Articolo di Barbara Calaselice

 

L’indulto: riflessioni sulla legge 241

di Barbara Calaselice (Giudice del Tribunale di Napoli)

 

La recente legge n. 241/2006 in vigore dall’1.8.2006 ha previsto la concessione dell’indulto per tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive ed a euro 10.000 per quelle pecuniarie, sole o congiunte a pene detentive. Al comma II dell’art. 1 della legge citata poi sono indicati i reati che vengono esclusi dall’applicazione del beneficio (tra questi i gravi delitti di associazione sovversiva, con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, sequestro di persona, associazione di tipo mafioso, strage, violenza sessuale, delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacente o psicotrope di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90, delitto di associazione finalizzato al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all’art. 74 del citato testo unico).

Nessun accenno è contenuto nella legge in merito alle pene accessorie ed gli altri effetti penali della condanna; di qui la conclusione che, a mente dell’art. 174 co I c.p., l’indulto previsto dalla L. 241/06 estingue la pena ma non le pene accessorie perpetue o temporanee, né gli effetti penali della condanna. Quanto alla revoca del beneficio concesso, il comma III dell’art. 1 citato ha previsto la revoca di diritto dell’indulto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge 241/06, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni (come del resto già sancito dall’art. 4 del d.p.r. 394/90).

Tenuto conto della natura giuridica dell’istituto quale causa di estinzione della pena, nonché della dizione letterale dell’art. 183 co II c.p., si è posto il problema di verificare se, in caso di concorso dell’indulto con il beneficio della sospensione condizionale della pena, prevalga o meno quest’ultima. Parte della giurisprudenza formatasi già nella vigenza del d.p.r. 394/90, ha ritenuto prevalente senz’altro la sospensione condizionale della pena in quanto, allorchè concorrano cause estintive del reato e cause estintive della pena, il giudice deve applicare la causa estintiva più favorevole, cioè quella estintiva del reato anche se intervenuta successivamente (cfr. Cass. Pen. sez. I 22.6.1994 n. 1877 - c.c. 27.4.1994, Vecchi; Cass. Pen. sez. I 1.2.1996 n. 6388 - c.c. 11.12.1995, Lodigiani; Cass. Pen. sez. VI 7.1.2000 n. 1315, D’Angelo).

Altre pronunce hanno escluso tuttavia che la prevalenza della causa estintiva della pena sancita dall’art. 183 comma II cit. precluda sempre la contestuale applicazione dei due benefici. Ciò in quanto i due istituti producono effetti in tempi diversi: la sospensione condizionale della pena estingue il reato soltanto al compimento del termine di cui all’art. 167 c.p., mentre l’indulto ha effetto immediato; di qui l’interesse del condannato ad invocare la causa estintiva della pena in fase esecutiva (cfr. Cass. Pen. sez. VI 20.9.1990 n. 12628, Manuguerra; Cass. Pen. sez. III 27.11.1998 n. 1200).

Ciò posto si rileva che a fronte di una sentenza o un decreto penale di condanna, la pena inflitta dal giudice con provvedimento irrevocabile potrà essere dichiarata estinta sia in sede di esecuzione (cd. indulto proprio), ai sensi dell’art. 672 c.p.p. utilizzando il procedimento de plano ed adottando, all’esito, ordinanza motivata ex art. 667 co IV c.p.p., sia in sede di cognizione (cd. indulto improprio) laddove la sentenza e il decreto non siano ancora divenuti irrevocabili. In ordine a tale ultima possibilità si era già espressa la Suprema Corte in relazione all’indulto introdotto dal d.p.r. 22.12.1990 n. 394 laddove si era ritenuto pacificamente applicabile anche in sede di cognizione il beneficio in uno con la sentenza di condanna di primo e di secondo grado (crf. Cass. Pen. sez. II 14.4.1994 n. 10537 e Cass. Pen. sez. I 20.5.1993 n. 7129).

La più recente giurisprudenza sul punto peraltro ha chiarito che il provvedimento applicativo dell’indulto, adottato in sede di cognizione, in quanto condizionato ex lege non ha carattere definitivo, potendo sempre essere revocato in executivis pur se erroneamente emesso in presenza di una causa di revoca (cfr. Cass. Pen. sez. I 16.5.2000 n. 749 - c.c. 1.2.2000, Cici).

Problemi operativi si pongono nell’attuale fase di prima applicazione della legge n. 241/06 in particolare per la concessione del cd. indulto improprio, nei confronti di imputati destinatari di una pluralità di sentenze di condanna emesse da giudici diversi. Ciò in virtù del limite posto dal II co dell’art. 174 c.p. il quale prevede, nel caso di più condanne, che l’indulto sia applicato per una sola volta, dopo cumulate le pene, secondo le norme concernenti il concorso dei reati. Si tratta di una previsione che ha lo scopo evidente di impedire il superamento dei limiti di legge mediante reiterazione o moltiplicazione del condono e si riferisce soltanto ovviamente al cumulo (materiale e non giuridico) delle pene condonabili.

Sicchè si è posto il problema per il giudice della cognizione dei limiti di concessione del beneficio, non soltanto nelle ipotesi di condanna per più reati giudicati con un’unica sentenza o decreto penale, ma soprattutto in caso di più pene irrogate con sentenze o decreti penali diversi, emessi da diverse autorità giudiziarie, onde evitare l’indebito superamento dei limiti di legge e/o la duplicazione della concessione del benefico. Il problema non appare di poco momento soprattutto se si tratta di condannati o imputati sottoposti a misure cautelari personali, per i quali l’esistenza di una causa di estinzione della totalità della pena irrogata o soltanto irrogabile comporterebbe la necessità di provvedere alla immediata revoca della misura cautelare disposta nei loro confronti a mente dell’ar. 273 co II c.p.p., per difetto di una condizione generale di applicabilità della misura cautelare personale medesima.

Ciò peraltro anche in relazione ad ipotesi in cui la causa estintiva della pena coprirebbe soltanto una parte della sanzione astrattamente irrogabile, dovendo il giudice cautelare comunque determinare in via prognostica l’entità della pena presumibilmente irrogabile nel caso concreto e stabilire, di conseguenza, se vi sia margine residuo per l’applicabilità della misura cautelare personale. Del resto è pacifica la giurisprudenza formatasi ovviamente in relazione all’indulto previsto dal d.p.r. 394/90, secondo la quale pur a fronte della non definitività del provvedimento applicativo dell’indulto, adottato in sede di cognizione, in quanto condizionato ex lege, esistono comunque dei limiti di revocabilità operanti nei confronti del giudice dell’esecuzione del provvedimento (erroneamente) adottato dal giudice della cognizione.

Sul punto in particolare la Suprema Corte ha affermato che la riduzione dell’indulto in sede esecutiva entro i limiti di legge, quando questi siano stati superati a causa delle plurime applicazioni del medesimo beneficio da parte di giudici diversi, è legittima ove tale superamento sia derivato da presumibile difetto di reciproca conoscenza dei vari provvedimenti applicativi, mentre è vietata quando ci sia la ragionevole certezza che esso sia derivato da consapevole inosservanza o disapplicazione della norma; condizione quest’ultima che - a parere della Suprema Corte - non può ritenersi sussistente ad esempio per il solo fatto che l’applicazione dell’indulto che ha dato luogo al superamento del limite sia successiva di diversi anni a quella precedente, ove non risulti certo che, all’atto della successiva pronuncia, il giudice disponesse di un certificato penale debitamente aggiornato (cfr. Cass. Pen. sez. I 21.1.2004 n. 1739 - c.c. 4.12.2003). Sicchè a parere del Supremo Collegio la riduzione del beneficio in sede esecutiva entro i limiti consentiti dal provvedimento di clemenza è legittima soltanto laddove l’applicazione dell’indulto da parte di ciascuno dei giudici di merito sia derivata da difetto di conoscenza della rispettiva attività, non quando l’errore abbia origine diversa o manchi qualsiasi elemento che faccia anche implicitamente supporre tale difetto di conoscenza, non potendosi in tale ipotesi eliminare una singola applicazione dell’indulto da parte del giudice della cognizione (cfr. Cass. Pen. sez. I 16.7.98 n. 3961 - c.c. 2.7.98, Lauro; conforme Cass. Pen. sez. I 26.11.2004, n. 46023, Marusi).

Del resto il principio secondo il quale il provvedimento applicativo dell’indulto, pur se erroneamente emesso, possa essere sempre revocato in executivis trova il proprio limite nel fatto che non deve comunque risultare che la causa della revoca sia stata già nota al giudice della cognizione e quindi quanto meno implicitamente valutata e ritenuta in quella fase inoperante (cfr. Cass. Pen. sez. I 16.5.00 n. 749 già citata sopra).

Si impone pertanto in sede cautelare e nella fase della cognizione, una particolare prudenza nel concedere il beneficio introdotto dalla recente l. 241/06, soprattutto a fronte di un sistema nel quale non sempre si verifica in tempo reale l’aggiornamento delle schede destinate al casellario giudiziale per ciascuna sentenza di condanna irrevocabile, ove quindi l’acquisizione dei certificati del casellario giudiziale sia pure aggiornati, non consente al giudice procedente la verifica dell’effettiva attuale complessiva posizione del condannato; a ciò si aggiunga che l’acquisizione del certificato dei carichi pendenti presso la Procura della Repubblica territorialmente competente rispetto al giudice che procede non consente l’immediata verifica della totalità dei procedimenti pendenti su tutto il territorio nazionale nei confronti di ciascun imputato sub iudice.

Di qui l’auspicata prudenza da parte dei giudici di merito nell’applicazione dell’indulto in sede di cognizione, nonché nella fase cautelare, concedendo il beneficio in parola soltanto laddove siano acquisiti dati certi in ordine ad ulteriori sentenze di condanna con pena condonabile irrogate nei confronti del medesimo imputato, ovvero desumendosi tali dati dalla cd. posizione giuridica del predetto, potendo in caso contrario dare luogo ad indebite duplicazioni.

Ciò a maggior ragione nei confronti di imputati in stato di custodia cautelare per i quali - pur nel rispetto dell’urgenza della decisione in parola incidendo la stessa sullo status libertatis del detenuto - non solo la concessione del beneficio da parte del giudice della cognizione, ma anche la mera previsione della concedibilità dell’indulto nella successiva fase esecutiva potrebbe dare luogo all’adozione di provvedimenti non corretti di revoca delle misure cautelari disposte nei loro confronti per la rilevata assenza di una condizione generale di applicabilità della misura, ai sensi dell’art. 273 co II c.p.p.

Del resto i limiti di revocabilità del beneficio imposti al giudice dell’esecuzione, secondo l’interpretazione giurisprudenziale sopra riportata, finirebbero per determinare, a fronte della erronea concessione del beneficio nella fase della cognizione in caso di pluralità di condanne a pene condonabili, indebite reiterazioni dell’indulto o comunque il superamento dei limiti di operatività del beneficio, mai più emendabili neppure nella fase esecutiva.

 

 

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