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Massa: s’impicca nella cella che condivideva col fratello
Il Tirreno, 24 febbraio 2006
Ha strappato un lenzuolo e lo ha rigirato a mo di corda, poi ha legato la fune alle sbarre del bagno della sua cella e si è messo il cappio al collo. Infine è salito su uno sgabello e si è lasciato andare penzoloni. A pochi metri da quei suoi ultimi respiri stavano dormendo il fratello e un altro detenuto. L’altra sera si è tolto la vita così M.R., 45 anni, venditore di cocco napoletano finito nel carcere di Massa per un accumulo di pene l’estate scorsa. Non se lo aspettava nessuno un gesto del genere da un uomo così. Non se lo aspettava il fratello, di due anni più giovane e come lui finito in carcere per dei piccoli reati; non se lo aspettava neanche l’altro detenuto. I tre avevano visto la partita di Champions League mercoledì, quella dell’Inter. Avevano esultato per le reti dei nerazzurri, poi avevano preso i farmaci prescritti dal medico della casa circondariale ed erano andati a dormire. Erano da poco passare le 23. L’ex venditore di cocco sulla spiaggia ha deciso di impiccarsi proprio mentre a Massa si verificava un black out. Una prima interruzione di corrente, qualche istante di luce e poi ancora buio. In mezzo un po’ di grida di scherno di chi stava dietro le sbarre ("pagate la luce"). Il caos ha svegliato il compagno del suicida, che si è alzato per andare a fare pipì. Arrivato sulla soglia della porta ha lanciato un urlo. A quel punto gli agenti hanno cominciato a controllare le celle con le torce elettriche. Quando sono arrivati davanti alla stanza occupata dai due fratelli sono entrati e hanno visto M.R. penzoloni. Quando lo hanno tirato giù l’uomo era cianotico, ma il cuore seppur debolmente batteva ancora. Il medico di guardia, che si trovava al piano di sopra, ha tentato di rianimarlo. Inutilmente. Lo hanno portato in infermeria, gli hanno fatto un elettrocardiogramma. E hanno dovuto arrendersi al decesso. Ma perché M.R. si è tolto la vita? Qualcuno dice che era depresso da diverso tempo, chi gli è stato vicino fino all’ultimo però non la pensa così. Stava male da giorni: aveva dei dolori addominali che non lo facevano dormire la notte. Aveva fatto degli accertamenti, anche una visita specialistica. Non gli avevano trovato niente, gli aveva prescritto una cura ma nulla di importante. Temeva che non lo volessero curare e si è lasciato andare. In fondo per deprimersi basta poco e anche il più piccolo problema a quel punto pare una disgrazia. L’altra sera ha deciso che era meglio farla finita. Il carcere visibile e l’inferno invisibile, di Sergio Segio
La Repubblica, 24 febbraio 2006
Il titolo della manifestazione inaugurata ieri e che occuperà ben tre settimane degli eventi della Triennale di Milano, "La rappresentazione della pena", dovrebbe forse trasformarsi in una domanda. Si possono veramente descrivere il carcere e la privazione della libertà? Ma anche: ha senso parlare di carcere al singolare?I dati e le esperienze dovrebbero deporre per il no. Del carcere conosciamo al più, quando ci sono, l’asilo nido e le "sezioni modello", quelle dove si fa riabilitazione per i tossicodipendenti, teatro, scuola, il giornalino interno, magari addirittura si impara un lavoro.Poi c’è il resto. Ed è la gran parte. Invisibile. Stratificato come i gironi dell’inferno. Alcuni così profondi e bui da risultare sconosciuti anche agli "addetti", ai volontari, a quei rari parlamentari che ogni tanto si recano in visita.Rappresentare la pena significa illuminare ogni angolo. E neppure basterebbe. Perché la mancanza di libertà non si lascia raccontare, né tanto meno fotografare. Come ogni esperienza limite, tortura l’animo e facilmente schianta le persone. Assai più raramente le migliora, e dipende più dalle persone che non dal luogo.Ma per conoscerla, dice Valerio Onida - presidente emerito della Corte Costituzionale, ora volontario nel carcere di Bollate - occorre sapere che "il carcere reale si capisce solo dalla parte sbagliata delle sbarre". Lo ha scritto nel corposo numero della rivista "Communitas" diretta da Aldo Bonomi, realizzato appositamente per l’evento della Triennale e che rimarrà come un utilissimo e documentatissimo vademecum per chi voglia capire e riflettere davvero sulla pena e sul suo senso. Sempre che un senso ci sia. Perché, per quanto scomoda, rimane indiscutibile un’osservazione del filosofo e sindaco di Venezia Massimo Cacciari: "Che senso ha rieducare alla libertà togliendola?". E potremmo aggiungere: che risultati ci si aspettano dal rinchiudere ogni anno decine di migliaia di tossicodipendenti, anziché sostenerli sul territorio? Questo è uno dei punti di drammatica attualità che verranno discussi oggi alle 17,30 in viale Alemagna dai presidenti delle associazioni e delle comunità, in uno dei dibattiti più significativi della Triennale. Descrivere la situazione penitenziaria solo come un "inferno" sarebbe però irrispondente e ingeneroso nei confronti dei tanti operatori motivati e coscienziosi. Vero è che del "miele" del carcere (appunto il teatro, le sezioni modello, i siti web, i libri di ricette, etc.) conosciamo tutto; quasi nulla sappiamo invece sul "fiele", vale a dire sulle carenze, violazioni, talvolta violenze. Sono due facce compresenti, che dovrebbero essere percepite come conflittuali e dunque risolte, con un cambiamento di tutto ciò che produce quel fiele, rendendo così il carcere più civile e, assieme, rispettoso della legalità e delle sue proprie norme e finalità costituzionali. Precondizione per farlo è conoscere anche la faccia meno illuminata. Per questo motivo, domani, in uno dei momenti centrali della rassegna della Triennale (il programma completo è su www.dirittiglobali.it), si terrà un confronto tra i detenuti "giornalisti", che producono le riviste del carcere (recentemente federate a livello nazionale), i volontari che le supportano e gli studenti delle scuole di giornalismo di Milano, l’Ordine e i professionisti dell’informazione. Per trovare il punto di contatto e relazione, possibile e necessario, tra chi guarda questa difficile realtà dalla parte sbagliata delle sbarre e chi da quella giusta. Delle pene innominabili, di Sergio Segio
Fuoriluogo, 24 febbraio 2006
"La rappresentazione della pena", titola l’evento della Triennale di Milano in programma dal 23 febbraio al 19 marzo. "Carcere invisibile e corpi segregati", continua il sottotitolo dell’ampio programma, che prevede decine di incontri, oltre a mostre, teatro e cinema (programma e info su www.dirittiglobali.it). Se il carcere è invisibile è perché si vuole che così sia. Se è impedito alla conoscenza e all’informazione, di esso si può dire qualsiasi cosa, senza vincolo di aderenza ai fatti. Così può avvenire che il ministro competente, a bilancio della legislatura, affermi compiaciuto che "in questi anni abbiamo dovuto fronteggiare un consistente aumento della popolazione penitenziaria: la soddisfazione è che siamo riusciti a farlo garantendo la sicurezza dei cittadini e anche la pace all’interno dei penitenziari. Infatti, questi cinque anni sono passati senza proteste". E invece basterebbe scorrere le cifre (ufficiali, del ministero stesso) per sapere che nel solo 2004 nelle carceri vi sono state 330 manifestazioni di protesta collettive (di cui 149 per l’amnistia e indulto e 125 per denunciare le condizioni di vita), cui hanno partecipato 49.444 detenuti, mentre quelle non collettive sono state 10.268; nello stesso anno vi sono stati almeno 52 suicidi, 713 tentati suicidi e 5.939 episodi di autolesionismo, che spesso costituiscono proprio gesti di estrema e disperata protesta. Altro che pace: le carceri permangono quali angoli di inferno dentro le città, dove sempre più debolmente si dibattono decine di migliaia di persone, deprivate di dignità e ridotte a vite nude. Angoli d’inferno tenuti nascosti, voluti invisibili. E, proprio come l’inferno, stratificati in gironi - tanto che parlare di carcere al singolare è fuorviante e irrispondente -, alcuni dei quali sono precipitati tanto in basso nel pozzo da essere divenuti innominabili. È il caso del 41 bis, l’ignobile carcere duro che, con uno dei rari provvedimenti bipartisan, è divenuto norma stanziale e non più temporanea. Ciò pone alcune domande anche a chi nel carcere lavora o vi è impegnato: la pena è davvero rappresentabile? Conosciamo ciò di cui parliamo? Sappiamo guardarlo? Le nostre affermazioni, i discorsi dei convegni trovano azioni conseguenti? L’assenza di informazione deriva solo dalla disattenzione dei media e dalla supposta indifferenza della pubblica opinione? A queste e altre domande tenteranno di rispondere alcuni dei momenti di confronto previsti nella Triennale. In particolare quello di sabato 25 febbraio, quando la Federazione nazionale giornali del carcere incontrerà gli studenti delle scuole di giornalismo, l’ordine dei giornalisti e vari operatori dell’informazione. Il criminologo norvegese Nils Christie ha osservato: "Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della "erogazione della pena". Noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale, ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi". L’impressione, in effetti, è che non solo i criminologi e i sociologi ma i politici e talvolta anche le associazioni e gli operatori democratici che operano all’interno delle strutture siano divenuti ciechi, e magari anche sordi e muti. Cresce allora un’urgenza: quella di rendere il carcere se non trasparente, che è costitutivamente impossibile, almeno luogo aperto ai controlli e all’informazione. Non si può rappresentare la pena se non si illumina (in tutti i suoi oscuri meandri e non solo nelle "sezioni modello") il luogo dove principalmente essa si svolge. Quanto ciò sia ostacolato lo racconta da ultimo l’accantonamento della legge tesa a istituire un Garante nazionale delle persone private della libertà, ma quotidianamente anche l’esperienza di volontari e operatori. Chissà se l’evento di Milano riuscirà a contribuire a socchiudere il portone, ad aprire gli occhi e le coscienze. Giustizia: Cgil denuncia carenze a Pesaro e Fossombrone
Agi, 24 febbraio 2006
Sono 260 i detenuti nel carcere pesarese di Villa Fastiggi, mentre la struttura dovrebbe ospitarne non più di 130; anche al supercarcere di Fossombrone (Pesaro e Urbino) esiste una situazione di sovraffollamento, meno drammatica, ma permangono i problemi irrisolti di organico. La denuncia è della Fp-Cgil che, anche in chiave locale, mette sotto la lente di ingrandimento le due strutture penitenziarie della provincia di Pesaro e Urbino. Secondo la segreteria provinciale, il carcere di Pesaro "non si sottrae al drammatico sovraffollamento delle carceri italiane", con l’aggravante di "una carenza d’organico di polizia penitenziaria anch’essa intollerabile". "Gli avvicendamenti alla direzione dell’istituto - riferisce la sigla sindacale - non aiutano sicuramente a dare risposte che abbiano il carattere della continuità e della congruità rispetto alla gravità dei problemi che i lavoratori e le lavoratrici del carcere pongono". Problemi anche a Fossombrone, "anche per la complessità e per tipologia di reclusione lì detenuti". La segreteria pesarese della Fp-Cgil auspica che "si agisca congiuntamente, affinché ci sia rispetto per le condizioni materiali di vita degli operatori e dei detenuti e perché quel senso di giustizia che appare ormai sottratto ai luoghi di detenzione venga restituito a chi nelle carceri ci vive e ci lavora". Giustizia: Margherita; riflettiamo sulla detenzione dei minori
Ansa, 24 febbraio 2006
Avviare una riflessione sulla detenzione dei minori in Italia. A questo tema è stato dedicato il seminario "Il futuro a colori", organizzato a Roma dai Giovani della Margherita. L’incontro rappresenta il "punto di arrivo di un percorso che ha preso il via con una serie di visite organizzare dai Giovani DL negli istituti penali minorili, in tutta Italia". Per questo sono state presentati dei dossier realizzati durante le visite, con una attenzione particolare alle principali criticità del sistema e alle proposte operativa "per un generale ripensamento della giustizia minorile nel nostro Paese". "L’iniziativa vuole fornire una fotografia sullo stato delle carceri minorili nel nostro Paese - ha spigato Luciano Nobili, coordinatore nazionale dell’esecutivo dei giovani della Margherita - e riportare al centro del dibattito politico una realtà purtroppo dimenticata". "Ogni giorno centinaia di operatori, di volontari, di psicologi prestano la propria attività all’interno degli Ipm tra mille difficoltà finanziare e logistiche - ha aggiunto Pina Picierno, presidente nazionale dei Gdm -; noi vogliamo lanciare alcune proposte di sistema mirate a migliorare le condizioni e le prospettive dei giovani detenuti". Castelli: creati 5.000 posti in più, l’amnistia non è soluzione
Ansa, 24 febbraio 2006
Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, rivendica il merito di aver creato cinquemila nuovi posti nelle carceri. Ma è convinto che "aprire le porte" con l’amnistia "non è la soluzione del problema". "I posti regolamentari erano 41.500 sono diventati 46.400 - ha detto nella trasmissione "Era la Rai" di Canale Italia -. Grazie alla legge Bossi-Fini abbiamo mandato a casa loro 4.000 extracomunitari detenuti per reati fino a due anni. In tutto abbiamo reso disponibili novemila posti". Il ministro ha parlato anche della tollerabilità degli istituti calcolata per circa 65 mila detenuti. "Abbiamo decongestionando di novemila unità un sistema che altrimenti sarebbe saltato" ha osservato. Quando al ricorso ai provvedimenti di clemenza come l’amnistia, Castelli è stato chiaro: "Mi rifiuto di risolvere un mio problema scaricandolo sui cittadini". Infine, ha detto di considerare un suo "fiore all’occhiello" il fatto che negli ultimi cinque anni negli istituti di pena non ci siano state rivolte. "I suicidi sono diminuiti. Nelle carceri c’ è la pace sociale. Vorrà dire qualcosa o no? Su questo argomento la sinistra è sensibile a parole. Nei fatti un po’ meno". Novara: Cutolo; l’ultimo desiderio "il mio seme per un figlio"...
La Repubblica, 24 febbraio 2006
È un pomeriggio di maggio, una domenica. Il cancello del supercarcere di Belluno si schiude davanti a tre uomini. Tre professionisti. Due medici - un chirurgo e un urologo - e un avvocato. Con loro doveva esserci anche un anestesista, ma quando all’ultimo ha saputo lo scopo del viaggio, e, soprattutto, chi era il paziente da trattare, non se l’è sentita. E si è tirato indietro. Fuori dal carcere una donna attende in macchina. È la giovane moglie del detenuto per il quale si sono mossi i medici. Nel bagagliaio dell’auto, accanto alle sporte con dentro cibo e vestiti, ci sono una bombola di azoto e una piccola cella frigorifera. Serviranno per custodire, tenendolo in vita, il seme di un uomo. Che non è un detenuto qualunque. Si chiama Raffaele Cutolo, detto il Professore. Il boss pluriomicida e pluriergastolano (otto), il fondatore e leader messianico della Nuova camorra organizzata. Considerato l’uomo più potente e carismatico nella storia della criminalità campana, un tempo a capo di un esercito di settemila uomini, Cutolo ha sulle spalle 43 anni di carcere (spezzati da due brevi latitanze) ed è in totale isolamento dal 1982. Lo Stato ha concesso a lui e alla moglie Tina Iacone l’autorizzazione per l’inseminazione artificiale. Per avere quel figlio che sognano da quando, nell’83, si sono sposati nel carcere dell’Asinara. Un provvedimento unico per un detenuto sottoposto al carcere duro del 41 bis, e in più, con un nome che ancora oggi, nonostante quasi mezzo secolo di pena scontata in molti carceri italiani, rievoca una stagione di sangue e violenze, una delle più buie nella storia del crimine del nostro paese. A raccontare, per la prima volta, la storia dell’inseminazione, dell’odissea per cercare di avere un erede, è lo stesso Cutolo. Dal carcere di Novara, dove è recluso da tre anni. Don Raffaele risponde a questa intervista con una lettera, e grazie all’interessamento dei suoi legali, gli avvocati Gaetano Aufiero e Paolo Trofino. Parla del figlio che vorrebbe e di molto altro. Il perché non collaborerà mai con la giustizia. Il suo tentativo di rinascita umana e spirituale. Il fallimento del progetto camorristico. I rapporti coi politici. Il caso Cirillo e le trame oscure che legarono a doppio filo camorristi e esponenti dello Stato. E poi gli affetti, l’amore per la moglie, la fede. Un racconto intenso, sorprendente, dietro il quale c’è un uomo che a 64 anni, fiaccato da una vita trascorsa dietro le sbarre e da condizioni di salute precarie, non chiede sconti, non vuole suscitare pena. Vuole solo "condizioni di vita decenti" e trattamenti che non "ledano la dignità umana".
Cutolo, come sta? "Come un uomo che si prepara a morire in carcere. In pratica vivo dietro le sbarre dal 27 febbraio 1963. Nell’82 Pertini mi spedì nel carcere dell’Asinara, dove trascorsi i giorni più duri della mia vita. Da allora sono totalmente isolato e segregato. Mi hanno applicato il 41 bis quattordici anni fa, appena introdotto. Ma il carcere duro io lo facevo già da dieci anni. Non voglio farmi compatire, né altro. Ho 64 anni. Quasi tutta la mia vita l’ho passata in galera. Pago e continuerò a pagare gli errori che ho fatto, il mio passato scellerato. Però senza mai perdere la dignità. So che mi faranno morire in carcere. E a una fine così, preferisco la pena di morte".
Perché non si è mai pentito? "Mi sono pentito davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. Secondo lei è morale fare arrestare cinquecento persone innocenti o colpevoli per andare a letto con la moglie o l’amante, pagati e protetti dallo Stato? Per me riabilitarsi significa essere coerente con me stesso, pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio. È da anni che i magistrati provano a convincermi. Nel ‘94 il procuratore Francesco Greco, per il quale ho molto rispetto, mi disse: starai in una villa con tua moglie. Avremmo potuto avere un figlio. Rifiutai. E sono orgoglioso di aver sempre resistito alla tentazione. Penso che la legge sui pentiti sia un’offesa alla gente onesta e alle famiglie delle vittime".
Ci parli di quel figlio che tanto desidera e per il quale le è stata concessa l’inseminazione artificiale. "Prima di sposare mia moglie la avvertii: pensaci bene, perché con me è come se fossi vedova a vita. Ci siamo dati un solo bacio in 23 anni e lei è ancora lì che mi aspetta. Vive nella speranza che un giorno, chissà quando, uscirò da qui. Vorrei tanto regalarle un figlio. Ma purtroppo le gravidanze, fino ad ora, non sono andate a buon fine. Ci abbiamo provato due volte. Non ci arrendiamo".
Come vive in carcere? "Ogni mattina quando mi sveglio faccio il segno della croce e accompagno il funerale del mio cadavere. Passo il tempo pregando, leggendo, scrivendo. Soprattutto poesie, la mia passione. Ho dei problemi agli occhi e alle mani. Il carcere toglie la dignità e a lungo uccide anche l’intelligenza. Le misure previste dal 41 bis prevedono ispezioni corporali per i colloqui. Ti passa la voglia di ricevere anche tua moglie o gli avvocati".
Lei dice di essersi pentito davanti a Dio, di aver definitivamente chiuso con il suo passato. Il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, parla di una "chiara e profonda conversione". Che cosa significa? "Quando mi sono sposato l’ho giurato sull’altare di Dio: basta con la mia vita passata. Io non rinnego niente di quello che ho fatto. Sono coerente con me stesso. Ho fatto del male, ho seminato odio, violenza, morte. E quindi devo sopportare tutto. Ma da molti anni ho chiuso con la camorra. Nel mio animo non ci sono sentimenti di vendetta e di odio. Ho perso un figlio (Roberto, ucciso in un agguato ad Abbiate Guazzone nel 1990, ndr), mio suocero, mio cognato, e tanta altra gente cui volevo bene. La camorra è stata una mia scelta, un ideale di vita. Ma è un progetto che è fallito. E per il quale sto ancora pagando. Nonostante sia stato io a salvare la vita a un uomo dello Stato, l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo" (sequestrato dalle Brigate Rosse a Torre del Greco il 27 aprile del 1981, e poi liberato - secondo l’ordinanza dei giudici - "alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo a cui è stato chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione immediata di Cirillo", ndr).
Dunque mi vuol far credere che Cirillo ebbe salva la vita grazie al suo intervento? "Sì. Mentre era in corso il sequestro vennero da me, in carcere ad Ascoli Piceno, un sacco di persone: politici, agenti dei servizi segreti, mediatori. Un influente politico della Dc mi disse che dovevo intervenire con ogni mezzo per salvare la vita dell’assessore. Che in cambio avrei ottenuto il controllo di tutti gli appalti della Campania. Cirillo fu liberato".
Quel periodo coincide con la massima consacrazione del suo potere. Lo Stato scese a patti con la Nuova camorra organizzata. Dicono che lei ricevette in cambio un sacco di soldi e di favori. "I soldi in carcere li usavo per comprare da mangiare e da vestire ai detenuti. Anche ad Alì Agca, l’attentatore del Papa. Ma il caso Cirillo, chissà perché segnò definitivamente il mio destino. Per ringraziamento mi hanno mandato in ritiro spirituale".
Che rapporti ha avuto coi politici? E che cosa pensa della politica? "Ne ho conosciuti molti. Con qualcuno sono sceso a patti. I politici non sono molto diversi dai camorristi. Pensano al potere, al consenso, all’arricchimento. Ma dei bisogni della gente se ne fottono".
Ha mai votato? "Mai. Né prima del carcere né dopo".
La camorra oggi che cos’è? "Non si può più chiamare camorra. Sono cani sciolti, mezze tacche. Non hanno rispetto di niente e di nessuno. Ammazzano anche le donne e i bambini. E così non fanno altro che il gioco del potere".
Su di lei è stato fatto un film ("Il camorrista" di Giuseppe Tornatore) e sono stati scritti libri (uno su tutti: "Un’altra vita" di Francesco De Rosa). Per molti guappi della camorra lei è ancora un modello, un’icona. Certi ragazzini a Napoli scaricano sul cellulare le suonerie del film che ha per protagonista Raffaele Cutolo. A questi giovani vuole dire qualcosa? "Studiate, lavorate. Dimostrate che siete capaci di diventare ottimi manager. Credetemi, il crimine non paga".
Cutolo, deve chiedere perdono a qualcuno? "Il perdono si chiede espiando la pena, e basta". Firenze: "porte aperte" al carcere femminile di Sollicciano
Redattore Sociale, 24 febbraio 2006
La città incontra le detenute. Dal 13 al 15 marzo porte aperte nelle sezioni del carcere femminile di Sollicciano; chi vorrà potrà entrare in carcere, conoscere alcune donne detenute e alcuni progetti che stanno portando avanti insieme all’Associazione Pantagruel. In particolare "La poesia delle bambole", corsi di formazione e laboratori avviati 5 anni fa e altri due progetti che stanno realizzandosi in questo anno: un periodico e un’asineria. "Il periodico delle sezioni femminili del carcere e della città di Firenze vuole coinvolgere e creare dialogo tra l’interno (le sue storie di vita e i suoi problemi) e l’esterno con le sue tante realtà e aprire nuove possibilità per realizzare i propri talenti. – spiega l’associazione - L’asineria, ossia il mettere nell’area verde un gruppo di asini, è legato al progetto "A passo d’asino" Lunedì sarà coinvolta nel primo pomeriggio la compagnia teatrale del sindacato pensionati che presenterà un suo spettacolo: "Le Troiane" di Euripide della compagnia teatrale del Laboratorio "Donne: laboratorio vita, società, cultura" dello Spi Cgil, Fnp Cisl, Uilp Uil di Firenze che ha come regista Roberto mazzi; nella stessa giornata saranno presenti esponenti sindacali. In questi tre giorni si potrà entrare dalle 10 alle 13 e dalle ore 13,30 alle 16. Chi lo desidera potrà stare anche una intera giornata e potrà venire anche più di un giorno. È necessario fare richiesta all’associazione entro il 1° marzo specificando nome, cognome, luogo e data di nascita e attuale residenza. Volterra: detenuti - cuochi per serate in spirito slow food
Il Tirreno, 24 febbraio 2006
Laboratori del gusto per i detenuti e un ciclo di serate dedicate a culture gastronomiche lontane aperte al pubblico esterno. Così la filosofia slow entra nella casa di reclusione, grazie a un progetto ideato dalla direttrice Maria Grazia Giampiccolo in collaborazione con la sezione locale di Slow food. Sono già partiti i laboratori del gusto all’interno del carcere: in tutto cinque appuntamenti, al quale partecipa una ventina di detenuti, per imparare tutto su vini, dolci, formaggi e altri alimenti. A breve i laboratori inizieranno, informa la dottoressa Giampiccolo, anche per il personale di polizia penitenziaria. "L’idea - spiega Giampiccolo - è nata dalla volontà di sperimentare nuove possibilità, sviluppare potenzialità del carcere come polo culturale. Abbiamo scelto la cultura del cibo: un’occasione per i nostri ospiti di essere sempre più qualificati e per integrarsi con il tessuto sociale". Terminati i laboratori, i detenuti che vi hanno partecipato riceveranno un attestato. Il ciclo di serate gastronomiche a tema si inaugurerà il 18 marzo. Saranno protagonisti i sapori della Sicilia; gli appuntamenti avranno cadenza mensile, secondo un programma già stilato che arriva fino all’estate. In cucina prepareranno i cibi da servire agli ospiti delle serate slow i detenuti in possesso della certificazione richiesta. Durante la degustazione (alle serate parteciperanno i soci di Slow Food con propri ospiti) i cuochi illustreranno le ricette e come le hanno realizzate dietro ai fornelli. Milano: aperta alla Triennale "La rappresentazione della pena"
Redattore sociale, 24 febbraio 2006
Il carcere per chi non l’ha mai visto. È quello che si incontra alla Triennale di Milano, dove è stata inaugurata oggi "La rappresentazione della pena": 19 giorni di mostre, dibattiti, fotografie, cinema e teatro per conoscere il mondo del carcere. Di particolare effetto l’installazione "Carcere invisibile e corpi segregati", la mostra fotografica che riproduce all’interno della Triennale il braccio di un carcere, e l’installazione "Nella città l’inferno", dove scorrono video che riproducono immagini filmate all’interno delle carceri. In programma due convegni di rilievo nazionale, su "Carcere e droghe" (oggi a partire dalle 17.30) e "Carcere e informazione" (sabato a partire dalle 10.30). Il programma completo è disponibile sul sito www.dirittiglobali.it. "Il convegno di domani sarà uno dei momenti più significativi di questa rassegna - spiega Sergio Segio, direttore di Società InFormazione-. Discuteremo di carcere e droghe e della recente legge Fini-Giovanardi, insieme a tutti i presidenti delle comunità terapeutiche, al coordinamento nazionale delle comunità e al mondo dell’associazionismo. La situazione attuale è desolante, perché penalizza i tossicodipendenti, tra i soggetti sociali più deboli. Per questo riprenderemo le proposte del Cnca nell’iniziativa "Non incarcerate il nostro crescere" e le proposte del cartello "Dal penale al sociale", con l’intenzione di tornare a trattare su questi problemi. Le nostre carceri sono piene di immigrati, tossicodipendenti e persone senza fissa dimora: un detenuto su quattro non avrà una casa dove andare una volta uscito dal carcere, diventato il condensato di tutti i deficit e le disattenzioni di una politica che va nella direzione della tolleranza zero". Non mancherà uno sguardo alla realtà europea: "i dati segnalati dall’Osservatorio europeo sulle droghe nel 2005 dicono che tra il 10 e 42% dei detenuti fa uso regolare di droghe dentro il carcere e una percentuale variabile tra l’8 e il 60% dei detenuti ha segnalato un consumo di sostanze stupefacenti dentro il carcere - dice Segio. Negli anni scorsi l’Osservatorio aveva rivelato che fino al 21% dei tossicodipendenti di sostanze ad uso iniettivo si era fatto il primo buco proprio dietro le sbarre. La dimostrazione che mandare in carcere chi si droga non è solo sbagliato ed economicamente costoso (mantenere un detenuto in carcere costa 136 euro al giorno, contro i 30-40 euro delle comunità di recupero; ndr) ma è una vera corbelleria". Cosenza: domani Marcello Pera inaugura riapertura del carcere
Asca, 24 febbraio 2006
Dopo circa 30 mesi di intensi lavori di ristrutturazione e di adeguamenti funzionali, domani, 25 febbraio, riaprirà la Casa Circondariale di Cosenza, intitolata a Sergio Cosmai, il direttore penitenziario barbaramente ucciso in un agguato di "ndrangheta il 13 marzo 1985. L’Istituto, che versava in un gravissimo stato di degrado ed abbandono, è stato oggi interamente ristrutturato ed adeguato funzionalmente ai nuovi criteri di edilizia penitenziaria e rappresenta così un unicum nel sistema di esecuzione della pena in Italia, un vero e proprio centro di eccellenza. Con questa realizzazione - spiega un comunicato - il sottosegretario alla Giustizia, Jole Santelli, e l’Amministrazione Penitenziaria hanno pertanto rispettato l’impegno assunto con la città di Cosenza di riaprire il carcere nei tempi programmati. L’opera di risanamento ha visto in parte l’intervento di ditte esterne, che hanno adeguato i padiglioni detentivi, e l’intervento diretto dell’Amministrazione penitenziaria che, avvalendosi della manodopera detenuta, ha provveduto a ristrutturare i rimanenti corpi di fabbrica (caserma, uffici, magazzini, teatro, cappella, sale colloqui, portineria, aree verdi, muro di cinta, campo sportivo, ecc.). Il 70% dei lavori sono stati, infatti, realizzati proprio dai detenuti, che hanno curato anche tutti gli spazi verdi dell’Istituto, creando zone particolarmente gradevoli per quanti vivono e lavorano nella struttura. Ciò ha comportato anche un notevole risparmio per l’erario pubblico: infatti l’importo dei lavori realizzati dall’Amministrazione in soli nove mesi ammonta a 975.285,40 Euro, comprensivi di materiali e mercedi corrisposte ai detenuti. L’individuazione dei lavoranti è stata effettuata a livello regionale tra i reclusi che avessero una pena detentiva inferiore ai cinque anni ed un positivo e sperimentale percorso trattamentale. Tali interventi appaiono particolarmente significativi, in quanto hanno favorito anche un’evoluzione nei detenuti coinvolti, ai quali in questo modo è stato offerto un concreto stimolo ad intraprendere percorsi di vita alternativi. Oggi il carcere di Cosenza è, dunque - si legge nel comunicato - una struttura avveniristica: un carcere dalla fisionomia non soltanto custodiale, ma anche trattamentale, all’interno del quale sono state attivate lavorazioni artigianali, florovivaistiche, corsi scolastici di addestramento professionale e numerose altre iniziative finalizzate al recupero dei soggetti in detenzione. L’inaugurazione del complesso avverrà alla presenza del presidente del Senato, Marcello Pera, del Nunzio Apostolico, S.E. Monsignor Paolo Romeo, dei sottosegretari di Stato alla Giustizia Jole Santelli e Giuseppe Valentino. Parteciperanno alla cerimonia inaugurale anche le più alte autorità civili, istituzionali e militari della Calabria. Nell’occasione, alla presenza della moglie Tiziana, verrà scoperta una stele alla memoria di Sergio Cosmai. Brescia: le performance del maestro Alberti per i detenuti
Giornale di Brescia, 24 febbraio 2006
Chiamale se vuoi... evasioni. Piccole degustazioni di libertà buone per sentire meno pesante la cella quattro per quattro, i letti a castello multipiano, il peso di un carcere popolato come un alveare e progettato per meno della metà dei suoi ospiti. "Sì, chiamiamole proprio evasioni... Si fa per dire, ovviamente" spiegano Massimo & Massimo, dodici anni da scontare in due (un lustro il primo, il più giovane; sette anni il secondo, che di cognome fa Dalzoppo, e di professione fa il bibliotecario a Canton Mombello) e una scoperta maturata proprio dentro il carcere di via Spalti San Marco: la musica classica. "E pensare - sorridono, a due passi dalla rotonda che porta ai lunghi corridoi della celle - che prima di entrare qui dentro non avevamo mai visto nemmeno il concerto di Capodanno, perché da liberi a S. Silvestro si fa baldoria e il primo gennaio si dorme". Ora, invece, parlano con entusiasmo dei concerti del maestro Daniele Alberti nell’ambito degli incontri di "Musica e disagio", che ormai hanno fatto delle carceri cittadine un appuntamento fisso. Un pomeriggio che per molti è diventato da non perdere. "In effetti - riflette Massimo Dalzoppo, che a Daniele Alberti ha dedicato il pensiero pubblicato qui accanto e che vorrebbe leggere questa sera a chiusura della rassegna - al primo concerto al quale ho assistito ho pensato come tanti: "Andiamo, così sappiamo come passare un paio d’ore". Ora, al terzo appuntamento, mi dico: "C’è Alberti, non posso perderlo". E in effetti l’ultima volta ho chiesto un permesso di due ore al corso professionale che sto frequentando all’interno del carcere". Entusiasti non solo di sentire musica, ma, soprattutto, di saperla ascoltare. "Di carceri, prima di approdare a Brescia, ne ho passate tante - ricorda il Massimo più giovane - e spesso erano i detenuti che si esibivano davanti al pubblico. Mai, però, mi era capitato di vedere persone di questa spessore entrare in un carcere e suonare per noi cose che fuori di qui non avevo mai sentito". Una bella sorpresa, un inatteso grimaldello nelle mani dello spirito per quelle piccole evasioni di una mente che nessuna legge, nessun codice, può mettere in gabbia. "Io rimango estasiato quando ascolto questi concerti - si infervora Dalzoppo - perché non solo sento la musica, ma prima c’è qualcuno che con pazienza, preparazione e competenza me la spiega. E poi mette la sua professionalità, la sua arte, il suo estro al servizio di noi detenuti. Un impegno verso il quale non possiamo che essere grati. Per il lavoro che faccio qui dentro conosco tutti e posso dire che chi è venuto a teatro ad ascoltare questa iniziativa ci torna con un entusiasmo sempre crescente". Parole di chi ha scoperto un mondo, un arte, uno strumento di espressione che sembrano lontani anni luce dall’asprezza di una casa circondariale. Ma anche l’inferno può avere la filodiffusione; anche un detenuto, che chiede solo rispetto e cuore, può avere la possibilità di fare incontri nuovi, addentrarsi in universi sconosciuti, crescere culturalmente. "E la cultura ci rende un po' più liberi - sentenzia Dalzoppo, che per tutta la giornata passa di cella in cella distribuendo libri e consigliando letture -. Grazie all’impegno di tanti, da "Carcere e territorio" ai volontari, dalla direzione al personale penitenziario, dagli insegnanti agli attivisti dell’Uisp, qui chi vuole rimanere chiuso in cella lo fa per scelta personale. Le iniziative sono molteplici: la scuola, i corsi professionali, gli appuntamenti sportivi, i momenti di svago e le feste. Tutti ci mettono grande impegno e disponibilità. L’iniziativa dell’associazione Soldano, con i concerti di musica classica, è la ciliegina che corona questa torta realizzata con il contributo di tante persone alle quali noi detenuti dobbiamo dire solo grazie". Dalzoppo e l’amico Massimo potrebbero presto riassaporare la libertà. Ma una volta fuori che ne sarà della musica classica? "Abbiamo imparato ad apprezzarla qui dentro - rispondono -, continueremo, se ne avremo la possibilità, a farlo anche fuori. Se poi il maestro Alberti vorrà invitarci non sapremo dire di no". Chiamale se vuoi... prenotazioni. Cremona: il carcere è una vergogna, la direttrice deve andarsene
Provincia di Cremona, 24 febbraio 2006
"È il carcere della vergogna. Da dieci anni non c’è un comandante fisso, il personale è sott’organico. Per quanto riguarda i detenuti, la direttrice Bellezza ha chiuso i rapporti con i servizi sociali e con l’esterno. Così non va bene. Ci rivolgeremo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Vogliamo un comandante fisso e via la direttrice se non è in grado di gestire il carcere". Ad emettere la sentenza di condanna è Roberto Santini, segretario generale del sindacato autonomo Sinappe, uno dei maggiori sindacati della polizia penitenziaria, in Lombardia e in Italia. Il verdetto è stato pronunciato all’esito dell’ispezione a Cà del Ferro cominciata alle dieci e mezza di ieri e finita tre ore dopo. Con Santini c’era Danilo Tirelli, segretario del Sinappe di Cremona, guidati nell’ispezione da Rossella Padula, vicedirettrice del penitenziario. I sindacalisti ora parlano di "prevedibile stato di agitazione" e consegnano cifre: "A Cà del Ferro ci sono 300 detenuti contro i 160 previsti per un totale di 170 agenti di polizia penitenziaria, dei quali 20 distaccati a vario titolo. Il turno di notte lo fanno solo in tre. E allora non ci si deve stupire se, tra gli agenti, è altissima la percentuale di malattia. È il sintomo del malcontento, perché la direzione non riesce a garantire i diritti degli agenti". Ma il vero problema per Santini e Tirelli è il via vai di comandanti: "L’ispettore Roberto Re da settembre non c’è, perché, su sua richiesta, è stato distaccato e attualmente svolge servizio a Reggio Emilia. Per noi il comandante è un punto di riferimento". I vertici del Sinappe fanno poi un elenco delle "aggravanti" e spiegano che "la direttrice Bellezza non ha mai portato in fondo una trattativa sindacale e, cosa gravissima, ha chiuso i rapporti con l’esterno, ha annientato il progetto carcere-territorio. Così oggi in carcere si svolge solo l’attività trattamentale, ossia scuola e un corso di falegnameria". E ancora: "C’era un teatro-cinema, ma non è mai stato utilizzato per inagibilità, la palestra è allagata. Anni fa in carcere si teneva un corso di musica. Adesso gli strumenti musicali sono accantonati, sono lì a marcire e valgono milioni". Poi il paragone con il carcere di Brescia "molto più vecchio e con più detenuti. Ma là si svolgono molte più attività. Agenti e detenuti fanno i corsi con i cani della Protezione civile. Imparano a cercare le persone scomparse, per esempio". Santini ora chiede un incontro con Luigi Pagano, capo del Provveditorato della Lombardia "perché si possano rivedere tutti gli accordi sindacali che la direttrice Bellezza non ha portato avanti". Ma la protesta arriverà anche a Giovanni Tinebra, capo del Dap "affinché prenda posizioni perché a Cremona vi sia un comandante effettivo stabile e anche nei confronti della mala gestione della direttrice. Il Dap deve rendersi conto della situazione di Cremona. Per questo io dico che è il carcere della vergogna". Siano: l’amore oltre le sbarre, celebrate le nozze in cella...
Quotidiano della Calabria, 24 febbraio 2006
C’è chi dice che le due più grandi emozioni umane siano amore e paura, e che intorno ad esse girino tutte quelle altre sensazioni che in quanto tali siamo in grado di percepire, ognuno a proprio modo. C’è chi dice che la paura aiuti a crescere, e chi sostiene che l’amore non abbia confini. Tutte le prime teorie sono di certo opinabili, ma per quanto concerne l’ultima non si può dibattere, è un fatto provato. È così anche per la giovane A.A. ed il suo compagno L.G., detenuto presso il carcere di Siano, che ieri hanno concretizzato questa teoria, dimostrando che non esistono sbarre o celle che possano fermare l’amore. Alla presenza delle famiglie, sorrisi e lacrime non sono mancati ed è stato l’assessore Elio Mauro, assieme al funzionario Francesco Rubino, a celebrare il matrimonio di questi due giovani che hanno trovato nell’amore la forza di continuare e andare avanti. "Abbiamo celebrato questo matrimonio civile presso la Casa Circondariale di Siano - commenta Elio Mauro -. La mia considerazione è che anche in questi momenti tristi ha prevalso l’amore, l’amore che ha dimostrato di non avere ostacoli, l’amore per una famiglia unita, l’amore per costruirsi una famiglia. Probabilmente il carcere sarà un luogo di meditazione, ma spero che questo matrimonio porti benessere e valga come esperienza per costruire un futuro migliore. La cosa che io ho molto apprezzato è il fatto che in momenti così si è pensato all’amore ed alla comunità". Fino a che sarà l’amore ad avere il predominio sul controllo delle nostre azioni, possiamo avere la certezza che non ci saranno ostacoli insuperabili nel corso del nostro cammino, sapendo che i momenti di sofferenza saranno nostri maestri di esperienza. Benevento: detenuti incontreranno giornalista Antonio Lubrano
Il Mattino, 24 febbraio 2006
Oggi presso la Casa Circondariale di contrada Capodimonte, a Benevento, prenderà il via "Libroforum intra moenia", il progetto grazie al quale i detenuti che frequentano i corsi della succursale creata dall’Istituto Alberghiero di Benevento all’interno della struttura, hanno la possibilità di incontrare scrittori di fama nazionale. L’iniziativa, promossa ed organizzata dall’istituto "Le Streghe", dalla Direzione della Casa Circondariale e dalla professoressa Maria Cristina Donnarumma dell’associazione onlus "Alfredo Guida - Amici del libro", prende il via alle 10 presso la palestra dell’istituto penitenziario. Protagonista dell’incontro odierno sarà il noto giornalista partenopeo Antonio Lubrano (nella foto), volto noto della televisione soprattutto per il suo programma "dalla parte del consumatore", che si confronterà con i detenuti sul suo romanzo "Pomeriggio di luglio" (editore Guida). La novità introdotta in questa giornata riguarda la contestuale partecipazione di un gruppo di detenuti che frequentano da novembre un corso di giornalismo televisivo organizzato dall’agenzia di comunicazione "Video Team" di Benevento. I detenuti-allievi cureranno le interviste, la redazione delle notizie sull’evento e la relativa ripresa della giornata. Il prodotto finale verrà presentato in primavera quando i più meritevoli ed abili degli ospiti-detenuti, che hanno frequentato il corso, cercheranno di sensibilizzare il mondo delle imprese ad offrirgli un lavoro. E nel pomeriggio alle 15 Antonio Lubrano, sempre su iniziativa dell’associazione "Alfredo Guida amici del libro", incontrerà al Museo del Sannio un gruppo di allievi del liceo scientifico "Rummo", del liceo classico "Giannone", dal liceo artistico, del professionale "Polo" e dell’Itg "Galilei" e dell’Itis "Lucarelli", accompagnati dai docenti referenti. Usa: ex-detenuti a rischio bancarotta per le spese di detenzione
Miaeconomia, 24 febbraio 2006
Cresce a dismisura negli Stati Uniti il numero di detenuti che, una volta usciti dal carcere, si ritrovano sommersi dai debiti. E alcuni di loro sono costretti a dichiarare bancarotta per evitare di tornare in galera. Il più pignolo sul conto spese da presentare agli ex-galeotti, è lo stato di Washington. Una detenuta, condannata a nove mesi tra le sbarre per spaccio di marijuana, si è vista recapitare un conto di 1.900 dollari per spese legali collegate alla sua detenzione. Altro caso emblematico è quello di un cittadino statunitense uscito di prigione in Louisiana, dopo avere scontato 44 anni per omicidio. A lui è arrivato un conto di 127 mila dollari. Le spese del suo quarto processo tenuto fuori dalla Louisiana, perché nel suo stato il caso era troppo celebre, comprendevano anche i pasti e i pernottamenti in hotel dei giurati. E poi ci sono i casi dei detenuti a cui è richiesto di rilasciare un campione di Dna da inserire in un archivio criminale. Il costo della analisi, 100 dollari, viene pagato dai prigionieri. Senza contare che chi lavora deve pagare i costi assicurativi. A pesare sui bilanci degli ex-detenuti sono anche i bracciali elettronici che costano 16 dollari al giorno. L’accumulo delle spese - dai test antidroga (15 dollari) alle sessioni obbligatorie di terapia psicologica (40 dollari) - possono tradursi in gravi problemi per detenuti che emergono di prigione senza un soldo e con scarse prospettive di trovare un lavoro. Poiché i debiti non pagati aumentano con interessi negativi superiori al dieci per cento, anche piccole insolvenze rischiano di trasformarsi, col passare del tempo, in somme pesanti. E avere debiti si traduce, in alcuni casi, nel divieto di votare. Una volta saldato il debito con la società scontando la pena, lo stato di Washington non consente ancora ai carcerati in libertà di tornare a esprimersi alle urne, finché non hanno saldato altre pendenze, questa volta finanziarie. A giustificare l’addebito di tutte le spese a carico dei carcerati è il principio secondo cui devono essere i criminali e non i contribuenti a pagare i costi causati dalle loro azioni. E così i debiti dei carcerati sono arrivati quest’anno a superare la cifra di 1,2 miliardi. E per molti la bancarotta resta l’unica soluzione per uscire da questa morsa finanziaria. Algeria: il governo concede l’amnistia agli estremisti
Asca, 24 febbraio 2006
Sei mesi di tempo per la resa in cambio dell’amnistia. Il governo algerino offre un nuovo patto di riconciliazione agli estremisti islamici. È la seconda volta che il presidente Abdelaziz Bouteflikail gioca la carta dell’estinzione del reato per placare gli scontri che dal 1992 sono costati 150mila vite umane nel Paese nordafricano. Migliaia di guerriglieri, inclusa l’ala armata del partito di opposizione islamica, hanno beneficiato della prima amnistia. L’attuale provvedimento, già approvato con un referendum lo scorso settembre, offre l’estinzione del reato ai militanti non implicati in atti sanguinari. Esclusi, inoltre, i responsabili di "massacri, stupri e attentati con armi esplosive nei luoghi pubblici".
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