di Torino è agevolmente inquadrabile. Si trattava di stabilire se avessero ragione i magistrati di Pinerolo nel qualificare il fatto come omicidio doloso, in quanto il giovane omicida, mettendosi al volante dopo essersi ubriacato, aveva accettato consapevolmente il rischio di travolgere qualcuno guidando in stato di ebbrezza; o avessero ragione i difensori nel sostenere che l’indagato aveva guidato ubriaco nella certezza di potere comunque evitare incidenti grazie alla propria abilità di guida. Il Tribunale ha accolto la tesi difensiva e ha degradato il reato da doloso a colposo, con le conseguenze di legge. Perdendo così, tuttavia, l’occasione di fare seriamente giurisprudenza. Sostenere che chi si ubriaca volontariamente non può non prevedere che, mettendosi al volante, potrà cagionare un sinistro a causa del suo stato confusionale costituisce infatti ipotesi giuridica solidissima, coltivata da tempo dai migliori studiosi di diritto penale. La vicenda di Sanremo suscita reazioni emotive. Com’è possibile, si domanda inevitabilmente la gente, che un giovane, descritto come pericoloso a causa dei ripetuti atti di violenza di cui sarebbe stato autore, fortemente indiziato di avere ucciso a Genova una ragazza con la quale si era accompagnato fino a pochi minuti prima, non sia stato incarcerato dall’autorità giudiziaria per evitare, quantomeno, la ripetizione del reato? Se fosse stato incarcerato, non avrebbe sicuramente commesso l’omicidio di Sanremo. La Procura della Repubblica, comunque, spiega: per il delitto avvenuto a Genova c’erano elementi che potevano fare pensare che autore fosse il ragazzo; mancavano tuttavia elementi probatori sufficienti e convincenti per chiedere una misura cautelare. A posteriori, oggi, è facile dubitare della correttezza di tale soluzione. A priori, la risposta del Procuratore ha tuttavia una sua logica: senza indizi univoci, gravi e convergenti di reità il nostro Codice vieta che si arresti. È sacrosanto garantismo, si sostiene. La vicenda di Latina non è, invece, davvero comprensibile. Una persona, già denunciata per avere appiccato il fuoco, viene colta dalla Forestale sul potenziale luogo del delitto e non viene trattenuta in arresto? Magari soltanto perché non è stata sorpresa proprio nel momento in cui appiccava materialmente il fuoco o subito dopo averlo appiccato, o perché il fatto non è stato, curiosamente, giudicato di particolare gravità? Sembrerebbe senza senso, tanto più in un momento in cui l’allarme per gli incendi boschivi dolosi è particolarmente elevato" Né può fugare lo sconcerto la decisione del giorno dopo della Procura di Latina. Avere cioè, in un modo o nell’altro, ribaltato la decisione originaria procedendo all’arresto tardivo del piromane colto in fragranza di reato. Tre casi che hanno fatto clamore. Tre logiche giudiziarie sicuramente diverse e valutazioni possibili delle decisioni assunte dall’autorità giudiziaria altrettanto differenti. Al di là di queste diversità, è peraltro possibile cogliere il senso di grave disagio complessivo che le vicende menzionate suscitano nel loro insieme. Non è credibile che la giustizia penale, che dovrebbe costituire strumento di difesa efficace dei diritti dei cittadini, si trasformi così sovente in una sorta di giustizia di latta, condiscendente con ogni trasgressione, pronta a chiudere gli occhi, inesorabilmente mite, nella strana convinzione che mitezza e perdono siano, quasi sempre, manifestazione di giustizia giusta. I magistrati di Torino, di Genova e, forse, di Latina avranno avuto le loro ragioni nel valutare come hanno valutato. Le ragioni del garantismo sono, per altro verso, sacrosante e devono essere a loro volta rispettate con rigore. Ma quando si ripetono fatti che sconcertano e danno l’impressione di una giustizia colabrodo, probabilmente è il momento di riflettere e se possibile di reagire. Se le leggi non sono adeguate alla pericolosità sociale dei reati (esempio, omicidi in stato di ebbrezza), le si inasprisca, senza paura o tentennamenti. Se il costume giudiziario è diventato lassista per indolenza o ignoranza di qualcuno, si pensi a come rimediare intervenendo sul terreno della formazione o della disciplina dei magistrati. Si faccia comunque qualcosa. Sarebbe grave se, ad un certo punto, passando di sfacelo in sfacelo, le disfunzioni della giustizia non facessero addirittura più notizia. Mastella: l’indulto non c’entra, no alla giustizia da Colosseo
La Stampa, 12 agosto 2007
I ministri della Giustizia, Clemente Mastella e dell’Ambiente, Pecoraro Scanio, hanno espresso soddisfazione per la decisione della Procura di Latina che ha disposto un nuovo arresto del pastore piromane trovato in possesso di 17 inneschi. Per il Guardasigilli non c’è contraddizione tra la valutazione sull’inasprimento delle pene per alcuni reati e l’aver varato l’indulto. "L’indulto - ha aggiunto Mastella - è un fatto straordinario è come una eclissi che capita una volta ogni tanto dopo la quale c’è la normalità e nella normalità la scansione della pena certa deve essere un fatto che i cittadini acquisiscono come tale". Il Guardasigilli, a proposito delle polemiche innescate dalla vicenda di Latina e dall’omicidio della giovane donna commesso a Sanremo ha espresso il suo no a "un modello di giustizia come al tempo degli antichi romani quando, al Colosseo, si lasciava che il popolo decidesse sulla vita e la morte delle persone: certo ci sono cose che lasciano perplesso anche me, però dalla perplessità ad interferire, per quanto mi riguarda, ce ne corre". Il ministro comunque ha dato mandato ai suoi uffici di acquisire, "per il tramite dei competenti procuratori generali presso le corti d’appello di Genova e Latina, ogni elemento di informazione relativo ai procedimenti trattati dalle procure della Repubblica di Genova e di Latina rispettivamente per fatti di omicidio volontario e di incendio doloso". I genitori di Maria Antonietta, la ragazza uccisa ieri da Luca Delfino, accusano il giudice di non aver fatto fino in fondo tutto quello che doveva per evitare la morte della figlia. "Prima ancora che con quel pazzo criminale - hanno detto il padre Rocco Multari e la madre Rosa - devono fare giustizia con il giudice, perché è lui il vero assassino di nostra figlia. Lanciamo un appello al Ministro della Giustizia, affinché mandi a casa quei magistrati che lavorano soltanto per prendere lo stipendio a fine mese". Francesco Saverio Borrelli: non rispondiamo a desideri vendetta
La Repubblica, 12 agosto 2007
"Ogni volta che una vicenda giudiziaria commuove l’opinione pubblica arriva puntuale un’ispezione ministeriale, o almeno il suo annuncio. Questo è inaccettabile". Francesco Saverio Borrelli, l’ex procuratore capo di Milano prestato alla giustizia sportiva, sente i titoli dei Tg che strillano sulle "scarcerazioni facili". Sospira: "Non bisognerebbe mai parlare senza conoscere i fatti, non si può assoggettare la giustizia all’emozione del momento". E poi aggiunge tagliente: "Temo che Mastella abbia ereditato questa tendenza alle ispezioni dai suoi predecessori, vedi il ministro Biondi (che nel ‘92 ordinò un’ispezione al pool di Mani pulite, ndr)".
Dottor Borrelli, il ministro della Giustizia Mastella dice di non approvare la "giustizia da Colosseo" e nel frattempo chiede gli atti alle procure di Genova e di Roma. "La posizione di Mastella mi sembra un po’ ambigua. Non si può dire che non c’è interferenza se poi si ordina ai propri ispettori di acquisire atti di indagini che, non dimentichiamolo, sono ancora in fase preliminare. È un modo indiretto, ma neanche tanto, per interferire. Questo non dovrebbe accadere, perché la giustizia non dovrebbe regolarsi sulla supposta insoddisfazione della gente e sul suo desiderio di vendetta".
La mamma della ragazza assassinata a Sanremo chiama assassino il giudice che ha scarcerato l’ex fidanzato. È una reazione comprensibile? Condivisibile? "Capisco che una madre possa dire quelle cose sull’onda della disperazione. Ma questo poi non dà il diritto a nessun altro di farsi giudice e di stabilire che il magistrato ha sbagliato, senza sapere quali elementi aveva davvero in mano. Non dobbiamo dimenticare che in tutti i casi sui quali sono nate queste polemiche i procedimenti sono all’inizio, sono ancora in corso una serie di atti preliminari che il ministro non avrebbe il diritto di conoscere, non a colpi di ispezioni, almeno".
Sulla vicenda del piromane di Latina il ministro ha espresso soddisfazione per il suo ritorno in cella. Cosa pensa di questo dietro-front dei suoi ex colleghi? "Intanto mi sembra che i magistrati di Latina abbiano cambiato l’ipotesi di reato, permettendo così il nuovo arresto del presunto colpevole. Quello che però non capisco è come Mastella possa commentare che "rispetto all’opinione pubblica c’è una risposta immediata". Non è in questo modo che si può amministrare la giustizia, perché è pericoloso prestare il fianco a questa idea della vendetta sociale che equipara la custodia cautelare alla espiazione definitiva della pena. Invece tra un indagato e un condannato c’è differenza e il magistrato deve tenerne conto".
Quali sono queste differenze? "La custodia cautelare non è un anticipo di pena e va applicata solo in presenza di precise condizioni. La possibilità di reiterazione del reato, il pericolo di fuga e quello di inquinamento delle prove. Aggiungo che se la custodia cautelare si svolgesse in modo diverso dall’attuale (per esempio in luoghi che non siano le celle sovraffollate di un carcere, in condizioni psicologiche così pesanti) forse il magistrato avrebbe meno remore a disporla".
Dottore, sia nel caso del piromane che del fidanzato omicida sembra che qualche estremo ci fosse... "Intanto dobbiamo ricordarci che io, lei e la gente a casa siamo in possesso solo di una piccola parte degli elementi che il magistrato valuta. E quindi non sappiamo esattamente perché ha preso quella decisione. E poi dovremmo anche accettare l’idea che purtroppo ci sono professioni a alto rischio di errore, come il medico o - appunto - il magistrato".
Non è consolante pensare alla possibilità di errore, non crede? "Io so che un magistrato è tenuto ad applicare le leggi. Non ad applicarle in maniera esemplare, né a decidere sulla scia dell’emozione popolare. Quello della "esemplarità" è un compito che spetta, eventualmente, al legislatore". Giuliano Pisapia: pene certe, ma non necessariamente il carcere
Il Messaggero, 12 agosto 2007
Certezza di scontare la pena inflitta dai giudici, non necessariamente carceraria. Introduzione della "colpa grave", una via di mezzo tra delitto colposo e doloso (ad esempio per chi sotto effetto di alcol e droga guida e uccide) e codificazione del dolo eventuale. Maggiore attenzione alle vittime del reato con la nascita di un fondo di solidarietà cui devolvere il risarcimento danni a ignoti. Accelerazione del processo con misure di rapida efficacia". Sono queste in sintesi alcune delle novità previste dalla riforma del codice penale. Una riforma predisposta dalla commissione insediata dal ministro della Giustizia Clemente Mastella e presieduta da Giuliano Pisapia, avvocato ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera eletto come indipendente per Rifondazione Comunista.
Presidente Pisapia, si parla di impunità diffusa: tornano in libertà piromani, ubriachi e drogati al volante che uccidono. Quali i rimedi? "Con il ministro Mastella stiamo preparando una riforma radicale dei Codici con uno scopo preciso: rendere certa la pena. Chi commette un reato deve sapere che sconterà sicuramente la sanzione prevista, anche se il carcere sarà previsto solo per i reati più gravi".
Perché non il carcere? "Stiamo ai fatti: nel decennio 1996-2006 sono stati inflitti 850.000 anni di detenzione in carcere che non sono stati scontati. In media 85.000 all’anno, Inoltre delle pene pecuniarie inflitte ed esecutive lo Stato riesce a recuperarne meno del 3 per cento. Il Codice oggi fa la faccia feroce, minaccia pene draconiane che nella maggior parte non vengono eseguite e hanno dimostrato la loro inefficacia. E quando il condannato sconta il carcere, mi riferisco ai reati, sopraddetti, questo funziona al contrario, cioè come scuola di criminalità, aumenta la recidiva ad un tasso del 68%. Oggi la società spende soldi per le carceri ma invece di recuperale il detenuto spesso lo perde a vantaggio del crimine. Non è logico, dobbiamo metter fine a tutto ciò. Va tenuto conto invece che chi sconta pene non detentive ha un tasso di recidiva dell’11%".
Quando il giudice condanna al carcere fino a due anni concede sempre la sospensione della pena? "L’automatismo va rivisto perché dà un senso di impunità. Meglio creare una pena certa, anche non necessariamente carceraria, direttamente correlata con il reato commesso e che sia efficace per la società, per le vittime del reato e per il condannato. La riforma prevede che la sospensione condizionale non possa essere concessa per le pene pecuniarie, le pene interdittive e le pene prescrittive. Inoltre c’è una speciale attenzione alle vittime del reato: se il giudice infligge una pena non può essere concessa la sospensione quando non c’è risarcimento o riparazione del danno, salvo una oggettiva impossibilità. E il giudice anche se non c’è parte civile può condannare lo stesso l’imputato a risarcire il danno. La somma va a un fondo di solidarietà per le vittime del reato".
Cosa sono le pene diverse dal carcere? "Ad esempio le pene interdittive, soprattutto per reati colposi e dei colletti bianchi, e una serie di pene prescrittive finalizzate innanzitutto al risarcimento dei danni e ai lavori socialmente utili e alla creazione dei presupposti per cui il soggetto sia posto in condizione di non ripetere condotte illecite. Un esempio concreto? Per la guida in stato di ebbrezza, c’è un problema di prevenzione. In Francia (ma pure in Germania e Inghilterra) con l’incremento dei controlli anti-alcol, 5 milioni all’anno, hanno visto diminuire i morti del 40%. In Italia ci sono 4 milioni di controlli sulle strade, ma meno di 500.000 sono i controlli del tasso alcolico. Allora non sarebbe più utile aumentare questi controlli anti-alcol per diminuire fortemente i morti, piuttosto che minacciare anni di carcere che in realtà non saranno scontati grazie alla sospensione condizionale della pena? Non è più efficace dare immediate sanzioni prescrittive, come l’obbligo di lavori finalizzati al risarcimento del danno, o di lavori socialmente utili come la cura o l’assistenza per i 150.000 feriti gravi all’anno, investiti da persone che guidavano con troppo alcol in corpo?" Vittorio Grevi: per la Giustizia, i diritti e la sicurezza collettiva
Corriere della Sera, 12 agosto 2007
Ha suscitato sconcerto e indignazione, in questi giorni, la singolare coincidenza di episodi che hanno visto prima l’arresto e la successiva scarcerazione di un pastore indicato come "piromane" (per altro ieri di nuovo fermato). Poi la concessione degli arresti domiciliari a un automobilista accusato di avere travolto e ucciso, in stato di ubriachezza, una ragazza sedicenne. Infine, e ancora, l’arresto in sostanziale flagranza dell’omicidio dell’ex fidanzata di un giovane già indiziato di aver ucciso, l’anno scorso, una precedente fidanzata. Sconcerto e indignazione più che comprensibili, e per vari profili giustificati - almeno stando alle cronache giornalistiche - che inducono a una seria riflessione circa il divario esistente tra la giusta aspirazione (politica e sociale) alla rigorosa repressione dei reati e una risposta (giudiziaria) ritenuta spesso troppo "morbida", specie sul piano dei provvedimenti più immediati. Ma che non giustificano, in ogni caso, certe vistose prese di posizione fuori misura (ad esempio, quella facile polemica contro "il Paese dei presunti innocenti"), le quali tendono a banalizzare, quasi a ridicolizzare, un principio fondamentale del nostro sistema costituzionale, qual è la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva. Purtroppo tra il momento di commissione del reato e il momento della condanna dell’accusato, quando condanna vi sia, trascorre sempre del tempo (troppo tempo, come ben sappiamo), durante il quale il bilanciamento tra le esigenze di tutela della collettività dal rischio criminale e le esigenze di garanzia del soggetto indagato è affidato al meccanismo delle misure cautelari. E quindi, necessariamente, al giudice, che tali misure (da quelle più rigide, come la custodia in carcere, a quelle più blande) è chiamato ad applicare dietro richiesta del pubblico ministero: sulla base di una valutazione che non solo presuppone la gravità degli indizi a carico dell’indagato, ma esige altresì l’accertamento in capo allo stesso di specifiche forme di "pericolosità", idonee a giustificare la restrizione della sua libertà in via preventiva. Il nostro ordinamento non consente, infatti, un’applicazione delle suddette misure legata solo all’entità del reato per cui si sta procedendo, o comunque solo in chiave di sostanziale "anticipazione della pena", perché in questo modo si violerebbe - e sarebbe assai preoccupante per tutti - proprio la presunzione costituzionale di non colpevolezza. Occorre dunque, anzitutto, che il giudice (l’unico che conosce davvero tutti gli aspetti del caso concreto, cosi come prospettati dal pubblico ministero e dalle altre parti) valuti con prudenza e con rigore gli elementi a sua disposizione. Senza cedere a eventuali pressioni emotive dell’opinione pubblica, e tuttavia utilizzando tutti gli strumenti previsti dal codice per evitare, tra l’altro, che soggetti qualificabili come "pericolosi" (in particolare, sulla base delle loro precedenti condotte) possano commettere gravi reati. Ciò che potrebbe accadere, per l’appunto, anche nel caso di un pastore già ripetutamente trovato in possesso, senza ragione, di inneschi incendiari, rispetto al pericolo della successiva commissione del delitto di incendio boschivo. Occorre, più in generale, far leva con intelligenza sulle diverse risorse consentite dal sistema per ridurre al minimo lo spazio temporale tra il momento del reato, nonché dell’eventuale provvedimento cautelare, e il momento del giudizio (privilegiando appena possibile il rito direttissimo, nel caso di arresto in flagranza). Ma occorrerebbe altresì, probabilmente, pensare anche a qualche piccolo ritocco legislativo: ad esempio nel senso di rendere più difficile la scarcerazione a seguito di un legittimo arresto in flagranza, ovvero, per altro verso, nel senso di aggravare il livello di punibilità (ben oltre la semplice ipotesi colposa) degli omicidi stradali commessi da conducenti sotto l’azione di alcol o di sostanze stupefacenti. In queste e in altre analoghe situazioni, in ogni caso, la risposta delle istituzioni deve essere all’insegna della (maggior) efficienza della giustizia, non già dell’indebolimento delle essenziali garanzie individuali. Giuliano Vassalli: discrezionalità non vuol sempre dire mitezza
La Stampa, 12 agosto 2007
Sì, certa discrezionalità è eccessiva". Il professor Giuliano Vassalli, ex ministro della Giustizia, padre del processo penale quale lo conosciamo oggi, è un commentatore severo. A leggere di piromani allegramente scarcerati, di automobilisti perennemente ubriachi, di assassini che nessuno incastra, ecco, neanche al professor Vassalli va giù. "La discrezionalità non può essere tutta a senso unico. Discrezionale è anche decidere di tenere dentro, non solo di scarcerare".
Professore, cominciamo con la procura di Latina e il piromane mandato a spasso? "Ah, sì, quel tale preso con gli inneschi in mano, solo perché aveva sessant’anni, lo lasciano agli arresti domiciliari? Ma dove siamo?".
La Procura di Latina è tornata sulle sue decisioni. "A furor di popolo, eh... Mi viene da dire che c’è troppa fiducia nei giudici in questo Paese".
C’è secondo lei qualche falla nei codici o nella procedura penale? "Ma no, in quel caso l’arresto era più che consentito. In flagranza, poi... Le pene per incendio sono altissime. Che ci fosse il dovere di un arresto, a lume di naso, non si discute. E anche se non fosse stato pacifico, il giudice, nella sua discrezione, avrebbe dovuto tenerlo dentro. Non è mica detto che la discrezionalità sia sempre nel senso della mitezza".
Quanto agli incidenti stradali causati da automobilisti che abusano di droghe o di alcol, lei pensa che sia percorribile la via dell’omicidio volontario? "No. In questi casi, al massimo si può parlare di omicidio con dolo eventuale. Esempio tipico di dolo eventuale: io vado avanti, e anche se ti ammazzo, non importa. È già una volontarietà molto temperata. Portare le prove del dolo eventuale, poi, è difficilissimo perché ci si muove su un piano esclusivamente psicologico. Si deve interpretare il pensiero di quella persona, in quel dato momento. Risvolti psicologici a cui è difficilissimo rispondere".
Allora qual è la soluzione che propone lei, professor Vassalli, per mettere un freno a questa catena di assurdi incidenti mortali? "C’è una sola via maestra: aumentare le pene per l’omicidio colposo commesso da un automobilista in stato di ebbrezza da alcol o da droghe. La via dell’omicidio volontario in teoria si può anche tentare, ma poi al processo urterà contro problemi immensi. E ricordiamo che stiamo sempre ragionando sulla base di una finzione...".
Finzione in che senso, scusi? "È per via di quell’articolo del codice penale Rocco ancora in vigore, mai modificato, che parifica il contegno dell’ubriaco pieno, o del soggetto pieno di stupefacenti, al reato commesso da persona perfettamente sana di mente".
A prescindere dai singoli casi di cronaca nera, però, professore, lei che pensa di questo dibattito agostano sulla giustizia che non sa usare il pugno duro? "Saranno pure episodi isolati, ma il complesso dei casi crea una statistica mentale. È così che la gente si crea un’opinione. Questo più quello, più quello… e alla fine gli italiani si convincono che ci sia una tendenza della magistratura alla mitezza. Che peraltro contrasta con la severità verso taluni altri tipi di reato". Pm Maddalena: custodia cautelare solo con la condanna sicura
La Stampa, 12 agosto 2007
Dottor Marcello Maddalena, lei è capo di una procura (quella di Torino) fra le più grandi d’Italia e sa bene quanto sia diventato difficile colpire i reati. Eppure, ad ogni caso clamoroso di cronaca, ci si stupisce che non si riesca a far giustizia. "I magistrati sono uomini e la fallibilità fa parte del genere umano, però, senza entrare nei singoli casi, giuste o sbagliate che siano le scelte di pm e giudici, tutto ciò è in gran parte frutto di una legislazione che, dal ‘92 in poi, è stata molto indulgente e restrittiva rispetto all’applicazione di misure cautelari detentive".
Che intende dire? "Nella prassi è quasi scomparsa la distinzione fra la prova e la gravità degli indizi. Prima di richiedere o emettere una misura di custodia cautelare in carcere si esige di ottenere contro un indagato la quasi sicurezza di poterlo condannare. Guardiamo l’altra faccia della questione: se poi uno viene assolto, si solleva il problema delle garanzie e lo Stato rischia di risarcire quella persona per ingiusta detenzione".
Sotto accusa è finita l’apparente discrezionalità di certe decisioni. "Con le attuali norme non è sufficiente il pericolo che un indagato reiteri un reato. Lo si deve desumere da elementi concreti. Detto ciò, è ovvio che vi siano margini di discrezionalità valutati caso per caso. Vorrei aggiungere, però, rispetto ai reati colposi gravi, che vi sono casi in cui la misura della custodia cautelare è applicabile. Penso agli infortuni sul lavoro causati da omissioni di cautele che rendono prevedibile il loro ripetersi".
E per un caso come quello della ragazza di Pinerolo investita e uccisa da un automobilista ubriaco? Gli arresti domiciliari sono una forma di detenzione. La vulgata popolare non li considera tali, anche perché c’è sfiducia che lo Stato riesca a garantire l’effettività del provvedimento. Ma per il legislatore lo sono".
E l’automobilista ubriaco? "È agli arresti in una parrocchia, come vuole la legge. Aggiungo che pure la magistratura deve riflettere sull’importanza dei reati colposi, specie se commessi sotto l’effetto di stupefacenti o dell’alcol. E che sarebbe sbagliato ignorare le esigenze di sicurezza della gente, soprattutto di chi resti vittima di reati" Pollastrini: pene più severe per le violenze contro le donne
L’Unità, 12 agosto 2007
I dati sono un pugno allo stomaco: nel mondo una donna su tre ha subito almeno un tentativo di violenza; in Europa la percentuale è di una su quattro. "Inoltre, il 90% di queste aggressioni - spiega il ministro per i Diritti e le Pari Opportunità, Barbara Pollastrini - avviene in famiglia o, comunque, da persone precedentemente conosciute". Venerdì, dopo i funerali di Maria Antonietta, a Sanremo, ha denunciato che nel mondo muoiono più donne a causa delle violenze che degli incidenti e malattie... "È una strage delle innocenti. Proprio oggi (ieri, ndr) ricorre anche l’anniversario della morte di Hina. In ambo i casi sono state colpite due donne che volevano essere libere, volevano vivere secondo la loro coscienza".
L’Istat ha reso noto che in Italia sono più di 6 milioni le donne che sono state vittime di violenza... "Sono cifre maledette. Vorrei fare un sondaggio tra la nostra classe dirigenti e vedere in quanti ne sono a conoscenza. È la più inquietante delle rimozioni. E questo nonostante sia uno dei pochi reati in costante crescita. Altro che furti negli appartamenti".
Come se lo spiega? "L’inizio di questo secolo ci pone innanzi a un conflitto tra la faccia luminosa della modernità e quella oscura. Così da una parte assistiamo al grande rilancio dell’immagine della donna con testimonial come la Bachelet, la Clinton o la Royal. È la società a domandare il loro impegno, la loro libertà, la loro responsabilità. Ma, in maniera direttamente proporzionale, abbiamo anche l’espressione brutale dei nuovi fondamentalismi. A tutto questo si sommano altre forme che appartengono alla storia del nostro paese come il dominio maschile sul corpo della donna. Tutto questo è, nel lo stesso modo, tanto antico come terribilmente attuale".
Per questo quasi tutte le violenze avvengono tra le mura "amiche"... "E spesso la donna viene stuprata o uccisa quando è incinta. Con la gravidanza l’uomo si sente espropriato".
Il Spagna è passata una legge molto importante per le donne... "Non solo lì. Anche la Francia e la Germania stanno adottando dei programmi speciali. Tutto questo è anche grazie al commissario europeo per i diritti, Vladimir Spidla, che ci sprona continuamente a lottare".
E in Italia? "Nel Dpef abbiamo fatto riferimento a un piano triennale contro la violenza e la molestia. Anzi, qui voglio fare un appello a Prodi perché nella scrittura della prossima finanziaria dia sostegno pieno a questi intenti".
Quali sono? "Primo bisogna puntare su campagne costanti d’informazione e di formazione sul rispetto della donna. Dobbiamo costruire una cultura della non violenza contro ogni forma di machismo e di persecuzione. Poi vogliamo partire dalle elementari con un’educazione al nuovo civismo. E per questo che abbiamo parlato anche con il ministro per l’Istruzione, Fioroni. Inoltre vogliamo dare tutto il nostro sostegno ai numeri verdi e alle associazioni che in questi anni hanno lavorato e "pubblicizzare" quello messo a disposizione dal ministero a cui possono rivolgersi tutte le donne che si sentono minacciate. Infine vogliamo istituire dei corsi per le forze dell’ordine e per i medici del pronto soccorso, per poter aiutare al meglio le donne che finiscono in ospedale. Insomma dobbiamo creare una rete nazionale capace, allo stesso tempo, di prevenire e di curare".
Da gennaio c’è anche una legge in Parlamento... "In Italia una legge c’è da molto tempo: Noi ne abbiamo proposto un’altra che colmi delle lacune dovute dal mutamento dei tempi".
Quali lacune? "Noi puntiamo su tre assi: la prevenzione, quindi salvaguardare l’immagine della donna, l’aiuto alla vittima con una vera e propria carta dei diritti e la certezza della pena".
La "certezza della pena" è un problema diffuso.." "È vero. Noi, però, vogliamo dare gli strumenti per perseguire chi opera in maniera violenta. Così, ad esempio, prevedremo un aggravamento della pena se le violenze sono casalinghe. O renderemo più facilmente perseguibili le molestie gravi".
Quanto dobbiamo aspettare? "A fine luglio in commissione giustizia alla Camera tutti i presenti, di ambo gli schieramenti, hanno dichiarato la loro volontà a condizione di portare in aula alcuni miglioramenti". Torino: a un anno dall’indulto le celle di nuovo sovraffollate
La Stampa, 12 agosto 2007
A distanza di un anno, è tutto come prima. Carceri zeppe. Garanzia d’igiene al minimo. Rischio di malattie altissimo. Lo stesso vale per il pericolo di suicidi. È la situazione delle carceri piemontesi a 12 mesi dall’indulto, che aveva portato fuori dalle celle 2.341 detenuti (1.164 italiani, 1.177 stranieri). Di questi, 426 sono ritornati in dietro le sbarre in meno di un anno. Il 20 per cento. In maggioranza italiani (245) e quasi tutti uomini (233 contro 12 donne), ma ci sono anche gli stranieri (180 uomini e una donna). Alla fine di luglio, i 14 istituti carcerari piemontesi ospitavano 3.616 detenuti, quasi la metà (1.266) a Torino. I progetti di recupero dei detenuti aiutano a rendere la situazione meno problematica, ma i dati non lasciano molto spazio alle interpretazioni. I più eloquenti riguardano il "Lorusso-Cotugno" di Torino. Il momento di maggiore "densità di popolazione" è stato registrato il 29 maggio dello scorso anno, quando le celle ospitavano 1.531 detenuti. Il giorno prima dell’indulto, la popolazione carceraria era scesa a 1.399; venti giorni più tardi, in cella c’erano 854 detenuti. Una situazione che consentiva una distribuzione ottimale, con poche persone in ogni cella. I progetti carcerari (come il riciclaggio dei rifiuti oppure la collaborazione con azienda specializzata nella torrefazione di caffè) filano più lisci, riuscendo a garantire l’accesso a un numero di detenuti maggiore in proporzione alla popolazione pre-indulto. "È servito a tirare una boccata d’ossigeno, prima di ritornare alla situazione abituale, vicina al limite della struttura carceraria", si sfoga un dipendente. Nessuno vuole parlare di sovraffollamento, anche se la realtà parrebbe descrivere proprio una situazione di questo tipo. Ma la burocrazia associa quel termine a un significato ben preciso: superamento del limite massimo di "tolleranza", di solito un buon 70 per cento oltre il livello di popolazione "regolamentare". Al "Lorusso-Cotugno" non sono ancora arrivati giorni come quelli del maggio 2006, con i detenuti sistemati a dormire in palestra oppure nei corridoi. Le celle ospitano sempre due detenuti ciascuna, il doppio di quanto era previsto, ma un livello considerato "accettabile" dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E comunque, il direttore Pietro Buffa e i suoi collaboratori sono impegnati a escogitare qualsiasi iniziativa possa rendere più "formativa" la permanenza in carcere. Anche soltanto per 40 giorni, il periodo medio risultato dalle statistiche per i "passaggi" degli arrestati. Hanno studiato una "scuola di accoglienza" di quattro settimane, con lezioni di vario genere, comprese quelle di carattere sanitario. Ai progetti, poi, va affiancato il monitoraggio continuo dei detenuti, per scongiurare il pericolo dei gesti di autolesionismo, più alto con l’aumentare della popolazione carceraria. La parola d’ordine è attenzione. A difesa di tutti. Immigrazione: Ferrero; bimbi rom morti per intollerabile degrado
Il Mattino, 12 agosto 2007
Il tragico rogo di Livorno ha dato lo spunto al ministro Ferrero per rammentare, in una intervista al Mattino, che ormai "non siamo più in presenza di zingari ma di una comunità che ha bisogno di case e non di baracche". Il ministro della Solidarietà sociale spera che ora si vada avanti con i progetti di integrazione e si appella all’opposizione affinché "non fomenti guerre tra poveri". "Occuparsi dei rom non porta voti e questo fa sì che l’attenzione non sia diffusa, quando invece, se si fosse intervenuti prima, si sarebbero potute evitare tante tragedie, e questa di Livorno rischia di non essere l’ultima". Il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero spera che ora si vada avanti con i progetti di integrazione dei rom, circa 140 mila persone: "La strada da percorrere per trovare una soluzione passa attraverso la costruzione di abitazioni, l’inserimento scolastico dei minori e lavorativo delle persone adulte".
Ministro non crede che questa linea possa essere accettata con qualche difficoltà dai cittadini? "È evidente che quando ci sono forze politiche che soffiano continuamente sul fuoco del razzismo, il clima che si crea nel Paese, in una situazione in cui le risorse sono scarse per tutti, è incandescente. Per battere il razzismo bisogna aumentare anche le pensioni, occorre migliorare la spesa sociale, altrimenti scatta la guerra tra poveri e le ideologie trovano terreno fertile".
Una strada difficile da percorrere. "No, se si estendono a tutti le tutele, se esiste un Welfare che funziona per tutti. Dentro tutto ciò c’è il punto su come affrontare la situazione rom: se con la repressione o con politiche di integrazione. Io non ho dubbi su quale sia la strada efficace: è l’integrazione. L’altra non porta da nessuna parte e sposta il problema solo di qualche chilometro".
Quante sono le risorse messe in campo per la loro integrazione? "Sono in tutto 50 milioni di euro, e 3-4 milioni sono stati assegnati a cinque città per il passaggio dei rom dai campi nomadi a strutture di residenza. Va detto che quelli che noi chiamiamo nomadi, in gran parte sono stanziali e vivono in condizioni pazzesche. Noi puntiamo a forme di co-progettazione delle abitazioni perché non si può pensare di mettere uno che ha passato la vita su una roulotte in un palazzo di 27 piani. Stiamo pensando anche alla politica delle autocostruzioni che ha dei costi bassissimi".
In questo modo si può realizzare una vera integrazione? "Si può migliorare la situazione. Il problema è fare un progetto integrato. Significa metterci delle energie, del denaro, della cultura politica, È del tutto evidente che ogni volta che si fa un intervento sui nomadi, che non sia di carattere repressivo, la destra grida che si sta sprecando il denaro pubblico per i ladri. In questo modo è chiaro che molti si intimidiscono anche in settori diversi da quelli di destra. Con questo tipo di cultura politica noi continueremo ad avere bambini agli angoli delle strade, qualche bambino morto e una situazione di degrado indegna di un paese civile".
Dopo la pausa estiva crede che si possa discutere l’emergenza rom con le Regioni? "Le Regioni chiedono risorse. I soldi che noi abbiamo sono quelli".
Si possono aggiungere altri fondi? "Spero che in Finanziaria si possa arrivare ad avere il doppio dei fondi attuali per l’interazione degli emigranti, in modo tale da poter lavorare con i Comuni".
È favorevole alla creazione di grandi campi nomadi, lontani dai centri cittadini? "Io credo che sia un errore. Non funziona, è come fare le Banlieu: diventano delle forme ghettizzanti ed incontrollabili". Immigrazione: Permanenza Temporanea, uno scandalo senza fine di Alba Sasso (Vice Presidente della Commissione Cultura della Camera)
Affari Italiani, 12 agosto 2007
Ancora una verifica dell’esistenza di veri e propri luoghi di diritti negati, nel centro di permanenza per immigrati, vera e propria prigione sotto altro nome. Nel corso di una visita presso le strutture del Cpt di Bari, ho constatato come le condizioni di vita del centro di Palese continuino ad essere quelle di una prigione, in cui però sono rinchiusi detenuti speciali, senza condanne né processi: sono imputati di immigrazione, reato cui vengono riservate attenzioni sempre più speciali. Nessun passo in avanti è stato fatto verso la direzione da tempo indicata, il superamento e quindi la chiusura di questi centri. Se possibile, la situazione è ancora peggiore rispetto alle altre numerose visite compiute presso il centro. Lo spettacolo era il solito: disordine, sovraffollamento, desolazione, nessuno spazio di libertà o di socialità concesso ai detenuti. Ma sono soprattutto le assenze, che hanno destato impressione. Assenti le tracce dei recenti episodi repressione dei tentativi di fuga, assenti gli avvocati, non c’è ombra di assistenza legale che pure dovrebbe essere garantita agli immigrati; assente ogni richiesta di asilo politico, pur in presenza di persone che provengono da aree a rischio, e che dovrebbero avere diritto a questo tipo di accoglienza. Addirittura, assenza di orologi al polso delle persone, e nei corridoi del centro, così che viene impedita loro anche la scelta dell’ora in cui svolgere le loro preghiere. La presenza di minori, invece, è evidente, dalle facce e dalle dichiarazioni delle persone raccolte grazie alla presenza di un interprete. È questo, forse, l’elemento più preoccupante, che mi spingerà a tornare presso questa struttura, per verificare tutte le eventuali incongruenze e le omissioni, e continuare nel lavoro intrapreso, con decine di altri parlamentari, associazioni, partiti della sinistra, strutture del volontariato. Lo scandalo deve finire. Droghe: come una nuova tassa da pagare, di Riccardo C. Gatti (Direttore Dipartimento Dipendenze Patologiche Asl Città di Milano)
Affari Italiani, 12 agosto 2007
L’eroina degli anni 70, 80 e 90 era il prodotto venduto in un mercato di nicchia destinato ad ambiti marginali. Oggi il mercato mira, invece, alla popolazione generale ed alle classi dominanti. Ciò che offre è ricchezza: nella distribuzione e nell’indotto si guadagna veramente tanto. Ciò che chiede è potere sulla società civile. Ciò che si paga è misurabile direttamente in danaro ma anche in costi sociali: perdita di salute fisica e psichica e conseguenze del comportamento di un numero crescente di persone che interagiscono con altre in stato di alterazione mentale (con i danni conseguenti come errori, incidenti, contenziosi, sicurezza etc.). Sino ad oggi, rispetto a questa partita, si comprende da che parte stanno, con le evidenti specifiche differenze, Ser.T., Comunità, Volontariato e Associazionismo e, forse, anche la maggior parte dei cittadini. Ciò che non è chiaro, invece, è da che parte stia il mondo della Politica. La mia soggettiva, preoccupata, sensazione è che, se di partita si tratta, questo mondo non scenda più in campo da tempo. Anziché elaborare ed attuare strategie che abbiano realmente la possibilità di incidere sul quadro della situazione, infatti, sembra prendere tempo in argomenti capaci, soprattutto, di suscitare scontri ideali o ideologici, senza individuare azioni programmatiche in grado di incidere realmente sulla situazione. Attenzione, tuttavia, a semplificare troppo il ragionamento celebrando, così, l’incapacità della Politica a far ciò che dovrebbe fare. Nel mondo globalizzato il potere dei singoli Governi, così come dei Ministri o dei Parlamenti, e, ancor di più, degli Amministratori locali è relativamente ridotto. La vere decisioni strategiche sono il frutto di equilibri mondiali e si compiono su tavoli molto diversi da quelli che immaginiamo abitualmente. Il mercato della droga è sovranazionale: giocando tra lecito e illecito, fattura molto di più di un Paese industrializzato. Ha un peso nell’equilibrio mondiale: ne è partecipe e bisogna tenerne conto. Agisce come Banca Centrale per il pagamento di tutte quelle transazioni che non possono essere pagate attraverso i normali canali bancari ed economico-finanziari. Da un punto di vista meramente economico, potrebbe, quindi, contare di più e dare maggior affidamento agli investitori di un Paese come l’Italia. A diverso livello, subiamo così, spesso inconsapevolmente, una situazione poco descritta, spiegata ed analizzata che ha a che fare con equilibri politico - economico - militari molto complessi, contigui a ragioni che permettono il governo mondiale, almeno nell’ambito dei Paesi della sfera occidentale. Non è facile, ad esempio, rendersi conto ed accettare che se, gradualmente, l’eroina sembra riguadagnare spazio e ci sono sempre più ragazzini assolutamente integrati che iniziano ad usarla a 15 - 17 anni, il tutto ha a che fare, in prima istanza, con questi equilibri piuttosto che con il "disagio giovanile" e con "l’assenza dei padri" di cui si parla nei salotti televisivi. Vedendo le cose sempre più in piccolo tutti i problemi diventano individuali ma, allargando l’orizzonte e la prospettiva, non è difficile accorgersi che noi abitiamo in una piccola zona del mondo, molto interessante da sfruttare per finanziare iniziative di impresa mondiali. Come Paese industrializzato siamo più ricchi di liquidità di altri ma siamo anche luogo di insediamento emergente di etnie che, a loro volta, in mancanza di altre forme di sussistenza e nella speranza di un riscatto sociale, possono essere sfruttate nella manovalanza del traffico di droga. Un doppio guadagno quindi. Purtroppo, però, la "politica internazionale" è troppo lontana dagli occhi e dal cuore dei cittadini e, quindi, dai processi partecipativi democratici anche per la sua complessità. E poiché la complessità, da sempre, fa paura, le finte "tolleranze zero", le proposte di "legalizzazioni impossibili", le "soluzioni pronte" e gli infiniti dibattiti su questioni minimaliste che, di volta in volta, sono amplificate sino al rango di posizioni chiave, ci rassicurano. Permettono, cioè, di semplificare l’analisi della situazione, facendo intravedere percorsi semplici per la sua soluzione. Si tratta, però, di una "grande illusione" che, nella sua funzione ansiolitica e di creazione del consenso, ci porta in una progressiva posizione di paralisi e impotenza. Non riusciamo, così, ad elaborare una strategia operativa di alto livello con azioni di sistema giocate sinergicamente in campo internazionale e declinate, anche a livello locale, in modo coordinato e condiviso. Rinunciamo a definire ed a dichiarare obiettivi realistici raggiungibili e coerenti declinando precisamente azioni, tempi ed investimenti necessari a raggiungerli. Proclamiamo infinite politiche antidroga, come sempre contrapposte, dimenticando la formulazione di una politica di settore a sostegno di chi, ogni giorno, lavora in campo preventivo, terapeutico e riabilitativo con mezzi da sempre sproporzionati all’entità del fenomeno. Lasciamo il mercato libero di giocare la sua partita e di trasformare la droga in un nuovo tributo da pagare. Comprendere esattamente a chi paghiamo questa nuova tassa, cosa finanzia e quali sono svantaggi e vantaggi diretti e indiretti del tributo, potrebbe spiegare molte cose, anche perché il "fenomeno droga" non è normalmente compreso, spiegato, discusso e affrontato per quello che è. Se volessimo aprire, realmente, nuovi orizzonti in questo campo dovremmo avere il coraggio, prima di tutto a livello politico, di appropriarci della sua complessità, ed agire di conseguenza, evitando semplificazioni e senza paura di volare alto, nell’interesse della collettività. Droghe: Pescara; "test" volontari per i consiglieri comunali?
Notiziario Aduc, 12 agosto 2007
Test antidroga per i consiglieri comunali di Pescara. È quanto chiedono, con una mozione da votare in aula, i consiglieri comunali di Pescara Carlo Masci e Berardino Fiorilli, rispettivamente dell’Udc e del gruppo "Pescara futura". Nella mozione si chiede, in particolare, che "il sindaco si attivi affinché il comune di Pescara sottoscriva con la Asl di Pescara un protocollo di intesa che consenta agli amministratori ed ai dirigenti di nomina fiduciaria di effettuare periodicamente, almeno una volta ogni sei mesi, su base volontaria, test antidroga da rendere pubblici direttamente attraverso la Asl". Fiorilli e Masci fanno notare che "la droga sta diventando un flagello e i giovani vi si avvicinano in numero sempre maggiore. Ogni giorno, poi, la cronaca ci mostra incidenti stradali o episodi di delinquenza comune in cui sono coinvolte persone obnubilate dall’assunzione di sostanze stupefacenti, per cui si rende necessaria una risposta decisa da parte delle istituzioni affinché risulti con chiarezza che l’assunzione di droga è da condannare perché distrugge il cervello e, con esso, la vita delle persone. In tale contesto - prosegue la mozione - i politici devono per primi dare l’esempio, non soltanto stigmatizzando l’uso di droghe di qualsiasi tipo". E poi, ancora, prosegue il documento, "gli elettori hanno diritto di conoscere se le persone a cui danno fiducia fanno uso di sostanze che potrebbero mettere in crisi le loro facoltà intellettive o condizionarne l’operato, e per facilitare una prospettiva del genere il Comune potrebbe firmare un protocollo d’intesa con la Asl di Pescara per permettere agli amministratori che volessero sottoporsi al test antidroga di effettuare tale incombenza nelle strutture pubbliche o convenzionate. Il test dovrebbe essere effettuato periodicamente e volontariamente e dovrebbe essere esteso, sempre su base volontaria, anche ai dirigenti di nomina fiduciaria del sindaco". I consiglieri comunali che hanno proposto la mozione si sottoporranno "autonomamente e periodicamente al test antidroga a prescindere dall’approvazione o meno del documento".
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