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Lodi: storia di Giovanna e Giuseppe di Andrea Boraschi e Luigi Manconi
L’Unità, 31 gennaio 2005
"Dall’inizio di dicembre 2005, detta Direzione mi poneva in essere pareri ostativi per il colloquio con il mio convivente in quanto al dire di questa non vi erano i presupposti...". Questo breve passo di prosa burocratica contiene, in realtà, un dramma e racconta una storia di ordinaria sciatteria penitenziaria: la storia di Giovanna D., 40 anni, milanese, che ha sporto denuncia contro la direzione del carcere di Lodi perché le impedisce di fare visita al suo compagno, lì recluso. La nuova direttrice di quell’istituto ha deciso che i colloqui possono essere concessi solo ai parenti "in regola". E Giovanna e Giuseppe (questo il nome del detenuto) in regola non lo sono: perché non hanno contratto matrimonio. "Io amo mio marito, non siamo sposati è vero, ma io lo considero mio marito. Fateglielo sapere che non mi fanno entrare, diteglielo che non l’ho abbandonato". Così si esprime questa donna. Alla quale verrebbe da dire: "Ma benedetta signora, perché non te lo sei sposato? Non sai che in questo paese ai conviventi non sono riconosciuti i diritti più elementari?". Già, perché la coppia in questione era convivente: e mica da un giorno,ma dal lontano 1999 e fino al 2004, anno dell’arresto di lui. Giovanna ha pensato bene che tanto bastasse a dimostrare la loro unione familiare: quindi, su richiesta della stessa direzione, ha presentato (riportiamo dalla denuncia) "un certificato dello stato di famiglia, di residenza, di anagrafico storico dal quale evidenzia che lui è effettivamente residente nella mia abitazione dal 1999 e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà more uxorio". Poteva bastare? Evidentemente no. La direttrice deve aver pensato bene che, in assenza di una normativa che tuteli simili unioni, di tutte quelle carte poteva tranquillamente farsene beffa. E così, in effetti, ha fatto. Carte bollate, certificati e altri atti burocratici non sono servite neppure a far recapitare a Giuseppe un pacco natalizio di vivande e regali (un po’ di cibo, qualche maglione...). Tutto rispedito al mittente. Ma non si tratta esclusivamente di una vicenda personale. Più in generale, volontariato e associazioni attive in quel carcere lamentano il blocco delle attività di formazione e un atteggiamento autoritario, che è giunto persino a negare il permesso per un dibattito antimafia, che si doveva tenere in quell’istituto, per non meglio precisate divergenze rispetto "all’impostazione politica e di parte dell’iniziativa"; e che ha interrotto un esperimento unico in Italia: un inserto di 4 pagine, una volta al mese, pubblicate sul quotidiano locale, "Il Cittadino", e scritte dai detenuti. "Uomini liberi", era il titolo di quello spazio, ora soppresso. Ma torniamo alla vicenda di Giovanna e Giuseppe. I due non sono, in ogni caso, nelle condizioni di sposarsi (qualora lei lo volesse, qualora lui lo desiderasse), perché lei risulta sposata con un uomo, che denunciò per maltrattamenti e che si rese irreperibile per sottrarsi all’arresto: e dal quale, pertanto, non può neppure separarsi e poi divorziare. Questo succede nell’Italia senza Pacs e "unioni civili": ovvero che una persona rischi di rimanere sposata a un balordo, e che quel vincolo impedisca di veder riconosciuta dallo stato ogni successiva relazione. E che all’ uomo che ami e con il quale hai vissuto per cinque anni non puoi neppure mandare un pacco di lenticchie per Natale. Speriamo solo che Giuseppe, in carcere, possa leggere questo giornale. Noi il messaggio, almeno quello, glielo recapitiamo: "Caro Giuseppe, Giovanna non si è scordata di te. Ti ama e ti pensa, si sta dando da fare per tornare presto a farti visita. Tieni duro". Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto. Giustizia: Arci; preoccupazione per il dopo-elezioni della sinistra
Redattore Sociale, 31 gennaio 2005
"La nostra preoccupazione è che dopo le elezioni i politici di centro-sinistra ripropongano le paure degli italiani su immigrazione, carceri e tossicodipendenze, temendo di perdere consensi, senza una proposta convincente per l’opinione pubblica". In un confronto svoltosi oggi all’Hotel Nazionale tra esponenti politici dell’Unione (alla vigilia della presentazione del programma unitario) con associazioni e movimenti, il responsabile per l’immigrazione dell’Arci, Filippo Miraglia, ha annunciato: "Non faremo domande comode: vogliamo svolgere anche con il futuro Governo (anche se vicino culturalmente) una funzione di critica, di stimolo costruttivo, e gli chiederemo di scegliere in maniera chiara l’uguaglianza dei diritti per tutti, diritti riconosciuti dalla legge e dalla Costituzione. La frattura che si è creata è da sanare con una risposta alternativa". "Libertà e diritti: oltre la logica del proibizionismo. Immigrazione, tossicodipendenze e carcere nel programma dell’Unione" era il tema dell’incontro – promosso dall’Arci in vista del suo congresso nazionale - a cui hanno partecipato diversi esponenti politici del Centro-sinistra. "Da parte loro abbiamo registrato la disponibilità al confronto, ma siamo ancora in una fase interlocutoria", ha aggiunto Miraglia, ricordando "l’ottica restrittiva con cui questo Governo ha affrontato le problematiche legate a immigrazione, carceri e tossicodipendenze. Basti pensare alla legge Bossi-Fini, alla mancata amnistia o al recente decreto legge che equipara droghe leggere e droghe pesanti, il consumatore allo spacciatore. Siamo di fronte a una situazione di libertà e diritti deteriorati: gli interventi legislativi e di cultura politica sono stati devastanti per la democrazia". Tuttavia l’opposizione - critica Miraglia - "non è stata all’altezza della situazione: si è limitata a parare i colpi o a proporre un protezionismo mitigato: pensiamo alla vicenda dei Cpt, del resto ideati dal precedente senza proporre con convinzione una cultura alternativa. Chiediamo invece che venga abolita la Bossi-Fini, che non si propongano misure limitative alla libertà dei poveri: ad esempio, l’attuale riforma della giustizia peggiora la condizione dei detenuti recidivi". Roma: non paghi al casello? ci pensano i detenuti di Rebibbia
Redattore Sociale, 31 gennaio 2005
Non paghi al casello? A segnalare l’infrazione ci pensano i detenuti di Rebibbia. Da luglio 2005 "Autostrade spa" ha appaltato alla cooperativa sociale Pantacoop una commessa di 77mila euro per registrare i numeri di targa dei trasgressori. La cooperativa del V° municipio ha così assunto, con contratto part-time e a tempo determinato, 8 lavoratori detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere "Rebibbia nuovo complesso". Ogni giorno la società Autostrade invia ai 4 computer di Rebibbia 9-10mila foto di auto che hanno commesso l’infrazione. Il compito degli 8 telelavoratori, che si alternano in due turni giornalieri, è registrare i numeri delle targhe che non visibili alla lettura automatica. Il rispetto della privacy è assicurato dall’assenza di informazioni su luogo e ora di transito e dalla distruzione della foto al termine della segnalazione. Nell’ambito dello stesso progetto, il gruppo Autostrade ha previsto l’assunzione diretta di un altro detenuto per 20mila euro lordi annui. La persona, selezionata tra i detenuti candidati in base a condizioni di merito, dal 1 marzo 2006 farà parte dell’organico della società con un contratto di lavoro subordinato, svolgendo le sue mansioni fuori dal carcere, nella sede romana del gruppo. Salgono così a 9 le assunzioni rese possibili grazie al contributo di Autostrade, la maggiore delle 23 società che gestiscono la rete autostradale nazionale e che copre il 60% dei collegamenti grazie ai suoi 9mila dipendenti. Il rapporto è di un lavoratore detenuto ogni 1.000 in libertà, in linea con il rapporto di 1 a mille della popolazione carceraria sul totale dei cittadini italiani - fa notare l’amministratore delegato del gruppo, Vito Gamberale. "Questo progetto - dichiarato l’ad della Società - è importante per la sua innovatività e riteniamo possa concorrere ad offrire un futuro a chi sta scontando un debito con la giustizia". "Le due esperienze di collaborazione avviate con il Gruppo Autostrade - afferma il direttore del Carcere di Rebibbia, Carmelo Cantone - aprono eccezionali prospettive in materia di lavoro penitenziario e di coinvolgimento delle grandi aziende private italiane nella gestione del disagio sociale". Il direttore non nasconde il desiderio che la presentazione alla stampa dell’iniziativa faccia da volano per promuovere simili progetti con altre grandi società del Paese e dichiara: "Se le grandi imprese si facessero carico dell’assunzione anche di un solo lavoratore detenuto o che sta scontando una pena alternativa, si attenuerebbe il costo sociale della detenzione e il problema dell’inserimento lavorativo al momento della dismissione". Soddisfatti i detenuti assunti dalla Pantacoop. Per Giovanni, napoletano di origine, in carcere per estorsione è "un’entrata economica ed un modo per non essere di peso alla famiglia" ma soprattutto "un modo per impegnare la giornata e mantenere un filo di speranza". Soddisfazione anche per il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni: "Un’esperienza assolutamente innovativa e inedita che, in una situazione eccezionale come quella dell’alta sicurezza". "I detenuti -conclude Marroni - avranno un ruolo ausiliario ai fini del rispetto delle regole e della legalità". Stando ai dati ufficiali 2005 del Dap, lavorano 13mila detenuti sui 60mila totali. Di questi però la maggioranza, circa 10mila, sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e solo 3mila lavorano per fornitori esterni, all’interno del carcere oppure fuori in misure di semilibertà. A Rebibbia sono circa 500 i detenuti lavoratori, su un totale di 1.514 persone recluse al 1 gennaio 2006. Di questi nessuno lavora all’esterno del carcere e 80 sono alle dipendenze di 8 datori di lavoro esterni. È quest’ultima la direzione scelta da Cantone, che afferma: "Il carcere deve sempre più scambiare servizi con l’esterno ed avvicinarsi al territorio". Ancona: tenta di evadere a soli due giorni dal fine pena
Il Messaggero, 31 gennaio 2005
Fori sulla parete della cella, occultati grazie all’applicazione di gomme da masticare riciclate dopo l’uso. Occultati sì, ma non abbastanza da evitare che una guardia penitenziaria si accorgesse delle scalfitture nel corso di un’ispezione di routine. È così che a Nikolin Murataj sono stati contestati i reati di tentata evasione e danneggiamento a soli due giorni dal suo ritorno in libertà. Per lui ha di conseguenza avuto inizio la relativa vicenda giudiziaria. Ieri la prima udienza del processo. L’albanese, ora 35enne e all’epoca recluso nel carcere di Montacuto, avrebbe secondo l’accusa realizzato i buchi sulla parere confinante con l’esterno adoperando una delle barre del letto a mò di scalpello. Ma il 22 dicembre del 2000 il fatto era stato scoperto. Quel giorno il personale di custodia riscontrò dietro un termosifone una piccola rientranza nel muro. Ma la nicchia, nella quale erano state applicate diverse gomme da masticare, non era così profonda da risultare assimilabile ad un foro. Quello che viene naturale chiedersi è il perché del suo gesto. Ovvero: perché un detenuto albanese avrebbe dovuto tentare di evadere dal carcere di Montacuto se la sua liberazione era prevista due giorni dopo il fatto? È quello che si è chiesto, ponendo la stessa domanda in aula di fronte al giudice monocratico Cantanrini, l’avvocato Marco Fanciulli, al quale è stata affidata la difesa d’ufficio di Nikolaj. Due giorni dopo l’uomo sarebbe uscito dal carcere. Nikolin aveva ormai scontato per intero la sua pena. Gli sarebbe stato necessario molto più tempo per ricavarsi la via d’uscita piuttosto che attendere pazientemente il giorno della scarcerazione. Inizialmente era stato indagato anche il suo ex compagno di cella, sudamericano la cui posizione è stata però successivamente stralciata. La guardia penitenziaria non era mai stata in grado di affermare con assoluta certezza a chi dei due fosse da imputare il fatto. Nikolaj risulta attualmente libero e irreperibile. Il processo è stato rinviato al 20 febbraio. Pordenone: il vescovo; il carcere e un problema vergognoso
Il Gazzettino, 31 gennaio 2005
Lo definisce "un problema annoso e vergognoso", al quale va offerta "finalmente una soluzione positiva". Chi parla è il vescovo, Ovidio Poletto. Si parla del vetusto Castello di Pordenone. Ieri alle 9.30 il presule ha voluto varcarne le soglie. "Ogni volta che visito la Casa circondariale o incontro i familiari dei detenuti - riflette - nascono in me interrogativi a cascata. È umano ciò che i carcerati stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve alla riabilitazione? Cosa guadagna e cosa perde la società da un sistema del genere?". Risposte non facili, con un quesito ulteriore: "Quale ideale di giustizia rappresenta questo modo di trattare i colpevoli?". "Ciascuno di noi - parola di vescovo - è chiamato ad assumersi gli oneri necessari a ridurre i fattori che favoriscono scelte sbagliate e zone d’ombra, economiche e sociali, dove devianza e criminalità crescono". Non bastano le nuove leggi, le riforme strutturali, i rinnovati programmi politici? "Bisogna innanzitutto agire sulle persone, dall’interno, contrastando quel processo di massificazione che aliena. È necessario appellarsi alla singola persona e alla libera volontà di ciascuno. Ognuno deve essere trattato e spinto ad agire come persona umana responsabile". Ma è possibile, anche dal male del carcere, trarre un bene per la società? "Credo di sì - risponde Poletto -. Per questo è necessario testimoniare la fiducia nei detenuti e nella loro capacità di compiere un cammino di speranza e verità. Vanno creati per gli ex reclusi posti di lavoro adeguati, che diano significato alla loro vita e assicurino alle famiglie un’esistenza. È necessario facilitare un reinserimento positivo nella comunità, consentire di rivalutare in favore di altri, soprattutto i giovani, la loro esperienza di male e sofferenza". Le pene detentive, in termini costituzionali, hanno la mission di riabilitare. "Mi viene in mente un passo della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 - puntualizza il pastore diocesano -. Dice testualmente: "Deve essere attuato un trattamento educativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale dei colpevoli". Di fatto le cose vanno diversamente. Continuo ad augurarmi che si giunga almeno alla semplice attuazione delle norme. Sarebbe un passo avanti sulla via della giustizia giusta. Mi permetto di auspicare, in questo contesto, che finalmente si dia soluzione al problema annoso e vergognoso del carcere pordenonese". Come rendere possibile la rieducazione? "Partendo dalla la parabola del figliol prodigo, penso a tre condizioni. La prima: aiutare il colpevole a riconoscere la realtà del mondo, dalla quale si era allontanato negandola con l’infrazione della legge o con la condanna della società. La seconda: insegnare ad appagare in maniera giusta i bisogni fondamentali, partendo dai quali è avvenuta la devianza. È il bisogno di sentirsi un valore per sé e per gli altri, non una nullità e un peso. La terza: educare alla responsabilità". Perugia: con la provincia la formazione entra in carcere
Umbria Live, 31 gennaio 2005
La Provincia di Perugia a sostegno dei progetti di istruzione didattico–educativi presentati dall’istituto tecnico commerciale "A. Capitini" e dall’associazione "Mente Globale" di Perugia. "Offerta formativa Is.Pe" è il progetto presentato dal Capitini che già negli anni scorsi aveva realizzato una proposta formativa sperimentale, in convenzione con il Cpt di Ponte S. Giovanni, rivolta ai detenuti della casa circondariale di Perugia. "Un viaggio in Umbria", invece, è il lavoro presentato da "Mente Globale". Si tratta di un libro da presentare nelle scuole superiori della provincia di Perugia per sensibilizzare i giovani circa le problematiche storiche, culturali ed ambientali del nostro territorio viste attraverso il viaggio sulla Fcu, un vettore importante per la mobilità regionale che deve essere conosciuto e riscoperto. Aosta: presentati i risultati di un corso di grafica in carcere
Più Press, 31 gennaio 2005
Si chiamano Antonino, Antonio, Alessandro, Domenico Donato, Maurizio, Orazio, Sergio e Vincenzo. Sono i partecipanti ad un percorso formativo per "Operatori Pc addetti alla grafica" promosso ed attuato dal Projet Formation, in collaborazione con la casa circondariale di Brissogne, e realizzato con il contributo del Fondo sociale europeo. I risultati di questa iniziativa - oltre 500 ore di corso di cui 250 in autoformazione - sono state presentate oggi, lunedì 30 gennaio, in una sezione dell’istituto penitenziario alla presenza, tra gli altri, di Carmela Fontana , assessore alle politiche sociali del Comune di Aosta e di Nadia Savoini, direttrice dell’Agenzia regionale del lavoro. Ogni partecipante ha, quindi, esposto e mostrato sinteticamente i suoi lavori: calendari multicolore creati usando la tecnica del fotomontaggio e del fotoritocco, lunari e ricettari di vari tipi e ancora pieghevoli e presentazioni in power point. Un lavoro di mesi che ben si sintetizza nella frase che i detenuti hanno voluto riportare nella parte introduttiva della presentazione dei loro risultati: "la fiducia, l’impegno, il denaro investito hanno fatto fiorire in questi mesi capacità e punti di forza che spesso nella situazione vissuta sono assopiti". E la condizione di noia, di generale apatia e di mancanza di stimoli è quella che, con più emergenza, i detenuti hanno evidenziato e denunciato alle persone esterne. Dalle ore di formazione, condotte da Domenico Rocca come docente informatico e coordinate da Antonella Poliani, referente del progetto, è nato anche un numero di una rivista. "L’Aurora", questo il titolo scelto per questa pubblicazione, raccoglie articoli su vari argomenti, ricette di cucina, ma anche riflessioni e testimonianze sul mondo carcerario. Al termine di questa esperienza, l’aspettativa dei detenuti e degli stessi promotori del corso è quella non disperdere il lavoro fatto e le competenze acquisite. Una strada possibile, anche se difficile, è quella di trovare partner istituzionali e realtà esterne con cui progettare e supportare la possibilità di affidare alcuni lavori di grafica e impaginazione ai coloro che hanno terminato il corso. Torino: avvocati e carcere; per migliorare condizione dei detenuti
Osservatorio sulla legalità, 31 gennaio 2005
Migliorare le condizioni delle persone detenute. È questo il fine del protocollo d’intesa siglato la settimana scorsa a Torino fra la Casa Circondariale, il locale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna e la Camera Penale "Vittorio Chiusano" del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta. I rappresentanti di tali istituzioni si sono impegnati a predisporre un vademecum di primo ingresso per le persone detenute, a creare un canale di comunicazione di casi particolari riguardanti le condizioni di salute ed esigenze familiari dei detenuti, ad istituire un tavolo di confronto sulle problematiche penitenziarie riguardanti gli stranieri detenuti, nonché ad un reciproco coinvolgimento nella attività didattica e formativa del personale di polizia penitenziaria e per la formazione del difensore penale. Si tratta della prima esperienza di questo tipo in Italia che vede coinvolti avvocati ed operatori carcerari con l’obiettivo di far sì che la pena sia quanto più possibile rispondente ai requisiti di umanità ed alle finalità rieducative previste dalla Costituzione. La firma del protocollo - cui erano presenti il dott. Pietro Buffa, direttore della Casa Circondariale, la dott. Alessandrina Astuti, direttrice dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna, e gli avvocati Antonio Rossomando, Lorenzo Trucco e Cosimo Palumbo, rispettivamente presidenti del Consiglio dell’Ordine, dell’A.S.G.I. e della Camera Penale - è giunta al termine di un iter che ha richiesto il placet dell’amministrazione penitenziaria. Gli avvocati penalisti hanno espresso in più occasioni - attraverso il loro segretario nazionale Ettore Randazzo - preoccupazione per le recenti riforme della giustizia e la creazione via via di una giustizia debole con i forti e forte con i deboli. Particolare allarme è stato sollevato dagli avvocati penalisti sulla ex Cirielli, per la quale sono state realizzate e sono previste agitazioni.
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