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Carabiniere ucciso; Cirielli; la mia legge vieta permessi a evasi
Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2006
Duro il faccia a faccia tra il deputato di An Edmondo Cirielli e il magistrato di sorveglianza di Bologna, Luca Ghedini, firmatario del permesso premio al pregiudicato Antonio Dorio, autore dell’omicidio del giovane vicebrigadiere Scantamburlo. "Non doveva essere concesso un permesso premio ad Antonio Dorio" - ha sostenuto il deputato Cirielli ai microfoni di "Vivavoce", una trasmissione di Radio 24 - L’articolo 7 comma 6 della Cirielli prevede che i permessi premio non possano essere concessi al condannato che è evaso. E mi sembra che questa persona che ha ucciso un carabiniere era evaso. E mi pare che il permesso sia stato dato dopo che la legge era entrata in vigore". Ghedini ha, dal suo canto, pacatamente respinto l’accusa relativa al presunto errore: "La più parte dei tribunali di sorveglianza ha ritenuto che la riforma della recidiva (contenuta nella Cirielli, ndr) si risolva nel cambiamento di una norma di natura sostanziale che non si applichi quindi a rapporti già definiti in precedenza". Quindi, come ha riassunto il conduttore, con l’assenso del magistrato, si ritiene che solo una disciplina migliorativa sarebbe retroattiva. Ma Cirielli respinge l’interpretazione del magistrato: "Il problema, in generale e non parlo di Ghedini, è che c’è una parte della magistratura che ritiene di dover applicare una certa idea della società, mentre bisogna limitarsi ad applicare la legge. Oltretutto i benefici dell’ordinamento penitenziario non sono una norma di carattere sostanziale ma che attiene alla personalità del delinquente. E bisogna applicarla in maniera retroattiva". E Ghedini, in risposta: "Non è una legge che mi piace molto, ma non è mio compito farmela piacere o dispiacere, ma semplicemente cercare di applicarla con criteri ermeneutici che possiamo ritenere corretti. Però la Cirielli altro non fa che stabilire un ennesimo, ulteriore, doppio binario in relazione all’esecuzione penale nei confronti di determinati soggetti. È il momento terminale dell’evoluzione che l’ ordinamento penitenziario ha avuto nel corso degli anni per adeguarsi alle scelte di politica legislativa fatte su diversi tipi di delinquenza". Sulla stessa linea il senatore dei Ds Massimo Brutti: "Si tratta di norme che restringono la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e soprattutto sono norme che vanno a danno dei poveri cristi, dei detenuti che sono quelli che commettono piccoli reati, che non hanno potere, che non hanno avvocati. Sono poveri, nessuno li difende, e i loro processi sono rapidissimi". Di diverso avviso Cirielli: "I poveri cristi non sono i ladri, i delinquenti, ma sono le vittime dei reati. Poi è chiaro che uno Stato civile non deve essere barbaro e non deve semplicemente vendicarsi sul detenuto" Roma: detenuto e malato di tumore, una vicenda vergognosa
Ansa, 18 febbraio 2006
"Una vicenda paradossale che dovrebbe farci vergognare". È quella vissuta sulla pelle di Massimo Biondi, un detenuto di 49 anni del carcere Regina Coeli di Roma. A sollevarla dall’oblio che attanaglia tematiche sociali in un Paese spesso volto all’effimero e all’astrattismo, ci pensa Angiolo Marroni, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti del Lazio. Malato di tumore, Massimo era uscito dal carcere per gli arresti domiciliari ma, a volte, il fattore domicilio diventa un problema grande quanto il fatto di trovarsi nella condizione di detenzione. Senza casa, era stato ospitato per cinque mesi in una Casa famiglia convenzionata con la Provincia di Roma. Le condizioni di salute però, con il fluire del tempo, deteriorano tanto da non poter più essere ospitato dalla struttura d’accoglienza. Di qui nasce un calvario che lo vede vagare, da ormai tre mesi, da un ospedale all’altro della capitale. Prima al Policlinico Gemelli, poi allo Spallanzani dove ancor oggi è ricoverato. L’ospedale, quindi, come costrizione per mancanza d’alternative strutturali o domiciliari. Un ambiente non proprio famigliare. La pena che Massimo deve scontare è stata sospesa per motivi di salute, ma la Camera di Consiglio che deve ratificare la decisione è stata rinviata: l’uomo non ha una casa e non può usufruire delle poche strutture convenzionate che hanno finalità sociali e di reinserimento socio-lavorativo. Si aspetta la decisione del Tribunale di Sorveglianza. Il garante Marroni denuncia questa situazione "Per la burocrazia Biondi ha difficoltà ad essere assistito perché non ha l’aids, dunque non può essere ospitato nelle case d’accoglienza, e non è un anziano da Rsa. È solo un adulto malato". Le strutture non sono attrezzate per le cure di cui Massimo avrebbe bisogno. Cure che, dopo l’arresto, hanno registrato la sospensione del trattamento chemioterapeutico. La storia di Massimo s’infittisce con il sommarsi di altre gravi problematiche: la sua unica fonte di reddito (la pensione) da due anni è sospesa per una causa in corso con l’ente previdenziale. In buona sostanza le sue necessità possono essere soddisfatte solo dall’aiuto di terzi, volontari o amici che siano. La casa è una chimera, figuriamoci. "Nel caso specifico - spiega Marroni - ci siamo adoperati per far uscire Biondi dal carcere e farlo ricoverare in una struttura d’accoglienza, ma non abbiamo il potere di dargli una casa. Abbiamo coinvolto in questa storia Comune di Roma e Assessorato regionale alla sanità". Sulla questione interviene Vittorio Antonini, presidente dell’associazione penitenziaria Papillon Rebibbia: "È assurdo il fatto che persone che combattono contro malattie platealmente incompatibili con la detenzione debbano sottoporsi a particolari gogne sia per ottenere la liberazione sia per ottenere un luogo che possa ospitarli in misura alternativa". Una vicenda che rappresenta la punta dell’iceberg di una mancanza politica in materia sociale. "Questo caso - continua Antonini - richiama alla responsabilità sia le direzioni delle carceri e i magistrati di sorveglianza, sia la coscienza di quegli enti locali che molte volte si vantano pubblicamente di interventi a favore dei detenuti ed ex detenuti con operazioni che, nella sostanza, sono pura e semplice propaganda più o meno elettorale". Occorre più attenzione verso il carcere e le drammaticità di cui quotidianamente è teatro. Insufficienze strutturali e burocratismi appesantiscono i problemi di Massimo e di tanti altri uomini. Angiolo Marroni avverte: "Anche i detenuti hanno diritto di vivere con dignità la malattia. Non si può aspettare che siano le condizioni di salute di quest’uomo a risolvere il problema". La legge contro la pornografia minorile di Stefano Aprile (Magistrato)
Giustizia.it, 18 febbraio 2006
Lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet. Sulla Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 2006 la nuova legge che anticipa la decisione quadro all’esame Unione Europea. Responsabilità delle persone giuridiche, utilizzazione del bambino, pornografia virtuale: queste alcune delle innovazioni introdotte dalla normativa approvata dal Parlamento. Sull’argomento, un contributo di Stefano Aprile, magistrato della Dgsia, autore del libro "Schiavitù e sfruttamento sessuale dei minori - i delitti contro la personalità individuale", in Trattato di diritto penale, parte speciale, diretto da Marinucci e Dolcini, Cedam, Padova 2006.
La legge n. 38/2006 contro la pornografia minorile
Con la legge 6 febbraio 2006, n. 38, portante Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 38 del 15 febbraio 2006), il legislatore è intervenuto nella delicata materia dello sfruttamento sessuale dei minori e della pornografia minorile, materia che già era stata oggetto di due recenti e significativi interventi di novellazione operati con la legge 3 agosto 1998, n. 269 e con la legge 11 agosto 2003, n. 228. Il recente intervento normativo, per quello che concerne le fattispecie relative allo sfruttamento sessuale del minore e alla pornografia minorili, consiste nel ritocco di alcune disposizioni penali introdotte nel codice penale dalla legge n. 269/1998 (artt.1, 2, 3, 4 e 5), nella introduzione di alcune disposizioni a contenuto processuale (artt.11, 12, 13 e 14), unitamente ad altre con finalità di prevenzione e contrasto al fenomeno della pornografia minorile (artt.15, 16, 17 e 18), nonché nella creazione di speciali organismi e strumenti di monitoraggio, controllo e coordinamento delle attività preventive e repressive specificamente rivolti al fenomeno della pornografia minorile sulla rete Internet (art.19 e seguenti). L’intervento di novellazione di alcune - e in molti casi solo in parte - delle norme sanzionatorie di cui agli artt. 600 bis, 600 ter, 600 quater e 600 septies del codice penale, oltre alla introduzione di un nuovissimo - anche per quello che riguarda la tecnica di numerazione - art. 600 quater 1 codice penale, ha come obiettivo sia, in alcuni casi, di introdurre un ulteriore inasprimento del trattamento sanzionatorio, sia, in altri, il tentativo di semplificare (in ottica repressiva) la descrizione di alcune delle condotte vietate, anche mediante l’introduzione di espressioni sinonimiche o di definizioni espresse (si veda, in particolare la definizione di "pornografia virtuale" contenuta nell’art. 600 quater 1). Tralasciando l’esame delle disposizioni incriminatrici relative agli "atti sessuali con minorenne in cambio di denaro" di cui all’art. 600 bis, secondo comma c.p., novellato con la non insignificante modificazione della età della persona offesa e con la previsione di una particolarmente ridotta e graduabile sanzione per il caso che l’autore dei fatti sia egli stesso minorenne, conviene accennare brevemente alla importante modifica introdotta nella fattispecie della "pornografia minorile" (art. 600 ter, comma primo), laddove è stato completamente stravolto l’originario impianto repressivo, che era incentrato sulla condotta di sfruttamento del minore per la realizzazione di spettacoli o materiale pornografico e che dava origine ad una fattispecie di reato di pericolo, riportando la punizione del reo nell’alveo dei reati di danno essendo ora non solo previsto l’uso dei minori, ma la concreta realizzazione di materiale pornografico o di spettacoli di analoga natura. Per esigenze di spazio si omette di riferire degli interventi di ortopedia normativa effettuati sui restanti commi dell’art. 600 ter e sull’art. 600 quater c.p., nonché sull’introduzione di una speciale - e di difficile attuazione - interdizione perpetua per il condannato a ricoprire incarichi di qualunque genere in scuole o istituzioni frequentate da minori (art. 600 septies), essendo preferibile riservare il residuo tempo ad esaminare brevemente la definizione, introdotta con l’art. 600 quater 1 c.p., di "pornografia virtuale". La disposizione di nuovo conio (art. 600 quater 1), che introduce una legale definizione di "pornografia virtuale" (senza preoccuparsi di descrivere il concetto base di pornografia), estende la punibilità delle condotte relative alla produzione, commercio, diffusione, cessione ed acquisto di materiale pornografico realizzato con l’utilizzo di minori degli anni diciotto (artt. 600 ter e quater), alle medesime condotte aventi oggetto immagini virtuali (art. 600 quater 1). La legale equiparazione tra "reale" e "virtuale" - residua, infatti, soltanto una differenza dal punto di vista sanzionatorio - sembra cozzare con il risultato, faticosamente raggiunto dal legislatore con la novellazione del primo comma dell’art. 600 ter, di rendere concreta ed effettiva la lesione del bene giuridico protetto dalle disposizioni poste a tutela del minore oggetto di attività pornografica. La scelta di estendere la rilevanza penale della pornografia alle immagini virtuali se, come pare, è stata ispirata dalla Decisione Quadro del Consiglio CE del 22 dicembre 2003, che definisce la "pornografia infantile" come il "materiale pornografico che ritrae o rappresenta visivamente: i) un bambino reale implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, fra cui l’esibizione lasciva dei genitali o dell’area pubica" e che ad essa equipara la "immagine realistica di un bambino inesistente", sembra introdurre nell’ordinamento una fattispecie a tutela della morale o del buon costume, piuttosto che una estensione del presidio repressivo posto a difesa della personalità individuale dell’individuo che è l’oggetto, invece, delle restanti disposizioni incriminatici aventi ad oggetto la pornografia e la prostituzione minorili.
Stefano Aprile, direttore dell’Area pareri e cooperazione applicativa intersettoriale della Dgsia Rovigo: detenuto serbo evade dal carcere e si schianta in auto
Il Gazzettino, 18 febbraio 2006
Un’impresa degna di Papillon, il celebre detenuto nel carcere della Guyana francese specializzato in evasioni, ma conclusa con un finale fantozziano. La fuga di Smail Krasnic, serbo clandestino di 25 anni, dal carcere di Rovigo è durata solo qualche ora, il tempo di scavalcare il muro di cinta e rubare un’automobile, ma quando già intravedeva la libertà l’uomo è stato coinvolto in un incidente stradale ed ora è ricoverato in prognosi riservata nell’ospedale di Porto Viro.Tutto è iniziato ieri mattina durante l’ora d’aria all’interno della casa circondariale di Rovigo in via Verdi. L’ora d’aria, in realtà ne dura due, dalle 9.30 alle 11.30, ed è in questo lasso di tempo che Krasnic si è trasformato da tranquillo detenuto nel "Renato Vallanzasca" dei Balcani. Ha approfittato di un momento in cui non c’erano guardie a sorvegliare i detenuti e si è arrampicato, con ogni probabilità, sul muro di cinta posto nella zona Est del carcere. Un’impresa da rocciatore, sfruttando ogni possibile appiglio, da strutture di supporto a grondaie, ha raggiunto la cima del muro, alto circa sei metri. Quindi, magari attraverso tetti o cornicioni, ha oltrepassato lo spazio privato di un’abitazione contigua al carcere ed ha raggiunto la strada. Poi dell’uomo più nessuna traccia, non si sa ancora come ma Krasnic è riuscito a raggiungere la località Canale di Ceregnano, ad alcuni chilometri dal centro di Rovigo e qui da "Papillon" si è trasformato in esperto di motori. È riuscito a rubare un’auto, una Seat Cordoba a bordo della quale si è dato alla fuga. Imboccata la strada per Adria, si è poi immesso sulla Sp 45 ed è arrivato nel territorio di Loreo. Forse l’imperizia, forse un eccessivo entusiasmo per la fuga, fatto sta che il serbo ha perso il controllo dell’auto ed è andato a schiantarsi con una Passat proveniente in senso contrario. Uno scontro frontale violentissimo, i due mezzi sono stati sbalzati via dalla sede stradale. La Seat guidata dall’evaso è finita in un fossato. Dentro c’era circa mezzo metro d’acqua, l’auto del serbo si è ribaltata finendo nell’acqua. Intanto erano già scattate le misure d’allarme all’interno del carcere, attivando le ricerche del fuggiasco. Sul posto dell’incidente si sono precipitati i vigili del fuoco di Adria e le pattuglie dei carabinieri della compagnia di Adria. Il conducente della Passat è subito stato soccorso, presentava diverse ferite, se la caverà con una prognosi di una trentina di giorni. La situazione di Krasnic invece è apparsa più complicata. Il serbo era rimasto incastrato all’interno dell’abitacolo della vettura, forse svenuto, l’acqua ormai lo stava avvolgendo. Sono stati i vigili del fuoco ad estrarlo dal groviglio di lamiere che lo teneva imprigionato. L’uomo è stato trasportato all’ospedale di Porto Viro dove gli è stato diagnosticato un trauma cranico. La sua prognosi, per ora, resta riservata. Nel frattempo si erano già mobilitate le forze dell’ordine, carabinieri, polizia, guardie penitenziarie. La stanza dove è ricoverato lo slavo viene piantonata. Krasnic Smail era finito in carcere lo scorso 10 febbraio quando era stato arrestato dalla polizia di Rovigo che lo aveva acciuffato dopo un tentativo di fuga da una casa di Rovigo dove si era intrufolato probabilmente per commettere un furto. Addosso all’uomo erano stati rinvenuti gioielli e oggetti in oro.
Rovigo: una struttura vetusta con dotazioni carenti
La fuga di Smail Krasnic dal carcere di Rovigo riporta in primissimo piano il problema della sicurezza della struttura. Un’evasione in pieno giorno, durante l’ora d’aria, appare quanto di più improbabile possa avvenire all’interno di una casa circondariale che dovrebbe garantire efficienza ed affidabilità. Ma le lamentele per un carcere ormai vecchio, sovraffollato e bisognoso di interventi si rincorrono da anni nel capoluogo polesano. Il direttore del carcere Fabrizio Cacciabue dichiara: "Ancora non ci spieghiamo come l’evasione sia potuta avvenire. Certo l’organico della polizia penitenziaria è quello che è ma occorre fare piena luce sull’accaduto". È probabile che ora scatterà un’inchiesta interna, forse ad opera del ministero di Grazie e Giustizia. Intanto ci si chiede come sia potuto accadere che un uomo si sia arrampicato sul muro interno del carcere senza essere notato da alcuno. E come abbia potuto scavalcare il muro di cinta, e poi raggiungere la località che sorge ad alcuni chilometri di distanza nel giro di poco più di un’ora. L’evasione pare che sia stata scoperta al momento di una verifica numerica dei detenuti presenti in cortile, un’ora dopo la fuga. I problemi del carcere di Rovigo sono noti da tempo, più volte segnalati da sindacati e forze politiche. I detenuti, uomini e donne, sono poco più di un centinaio. Gli agenti di polizia penitenziaria una sessantina, ma si lamenta una carenza d’organico di almeno 15 unità (10 uomini e 5 donne). La cosa comporta sovraccarichi di lavoro per le guardie e non è escluso che questo fatto sia alla base di un deficit di sorveglianza durante l’evasione. Anche le strutture del carcere sono vetuste, sui muri di cinta mancano i sensori idonei a segnalare presenze "sospette" (come ad esempio quella di un fuggiasco). Sensori richiesti all’amministrazione ma rifiutati per mancanza di fondi. Prima di ieri l’altra ben più tragica evasione avvenuta dalla struttura rodigina è quella risalente al 1982 quando un commando di terroristi guidato da Sergio Segio fece fuggire quattro esponenti delle Brigate rosse e di Prima Linea (fra cui Susanna Ronconi) attraverso una breccia provocata nel muro di cinta. L’esplosione della bomba provocò la morte del pensionato Angelo Furlan. Treviso: un premio ai detenuti illustratori di fiabe…
Il Gazzettino, 18 febbraio 2006
La Mostra internazionale d’illustrazione per l’infanzia di Sarmede ha coinvolto, nella sua 23a edizione, artisti di tutto il mondo nel rappresentare la magia delle "Mille e una storia d’Oriente". Illustratori del tutto speciali, per la prima volta presenti con le loro opere al Paese delle fiabe, sono stati i detenuti della casa circondariale di Treviso premiati ieri per aver realizzato la fiaba, rigorosamente ambientata in terra d’Oriente, che è stata esposta nel periodo della Mostra presso la sede della Pro loco. Il progetto è stato avviato durante l’estate quando i detenuti, coadiuvati dall’associazione Il Soffio, hanno predisposto testi, musiche e illustrazioni ad acquerello. Il percorso, proseguito poi con la realizzazione di un libro e di una proiezione che arricchisce testo e immagini con melodie, si è quindi concluso con la premiazione. Alla cerimonia, tenutasi nella casa circondariale di Treviso, sono intervenuti il direttore del carcere Francesco Massimo, il sindaco di Sarmede Eddi Canzian, il presidente della Pro loco di Sarmede Danny Masutti, il presidente dell’Aics Treviso Francesco Mauro, Isabella Dei Toni dell’Osservatorio regionale sulla popolazione detenuta, due rappresentanti de Il Soffio e una delegazione dei detenuti coinvolti nell’attività. Il sindaco di Sarmede ha rinnovato l’invito ai detenuti ad essere presenti con le loro opere alla Mostra del prossimo anno: "Ritengo che le favole abbiano, anche dal punto di vista dei risvolti psicologici, una ripercussione positiva sia su chi le segue che su chi le crea. I carcerati stessi per poter realizzare il testo hanno dovuto confrontarsi con i contenuti morali che una favola è chiamata a proporre, valutando i valori di cui la stessa si fa portatrice". Milano: detenuto in licenza rapina una banca, arrestato
Provincia di Cremona, 18 febbraio 2006
Ha rapinato una banca approfittando di una licenza premio: l’uomo, un detenuto che scontava una pena in una casa-lavoro nel Modenese, alla fine è stato individuato e arrestato dai carabinieri di Corsico (Milano). Con lui è finito in manette anche un complice. Alfonso Centamore, 36 anni, secondo quanto spiegato dai militari era stato già arrestato nel febbraio del 2000 per una rapina in banca. Condannato a 5 anni e mezzo nel 2001, si trovava detenuto nella casa-lavoro di Saliceto S. Giuliano (Modena) quando, in occasione di una licenza concessa per il periodo 5-20 novembre 2005, ha fatto perdere le sue tracce. Secondo le accuse l’uomo, il 9 novembre, a Corsico (Milano), secondo le accuse ha rapinato un’agenzia della Banca Intesa con Giuseppe Saitta, 34 anni, portando via un bottino 1.500 euro. I due, entrambi originari della cittadina, sono stati identificati dai carabinieri grazie alle immagini a circuito chiuso della banca e riconosciuti dagli impiegati: Centamore, in particolare, aveva a carico un provvedimento di rintraccio e di ripristino della detenzione emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Modena dopo la sua fuga. Estremismo islamico: allarme attentati, ma il ministro frena…
Il Gazzettino, 18 febbraio 2006
Attenzione: rischio attentati. A lanciare l’allarme, i servizi segreti, che hanno trasmesso al Parlamento la loro relazione semestrale su terrorismo e sicurezza. Nero su bianco si legge che il rischio aumenta nella "finestra temporale che include Olimpiadi invernali ed elezioni politiche". Ma il ministro dell’Interno, Pisanu (Fi) mette le mani avanti e dichiara: "Non confermo, non rilancio, non smentisco, segnali ne arrivano ogni tanto ma per prima cosa bisogna valutarne l’attendibilità. Non mi pare ci sia un contesto da far pensare ad attentati terroristici, non ci sono segnali convincenti di alcun genere". Il rischio, secondo la relazione del Cesis, viene dall’estremismo islamico, e la minaccia supera l’intervallo temporale indicato: "I tempi ed i modi di un eventuale attacco anti-italiano restano legati alle condizioni di fattibilità operative ed all’intento di produrre un "effetto sorpresa", entrambi in grado di dilatare il "quando" ed il "dove" della minaccia". Una insidia, proseguono gli 007, è rappresentata dai "jihadisti "free lance", soggetti nati o comunque residenti in Occidente e qui guadagnati alla causa dell’islamismo internazionalista". Insomma, gli uomini della Jihad si incontrano tra moschee, scuole coraniche o carceri, lanciano proclami "contro il nemico" sul web, si scambiano denaro e informazioni attraverso i phone center. Notizie, queste ultime, che fanno sobbalzare i leghisti: "Ci chiamavano "sirene sfigate" tre anni fa, ma avevamo ragione noialtri, quando dicevamo che il terrorismo è finanziato dai money transfer", si legge in una nota dei senatori del Carroccio. Alcune difficoltà (la lingua, ad esempio) sono più che evidenti. E le segnalazioni che arrivano al Centro di Analisi Strategica Antiterrorismo sono molte, ma ben poche da considerare attendibili. Dice, infatti, Pisanu: "Segnalazioni sul terrorismo ne arrivano molte, ma vengono filtrate dal centro, dove sono rappresentate le Forze dell’Ordine e i servizi segreti. Pochissime notizie passano al vaglio come degne di attenzione". Nella relazione dei servizi segreti si legge che, di non meglio specificate segnalazioni, nel 2005, ne sono arrivate 373. Sul fronte interno, nel secondo semestre 2005 c’è stato un calo degli attentati rispetto al primo semestre ed un aumento delle azioni intimidatorie. Ma la situazione va tenuta sotto controllo perché "potenziali bacini per il reclutamento di "avanguardie" parrebbero essere individuati nel "movimento operaio" e nelle mobilitazioni di scampo anticapitalista ed antimperialista". I principali settori dell’estremismo politico si sono mobilitati contro la Tav in Val di Susa. Per il Cesis, poi, le formazioni della destra più estrema considerano le curve degli stadi italiani "ambito privilegiato per attività di propaganda e reclutamento". La diffusione, in occasione di eventi sportivi, di materiale neonazista, xenofobo ed antigovernativo, "ha costituito, per settori dell’ultradestra, strumento di infiltrazione tra le frange del tifo ultras". Iran: 113 esecuzioni nel 2005, otto vittime erano minorenni
Ansa, 18 febbraio 2006
Con 113 esecuzioni nel 2005, l’Iran é il secondo Paese "boia" al mondo, preceduto solo dalla Cina. La pena di morte inoltre, secondo il codice penale iraniano, riguarda anche i minorenni - femmine di età maggiore a 9 anni e maschi con più di 15 - e ben otto sono stati quelli giustiziati nel corso dello scorso anno. I dati, fotografati nel rapporto diffuso da "Nessuno tocchi Caino", in una conferenza stampa, delineano una sorta di atlante dell’orrore, che potrebbe però essere ancor più crudo, poiché le autorità non forniscono statistiche ufficiali. All’inizio del 2006, il Consiglio nazionale della resistenza iraniana ha denunciato che sarebbero invece 140 le condanne a morte e le esecuzioni avvenute nel Paese dall’insediamento del presidente Mahmoud Ahmadinejad, nel giugno 2005. "Nessuno tocchi Caino", oltre a denunciare questa situazione, lancia un appello per Nazanin, condannata a morte lo scorso 7 gennaio perché, nel marzo 2005 a Teheran, a soli 17 anni, avrebbe ucciso con un coltello uno dei due uomini che tentavano di violentarla. L’appello, firmato da diverse personalità (da Rita Levi Montalcini a Lucia Annunziata e Dacia Maraini), verrà inviato al segretario generale dell’Onu, Kofi Annan. "Abbiamo fatto questo appello - ha detto l’europarlamentare Emma Bonino, che ha presentato il dossier assieme, tra gli altri, a Sergio D’Elia segretario di "Nessuno tocchi Caino" - non solo perché questi sono veri e propri casi dell’orrore, ma perché riteniamo di dover sostenere quei gruppi democratici che in Iran non riescono ad avere uno sbocco politico. L’Europa, inoltre focalizza tutta la sua attenzione sull’Iran soltanto riguardo al nucleare e questo dimostra al popolo iraniano che ciò che gli accade all’Europa non interessa".In Iran, la pena di morte è prevista per omicidio, rapina a mano armata, stupro, blasfemia, apostasia, cospirazione contro il governo, adulterio, prostituzione, omosessualità e reati legati alla droga (possesso di più di 30 grammi di eroina o di 5 chili di oppio). La legge islamica, poi, vieta l’uso di bevande alcoliche punendo con la fustigazione o con la condanna a morte chi viola per tre volte la disposizione. I dettami della Sharia iraniana prevedono anche frustate per chi abbia rapporti sessuali prima del matrimonio e il taglio delle mani e dei piedi per i ladruncoli. Nonostante, nel gennaio dello scorso anno, il portavoce dell’autorità giudiziaria Jamal Kamimrad, avesse negato che in Iran vi fossero ancora condanne a morte di minorenni o alla lapidazione, nel 2005 i tribunali hanno continuato ad emettere condanne tramite lapidazione, che non sono state però eseguite. Nello stesso anno la stampa iraniana ha riportato notizia di almeno 52 esecuzioni pubbliche: l’impiccagione, infatti, pena preferita per gli uomini, viene spesso eseguita davanti alla folla. Al 7 gennaio 2006, c’erano almeno diciannove donne nei bracci della morte in attesa di essere impiccate o lapidate, mentre nel carcere minorile di Teheran e in quello di Rajai-Shahr c’erano almeno trenta condannati a morte che avevano meno di 18 anni al compimento del reato. Molte le esecuzioni relative al reato di droga, che secondo gli osservatori sui diritti umani, celano in realtà reati politici e di opinione. "L’Iran è un Paese con delle enormi capacità - ha spiegato Khaled Fouad Allam, docente di sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste e di islamistica nell’ateneo di Urbino - ma anche di forti contraddizioni. La sua è una democrazia che io definisco totalitaria: ci sono donne che guidano autobus e insegnano all’università, ma l’ideologia del regime coniuga il registro politico con quello religioso e mistico. Il problema è il governo, perché il popolo aspira a tutt’altra cosa". Usa: 60enne condannato all’ergastolo per succhiotto sul collo
Tg Com, 18 febbraio 2006
A causa di un bacio rubato e un succhiotto sul collo, a un 60enne dell’Oregon è stato inflitto l’ergastolo. Per Nicholas Mayrovich - condannato per abuso sessuale di primo grado - era questo il terzo reato commesso e in Oregon, al terzo delitto, si sta in carcere per tutta la vita. Per la difesa, la sentenza confermata in corte d’Appello viola la Costituzione perché impone una punizione "crudele e inusuale". La legge è legge e in questo Stato degli Usa, che ammette l’eutanasia e si considera di "larghe vedute", al terzo reato scatta la condanna all’ergastolo, indipendentemente dalla gravità del delitto commesso. Anche per Nicholas Mayrovich, che nell’ottobre 2003, mentre per lavoro disinfestava dalle termiti un appartamento, improvvisamente afferrò e baciò la padrona di casa. Nonostante la resistenza della donna, il 60enne, che aveva già precedenti condanne per reati sessuali, la riafferrò facendole un succhiotto sul collo. A interrompere la foga di Mayrovich fu solo l’arrivo di un vicino. Condannato per abuso sessuale di primo grado, dopo lunghe disquisizioni fra legali per capire se il collo vada o meno considerato "una parte intima", Meyrovich si è visto confermare la sentenza dalla corte d’appello di Salem, la capitale dell’Oregon, e ora è uno dei quattro detenuti dello Stato che sta scontando l’ergastolo in base alla legge dei "tre reati e stai dentro", varata nel 2001. Guantanamo: la vita dei detenuti raccontata da chi c’è stato
Il Foglio, 18 febbraio 2006
Sono le anime perdute della guerra contro il terrorismo. Quattro anni dopo essere stati catturati sui campi di battaglia dell’Afghanistan, le varie centinaia di combattenti talebani e di al Qaida detenuti a Guantanamo si trovano intrappolati in una "legal no-mans’s land", in una terra di nessuno dal punto di vista legale. Nel corso di una rarissima visita che io stesso ho potuto effettuare questa settimana a Camp Delta (la rete di edifici super sorvegliati nei quali i prigionieri sono alloggiati), ho visto detenuti di età e retroterra culturali molti diversi che stanno ancora cercando di adattarsi in qualche modo al loro incoerente mondo su un’isola caraibica. Ho incontrato un anziano capotribù pashtun, con una lunga barba bianca e immacolata e fieri occhi scuri, orgogliosamente eretto sull’attenti davanti alla sua cella. C’era un gruppo di giovani pachistani sui vent’anni che giocavano a pallone. Seduti in un angolo tranquillo, sotto un tetto di lamiera che li proteggeva dal feroce sole di mezzogiorno, ho visto un gruppo di afghani di mezz’età che pranzavano insieme e discutevano in modo molto cordiale. Questi, secondo le autorità americane, sono alcuni dei più pericolosi uomini sulla terra (a Guantanamo non ci sono detenuti donna). Dei circa 70 mila combattenti catturati durante la guerra in Afghanistan, i 750 detenuti di Guantanamo (la base navale di 45 miglia quadrate che il governo americano ha affittato da Cuba) sono stati identificati, sulla base dei rapporti dei servizi segreti e di sicurezza, come figure di primo piano nelle reti terroristiche di al Qaida e dei talebani, che potrebbero fornire importanti informazioni sulla campagna terroristica contro l’occidente. I detenuti provengono da 44 paesi diversi, si parlano in tutto 17 lingue differenti. Sono stati tutti catturati nel corso dell’operazione Enduring Freedom, la campagna militare guidata dall’America contro al Qaida e contro i talebani in Afghanistan. La maggior parte è di nazionalità afghana, pachistana, saudita e yemenita, ma c’è anche un australiano convertitosi all’islam radicale per entrare in guerra contro l’occidente. Degli originari 750 detenuti, 250 sono stati rilasciati. Alcuni perché le autorità americane non li ritenavano più una minaccia o in possesso di utili informazioni. Altri (come i detenuti britannici) sono ritornati nei loro paesi d’origine grazie all’intervento dei loro governi. Ma quelli che ancora rimangono si trovano davanti a un futuro incerto, in quanto le autorità americane continuano a insistere che sono troppo pericolosi per essere rilasciati o che posseggono ancora informazioni considerate di cruciale importanza per il proseguimento della guerra contro il terrorismo. Insomma, dopo quattro anni di prigionia, alcuni detenuti posseggono ancora informazioni decisive sulla rete terroristica internazionale guidata da Osama bin Laden. "Un detenuto ci ha fornito informazioni fondamentali relative agli attentati di Londra", ha dichiarato al Daily Telegraph un importante ufficiale americano di Guantanamo. "Persino quattro anni dopo la loro cattura possono ancora dare decisive informazioni sulla rete di al Qaida". I militari americani temono anche che, se rilasciati, potrebbero riprendere a combattere contro le forze della coalizione. Almeno dodici dei detenuti finora rilasciati in ragione del fatto che non rappresentavano più una minaccia sono stati coinvolti in attacchi contro la coalizione, compreso un afghano al quale era stato fornito un arto artificiale durante la sua detenzione a Guantanamo.
Le foto le ha fornite Castro
Nel corso di quattro anni, la struttura detentiva di Guantanamo si è completamente trasformata rispetto alle prime inquietanti immagini dei prigionieri legati, con gli occhi coperti e vestiti con tute arancioni che venivano condotti dai soldati americani per essere interrogati. Quelle immagini erano state fornite grazie alla cortesia del leader cubano Fidel Castro, che aveva permesso a un fotografo americano di avere accesso all’estremità del confine cubano con Guantanamo allo scopo di mettere in imbarazzo i suoi nemici americani. I prigionieri non sono più detenuti in provvisorie celle di metallo all’aria aperta a Camp X-Ray, dove erano stati alloggiati i primi all’inizio del 2002. Lo stesso Camp X-Ray è stato abbandonato ed è già stato ricoperto dalla sterpaglia. Il dipartimento della Difesa americano ha speso centinaia di migliaia di dollari per trasformare quella che un tempo era una sonnecchiante e insignificante base navale in una modernissima prigione di massima sicurezza, capace di ospitare centinaia di detenuti per tutto il tempo desiderato. In molti casi, dicono i funzionari del governo americano, questo potrebbe equivalere a tutta la "durata del conflitto", il che, tenendo conto dell’incerta natura della guerra al terrorismo, potrebbe significare decenni. Infatti, malgrado tutte le critiche piovute su Washington per il trattamento riservato ai detenuti (o "nemici combattenti", come il governo americano preferisce chiamarli), Guantanamo è stata istituzionalizzata, tanto che si stanno investendo molti milioni di dollari per costruire altre strutture di massima sicurezza. "In sostanza, non c’è nessun altro posto dove possiamo tenere prigioniere queste persone – dice un importante funzionario americano – E finché porranno una minaccia alla nostra sicurezza o potranno fornire informazioni importanti per prevenire altri massacri, dobbiamo avere a Guantanamo efficienti strutture di massima sicurezza per garantire una detenzione rispettosa dei diritti umani". Dopo essere stati sottoposti ad accurati controlli e interrogatori, i detenuti sono ora suddivisi in tre categorie, a seconda della loro disponibilità ad accettare le peculiari circostanze della loro prigionia. La maggior parte appartiene alla categoria definita dai funzionari americani con il termine di "obbedienti": accettano le regole del centro di detenzione ed è accordato loro un trattamento simile a quello delle prigioni normali. Gli "obbedienti" sono ospitati in celle con l’aria condizionata in edifici a un solo piano appositamente costruiti nella rete in espansione dei cinque campi di prigionia costituenti Camp Delta, che ha sostituito Camp X-Ray. Ogni edificio contiene 48 celle ed è circondato da un doppio anello di filo spinato, con torrette di sorveglianza sempre operative. Ogni cella ha un gabinetto alla turca e un lavandino. I detenuti portano vestiti marrone chiaro e sono loro forniti alcuni articoli per l’igiene personale, alcuni giochi (come il backgammon e gli scacchi, che giocano urlandosi le mosse da una cella all’altra) e una copia del Corano. In ogni cella è disegnata una freccia che indica la direzione della Mecca, per eseguire le preghiere quotidiane rivolti verso la città santa del Profeta. Sono concesse due ore di esercizio fisico al giorno e la possibilità di scegliere i tre pasti da un menu che include gelato, biscotti e burro di arachidi. C’è un ospedale perfettamente equipaggiato per affrontare qualsiasi emergenza medica, e molti detenuti sono stati curati non soltanto per le ferite riportate durante la guerra in Afghanistan, ma anche per numerose altre malattie. Agli "obbedienti" che sono pronti a collaborare con i servizi segreti americani sono concessi ulteriori privilegi. Questa seconda categoria di detenuti indossa tute bianche, ha il permesso di vivere in strutture comuni, di pranzare insieme agli altri detenuti e di giocare a calcio e pallacanestro.
I "cocktail numero quattro"
La terza categoria, invece, quella dei detenuti "non-obbedienti" che rifiutano di accettare il confinamento, pone gravi problemi ai militari americani. Molti di questi detenuti sono irriducibili combattenti di al Qaida, convinti che la loro divina missione sia uccidere i propri "infedeli" catturatori. Attaccano spesso le guardie e, quando non possono farlo, tirano loro addosso pallottole fatte di escrementi – che le guardie chiamano "cocktail numero quattro". È proprio in caso di incidenti come questi che le guardie hanno reagito in modi discutibili, per esempio oltraggiando il Corano (il famoso caso di un Corano gettato dentro un gabinetto è a quanto pare avvenuto in un caso di questo tipo). Ma, per timore di un ripetersi degli abusi sui prigionieri verificatisi ad Abu Ghraib, le guardie hanno l’ordine di non rispondere alle provocazioni. "Abbiamo svolto indagini su 15 guardie accusate di abusi – dice un funzionario di Guantanamo – Soltanto in cinque casi vi erano prove concrete, e si sono presi adeguati provvedimenti contro i colpevoli". I prigionieri "non-obbedienti" sono detenuti in ali separate del campo ed è garantito per loro soltanto lo stretto necessario, comprese le famigerate tute arancioni. Sono concessi loro soltanto tre periodi di mezz’ora di esercizio fisico alla settimana. Non stupisce che sia proprio in quest’ala che si verifica la maggior parte degli scioperi della fame. Lo scorso anno, nel momento di massima intensità degli scioperi, c’erano oltre cento detenuti che rifiutavano di mangiare. Oggi ne rimangono cinque, e soltanto uno di essi ha continuato a fare sciopero della fame fin da quando la protesta è iniziata, lo scorso agosto. (segue dalla prima pagina) Il governo americano è stato fortemente criticato dall’Onu e dalle organizzazioni per i diritti umani per essersi arrogato il diritto di nutrire a forza i prigionieri in sciopero della fame. Ma gli ufficiali medici di Guantanamo rifiutano le critiche: "Abbiamo il dovere di trattare queste persone in modo umano e di salvar loro la vita, ed è esattamente ciò che facciamo". Oltre ai problemi connessi con gli scioperi della fame, nel corso di questi quattro anni il personale medico di Guantanamo ha dovuto affrontare circa trenta tentativi di suicidio. Per soddisfare le esigenze di supersicurezza imposte dalla necessità di detenere sia i prigionieri "non-obbiedienti" sia quelli in possesso di importanti informazioni, gli americani hanno completato la costruzione di Camp Five, una prigione di massima sicurezza progettata sul modello di un penitenziario federale in Indiana. Vi sono quattro edifici di celle, ognuno con una sala per interrogatori. La prova che, per il prossimo futuro, Washington è determinata a mantenere Guantanamo come propria principale struttura di detenzione nella guerra contro il terrorismo la si può vedere nel fatto che ha appena investito 31 milioni di dollari per la costruzione di una nuova struttura. Malgrado tutte le critiche, Washington non ha alcuna intenzione di rinunciare al diritto di tenere prigionieri nella sua base cubana. La polemica nasce sul terreno della definizione legale dei detenuti. Per gli americani, i detenuti di Guantanamo sono "nemici combattenti", guerriglieri fanatici che non appartengono a nessun paese, non indossano alcuna uniforme e non fanno alcuna distinzione tra uccidere soldati o civili nella loro devozione alla guerra contro l’occidente scatenata dal leader di al Qaida, Osama bin Laden. Come tali – sostengono gli americani – non sono coperti dalla Convenzione di Ginevra e non si qualificano come prigionieri di guerra, per quanto il trattamento include buona parte di quanto richiesto dal diritto internazionale. Ma la creazione di una nuova categoria di detenuti catturati sul campo di battaglia è stata aspramente criticata dalle associazioni per i diritti umani e dall’Onu, secondo cui i detenuti, se non sono classificati come prigionieri di guerra, devono essere o accusati di qualcosa oppure rilasciati. Per controbattere queste critiche, le autorità statunitensi, il 27 febbraio, apriranno alcune "commissioni militari" (o corti militari) per processare i detenuti accusati di crimini di guerra. Finora soltanto dieci hanno ricevuto quest’accusa, ed è probabile che solo una piccola percentuale di loro sarà portata davanti alla commissione. "Il problema è trovare le prove per processarli – ha spiegato un ufficiale – Queste persone sono state catturate sul campo di battaglia, e questo non è certo un luogo dove si possono mandare i poliziotti a raccogliere le prove". Le autorità americane continuano a valutare i detenuti per stabilire se possano essere rilasciati o no. Ma si trovano di fronte a un problema, perché non possono rilasciare detenuti appartenenti a paesi dove potrebbero essere torturati. In questo momento ci sono circa cento detenuti (compresi alcuni cinesi) che gli americani vorrebbero rilasciare e rimandare nei loro paesi, ma non possono a causa del trattamento che potrebbero subire da parte dei loro governi. Almeno per il prossimo futuro, dovranno restare, insieme con tutti gli altri, a languire nella terra di nessuno di Guantanamo Bay. "Certo, non è la cosa ideale, ma, date le circostanze, riteniamo che sia la soluzione migliore – dichiara un importante funzionario del Pentagono – Se qualcuno ha un’idea migliore, si faccia avanti, siamo pronti ad ascoltarlo".
Con Coughlin - Daily Telegraph (traduzione Aldo Piccato)
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