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Lettere: la realtà delle persone detenute transessuali
www.radiocarcere.it - Il Foglio, 23 marzo 2006
Dentro un carcere esiste un altro carcere. Altre sbarre e altre celle. Ghetto nel ghetto per chi è diverso. Sono le celle, le sbarre per i detenuti transessuali. Io in quelle celle ci sono stata tanti anni. Io transessuale e detenuto. Se già fuori dal carcere la vita di un transessuale non è facile, beh in carcere diventa quasi impossibile. Impossibile a meno che tu non sia disposta a mettere in gioco quel poco di dignità che ti è rimasta. Un prezzo caro per la sopravvivenza, anche se sei un transessuale. Io quando ero libera mi prostituivo. Non ero contenta della vita che facevo, ma dovevo pagare chi dal Brasile mi aveva fatto arrivare in Italia. Un uomo, a cui dovevo i soldi di quel viaggio, che mi picchiava e che abusava di me. Ero esasperata da quella vita. Una notte ho reagito a quegli abusi e a quelle botte, l’ho ferito e lui purtroppo è morto. Mi hanno processata, mi hanno giustamente condannata, ma poi per me si è aperta la porta del carcere. Un carcere assai lontano da quella "giustizia" che mi aveva condannato. Per un transessuale il carcere appare subito come l’inferno. La diversità che ti porti appresso è amplificata. Difficile anche trovarti un posto. Non nella sezione maschile. Non nella sezione femminile. Ma nella sezione peggiore: quella degli infami, dei pedofili ovvero quella, appunto, dei trans. Per parecchio tempo ho diviso la mia cella con altre transessuali. Persone che erano in carcere da diversi anni e che erano segnate nel corpo e nella mente dalla disperazione. In quella cella c’era chi si tagliava la braccia, chi si drogava o chi negli occhi non aveva più la voglia di vivere. Come Samanta, anche lei transessuale. Da tempo Samanta stava male con i polmoni. Spesso aveva delle crisi respiratorie, ma per lei erano rare le cure mediche. Piano piano Samanta si è lasciata andare, si è abbandonata. Ha iniziato a bere vino mischiato con gli psicofarmaci. Tutti sapevano quello che si faceva Samanta. Nessuno ha fatto nulla per lei. Una mattina ho trovato Samanta in bagno. Per terra in una pozza di sangue. Si era tagliata le vene e l’aveva fatta finita. Oggi mi è chiaro. La pena in carcere per un transessuale è la sua diversità. Una diversità a cui il carcere non è preparato. Se già mancano educatori o assistenti sociali per i detenuti comuni figuratevi per noi! Se in carcere non c’è possibilità di lavorare se sei "normale", può esserci per chi è considerato uno strano animale? Per queste ragioni la vita in cella di un transessuale è ai limiti del possibile e lontano da ciò che si può immaginare. Dicevo prima del prezzo da pagare in carcere se sei transessuale e se vuoi sopravvivere. Bene il prezzo è il sesso. I tuoi clienti gli agenti, o meglio alcuni di loro. Ora voglio essere chiara. Tantissimi agenti sono bravi e sono i veri agenti, ovvero quelli che lavorano secondo la legge e per le persone detenute, anche se transessuali. Purtroppo tra questi c’è chi si approfitta della loro posizione di potere. Se in sezione ti capita di turno un agente così, tu sei finita. Per tanti mesi io ho provato a resistere alle loro richieste. Arrivavano di notte, mentre dormivo e mi dicevano "Oh, puttana! Che fai dormi? Svegliati e fammi una p.", oppure "fammi toccare una tetta, magari così ti porto da mangiare". Una notte ho risposto male ad un agente che mi chiedeva di fare sesso. Lui mi ha fatto rapporto, io ho raccontato l’episodio al comandante ma non sono stata creduta. Morale mi hanno punito. Da quel giorno, quando mi chiedevano di fare sesso io lo facevo. Così è iniziato un lungo periodo in cui io, come tante altre trans, acconsentivamo a rapporti sessuali. Insomma presto mi sono resa conto che mi ero liberata da uno sfruttatore ed ero finita nelle mani di altri. Avrei preferito tornare sul marciapiede. Perché c’è un margine di scelta nella prostituzione. Ma quando sei in carcere tu quel margine non ce l’hai. In carcere o fai sesso oppure la tua vita diventerà impossibile. In carcere sono dovuta scendere ancora più in basso di quando facevo la puttana. Questa è la verità e non solo la mia. Questo è il mio recente passato, questo è il presente di tante altre transessuali in carcere. Sono sopravvissuta così mesi, anni. Per affrontare quella vita mi riempivo di psicofarmaci. Mi sentivo un animale. Mancava poco alla fine. Per farla finita come Samanta. È stato il periodo più brutto della mia vita. Poi un giorno mi trasferirono in cella da sola e grazie a una suora ho ricevuto un uncinetto e un filo. Ho iniziato così a fabbricare dei piccoli oggetti nella mia cella. Ogni oggetto che facevo era un passo verso la mia dignità. Lavoravo sempre di più, capivo che dovevo dimostrare di saper lavorare per poter essere considerata come un essere umano. È stato un percorso lunghissimo e molto pesante. Con quell’uncinetto facevo vestiti e borsette. La suora che mi aiutò all’inizio mostrò i miei lavori al direttore del carcere, che rimase sorpreso per quello che ero riuscita a fare. Dopo tanti anni di carcere c’era qualcuno che finalmente mi riconosceva come essere umano e che mi voleva aiutare. Così, non potendo io transessuale andare nel laboratorio del carcere, mi fecero avere in cella una macchina per cucire. Quella macchina era il mezzo per riavere la mia dignità. Da quel giorno la mia vita è cambiata, quella mia piccola cella era piena di vestiti, mi venivano a trovare giornalisti e addirittura degli stilisti. Io transessuale in carcere ero tornata persona, ma senza quell’uncinetto oggi sarei morta.
A., 33 anni Giustizia: problemi nuovi, soluzioni vecchie, di Paolo Auriemma Riflessioni di un magistrato sul nuovo ordinamento giudiziario
www.radiocarcere.it - Il Foglio, 23 marzo 2006
Come molte altre istituzioni dello Stato, anche la Magistratura si trova a dover affrontare un mondo in rapida evoluzione dove i rapporti giuridici ed i conflitti che li originano, appaiono sempre più complessi anche in relazione alla natura degli interessi sottostanti; a questa sfida che è contemporaneamente di modernizzazione, di rapidità e di efficienza, sempre nella tutela dei diritti, il legislatore ha risposto riesumando un modello di organizzazione abbandonato, senza rimpianti, da cinquanta anni. Come detto i problemi esistono, anche gravi, ma le soluzioni trovate, non ne risolvono alcuno, anzi rischiano di aggravarli. Da tempo la Magistratura ha avviato un esame critico delle disfunzioni della macchina giudiziaria, non risparmiando critiche al proprio interno. Il Legislatore ha, tuttavia, ritenuto di fare le proprie scelte, non tenendo in nessun conto pareri e proposte che venivano dall’Associazione Nazionale Magistrati. Il nuovo ordinamento giudiziario sta per entrare in vigore, con tutta la sua forza dirompente. Alcuni decreti, che lo compongono, sono già stati pubblicati e la cultura giuridica teme che, in breve, altri saranno pubblicati. Riforma che va a toccare la legge, denominata ordinamento giudiziario, che possiamo definire come lo statuto della Magistratura, delimitandone natura, funzioni, competenza struttura organizzativa e gestionale. Una riforma ampiamente e ripetutamente criticata, sotto vari profili da tutto il mondo giudiziario, non solo dai magistrati. Censurata perché si tratta di una riforma che è in assoluta controtendenza rispetto al percorso culturale, prima ancora che legislativo, che negli ultimi cinquant’anni si era seguito. Un percorso che era stato intrapreso in attuazione dei principi dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, finalizzati a garantire l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e che oggi viene bruscamente interrotto. Si configura, nella riforma, un magistrato, non già impegnato nel perseguire le finalità dell’imparziale applicazione della legge nel rispetto dei diritti, ma interessato principalmente allo sviluppo della propria carriera, volto a ricercare il consenso dei superiori, accondiscendente verso l’interpretazione dominante, addirittura timoroso di adattare la norma alle esigenze concrete e sempre rinnovate della collettività. Ciò in quanto, a giudizio dei Magistrati ed in contrasto con l’articolo 107 della Costituzione, si struttura una carriera in cui, differentemente da quanto accaduto sino ad oggi, chi occupa la funzione presso l’Ufficio superiore è per ciò stesso ritenuto di "grado superiore" introducendo un’anomala gerarchizzazione all’interno della Magistratura, mortificando in tal modo il giudice di primo grado, colui che in prima battuta - spesso in modo definitivo - decide sulle istanze dei cittadini; in tal modo una funzione davvero importante diventa, all’interno dell’ordine giudiziario, quella meno gratificante da cui sfuggire, allontanandosene al più presto. E ciò attraverso un macchinoso sistema di concorsi - la cui valutazione per altro è, di fatto, sottratta al CSM cui la Costituzione lo attribuirebbe - che inevitabilmente distoglierà il magistrato dall’attività quotidianamente e realmente svolta all’interno degli uffici con evidenti ricadute negative sui tempi della decisione e sulla rapidità del processo su cui non si interviene minimamente. È bene ricordare che le leggi che abolirono i concorsi lo fecero perché questi avevano dato pessima prova di sé sin ad esser definiti, nelle relazioni alle leggi che negli anni sessanta abolirono il preesistente sistema analogo a quello oggi riproposto, inutili, controproducenti e dannosi. Temiamo un magistrato che per seguire il proprio percorso di carriera e per non rischiare di metterla a repentaglio dovrà adeguarsi all’interpretazione dominante; un modello di giudice superato ed arcaico, che rischia di non esser più pienamente esser più garante dei diritti. Tali soltanto alcuni dei motivi che i magistrati considerano fondamentali per rifiutare in toto una riforma di cui nulla può esser salvato, perché affonda le radici in una filosofia che privilegia la carriera rispetto al servizio da rendere al cittadino. Minori: il volontariato come pena… invece di finire in cella
Ansa, 23 marzo 2006
Invece del carcere il volontariato con la Croce Rossa Italiana: è una delle misure alternative alla detenzione a cui potrà ricorrere il giudice per il recupero dei minorenni coinvolti in problemi giudiziari. Lo prevede una convenzione fra il ministero della giustizia e la Cri che sarà firmata lunedì prossimo. "L’intesa - ha anticipato il presidente della Cri Massimo Barra - prevede l’inserimento di minorenni che hanno problemi di giustizia nell’attività di volontariato sul territorio svolta dai gruppi della associazione. Si tratta di una possibilità per il giudice che può scegliere la pena più adatta e di una opportunità per il ragazzo". Barra ha precisato che l’iniziativa si avvale di una sperimentazione già avviata il cui bilancio è stato "pienamente soddisfacente". I ragazzi coinvolti nel progetto saranno impegnati a pieno nell’attività di volontariato svolta regolarmente dai volontari della Cri. Sempre la prossima settimana, la Cri ha in programma la definizione di un altro accordo con l’Unione italiana ciechi a favore dei non vedenti. Le sedi provinciali dell’Uic e della Cri collaboreranno per iniziative operative a favore appunto dei non vedenti e degli ipovedenti. Antigone: due suicidi in un giorno, la trasparenza del Dap…
Ansa, 23 marzo 2006
"Due suicidi in carcere in un giorno sono il segno del grave disagio che vivono i detenuti negli istituti di pena italiani". A sostenerlo è Patrizio Gonnella, presidente di ‘Antigonè, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, dopo il suicidio di un istruttore di baseball nel carcere di Lodi e di quella di un detenuto del carcere di Sollicciano. "Chiediamo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - dice Gonnella - trasparenza sulle morti in carcere". "Esiste - sostiene il presidente di Antigone - il dovere giuridico e morale per chi ha un compito di custodia di preservare l’integrità del detenuto". "Il caso di Lodi, in particolare - prosegue - è emblematico: i primi giorni di detenzione di un uomo che ha ucciso la sua compagna sono sempre a rischio. Perché - chiede Gonnella - Giancarlo Bascapè non era sottoposto a sorveglianza? Come sono potuti accadere i due episodi di oggi?". "Al Dap - conclude Gonnella - chiediamo chiarezza". Castelli: percentuale suicidi in carcere è fenomeno fisiologico
Ansa, 23 marzo 2006
Per il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, quando si verificano suicidi in carcere, esiste "un costume culturale per il quale qualcuno ha interesse a rappresentare il carcere come un luogo che dovrebbe essere ancora migliore della società civile", ma il numero di casi "sta diminuendo" e questo è un "dato positivo". "Il carcere - ha detto il ministro in riferimento a tre suicidi accaduti in carcere negli ultimi giorni - è un luogo dove i problemi sono esasperati, perché chi ci entra è, perlomeno, una persona che ha dei problemi con la società". Castelli, a margine nella conferenza stampa nel carcere di san Vittore sul progetto di "custodia attenuata" per le detenute con figli fino ai tre anni, ha osservato che "c’è una percentuale elevatissima di detenuti tossicodipendenti con i problemi connessi al loro stato, anche dal punto di vista della salute; persone che hanno problemi psicologici e, quindi, è fisiologico che in carcere ci sia una situazione di sofferenza degli individui così come è fisiologico che ci siano molte persone con patologie e problemi". "Cerchiamo - ha aggiunto - di dare una risposta. Per prima cosa, dal punto di vista delle cure, un detenuto costa quasi il doppio rispetto a un cittadino che non sta in carcere, e questo è logico, perché ha particolari problematiche; poi, purtroppo, è fisiologico che ci sia una percentuale di suicidi superiore a quella dei cittadini normali, sia per le situazioni psicologiche dei nostri detenuti, sia per le loro condizioni psicologiche e perché il carcere non è un ambiente che ha a che fare con la normale personalità umana: in carcere si soffre, poiché manca la liberta". "Allora, che cosa dobbiamo vedere? - ha osservato il ministro -. Non quante persone si suicidano, ma cercare di ridurre questa percentuale al minimo. Da questo punto di vista qualche elemento di ottimismo l’abbiamo, perché il numero di suicidi ogni mille detenuti è in tendenza diminutiva, sta diminuendo, è questo è un dato positivo". "Naturalmente - ha concluso Castelli -, l’auspicio è che non si suicidi nessuno, ma questo non è possibile". Detenute madri: a Milano apre prima struttura esterna
Lombardia Notizie, 23 marzo 2006
Sarà la prima struttura in Italia per madri detenute con figli sotto i tre anni quella che sorgerà a Milano, in v.le Piceno e, tra mamme e bambini, potrà ospitare 24 persone. Lo prevede un protocollo siglato oggi, all’interno del carcere milanese di San Vittore, dai ministri della Giustizia, Roberto Castelli, dell’Istruzione, Letizia Moratti, dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, dal presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, e dal sindaco di Milano, Gabriele Albertini. Al momento vi sono solo due "asili nido" all’interno di carceri, in quello di San Vittore a Milano e in quello di Como. La nuova struttura, denominata "sezione a custodia cautelare attenuata per madri detenute con bambini", sarà sorvegliata da agenti della Polizia Penitenziaria in borghese e funzionerà come una vera e propria comunità con apposito personale e iniziative educative adatte sia ai piccoli ospiti che alle loro madri. La Provincia mette a disposizione lo stabile, che sarà pronto entro sei mesi, la Regione offre la propria rete di assistenza sugli interventi socio-sanitari rivolti alla popolazione carceraria, il Comune il personale educativo per i bambini e il Ministero dell’Istruzione la formazione per il reinserimento sociale. Le mamme detenute e i bambini che possono essere ospitati nella nuova struttura "senza sbarre" sono più di quelle presenti attualmente nelle due strutture speciali di San Vittore e di Como. "Questo primo progetto pilota in Italia - ha ricordato il presidente Formigoni - costituirà un modello avanzato a cui riferirsi per il futuro. La Regione Lombardia, da tempo - ha aggiunto il presidente - pone, con diversi strumenti, un’attenzione particolare al tema del carcere". Nel 1999 è stato infatti siglato un Protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia a cui ha fatto seguito, nel 2003, un Accordo Quadro per il recupero individuale dei detenuti e, prima e finora unica in Italia, ha approvato, nel febbraio 2005, una legge (la n. 8) sulla tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari regionali e a novembre un provvedimento per la formazione di 26 "agenti di rete", cioè degli educatori appositamente formati che saranno impegnati ad accompagnare i detenuti nel percorso di reinserimento nella società. La Regione Lombardia, negli ultimi cinque anni, ha speso, a favore dei progetti per i detenuti, quasi 9 milioni di euro per 140 progetti che vanno dalla formazione professionale all’inserimento lavorativo, dal contatto costante con il mondo esterno, anche attraverso misure alternative, al reinserimento nella società. Detenute madri: piccoli numeri, ma un grande problema etico
Redattore Sociale, 23 marzo 2006
"Un problema piccolo dal punto di vista numerico, perché riguarda poche decine di persone in tutto il Paese, ma grande dal punto di vista etico". Così il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha definito il problema delle detenute con bambini da 0 a 3 anni, poco prima di firmare l’intesa che porterà alla prima struttura detentiva alternativa al carcere per madri carcerate con bimbi piccoli in Italia (vedi lancio nel notiziario di oggi; ndr). "Il comune cittadino potrebbe chiedersi: ma perché i bambini piccoli in carcere? - ha proseguito il Ministro-. Tra due mali si trattava di scegliere il male minore. Stiamo parlando di bambini in tenerissima età che hanno bisogno assoluto del contatto fisico: dovevamo scegliere se tenerli vicini alle madri o portarli in un ambiente che ad un adulto poteva sembrare più consono, ma lontano dalle mamme. Mi ero posto persino il problema di proporre al presidente Ciampi una grazia generalizzata per tutte queste donne, ma poi non se n’è fatto nulla perché più del 90% di queste detenute appartiene ad una ben precisa categoria sociale che ha un’innata tendenza a vivere una vita al di fuori delle regole. Non avremmo quindi risolto il problema, perché nel giro di alcuni giorni ce le saremmo ritrovate tutte di nuovo nei penitenziari. Allora si trattava di trovare un’altra via e non credo sia un caso che oggi avvenga a Milano, dove c’è stato questo felice incontro di tutte le istituzioni e abbiamo potuto non dico risolvere il problema, ma fare un grandissimo passo avanti rispetto alla situazione attuale. Non ci saranno più sbarre né agenti in divisa e si cercherà, nei limiti del possibile e del nostro dovere, di attenuare il più possibile l’impatto che l’ambiente avrà su questi bambini. Abbiamo pensato anche a questa particolare condizione sociale delle madri che vivono ai margini della società e cercheremo di dare degli strumenti per reinserirsi compiutamente e dare compimento all’articolo 27 della Costituzione". A questo proposito sarà fondamentale l’apporto degli operatori del ministero dell’Istruzione. "I Centri permanenti di educazione per gli adulti potranno avere un ruolo fondamentale nell’aiutare le mamme ad acquisire competenze e professionalità e poi avere una vita più facile nel reinserimento sociale -ha detto il ministro dell’Istruzione, Letrizia Moratti -. Sono molto contenta di firmare questo accordo perché la condizione dei bambini e delle madri in carcere è una condizione innaturale che non giova ai bambini e che rende ancora più difficile il percorso di una madre detenuta, aggiungendo difficoltà a difficoltà. Una casa famiglia, pur con tutte le garanzie che la casa famiglia deve avere, è certamente un ambiente che comincia a preparare i bambini a quello che poi sarà il loro ambiente naturale, fatto di giochi, di libertà, di relazioni con altri bambini: un ambiente certamente diverso da quello del carcere". Detenute madri: Formigoni; siamo modello per altre regioni...
Redattore sociale, 23 marzo 2006
Tutti sorridenti attorno ad un tavolo. Le madri detenute con bambini di età inferiore a tre anni sono riuscite, per una volta, a mettere d’accordo tutte le istituzioni milanesi, di qualunque colore politico. L’occasione è l’avvio del progetto per la struttura detentiva per le madri detenute con bambini piccoli, pronta tra circa sei mesi in una struttura della Provincia in viale Piceno a Milano. "L’orgoglio è quello di essere riusciti a mettere insieme tutte le istituzioni dello Stato -ha detto Luigi Pagano, Provveditore regionale delle carceri-: il ministro dell’Istruzione, il ministro della Giustizia, la Regione Lombardia, il Comune e la Provincia di Milano, che ha messo a disposizione la struttura". "Abbiamo notato una media di circa 8-9 persone stabili all’interno degli istituti nei due asili nido che abbiamo in Lombardia, nelle carceri di San Vittore a Milano e di Como -ha proseguito Pagano-. Poi abbiamo pensato che la legge permetteva di creare una sezione all’esterno dove portare le madri con i bambini: una sezione che si fregiasse della dizione di "custodia attenuata" nel senso che, una volta mantenute le condizioni di sicurezza, avremmo potuto insistere con le attività trattamentali. "La tappa di oggi segna un ulteriore passo di grande importanza lungo quel cammino che Regione Lombardia da anni sta compiendo per realizzare a pieno la dignità dei detenuti e contribuire al loro recupero sociale, durante e dopo la detenzione, in vista di un pieno reinserimento nella comunità civile - ha affermato Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, che negli ultimi 5 anni ha finanziato 140 progetti con un investimento di quasi 9 milioni di euro-. Noi abbiamo il compito di garantire l’amministrazione della giustizia ma anche di garantire sempre la dignità della persona del detenuto e tanto più di rispondere alle necessità, in questo caso di bambini, che non devono soffrire in nulla relativamente alle condizioni delle loro madri, né devono essere limitati in alcun modo nel loro sviluppo sereno e armonico. È il primo progetto in Italia di questo tipo e c’è la volontà di costituire un modello cui possano riferirsi in futuro altre regioni italiane". "Su questo progetto c’è stata una grande determinazione, un lavoro che l’amministrazione provinciale ha seguito grazie all’impegno e alla passione e alla sensibilità dell’assessore Francesca Corso che ringrazio pubblicamente -ha detto Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano-. Devo ringraziare anche la mobilitazione dell’opinione pubblica e ringrazio Candido Cannavò, una delle personalità che in questi mesi più si è impegnata perché questo diventasse un tema irrinunciabile per chi volesse collaborare seriamente rispetto ai temi del carcere. Questo momento di grande importanza e un segno di grande civiltà che Milano e le istituzioni milanesi oggi si impegnano a realizzare. Un altro impegno che ci siamo presi con Francesca Corso è trovare una sede per le attività lavorative, a partire dal laboratorio di sartoria". "Quanti problemi incontrano vivendo in carcere in un momento così delicato della loro crescita, quanti ostacoli al loro diritto alla serenità, ad una vita tranquilla?", si è chiesto il sindaco di Milano, Gabriele Albertini. "È una questione drammatica -ha proseguito il primo cittadino-: dobbiamo proteggere questi bambini, tutelare il loro bisogno di stare accanto alle madri in un ambiente che il più possibile infonda un sentimento di fiducia e favorisca un rapporto normale con la mamma. Per questo abbiamo pensato ad una struttura carceraria, che tenga conto delle esigenze di chi è bambino, che assomigli ad una casa e che non sia impenetrabile, ma consenta ai piccoli contatti quotidiani con il mondo esterno, e qui entra in scena il Comune. Il nostro assessorato all’Educazione e l’assessorato ai Servizi sociali per la sua parte di delega, garantirà la frequenza dei servizi territoriali esterni per la prima infanzia: asilo nido e delle attività per il tempo libero". Bergamo: "agente di rete" aiuterà detenuti nel reinserimento
Ansa, 23 marzo 2006
Favorire i percorsi di reinserimento sociale dei detenuti, è l’obiettivo del cosiddetto "agente di rete", cioè l’educatore professionale che, a partire dalle prossime settimane, opererà all’interno della casa circondariale di via Gleno, a Bergamo. L’agente di rete avrà il compito di creare un collegamento con le istituzioni locali e le realtà produttive del territorio, allo scopo di promuovere forme di reinserimento delle persone recluse. Il progetto, promosso dal Comune di Bergamo e presentato stamani nella sede municipale di Palazzo Frizzoni, attinge ai fondi istituiti con la Legge regionale del febbraio 2005 che, secondo l’assessore ai Servizi sociali, Elena Carnevali, "rappresenta un’occasione preziosa per infrangere le barriere che dividono la società civile dalla realtà carceraria". Referente dell’iniziativa che, per ora di carattere sperimentale, avrà valenza triennale, ma potrà essere successivamente rinnovata, sarà l’associazione "Carcere e territorio", da anni attiva all’interno della struttura di via Gleno con interventi diversificati a favore dei detenuti. Grazie al finanziamento del "Pirellone", l’agente di rete sarà presenta accanto ai detenuti per 600 ore l’anno. Alle opportunità di reinserimento potranno alla fine accedere soltanto i condannati definitivi. "Questa presenza - ha sottolineato il direttore della casa circondariale, Antonio Porcino - costituisce un’occasione importante per creare nuovi spazi e incentivare nuove relazioni. Sarà, insomma, un tramite con tutto ciò che si muove sul territorio in modo da rendere effettivo quel reinserimento sociale che, troppo spesso, rischia di restare lettera morta". Genova: consiglio provinciale approva documento per detenuti
Adnkronos, 23 marzo 2006
Non dimenticare chi sta dietro le sbarre. Lo chiede il consiglio provinciale di Genova, che ha votato all’unanimità la mozione sulla situazione penitenziaria sottoscritta da tutti i membri della commissione speciale carceri del consiglio. Il documento impegna il presidente della provincia e la giunta a farsi promotori di "un appello ulteriore a tutte le forze politiche presenti nel governo regionale, nel parlamento e nel prossimo governo nazionale" perché si impegnino "in modo serio, responsabile e concreto, nella formulazione di atti legislativi in grado di fornire risposte alle richieste dei detenuti e del personale penitenziario" e conferma "l’impegno dell’amministrazione provinciale per la realizzazione di interventi in questo ambito, coadiuvando il lavoro della commissione speciale carceri con il contributo dei vari assessorati." Lettere: sono appena arrivato a Sassari… carcere e topi!
www.radiocarcere.it - Il Foglio, 23 marzo 2006
Appena arrivato nel carcere di Sassari mi hanno messo in un camerone. Ovvero una grande cella che è quella dove vengono messi i detenuti appena arrivati (c.d. cella di transito). È uno stanzone brutto e fatiscente, con una puzza incredibile e topi che giravano insieme a noi. Dentro 24 posti letto. Letti a castello murati nelle pareti della cella. E poi sporcizia da tutte le parti e un bagno coperto di merda. Lì dopo essermi guardato intorno mi sono chiesto: "ma dove sono capitato?". Per cena ci hanno dato della pasta fredda e dura. Abbiamo mangiato in silenzio e dopo, stanchi per il lungo viaggio, ci siamo messi a dormire su quei letti con le lenzuola sporche. Ad un cero punto, mentre cercavo di prendere sonno, ho sentito un peso sulla pancia. Ho detto: "cosa sarà?". Ho alzato la testa e ho visto che sopra di me c’era un bel topastro. Si un topo che sarà pesato un chilo o un chilo e mezzo. Il classico topo di fogna che io da buon marinaio conosco bene. Dopo qualche giorno mi hanno trasferito nelle celle "normali" del carcere di Sassari. Mentre preparavo le mie poche cose ero sollevato perché pensavo "beh peggio di così non potrò stare". Evidentemente mi sbagliavo. Infatti mi hanno chiuso in una piccola cella dove dentro ho trovato altri 7 detenuti. Ed anche in questa cella i topi, sempre gli stessi che uscivano dal cesso alla turca. Noi e i tipo restavamo chiusi in quella cella per 22 ore al giorno. Nel carcere si Sassari ci vuole una grande forza di volontà per non attaccarsi una corda al collo, perché lì ti rimane molto poco.
Andrea 46 anni Brasile: sette detenuti morti in rivolta carcere San Paolo
Adnkronos, 23 marzo 2006
Sono almeno sette le vittime di una rivolta in un carcere brasiliano, il penitenziario di Jundiai, nello Stato di San Paolo. La rivolta è in corso da 24 ore e inizialmente alcuni detenuti hanno preso in ostaggio agenti di guardia e poliziotti. I sette detenuti sarebbero morti per asfissia dopo che alcuni carcerati hanno dato fuoco a mobili e materassi. La struttura è circondata da uomini della polizia, che sta conducendo le trattative con i detenuti attraverso due funzionari.
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