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Napoli: Manconi; indulto non è causa criminalità
Liberazione, 6 novembre 2006
Tutta colpa dell’indulto? A leggere molti giornali, vedere molti Tg, ascoltare molte radio, quello che sta accadendo a Napoli sembra essere stato provocato quasi unicamente dall’uscita dalle patrie galere di alcune migliaia di detenuti. Il centrodestra che non governa più è scatenato: parla di "eserciti della salvezza" da spedire nel capoluogo campano, si spinge con il leghista Calderoli a dipingere Napoli come "una fogna da bonificare". Il governo cerca risposte, oggi nella metropoli partenopea arriva il ministro Giuliano Amato, ieri c’era il presidente del consiglio Romano Prodi. Che sta succedendo? Ne parliamo con il sottosegretario alla giustizia Luigi Manconi, che da anni e anni si occupa e si preoccupa dei problemi del sistema penitenziario italiano. L’altro ieri, ai funerali di un sedicenne alle porte di Napoli c’è stata una mezza rivolta popolare.
Nel segno dello slogan "più carcere per tutti" è stato messo sotto accusa il governo Prodi. Bisogna essere molto attenti, perché non esiste una soluzione assoluta, una ricetta valida per tutti. Proprio per questa ragione non va accolta la tesi di quanti considerano sempre e comunque il carcere - e più carcere - la risposta adeguata. Non so se fosse opportuno o meno il provvedimento che ha affidato il sedicenne a una comunità, e non mi sogno di giudicare il magistrato che così ha deciso. Dico che è totalmente irrazionale ipotizzare che fosse assolutamente giusto e inevitabile il carcere.
Eppure c’è anche una parte di elettorato del centrosinistra che mette al primo posto la sicurezza dei cittadini, costi quel che costi. Questo è il nodo della questione. In Italia è senso comune - anche della sinistra - vedere la pena solo in termini afflittivi, sostanzialmente vendicativi. Così il carcere, o meglio la cella chiusa, diventa la sola forma di sanzione non solo applicabile ma addirittura immaginabile. Non si riesce a capire che quel ragazzo in comunità è comunque in una struttura chiusa, nelle condizioni di non nuocere, in attesa di processo. Se riconosciuto colpevole dovrà scontare la sua pena. Ed è fondamentale che la sanzione sia scontata, ma anche che abbia una finalità rieducativa, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Non solo per il bene del ragazzo, non solo per i suoi begli occhi, prima di tutto perché la sua rieducazione è utile per l’intera società. Questa è la grande questione: senza rieducazione si attenta alla sicurezza collettiva.
Parliamo dell’indulto. Perché viene visto come il diavolo in persona? L’indulto non è una bizzarria di alcuni irresponsabili garantisti, non ha nulla a che vedere con ciò che trivialmente viene definito inciucio. L’indulto è una misura prevista dalla Costituzione, che richiede i 2/3 dei voti del Parlamento. E non è in primo luogo una scelta umanitaria. Io non lo sostengo solo per il bene dei detenuti ma soprattutto per il bene della società. Una società che cova al proprio interno carceri invivibili è autolesionista, si fa del male. Sono favorevole all’indulto perché le carceri - così come sono adesso - sono un danno incalcolabile per il sistema penitenziario e per il sistema giudiziario.
E allora perché si dà la colpa di questa escalation di violenze all’indulto? Perché la criminalità è un problema complicato e in più fonte di turbamento. E quando un problema difficile da risolvere e oscure pulsioni si intrecciano, immediatamente si cerca la soluzione semplice. Di volta in volta si individua il capro espiatorio: possono essere gli immigrati extracomunitari, in altre epoche i comunisti, oggi gli indultati. Intorno al capro espiatorio si è addensato un neoconformismo che ha visto le sole eccezioni di "Liberazione", "il Riformista", "il Foglio" e alcuni giornali cattolici. Io ho avuto occasione di discutere di indulto solo al meeting di Comunione e liberazione di Rimini, nella libreria "Amore e psiche" di Massimo Fagioli e ad alcune feste dell’Unità. Non do mai la responsabilità degli orientamenti collettivi ai mezzi di informazione, ma questo caso è un esempio raro di omologazione di pressoché tutto il sistema di informazione nazionale.
Torniamo a Napoli. La situazione a Napoli è assai drammatica, ma non sono i numeri assoluti che devono fare paura. Perché i numeri (arrestati e delitti) a livello nazionale sono diminuiti, in alcune grandi aree metropolitane si sono ridotti, a Napoli non sono aumentati. Il problema è il livello di aggressività della criminalità, di penetrazione nella società, la sua capacità di farsi vita quotidiana. Questo è il dato fondamentale, che ovviamente non ha nulla a che vedere con l’indulto. Ha a che fare con la disgregazione sociale che produce, alimenta e protegge l’attività criminale. Non sto dicendo educhiamo, facciamo cultura, diamo lavoro legale e aspettiamo che finisca la mattanza. Sostengo che intanto bisogna intervenire con la repressione e il controllo del territorio per contrastare l’attività criminale.
C’è chi vorrebbe mandare l’esercito nel capoluogo campano... Dico no all’uso dell’esercito con funzioni di polizia e di contrasto alla criminalità. Ma penso anche che il controllo del territorio non possa essere affidato solo alle forze dell’ordine. Ciò significa sviluppo di attività diverse da quelle criminali. Finché il territorio sarà solo spazio di mercato per attività illegali, non ci sarà alcuna possibilità di riscatto. E allora c’è anche un problema di risorse, bisogna investire. In una a città dove il declino delle attività industriali è inarrestabile si crea un vuoto in cui si inseriscono di necessità altre attività, illegali o direttamente criminali.
Da sottosegretario alla giustizia, può fornire qualche numero dell’indulto? Tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto la recidiva è del 5%. Una cifra evidentemente parziale e provvisoria perché relativa a soli tre mesi, che però ci autorizza ad essere ottimisti. Le percentuali fisiologiche di recidiva, anche se calcolate su tempi più lunghi, superano infatti il 70%. Napoli: indulto, voci fra paura e realtà di Dario Stefano Dell’Acqua (Associazione Antigone)
Il Manifesto, 6 novembre 2006
In tutta la Campania sono 2.713 i detenuti che hanno lasciato il carcere perché beneficiari dell’indulto, 1.321 quelli scarcerati dagli istituti di pena di Napoli, Poggioreale, Secondigliano e Pozzuoli. A questi numeri vanno aggiunti i detenuti scarcerati in altre regioni ma comunque residenti a Napoli, per cui sono circa 3.800 i campani che hanno usufruito dello sconto di pena varato in estate dal parlamento. Non sono certo quindi gli ottomila che il deputato di An Filippo Ascierto aveva allarmisticamente annunciato alla stampa anche se indubbiamente rappresentano una cifra alta. In totale, il 15% dei beneficiari dell’indulto è campano. Si può però dire che la recente ondata di omicidi è imputabile a questo provvedimento che ha avuto molte madri e che oggi stenta a trovare un padre? L’equazione, sostenuta fortemente da Alleanza Nazionale e dalla Lega, ha incrinato le certezze del centrosinistra, tanto che lo stesso Piero Fassino recentemente ha dichiarato che "i cittadini non apprezzano quei provvedimenti che appaiono espressione di un vecchio modo di governare". A nulla sono valse, nemmeno sul piano mediatico, le difese del ministro Clemente Mastella né i dati del sottosegretario Luigi Manconi che ha ricordato come su oltre 24mila detenuti beneficiari dell’indulto solo il 3,6% (cioè circa 900 persone) è tornato presto in carcere perché recidivo. Eppure, a ben vedere, la triste sequenza di omicidi non appare un fenomeno improvviso ma al contrario come continuità di una guerra di camorra mai sopita e che da due anni ha ripreso a mietere ferocemente vittime. La contrapposizione tra il clan Misso-Mazzarella, radicato in una vasta area che va dal centro storico alla zona orientale e i clan che una volta erano nel cartello dell’Alleanza di Secondigliano, e le faide interne a questi stessi clan hanno aperto una stagione di morti che non è affatto chiusa e che certo non è imputabile ad un provvedimento di indulto. Né è nuova l’intensità della sequenza di omicidi che ha scosso la città e il suo hinterland. Ad inizio di quest’anno, ad esempio, il quartiere della Sanità è stata scosso da otto omicidi nel giro di due mesi, frutto della faida interna al clan Misso, così come a giugno, ben prima dell’indulto quindi, si rompeva il fragile equilibrio dei clan di Scampia. Il quattro giugno infatti, Ciro e Domenico Girardi, due fratelli, venivano trucidati da almeno trenta colpi da killer armati di fucile mitragliatore e pistola automatica nei pressi di Secondigliano. Un segnale di ferocia che annunciò il riesplodere della guerra di camorra e la rottura degli equilibri tra i clan, come segnalò il prefetto di Napoli, Renato Profili, durante il vertice del comitato per l’ordine e la sicurezza convocato in quei giorni. Da allora la camorra non si è mai fermata, arrivando ad uccidere anche la sera della finale dei mondiali di calcio, durante la partita. Beppe Battaglia, responsabile del Gruppo Carcere della Federazione Città Sociale, ricorda "che l’indulto è un provvedimento del quale hanno beneficiato in larga parte tossicodipendenti e immigrati, non i vertici della criminalità organizzata. Certo se non c’è un sistema di presa in carico del disagio da parte dei servizi sociali, se non si investe sul sociale,sul lavoro, è inevitabile il ricorso all’illegalità come forma stessa del sopravvivere. Ma non mi sembra che la guerra di camorra non ci fosse quando le carceri erano piene fino all’inverosimile". In effetti, quello che l’indulto ha scoperto è la fragilità del sistema di welfare, l’inadeguatezza di risorse e mezzi per contrastare una crescente povertà. Anna, poco più di quarant’anni, è la madre di Ciro (nome di fantasia), 22 anni, tre anni di carcere, separato, con una figlia di quattro anni. È uscito da tre mesi, "non voglio che mio figlio si inguai di nuovo, alla bambina ci penso io, ma lui non trova niente, anche se cerca, noi che possiamo fare, quanto possiamo aspettare?" Già, quanto possono aspettare? Napoli: leggi più dure, l’altolà dei parlamentari
Il Mattino, 6 novembre 2006
Piero Grasso - il procuratore nazionale antimafia - ha lanciato la sfida alla politica: "Non è che a Napoli servano leggi più dure per battere la criminalità?". L’interrogativo è stato girato ai parlamentari napoletani. "Certamente c’è da riflettere - spiega Nicola Cosentino deputato di Forza Italia - partendo da un dato: le legislazioni emergenziali fino a ora non hanno prodotto grandi risultati se non si risolve prima il degrado sociale che c’è in città. Fino a quando alla desertificazione industriale non si oppone nessuna idea forte di sviluppo qualsiasi legislazione servirà a poco". Riccardo Marone, parlamentare diessino ed ex sindaco di Napoli rilancia: "Visto che dalla legge sull’indulto erano esclusi i reati di camorra e visto che sono stati liberati tutti camorristi, devo presumere che non sono state applicate le leggi. Allora invece che pensare a nuove leggi perché non pensiamo a condannarli questi delinquenti sulla base di leggi esistenti come il 416 bis? Io sono contro le leggi speciali". Da Italo Bocchino parlamentare di An arriva un’analisi simile. "La normativa vigente consente di sbattere in carcere i delinquenti. C’è un lassismo culturale da una parte e una lentezza procedurale dall’altra che porta alla prescrizione. La sostanza è che i giudici devono lavorare di più. Certo, se la sinistra non avesse fatto l’indulto le cose andrebbero meglio. Se serve una legge speciale che sia rivolta sul fronte dello sviluppo". Per Mimmo Tuccillo deputato della Margherita c’è da affrontare il tema della riconquista dell’ordinarietà: "Per dare adeguata efficacia alle iniziative messe in campo dal governo ci vogliono misure concrete per consentire l’amministrazione del territorio. Mi riferisco allo stato in cui si trovano alcuni tribunali della nostra regione come Torre Annunziata a Santa Maria Capua Vetere. Altrimenti non si riafferma il principio della certezza della pena, serve recuperare l’ordinarietà". "Ho sentito la Iervolino la quale confermava che da "alto impatto" in poi gli omicidi di camorra sono in regressione - spiega Antonio Martusciello di Forza Italia - Mi fa piacere che lo abbia ammesso e questo significa che se si lavora in maniera coordinata si ottengono risultati. Vedremo il piano Amato a cosa porterà, ora però serve riconquistare i quartieri dal punto di vista socio-economico. Questa la partita e devo dire che le promesse non mantenute in questi anni, a partire dall’Università a Scampia sono tante. Io sono contro le leggi speciali". Raffaele Tecce, senatore di Rifondazione replica direttamente a Grasso: "La certezza della pena è il fondamento del nostro diritto non si può garantire un po’ a Napoli e meno a Milano non sarei d’accordo su di un federalismo giudiziario non ho ben compreso cosa voglia dire Grasso. Puntiamo invece che a nuove leggi a interventi particolari e valutiamo se si possono adottare già in questa Finanziaria". Marcello Taglialatela senatore di An fa quattro proposte: "Abbassamento dell’età imputabile, revoca della patria potestà, inasprimento pene per chi delinque con i minorenni, alto commissario contro la mafia. Poi possiamo anche riflettere su leggi speciali per Napoli". Erminia Mazzoni, vicesegretario Udc è dura: "In Campania la vera emergenza è quella politica e per questo c’è bisogno di sottoscrivere un patto etico e promuovere il rinnovamento. Bassolino che denuncia l’isolamento conferma il metodo di una politica tutta concentrata sugli accordi di palazzo molto poco attenta alle questioni regionali. La vera emergenza è quella politica. Sergio Cofferati, sindaco di Bologna analizza il caso Napoli dal punto di vista di amministratore e alla trasmissione di Lucia Annunziata "1/2 ora" fa la sua analisi: "Credo che Bassolino e la Iervolino avrebbero bisogno di essere, da parte di tutti noi, aiutati di più. Non possiamo considerare un punto così delicato come Napoli un luogo in cui a tutto devono provvedere loro". Per Cofferati c’è stato nei confronti della città una sorta di "distacco da parte del governo". "Si è dato per scontato che molti problemi fossero risolti, invece c’è stato un arretramento. Se c’è da suddividere delle risorse, anche in una Finanziaria stretta, ci deve essere una disponibilità di tutti a una ripartizione che non sia quella tradizionale. Che dia a chi è in emergenza qualche cosa in più". Cofferati è intervenuto sul ricambio della classe dirigente napoletana al governo da 13 anni: "Un problema che non è tanto delle persone quanto del sistema della politica a partire dai partiti". Poi un esempio: "La discussione che c’è stata a Napoli sulla ricandidatura di un ottimo sindaco come Rosetta Iervolino secondo me non ha aiutato né il sindaco né la città a presentarsi a un passaggio difficile come quello del rapporto con le forze della criminalità organizzata". Napoli: il Questore; certezza delle pene e confisca degli scooter
Il Mattino, 6 novembre 2006
"Una città difficile nella quale, nonostante tutto farei crescere i miei figli. Una città difficile, ma non impossibile, specie se vengono coniugati controllo del territorio e formazione culturale". Il questore di Napoli Oscar Fioriolli è in piena attività: a ventiquattro ore dalla firma del "patto per la sicurezza di Napoli e provincia" - con i vertici dello Stato schierati in Prefettura a Napoli - ha una agenda stracolma.
Questore, spariranno commissariati storici, arriveranno uomini, pattuglie, truppe d’assalto: qual è il suo giudizio sul nuovo corso partenopeo? "Sono fiducioso, credo che riusciremo ad ottenere una riduzione di episodi criminali. Il piano interforze non risolverà i problemi di Napoli, ma riusciremo a colpire la criminalità sul territorio. Abbiamo l’obbligo di crederci, poi i bilanci li faremo in corso d’opera".
Quando parte il piano? Ci dia una data rassicurante. "Venti, trenta giorni. Anche se credo che i risultati più importanti si vedranno dal 30 gennaio, quando ritorneremo a sequestrare i motorini perché sarà disponibile l’area per contenerli".
Si è parlato molto delle truppe d’assalto: sono quattrocento uomini altamente specializzati, ma serviranno a stanare i boss nei loro fortini? "Saranno attivi a Napoli e in provincia, ma non solo. Entreranno in azione, quando lo richiederanno le esigenze del territorio e di indagine. È una forza di rapido intervento a livello nazionale, che darà priorità a Napoli. Confido molto anche sulla video sorveglianza. I primi progetti - al Vomero e nella zona dei grandi alberghi - con il lettore ottico per immagazzinare dati ci aiuteranno moltissimo".
Tutto molto chiaro, ma lei che pensa? Napoli migliorerà davvero? "Con questo piano non risolveremo il problema della criminalità, è bene chiarirlo. Perché il fenomeno criminale qui è complesso, profondo. A Napoli c’è una densità criminale che in Italia non ha pari, bisogna fare qualcosa sotto il profilo dell’educazione civile delle persone che vivono in città. Ci vuole uno scatto di orgoglio, cultura vissuta. È un tema a me caro, su cui spesso mi sono esposto: quando vedremo tutti i napoletani fare il tifo per le forze dell’ordine la situazione sarà realmente cambiata".
Come iniziare ad entrare nel sociale? "La presenza di cento scuole aperte sul territorio è importante, convincente. Un tempo parrocchie e oratori erano centri di aggregazione, oggi questo significato può essere recuperato con il progetto pilota".
Il piano potrebbe produrre centinaia, migliaia di arresti in flagrante, con l’inevitabile ricaduta sotto il profilo giudiziario: Napoli è la capitale delle scarcerazioni facili, non teme di veder vanificare il lavoro dei suoi uomini? "È oggettivamente un problema. È ovvio che se il nostro lavoro non ottiene una rapida ed efficace elaborazione da parte dell’autorità giudiziaria, rischiamo di vanificare la nostra attività di prevenzione e il lavoro diventa inutile".
Il ministro Amato ha promesso di assicurare i delinquenti alla giustizia, c’è il rischio che i delinquenti siano liberi pochi giorni dopo gli arresti? "Noi li abbiamo sempre assicurati alla giustizia, se poi escono non dipende da noi. Bisogna modificare alcune norme procedurali per dare certezza della pena, è un problema che riguarda il Legislatore".
L’ultima legge - l’indulto - ha scarcerato migliaia di pregiudicati in novanta giorni: qual è il suo giudizio? "Non mi esprimo, non è mio compito fare polemiche. Certo, se l’indulto libera criminali non fa piacere. Il vero problema riguarda quello che il ministro Amato ha chiamato "indulto non previsto", cioè l’insieme dei benefici premiali, un meccanismo perverso, che con vari escamotage porta anche i criminali a lasciare la cella".
Qual è stato il momento più difficile dell’ultima escalation criminale? "Per me non è stata una escalation. Credo che la vera emergenza sia la criminalità spicciola, predatoria, a carattere giovanile. Da un anno, ho registrato un incremento dei fenomeni predatori giovanili e ne rappresento la criticità. È forse la prima emergenza".
Commissariati accorpati, altri dismessi: i sindacati protestano, c’è smarrimento tra le persone. "È un piano che consentirà a centinaia di agenti di ritornare sul territorio, di lasciare scrivanie e uffici e stare in strada. E questo il messaggio che rivolgo alla gente: in alcuni casi perdono il presidio, ma ottengono più pattuglie di polizia, più divise sul territorio".
Lunedì c’è la Juventus al San Paolo, vuole rivolgere un appello ai tifosi? "Evitare un altro otto dicembre 2005, quando dopo Napoli-Roma, venne assaltato un commissario di polizia. Che i tifosi diventino pubblico di seria A. Quando il Napoli vinceva gli scudetti, il pubblico non danneggiava gli stadi, spero che si ritorni alla tradizione". Torino: il procuratore Gian Carlo Caselli chiede l’amnistia
La Stampa, 6 novembre 2006
Gli effetti dell’indulto su 35 mila processi, un Everest di carte che gli uffici giudiziari stanno costruendo con gli atti delle indagini e gli adempimenti successivi. Interrogatori, verbali, consulenze tecniche, incidenti probatori, udienze preliminari, notifiche di ogni genere. Un lavoro inutile, con l’eccezione di quei casi giudiziari in cui si riflettano interessi di comunità o di singole parti lese ai fini del risarcimento del danno. "Effetti dirompenti", scrivono il procuratore generale Giancarlo Caselli e il sostituto Andrea Beconi nella relazione che, il secondo, la scorsa settimana, ha illustrato al Consiglio superiore della magistratura. Per Caselli e i colleghi torinesi la prima alternativa è l’amnistia. Sulla base di uno studio statistico sui dibattimenti conclusi nello scorso anno giudiziario, fra il 2007 e il 2009 i processi virtuali oscilleranno dal 91,8 al 94,6 per cento del totale. "Gireremo a vuoto per i prossimi 3 anni", usano ripetere molti magistrati, giudici e pm toccati in ugual misura. Per niente soddisfatti di dover lavorare per nulla. Anzi: con la prospettiva che i reati commessi post-indulto, perciò punibili, siano giudicabili in coda. Dal 2010. Inaccettabile. A tal punto che, sperando in una "ragionevole soluzione legislativa", il procuratore capo di Torino, Marcello Maddalena, "sta valutando la possibilità" di varare una corsia di sorpasso per i nuovi fascicoli e quelli vecchi che, "per tipologia di reato, gravità del fatto, interesse della parte lesa, meritino di essere trattati indipendentemente dalla loro eventuale conclusione con condanna a pena condonata". Delle 18 procure piemontesi soltanto quella torinese ha 18.330 procedimenti per reati minori, di "fascia B", definiti e maturi perché ne siano fissati i relativi dibattimenti. In base all’opzione su cui sta riflettendo Maddalena, dovrebbero in gran parte essere accantonati. O bypassati dai fascicoli più recenti, per cui il condono di 3 anni non è applicabile. Non per nulla, al Csm, Beconi ha parlato dell’amnistia come "via maestra" per "ridurre la mole di lavoro relativa a fatti del passato e concentrarsi su quelli più gravi commessi prima del 2 maggio scorso e su tutti gli altri, gravi e non, successivi a quella data e che non ricadono nell’indulto". I magistrati torinesi - avverte la nota della Procura generale - in particolare i pm che "hanno speso energie e risorse per istruire questi procedimenti", affrontano lo scenario con "uno stato d’animo di autentica frustrazione". Anche perché, si sottolinea, nella "storia repubblicana l’amnistia ha sempre accompagnato e, nel 1990, preceduto, la concessione dell’indulto". È una critica al provvedimento bipartisan del Parlamento. Ma, detto ciò, nel documento della Procura generale si dà ampio spazio alle soluzioni per ovviarvi, come la corsia preferenziale di Maddalena, e un argomento forte a sostegno: si tenga conto - scrive Caselli - dei "costi che la collettività dovrà sostenere per la trattazione di migliaia di procedimenti destinati a concludersi, al più, con una sentenza di condanna a pena (detentiva e/o pecuniaria) interamente condonata". Costi, si ribadisce, "decisamente intollerabili in una situazione di gravissime difficoltà finanziarie del Paese e, in particolare, dell’amministrazione della Giustizia". Il documento è naturalmente anche di bilancio degli effetti già scontati del condono: nei primi giorni di applicazione dell’indulto, ad agosto, furono emessi 3206 ordini di scarcerazione provvisoria o di cessazione di misure alternative dalla Procura generale o da quelle ordinarie di Piemonte e Valle d’Aosta. Al 25 ottobre le richieste ai giudici dell’esecuzione sono salite a 3976, e non comprendono quelle della Procura di Torino, la più grossa. L’indulto si farà sentire a lungo. Palermo: da Regione borse di studio agli studenti in carcere
Ansa, 6 novembre 2006
A seguito della Mozione presentata il 4 luglio dall’on. Salvo Fleres e altri, riguardante iniziative in favore del diritto allo studio per gli studenti in stato di detenzione, l’Assessore ai Beni Culturali e alla Pubblica Istruzione ha disposto il suo intervento presso gli Enti regionali competenti perché assicurino la presenza nei bandi di concorso di una specifica riserva di borse di studio per gli studenti detenuti. L’assessorato ha altresì assicurato la diffusione del bando presso le case circondariali siciliane, ricordando che già diversi studenti in stato detentivo sono assistiti dagli Enti regionali. L’on. Fleres ha ricordato che la crescita culturale e la formazione scolastica e universitaria della popolazione carceraria, sono fra i migliori antidoti alla possibile ricaduta degli stessi in attività criminose. Verona: pm Papalia; l’indulto "costa" 500 milioni di euro
Il Gazzettino, 6 novembre 2006
Il problema non è solo il fondato sospetto che l’indulto favorisca una certa recrudescenza del crimine: il problema è anche che l’indulto, allo Stato italiano costa. Eccome se costa: qualcosa come 400-500 milioni di euro in tre anni. A fare due conti, su un aspetto fin qui non portato alla ribalta perché ogni attenzione era distratta dalle polemiche sul rischio-crimine di questa misura di clemenza, è Guido Papalia, Procuratore della Repubblica a Verona. Il problema, ricorda Papalia in una intervista al "Giornale" raccolta da Stefano Zurlo, è che l’indulto cancella anche le pene pecuniarie sotto i 10 mila euro: risultato, secondo il Procuratore, è che lo Stato ci ha già rimesso 200 milioni di euro e - visto che il provvedimento avrà effetto per tre anni - "alla fine di milioni se ne perderanno almeno 500". Papalia parte da una analisi di quanto avviene nel territorio del Tribunale di Verona, che coincide con quello della Provincia ed ha giurisdizione su circa 800 mila persone: dunque, circa l’1,5 per cento dell’intera popolazione italiana. "Diciamo - spiega Papalia - che il Tribunale di Verona è il classico Tribunale medio italiano. Fotografa bene la provincia del nostro Paese". Ebbene, a Verona, la situazione è questa: "Anzitutto ci sono i decreti penali, emessi dal gip senza passare dall’udienza preliminare. Finora - fa sapere Papalia - sono andati in fumo 1.091 decreti, con pene medie nell’ordine dei 1.900 euro. Dunque, solo su questo versante, abbiamo perso più di un milione e 700 mila euro. Poi c’è tutto il capitolo delle pene accessorie al termine dei processi, che ci è costato, fino a questo momento, non meno di 800 mila euro. Il totale si attesta intorno ai 2 milioni e mezzo di euro. Ma la stima è al ribasso". Secondo il Procuratore, "in questo totale c’è un po’ di tutto. Ma si possono distinguere alcune tipologie di reati. Per esempio, le violazioni alle norme sull’edilizia. Moltissime, forse il sottoinsieme più numeroso. E poi, altrettanto numerose, le guide in stato di ebbrezza. Reati che si trovano in tutto il Paese. Ritengo - puntualizza Papalia - che Verona rappresenti un campione adeguato e per questo mi sbilancio affermando che, se si moltiplica il dato di questa città sul territorio nazionale, si ottiene una proiezione importante su cui sarà bene riflettere". I conti sono presto fatti: "Se 800 mila abitanti non devono più sborsare circa 2,5 milioni di euro, basterà allargare l’analisi ai 57 milioni di italiani. Bene, compiute le opportune operazioni, abbiano un risultato che può ragionevolmente oscillare fra i 150 e o 200 milioni di euro. Questo è, secondo me, quanto lo Stato ha perso finora per l’indulto. Ma attenzione - continua Papalia, nell’intervista al "Giornale" - siamo solo all’inizio. Per almeno tre anni, ci toccherà fare i conti con l’indulto anche su questo versante ed è dunque lecito ipotizzare che alla fine le casse della giustizia perderanno un flusso non inferiore ai 400-500 milioni di euro". Oltre a questi, che si potrebbero definire mancati guadagni per il sistema giudiziario italiano, l’indulto ha anche dei costi diretti pesanti ma non quantificabili monetariamente: gli uffici giudiziari, sostanzialmente lavorano senza alcuna utilità pratica. Il Procuratore Papalia spiega: "Il Parlamento ha varato l’indulto, ma non l’amnistia, così la macchina gira, produce indagini e dibattimenti, infine costruisce pene che non saranno scontate. Se proprio vogliamo dirla tutta, puntigliosamente, ai costi fin qui elencati dovrei aggiungere anche quelli della giustizia. Confezioniamo multe e ammende che non verranno pagate, consumiamo tempo, energie e risorse e non riscuotiamo. Anzi, il messaggio che lanciamo è fin troppo chiaro: chi ha subito una condanna definitiva nei mesi scorsi e ha versato subito il dovuto, fa la parte dello stupido. Chi ha tergiversato, ora con il jolly dell’indulto può stracciare il conto presentato dai cancellieri". Dal ministero della Giustizia, si fa sapere che, nel 2005, lo Stato ha incassato 70 milioni di euro dalle pene pecuniarie. Stando ai dati aggiornati al 20 ottobre 2006, inoltre, i detenuti che hanno beneficiato dell’indulto sono stati 24.135: di questi, 15.008 italiani e 9.127 stranieri. Intanto, i politici continuano a polemizzare sui rischi per la sicurezza legati all’indulto. "Io penso che una delle cause principali dell’insicurezza in cui versa il nostro Paese, in particolare per la recrudescenza della criminalità a Napoli, dipenda proprio dall’indulto", afferma il ministro Di Pietro (Idv) spiegando che "immettere in Campania settemila persone che stavano in carcere, senza una risocializzazione delle stesse, vuol dire non solo mettere a rischio la serenità della collettività nel suo complesso, ma anche immettere nel mercato criminale una miriade di persone che devono risistemarsi, riallocarsi. Da qui la guerra tra bande, da qui i regolamenti di conti, da qui le sparatorie di questi giorni". Per il ministero della Giustizia, però, queste sono "inutili polemiche". Milano: storie di sudamericani, tra risse, bande rivali e rapine
Affari Italiani, 6 novembre 2006
Il fenomeno delle bande ecuadoriane e peruviane in Italia è abbastanza recente (si è consolidato negli ultimi 3 anni) e ha come base le città di Milano e soprattutto Genova (dove si è tenuto anche un "summit" recentemente). Ma la storia di questi clan ha origini negli anni 60 quando in un penitenziario di Chicago, per ribellarsi ai soprusi degli altri detenuti, un gruppo di latinos si organizzò e formo la prima cellula dei Latin King (che ora si divide in due sotto-clan, i Chicago e i New York). Negli anni l’identità del gruppo è stata esportata in varie città del mondo, a cominciare proprio dalla Grande Mela dove ora, nel Bronx, i Latin King sono considerati un gruppo fortissimo e dominante della malavita statunitense. Poi in Spagna, e ora anche in Italia. La criminalità sudamericana è comparsa per la prima volta a Milano a cavallo tra gli anni 80 e 90 con gli immigrati uruguaiani, che avevano il controllo assoluto del traffico di droga e della prostituzione in diversi quartieri della città, in particolare piazza Aspromonte. Poi nel 1992 un maxi processo è riuscito a debellare questa mafia, e i malavitosi uruguaiani si sono riciclati in rapinatori di banche, prima di lasciar spazio, a cavallo del 2000, a nuove ondate migratorie, tra cui in particolare filippini (la comunità più numerosa di Milano con 30.000 residenti), nordafricani (soprattutto egiziani) e appunto ecuadoregni e peruviani, che hanno un po’ preso il loro posto nell’immaginario collettivo, pur non gestendo quasi per niente traffici criminosi o racket come la prostituzione. In realtà i reati di queste bande di sudamericani vengono commessi principalmente fra di loro, una lotta fratricida per il dominio della strada. Salvo qualche rapina e il disturbo della quiete pubblica nelle notti del weekend, non si sono segnalati particolari aggressioni a danni di cittadini italiani o particolari episodi di criminalità organizzata. Almeno fino a qualche tempo fa. I carabinieri del Comando provinciale di Milano stanno infatti portando avanti un’operazione che sta mettendo alla luce un fenomeno nuovo, decisamente più preoccupante di una rissa tra clan. Nell’ultimo mese sono almeno una decina (cinque gli episodi sicuramente accertati) i casi di rapine in abitazioni del centro di Milano, in particolare nella zona Monforte. I responsabili (in parte già individuati dagli investigatori) non hanno agito in modo professionale come gli albanesi o i romeni che negli ultimi anni hanno seminato il panico in case e ville della Lombardia. Sarebbero furti alla spicciolata, il televisore, il pc e via. Per lo più a danni di persone anziani o di giovani coppie. L’ultimo caso una settimana fa, quando una ragazza di 16 anni, sola in casa, è stata picchiata e legata prima di portare via il necessario dall’appartamento. Ma non sarebbe un caso isolato. I militari dell’Arma stanno collegando gli episodi all’attività della maggior parte degli immigrati ecuadoregni, che lavorando per ditte di corrieri girano la città con furgoni e moto per le consegne ed entrano nelle case della Milano bene, come corso Monforte appunto. La comunità sudamericana registrata dal Comune di Milano al 31 dicembre 2005 conta circa 35.000 presenze regolari, di cui oltre 25 mila sono peruviani (13.775) e ecuadoregni (12.339). Entrambe le comunità sono quasi triplicate negli ultimi due anni. Nel 2004 infatti erano 9 mila in tutto. Complessivamente gli stranieri residenti a Milano sono 162.782. Oltre 334 mila invece in provincia (pari all’11% del totale nazionale) e 711 mila in Lombardia, ossia quasi un quarto del totale nazionale. La comunità più numerosa della città è quella dei filippini, con quasi 30.000 residenti. La delinquenza sudamericana e il fenomeno delle bande sono il sintomo di un’integrazione particolarmente difficile (a differenza di altre comunità, come quella filippina, molto ben integrate nel tessuto sociale). Le zone maggiormente popolate da ecuadoriani e peruviani sono Lambrate, Corvetto, alcune aree dell’hinterland come Crescenzago e soprattutto la zona di viale Padova, dove esiste un vero e proprio mercato nero dei posti letto. Alcune situazioni sono al limite della vivibilità, con monolocali subaffittati a 6-7 persone per 400 euro al mese. Pochi ragazzi frequentano gli studi, la maggior parte lavora in negozi e pizzerie. Spesso in condizioni impossibili, lavorando al nero per 7 giorni su 7, 11 ore al giorno per 600 euro al mese. I giovani capiscono l’italiano, ma raramente cercano amicizie oltre al loro clan. I genitori lavorano come colf, badanti o come corrieri anche per ditte importanti. La comunità peruviana, a differenza di quella ecuadoregna, è meno caratterizzata dal fenomeno delle bande e partecipa più attivamente alla vita cittadina. Presso il consolato si sono già formate diverse associazioni di piccoli imprenditori, tra cui la Promcopi, associata alla camera di commercio di Milano. Si tratta per lo più di ristoratori e commercianti, ormai da più generazioni residenti in Italia.
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