Rassegna stampa 21 aprile

 

Sette detenuti morti nelle carceri italiane nel mese di marzo

 

Redattore Sociale, 21 aprile 2006

 

Continua il monitoraggio di "Ristretti Orizzonti", che punta il dito anche sui ritardi nell’assistenza medica. Sono 7 i detenuti morti nelle carceri italiane nel mese di marzo; 5 in meno del mese scorso, 3 in più rispetto ai casi registrati a gennaio. L’ultimo rapporto "Morti di Carcere" di "Ristretti Orizzonti", mette in evidenza come il suicidio sia ancora una delle maggiori cause di morte nelle carceri italiane (5 i casi nel solo mese di marzo) sollevando il dibattito sulle condizioni di vita dei detenuti, spesso disumane, e sul rispetto dei diritti umani.

"Il suicidio di un detenuto - ha dichiarato Dario Stefano Dell’Aquila, presidente di Antigone Napoli e componente dell’Osservatorio Nazionale sulla detenzione - solleva più di un problema. È indubbiamente il segnale di un disagio diffuso che si vive nelle prigioni italiane, mai così sovraffollate. Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ritiene fisiologico che ci sia in carcere una percentuale di suicidi superiore a quella dei cittadini normali, noi pensiamo che esiste un preciso compito giuridico dell’Amministrazione Penitenziaria di tutelare l’integrità di persone prive della libertà".

"Sarebbe opportuno - ha concluso il presidente di Antigone Napoli - che si facesse chiarezza sulle dinamiche di questi eventi, senza reticenze e con trasparenza". È il caso del carcere fiorentino di Sollicciano che nel mese di marzo ha registrato due decessi (per mancata assistenza medica e per suicidio) e un tentato suicidio. Le cause sono da ricercare nel sovraffollamento: mille detenuti vivono per ventidue ore al giorno letteralmente ammassati in celle di dieci metri quadrati e il resto lo passano in cortili di cemento.

Il dossier mette alla luce anche un altro grave problema presente in alcune carceri italiane: i ritardi nell’assistenza medica. La morte di Francesco Lombardo nel carcere di Sollicciano ha sollevato molte polemiche e accuse. . Alle 22.30 del 23 marzo 2006, F.L., di 42 anni, ha accusato dolori gravi. Se ne è accorto il compagno con cui divideva la cella, che ha immediatamente cominciato a gridare e battere contro il blindo, subito seguito dagli altri detenuti dell’intera sezione, per avvertire gli agenti in servizio. Solo dopo oltre venti minuti questi ultimi hanno aperto la porta della cella, consentendo ai detenuti stessi di trasportare Lombardo fino all’infermeria interna servendosi di un lenzuolo. All’infermeria, Lombardo è giunto ancora in vita ma è deceduto poco tempo dopo, probabilmente per un ictus. "La sua condizione - spiega Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti - conferma che il carcere è una struttura malata e che produce morte e che il diritto fondamentale è quello alla salute e alla vita. Solo che le condizioni del carcere contrastano violentemente questa prerogativa. Il carcere reso invivibile dal sovraffollamento e da leggi criminogene non è in grado di garantire i diritti fondamentali e quindi o per suicidio o per malattia la conclusione è ugualmente drammatica".

Lettere: sono Marianna, moglie di un detenuto immigrato…

 

Left - Avvenimenti, 21 aprile 2006

 

"Sono Marianna, moglie di un detenuto immigrato. Ultimamente stiamo vivendo dei disagi enormi. L’anno scorso il mio compagno è stato arrestato e il tribunale di Latina ha emesso una sentenza di tre anni e mezzo di reclusione.

Fino al 30 di marzo di quest’anno il mio compagno ha potuto scontarla nel carcere di Latina, poi c’è stato il trasferimento, un trasferimento assurdo: l ‘hanno portato ad Iglesias in Sardegna. La motivazione che ho ricevuto è stata: "questo carcere è sovraffollato". Naturalmente questo comporta serissimi problemi per me e per il mio compagno. Con una lontananza di questo tipo, io non ho la possibilità di andarlo a trovare, soprattutto per il fatto che un viaggio in Sardegna costa diverse centinaia di euro, ed essendo disoccupata con una figlia da crescere, non ho disponibilità di tali somme. Trovo che questa sia una grande ingiustizia, trovo che impedire ad una famiglia di incontrarsi, di vedersi, di coltivare gli affetti, anche se uno dei due ha sbagliato, sia addirittura una violenza psicologica. Non chiedo riduzioni di pena, né scarcerazioni. Chiedo soltanto la possibilità di poterlo andare a trovare con regolarità, ma per questo è necessario che perlomeno venga riportato nei penitenziari del Lazio dove noi siamo residenti. A questa lettera vorrei aggiungere un appello alla sensibilità di chi gestisce i trasferimenti, affinché riescano a comprendere quanto sia importante, per noi che siamo fuori, stare vicino a chi è in carcere."

 

Marianna Z.

 

Risponde Irene Testa, Associazione radicale "il Detenuto Ignoto"

 

Il problema di cui ci parla Marianna è negli ultimi tempi decisamente in crescita, poiché estremamente legato alla crescita esponenziale dei detenuti che affollano le carceri italiane.

Non sono poche le famiglie che si trovano ad affrontare sforzi enormi per poter raggiungere i propri cari. Mogli, madri e figli senza avere colpa alcuna si ritrovano anche loro gravati da una sorta di condanna, che si traduce nell’essere obbligati ad affrontare diverse umiliazioni, piccole e grandi, ingenti spese economiche, viaggi interminabili anche in compagnia di figli piccoli. A volte capita addirittura che queste persone siano avvertite di un eventuale trasferimento di un congiunto, solamente al momento in cui si presentano negli istituti per i colloqui. Tutto ciò, per non essere né condannati, né colpevoli di alcunché, oltre ad essere intollerabile è anche insostenibile. Se però andiamo a vedere nell’Ordinamento Penitenziario quali sono le disposizioni in materia di trasferimenti, vediamo bene e in maniera inequivocabile come determinati diritti, la cui sistematica violazione assume spesso una connotazione odiosamente punitiva, debbano in realtà essere garantiti.

L’articolo 42 di detto Ordinamento così recita: "I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’ istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie." Viene anche stabilita una distanza in km. I detenuti non dovrebbero essere trasferiti a più di 200km dal luogo di residenza. È evidente che la legge, per quanto bella, non funziona. E trovarne una che funzioni, allo stato delle cose, non sembra agevole, né forse possibile. Del resto quale riforma in tema di carcere e giustizia può mai risultare efficace, se prima non si prendono dei provvedimenti, come l’amnistia e l’indulto, volti alla rimozione di quell’enorme blocco giuridico e sociale che ne soffoca ogni dinamica, ogni possibile cambiamento?

Giustizia: Ciampi concede la grazia parziale a Del Cecato

 

Redattore Sociale, 21 aprile 2006

 

Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha concesso la grazia parziale a Alessandro Del Cecato. La grazia era stata chiesta da Antigone. Alessandro Del Cecato (nato a Roma il 14.03.1959) era stato condannato in Thailandia alla pena di morte, poi trasformata alla pena dell’ergastolo, per il reato di detenzione e spaccio di stupefacenti (commesso il 20.05.1992).

Arrestato nel 1992 e trasferito in un carcere in una sezione destinata ai condannati alla pena di morte, è stato sottoposto ad una barbara misura di restrizione fisica prevista dal sistema penale tailandese che consiste nell’apporre e nel saldare, in modo permanente alle caviglie, delle catene del peso di circa 4 kg. Del Cecato ha vissuto in queste condizioni per 12 anni in celle affollatissime, dormendo per terra in condizioni igieniche al limite della sopportazione.

Perfino l’acqua, le medicine e il cibo venivano dati dietro il pagamento di un prezzo. A gennaio 2004 è stato trasferito a Roma, in seguito ad un accordo tra il governo italiano e quello tailandese, ed è attualmente detenuto nel carcere di Rebibbia, dove sta scontando una condanna a 30 anni di reclusione. La Corte di Appello di Roma ha infatti tramutato la condanna a vita inflitta dai giudici thailandesi a 30 anni di reclusione quando in Italia la pena prevista per questo reato in Italia va da 3 anni e 6 mesi a 6 anni (raramente viene dato il massimo). Durante la detenzione in Thailandia ha perso il padre.

Il Presidente della Repubblica gli ha graziato 10 anni in modo da potere avere un residuo pena che gli consenta di ottenere i benefici penitenziari. "Si è trattato di un atto di clemenza per il quale ringraziamo - dichiara Patrizio Gonnella - il Presidente della Repubblica e gli uffici di Via Arenula. Del Cecato ha sofferto molto. Ora gli restano meno di tre anni da scontare e può subito chiedere i benefici all’esterno. La sua è stata una pena inumana e degradante. Il Capo dello Stato ha dato un segnale inequivoco di condanna di ogni pena che assomigli alla tortura".

Vicenza: in tre mesi ci sono stati 327 ingressi e 280 scarcerazioni

 

Giornale di Vicenza, 21 aprile 2006

 

Era stato costruito per un avere un rapporto uno a uno. Un detenuto, una cella. La realtà è molto diversa, oggi alla Casa circondariale di San Pio X vivono tre persone per cella, con una popolazione totale di 296 carcerati. Di questi 145 sono stranieri. Sul totale 152 sono stati condannati in via definitiva, il resto è in attesa di giudizio. Tra i 145 detenuti stranieri 42 sono albanesi, 22 marocchini e 19 tunisini, mentre per quanto riguarda i primi mesi del 2006 si segnalano 327 nuovi ingressi contro 280 carcerati che non lo sono più. In diciannove godono della condizione di semilibertà, 54 vivono nella sezione di massima sicurezza per aver compiuto reati gravi ed è in costruzione un’area che potrà ospitare una decina di collaboratori di giustizia.

Il "popolo" dell’istituto penitenziario è questo, ma in realtà è molto altro. Oltre 140 poliziotti, una trentina di personale amministrativo e poi un via vai continuo di avvocati, personale medico, assistenti sociali e psicologi. "Il problema più grande - spiega la direttrice Irene Iannucci - è quello di lavorare in estrema emergenza e con il poco personale di cui disponiamo, per fortuna tra noi esiste la massima collaborazione, ma non è facile mandare avanti un istituto così complesse dove il problema del sovraffollamento rimane all’ordine del giorno"

 

Il Cappellano "Sognano di poter ricominciare"

 

Il detenuto è una persona che soffre per la privazione della libertà. I carceri sono chiamati Istituti di Pena e la condanna è una pena da scontare. Nell’immaginario collettivo trovo sempre la convinzione che i detenuti oggi "fanno un carcere facile" che non sortisce alcun effetto. Invece la privazione della libertà è una gran pena. Chi studia da un punto di vista psicologico l’esperienza detentiva la paragona alla perdita di un genitore che come prova morale e affettiva sta al vertice.

Va detto che la pena è appunto la privazione della libertà (d’altronde funziona così: "Tu hai fatto cattivo uso della libertà recando danno ad un’altra persona, ora io ti punisco e ti tolgo la libertà affinché tu riconosca il valore della libertà e impari le regole che la garantiscono, le regole che questa determinata società si è data"). Mi dicono: "Lei Padre viene dentro tutti i giorni, ma poi sa che può uscire. Lei non si è mai fatto chiudere dentro una cella, anche per poche ore. Tutto quello che normalmente si fa non si può più fare. La sola cosa che si può fare liberamente è pensare. Ma non si può pensare tutto il giorno: si diventa matti".

Il detenuto è una persona che soffre per la condanna morale che il carcere porta con sé. Uno rimane per tutta la vita un ex-carcerato, uno che ha sbagliato, uno che non è degno di fiducia, uno che ha fatto del male agli altri.

È una persona senza più diritti: in cella come compagni può arrivare chiunque, un nero, un albanese, un italiano… chi capita. Può essere tossicodipendente, malato, sporco, ubriaco o ferito: con chiunque arrivi bisogna andare d’accordo, dividere il poco spazio a disposizione, prestarsi le cose, pulire la cella, condividere i servizi igienici. Dalla cella tutto si deve chiedere: una pastiglia per il mal di testa, una penna per scrivere, una busta per inviare una lettera. È necessario chiedere con la domandina (un apposito modulo): ci vogliono giorni per avere la risposta. Tutto è rallentato, sottoposto a restrizioni e a innumerevoli regole. Il carcere è generalmente sovraffollato e un solo agente penitenziario deve sorvegliare da solo una sezione con 65 detenuti.

Il carcerato è una persona con forti sensi di colpa che cerca di mascherare con un mare di bugie. Le bugie sono dette al giudice, a volte si concordano con l’avvocato. Lo prevede il sistema giudiziario italiano che riconosce la durezza della privazione della libertà e che permette al reo di non pagare "troppo".

A quanti pianti si assiste! Certo non sono tutti pianti sinceri secondo i nostri criteri di pentimento e redenzione ma esprimono dolore vero. Sì il dolore e la sofferenza, la rabbia e la disperazione sono vere. Per questo insieme di situazioni, nella calma di un colloquio, la persona detenuta cerca di "salvare la faccia" magari per ottenere un sorriso o qualcosa che li aiuti a passare il tempo, oppure solamente per sentire che qualcuno ha ancora cura di loro. Sono uomini come noi con desideri sani di contare qualcosa, di non aver distrutto tutto, di aver ancora la possibilità di cominciare.

Il detenuto è una persona che non lo dice ma che dubita di poter cambiare perché ha già sbagliato innumerevoli volte; perché non sa riconoscere la causa di quanto è successo; perché porta con se una storia che non sa leggere in modo critico. La persona ristretta tende veramente ad attribuire agli altri la sua sventura e a non riconoscere le proprie colpe. (Si dice che in carcere sono tutti innocenti). Possiamo affermare che il problema di queste persone non è tanto la detenzione ma la storia, la vita e l’ambiente che stanno all’origine del comportamento che li ha portati in carcere.

Infine il ruolo della società. Per la persona detenuta il problema non è la carcerazione (anche se a lui può sembrare così). Il problema è la sua storia, è l’ambiente da cui proviene e a cui solitamente torna alla fine della pena.

 

Condannati a vivere in 6 metri quadri

 

Luca è un bambino biondissimo di tre anni, sta all’ingresso con la madre e attende che la guardia dia il via al suo passaggio. È l’ora di pranzo, fuori un altro gruppo di familiari aspetta il proprio turno prima delle procedure. Come ogni giorno devono consegnare telefonini, borse e documenti, passare dal metal detector. Luca ha fretta e guarda dal basso all’alto la madre, ancora pochi minuti e i due potranno entrare nel carcere di San Pio X per incontrare il giovane marito, il giovane padre che sta per scontare un anno di reclusione. Il check in accompagna decine di persone al giorno in un altro mondo, in un’altra comunità. Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro. Poco più di cento celle per trecento carcerati, tre detenuti per stanza da sei, sette metri quadri l’una.

Il percorso è sempre lo stesso come in un girone dantesco. Chi entra qui segue un rito che si ripete da sempre. Prima viene accompagnato in un ufficio dove viene aperto un fascicolo e vengono prese le impronte digitali. Poi si passa al magazzino dove vengono consegnati piatti, stoviglie, lenzuola e oggetti per l’igiene personale. Il detenuto a quel punto attraversa il silenzio agghiacciante tra le mura del carcere, solo il rumore metallico dei cancelli che si aprono e si chiudono interrompe quella triste monotonia che lo porterà al suo "braccio", alla sua stanza.

Qui c’è gente che ha sbagliato e che sta pagando. Venti ore chiusi in cella, quattro "ore d’aria", due al mattino, due al pomeriggio. I tranquillizzanti sono distribuiti come caramelle, valium e tavor sono l’antidoto dei più alla disperazione. Nella notte di Pasqua un tentato suicidio di un tossico ha fatto scattare l’allarme nella notte, il ragazzo se la caverà, "ma fino a quando?" si chiedono qui dentro. Il mondo della Casa circondariale è governato da una squadra capace di funzionare come un orologio. Il direttore Irene Iannucci dice di aver scelto lei questo lavoro "per dedicarmi alle persone con devianze e riuscire a farle tornare nella legalità".

Poi c’è la polizia penitenziaria diretta dal comandante Giuseppe Lozzito e dall’ispettore capo Antonio Mirigliani. Vivono nel cuore dell’emarginazione, vedono tutti i giorni ad ogni ora facce, smorfie, pianti e sorrisi, sentono odori e imprecazioni. Per dieci ore al giorno il loro di mondo è fatto da quattro "sezioni" ognuna delle quali contiene 25 celle blindate.

Dentro a quelle stanze cristiani convivono con musulmani, spacciatori con ladri, camorristi con falsari. Tocca ai poliziotti per 1.300 euro al mese non sconvolgere un equilibrio precario, "evitare che un ospedale pieno di malati particolari non scoppi", spiega il comandante Lozzito.

E poi ci sono quelli che tentano disperatamente di tracciare un filo tra il mondo esterno e quello del carcere. L’educatore Claudio Petruzzellis e non solo lui, in vent’anni di lavoro è riuscito in qualche piccolo miracolo: realizzare una biblioteca dove lavora un detenuto, corsi di formazione, di pittura, teatro e giardinaggio. In carcere poi c’è perfino una piccola azienda terzista, gestita da una cooperativa che dà lavoro a dieci persone "assunte" tra i detenuti, e ancora una palestra e una chiesa. Non è tutto, alla Casa circondariale c’è perfino uno sportello informazioni. L’ufficio per gli alloggi popolari, Inps, ufficio immigrati, i servizi dell’Inca.

E poi c’è il giovane don Agostino Zenere, il cappellano del carcere, impegnato ad ascoltare e soprattutto a dare una speranza a chi non ce l’ha più. A chi per esempio ha ucciso per 50 milioni di vecchie lire e da lui chiedeva indulgenza "solo" per le troppe imprecazioni dentro in cella.

È il paradosso comune che spunta limpido tra i corridoi di un carcere che nel 2005 ha contato 1.800 ingressi con una mobilità altissima.

Padre Pio, immagini sacre, santi e madonne tappezzano i muri dei detenuti meridionali, quasi che la religione "appesa" al muro aiuti ad esorcizzare i conti con un passato pesante.

Nelle celle degli immigrati invece vince la bellezza italica che ha il volto e qualcosa in più di Monica Bellucci ed Elena Santarelli. Ma c’è anche chi legge un quotidiano, un libro o scrive una lettera per l’avvocato o la moglie.

Dentro in cella ogni materiale è fondamentale, il primo obiettivo è far passare quel maledetto tempo. Così pacchetti di sigarette, allineati e incollati, diventano mensole dove appoggiare gli oggetti. Le scatole intagliate di riso o sale, diventano le cassette della posta da esibire all’esterno appese alla porta di sbarre.

Dentro in cella un fornello da campeggio può fare miracoli al San Pio X. Chi è dentro da anni ha imparato a cucinarsi frittate, biscotti, dolci e pefino le pizze.

Antonio e Franco hanno voglia di parlare, dalla loro stanza allungano il braccio per richiamare attenzione: "Io esco tra dieci giorni - racconta il napoletano Antonio - dopo nove anni passati qui dentro. Mai avuto un permesso, ma mi sono sempre trovato bene. Cosa farò dopo? Tornerò a lavorare con i miei figli nella mia impresa edile".

Lui e il suo compagno di cella Franco, a Natale hanno messo in scena la commedia di Eduardo "Natale in casa Cupiello": "È stato un successo, magari quando saremo fuori faremo il bis".

San Severo: detenuti soddisfatti dopo le dimissioni del garante

 

Il Grecale, 21 aprile 2006

 

Esprimono soddisfazione i detenuti del carcere di San Severo dopo le dimissioni del garante della casa di reclusione. "Il Garante, anche se ancora non abbiamo capito di chi e di che cosa - dichiarano i detenuti - ha rassegnato le proprie dimissioni dopo un anno di inefficienza. Non ci interessa né ci preme sapere la responsabilità di tanto immobilismo, cioè se è stata del consigliere comunale Roberto Prattichizzo, del sindaco o di esponenti del suo o di altri partiti politici che hanno tramato alle sue spalle.

A noi interessa semplicemente e prioritariamente che venga attivato il servizio con la nomina di un’altra persona che dovrebbe fare da garante. La problematica del nostro reinserimento sociale e lavorativo, l’aiuto morale ed economico alle nostre famiglie, la presenza istituzionale nel territorio di un referente che rappresenti i nostri diritti sono questioni di primaria importanza che dovrebbero essere al di sopra e al di fuori delle beghe politiche tra partiti o tra persone di partiti diversi.

Sono cose urgenti per essere oggetto di strumentalizzazioni e, poi, le promesse disattese non fanno altro che illudere i detenuti speranzosi di ritornare a vivere nella società con un proprio lavoro senza essere costretti, in mancanza, a ritornare a delinquere. Tra l’altro, solo questi percorsi ci possono davvero aiutare a non tornare nei nostri cammini sbagliati di droga e delinquenza da cui proveniamo.

A questo punto ci sentiamo in diritto di fare la nostra proposta alle istituzioni pubbliche, nella persona del Sindaco e di tutto il Consiglio Comunale di San Severo. Nel nostro Istituto, è già operante da diversi anni la figura del cappellano, nella persona di don Dino d’Aloia il quale, nei momenti di sconforto, ci dà una mano fattiva, sia dal punto di vista spirituale che dal punto di vista economico, nel senso che mai si è rifiutato di dare un aiuto concreto a qualcuno di noi che ne avesse bisogno, con l’ausilio della Caritas e dell’Associazione "Nuovi Orizzonti", di cui è Presidente. Pertanto noi detenuti della locale Casa di Reclusione proponiamo, a gran voce, la persona di don Dino come colui che meglio di ogni altra può rivestire il ruolo di "Garante dei detenuti". A tale proposito, facciamo un appello anche al Vescovo, mons. Michele Seccia, perché ci dia un supporto fattivo nel raggiungimento di questo obiettivo fondamentale per noi, che sentiamo profondamente la necessità di inserirci a pieno titolo nella società.

Infine invitiamo il Sindaco, Michele Santarelli, a darci una risposta concreta in occasione dell’iniziativa, che si terrà il prossimo 29 aprile nel teatro comunale. Infatti noi detenuti parteciperemo come protagonisti, proponendoci per tutti coloro che avranno voglia di trascorrere alcune ore di serenità e di sano divertimento".

Milano: detenuto morì in cella, cardiologo rinviato a giudizio

 

Corriere della Sera, 21 aprile 2006

 

Gridava Pasquale Squeo. Quella mattina del 6 settembre 2001, nella cella della sezione "attenuata" del carcere di Opera, il detenuto 52enne stava per morire di infarto. Nel 2004, la procura della Repubblica di Milano aprì un’inchiesta incriminando i due medici specialisti chiamati nel carcere di Opera a visitare Squeo nei giorni precedenti, uno pneumologo di 41 anni e un cardiologo di 44 anni. L’accusa: omicidio colposo del detenuto, per averne sottovalutato lo scompenso cardiaco, ignorato una radiografia, omesso di curarlo adeguatamente e di farlo ricoverare tempestivamente in ospedale. L’indagine è adesso a una svolta. Il pm Fabio De Pasquale ha chiesto di procedere contro il cardiologo per omicidio colposo, lasciando cadere l’accusa contro lo pneumologo. La richiesta di rinvio a giudizio contro il medico, sulla base della consulenza tecnica del tribunale (contestata dai difensori dei medici, gli avvocati Luigi Liguori e Giuseppe Alaimo), è stata trasmessa al gip Clementina Forleo che nei prossimi giorni fisserà l’udienza. Cardiopatico ischemico, già infartuato, quattro by-pass, gravemente obeso, tabagista, iperteso e diabetico Squeo era rinchiuso da due anni: doveva scontare una condanna a tre per ricettazione. Lettere, istanze di scarcerazione non erano servite a nulla. Lui continuava a ripetere di essere troppo malato per restare in carcere. Sia pure in un carcere come Opera, l’unico in Italia attrezzato come un ospedale. Gridava Squeo e gridavano anche gli altri detenuti, chiedendo agli agenti di intervenire. Il detenuto era poi stato portato in ospedale, al San Paolo, ma era morto. La figlia Debora non si è mai voluta arrendere.

Nuoro: 70enne detenuta; se la lasciano in carcere morirà...

 

L’Unione Sarda, 21 aprile 2006

 

"Di una cosa sono sicuro, che viste le sue condizioni di salute il carcere se la porta all’altro mondo". A 48 ore dal ritorno dietro le sbarre di Grazia Marine, la carceriera di Silvia Melis condannata martedì scorso con sentenza definitiva a 25 anni e mezzo di reclusione, il suo avvocato Mario Lai ribadisce quanto aveva già sostenuto subito dopo l’arresto della sua assistita, e cioè che l’anziana orgolese vestita sempre di nero, madre di dieci figli e vedova di tre mariti, non può e non deve restare in cella. "Qua non si tratta di chiedere pietà o cose del genere - spiega -, ma solo che si accerti se esistono le condizioni previste dalla legge per la sospensione dell’esecuzione della pena a causa di gravi motivi di salute". L’applicazione insomma di un principio generale del nostro ordinamento che ha già restituito la libertà a Maria Ausilia Piroddi, l’ex zarina della Cgil condannata all’ergastolo e poi ammalatasi di tumore. Inutile dire che a parere del penalista nuorese queste condizioni ci sono tutte anche per tzia Grà: "La Marine ha quasi 70 anni - prosegue Lai -, è cardiopatica, diabetica, ipertesa. Soffre di gravi problemi di circolazione testimoniati dagli edemi che presenta nelle gambe, deambula con difficoltà".

Ergo, non può essere schiaffata al fresco per cinque lustri, che, considerata la sua età, è come dire tutta la vita. Una richiesta che solleva però un mare di interrogativi. Ad iniziare da quello, attualissimo, di fondo: di fronte a condanne per crimini molto gravi devono prevalere i diritti del singolo detenuto o la legittima richiesta punitiva della collettività? E ancora: la vittima del reato, nel caso specifico Silvia Melis, prelevata sotto gli occhi del figlio di 5 anni e tenuta segregata per nove lunghissimi mesi, che voce in capitolo ha in casi come questi? L’avvocato Lai replica secco: "La parte offesa ha i suoi diritti riconosciuti dall’ordinamento, ma non nella fase dell’esecuzione della pena. E poi cosa vogliamo arrivare a sostenere, che bisogna impiccarla? Lo Stato di diritto fissa dei principi e bisogna rispettarli, altrimenti abroghiamo le misure alternative e non se ne parla più". Paolo Pilia, avvocato penalista di Lanusei, il processo ai rapitori di Silvia Melis lo ha invece vissuto dall’altra parte della barricata. Ha infatti tutelato come parte civile la giovane consulente del lavoro di Tortolì sino al clamoroso verdetto della corte d’Appello di Cagliari in cui furono assolti tutti gli imputati.

"In quell’occasione - dice oggi - spiegai che le sentenze vanno rispettate, per cui allo stesso modo dico adesso che le sentenze si rispettano". Riguardo alla sospensione dell’esecuzione della pena per tzia Grazia l’avvocato Pilia è sintetico quanto diretto: "Se un soggetto è affetto da particolari patologie incompatibili con la detenzione in carcere - dice - il giudice dell’esecuzione può rimetterlo in libertà, e questo è un principio sacrosanto e di quotidiana applicazione. Il problema però è che questa situazione di salute gravemente compromessa va dimostrata in concreto, non basta affermarla, anche perché non tutte le patologie sono incompatibili con la carcerazione". Laconico il commento del comandante provinciale dei carabinieri Salvatore Favarolo, i cui uomini l’altro ieri hanno prelevato Grazia Marine dalla sua casa nel centro storico di Orgosolo per poi accompagnarla nel carcere di Oristano. "Noi siamo per il rispetto delle regole e delle funzioni - dice -, perché in uno Stato di diritto ognuno agisce nell’ambito delle proprie competenze.

Io ho una opinione personale ma la tengo per me, per cui posso solo dire che se la legge prevede certi meccanismi è giusto che vengano applicati". Chi la realtà del dietro le sbarre e la sofferenza dei detenuti le tocca con mano ogni giorno da ormai cinque mesi è il nuovo cappellano di Badu ‘e Carros don Giampaolo Muresu. "In carcere ci sono delle situazioni di malattia che davvero rendono complicata la permanenza - commenta -, perché qua mancano tutte le attenzioni che sarebbero necessarie e inoltre è risaputo che in cella ci si ammala di più. Con ciò non si può però dire che il fatto di essere anziano e malato sia una scusante. Il punto di partenza per uscire dal dilemma è quello del rispetto della dignità umana, la giustizia non può essere giusta se non parte dal rispetto per la persona umana e per i suoi diritti fondamentali. Mai dimenticare la dignità della persona dunque, questo è un principio che dobbiamo difendere sino all’ultimo, anche se abbiamo di fronte il più colpevole del mondo".

Giustizia: per la Lioce, già in 41 bis, l’isolamento è una tortura

 

Il Messaggero, 21 aprile 2006

 

"Per la Lioce l’isolamento diurno 24 ore su 24 nel carcere aquilano è una vera e propria tortura". Alla brigatista Nadia Desdemona Lioce, condannata definitivamente all’ergastolo nel marzo scorso, oltre all’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, è stato inflitto anche un’altra pena. Lo affermano, in una nota, il segretario provinciale del Prc dell’Aquila, Giulio Petrilli, ed il componente del comitato politico nazionale del partito, Linda Santilli, che parlano di negazione dei principi fondamentali della Costituzione. "Abbiamo appreso che alle "Costarelle" - scrivono - alla detenuta Nadia Lioce, già sottoposta all’articolo 41 bis, è stato applicato anche l’isolamento diurno. Ciò significa che nell’intera sezione attualmente c’è soltanto lei, che 24 ore su 24 non vede e non incontra anima viva. Come vogliamo chiamarlo se non volontà di annullamento psicofisico dell’essere umano? Se non avvilimento dello stato di diritto, negazione dei principi fondamentali della Costituzione? Non possiamo accettare la tortura. Crediamo fermamente che il nuovo governo di centrosinistra debba invertire la tendenza per dare segnali concreti di civiltà. Il clima di perenne emergenzialismo ha fatto da cornice alle politiche messe in campo dal governo Berlusconi soprattutto contro tossicodipendenti ed emigranti che attualmente sono più dei tre quarti della popolazione carceraria".

Pescara: sfida tra cantanti sul palcoscenico del carcere

 

Il Messaggero, 21 aprile 2006

 

Per un giorno passeranno dall’altra parte. Per un giorno faranno loro da giudici. Sono i detenuti del carcere di San Donato, chiamati oggi pomeriggio ad ascoltare e selezionare la canzone vincitrice del Festival della melodia, giunto quest’anno alla sesta edizione. Una novità assoluta per dieci detenuti, scelti dalla direzione del penitenziario pescarese che fa capo a Sergio Romice in un elenco di 250 nomi, che già nelle cinque passate edizioni avevano assistito alle esibizioni canore, ma mai fatto parte direttamente della giuria.

"Abbiamo voluto coinvolgere gli ospiti della casa circondariale - ha spiegato Paolo Minnucci, organizzatore del festival - per sottolineare la vocazione sociale di questa manifestazione canora, che ormai da sei anni rappresenta un appuntamento fisso di svago e divertimento per chi è costretto a vivere in cella. Portare la musica dal vivo tra le mura di una prigione è un modo per far conoscere a tutti le difficoltà di chi vive il mondo carcerario. E dall’anno prossimo cercheremo di promuovere ed esportare l’evento anche in altri istituti penitenziari italiani, come già accaduto due anni fa nel carcere di Madonna del freddo a Chieti". Note liete dunque dal carcere, che oggi alle 16 ospiterà dieci giovani cantautori e interpreti di musica leggera da tutto l’Abruzzo.

Il vincitore parteciperà alla finale regionale in programma a Città Sant’Angelo a fine giugno. Grande attesa per l’ospite d’onore della serata, Piero Mazzocchetti, giovane tenore abruzzese famoso in tutto il mondo, soprattutto in Germania, suo paese di adozione, dove ha recentemente conquistato il disco d’oro. Mazzocchetti, intervenuto ieri alla presentazione dell’evento, ha speso parole di elogio per l’iniziativa, organizzata dall’agenzia Promozione spettacolo e dall’assessorato provinciale alle Politiche sociali, guidato da Mauro Di Zio. "Sono orgoglioso di esibirmi su un palco così importante - ha detto -. I cantanti in gara sono tutti di alto livello così come gli stessi detenuti-giurati: dai contatti che ho avuto con loro, infatti, è emerso come siano davvero competenti in campo musicale. E non è escluso che qualcuno ci riserverà una sorpresa come già accaduto lo scorso anno, quando alcuni ragazzi sono saliti sul palco dando vita a un simpatico fuoriprogramma". Attesi oggi sul palco della casa circondariale di Pescara anche Antonio Mancini, campione del mondo di fisarmonica, Angela Antenucci e Andrea Buccella, vincitori delle passate edizioni del Festival della melodia, che si esibiranno insieme al trasformista Bruno Gaudieri.

Firenze: sabato 13 maggio, concerto davanti a Sollicciano

 

Comunicato stampa, 21 aprile 2006

 

Sono ormai oltre sessantamila le persone detenute ogni giorno nelle carceri italiane, il doppio rispetto a soli quindici anni fa. È il risultato della ristrutturazione del mercato del lavoro e dello smantellamento del welfare; è il risultato di leggi repressive come la Bossi-Fini sull’immigrazione, continuazione della Turco-Napolitano; situazione che peggiorerà con la Fini-Giovanardi sulle droghe, basata sulla Jervolino-Vassalli-Craxi , con la Cirielli sulla recidiva, con l’ulteriore inasprimento della legislazione contro i "reati politici" con l’ennesimo potenziamento dell’art.270 e non solo, della legge Pisanu per reprimere ogni dissenso politico e sociale, di immigrati o "indigeni", dentro e fuori il carcere stesso.

In altri paesi le leggi hanno nomi diversi ma producono lo stesso effetto: quello di un processo di carcerizzazione di massa. In carcere, dove spesso attendono per mesi una sentenza definitiva, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni intollerabili. Come a Sollicciano, costruito per 460 e popolato da 1000 detenuti, privati della loro libertà fisica e mentale, letteralmente accatastati per ventuno ore al giorno a tre a tre in celle di dieci metri quadri. Minacciati dallo spettro della negazione delle misure alternative, dei trasferimenti punitivi e dell’isolamento, di quel regime di vera e propria tortura psicofisica che è il 41bis.

Chi va in carcere oggi? Sono immigrati, tossicodipendenti, persone con problemi di salute mentale, prostitute, transessuali, giovani delle periferie delle grandi città. Persone a cui sono stati negati i diritti sociali prima e ancora di più dopo l’entrata in carcere.

Oggi più che mai la questione carcere è un problema di tutti. Si rinchiudono decine di migliaia di persone nelle carceri per controllare le vite e i comportamenti di interi gruppi sociali, interi spezzoni di classe. È tempo di rilanciare nella società un ampio dibattito sulla funzione dell’istituzione penitenziaria al fine del suo superamento. Noi lavoriamo per l’abolizione del carcere, che è e non può che essere lo strumento violento di una sistematica e radicale selezione su base di classe, continuando comunque a sostenere ogni rivendicazione specifica che, partendo dai detenuti stessi, tenda a migliorare le condizioni di detenzione: il diritto all’assistenza sanitaria, alla difesa e all’affettività, contro l’uso sistematico degli psicofarmaci, contro gli arbitri costanti degli agenti di custodia quando non veri e propri pestaggi delle squadrette (come nel mese di novembre 2005).

 

Assemblea "Firenze contro il carcere"

Amnesty: pena di morte; atroci i metodi usati in molti stati

 

L’Unità, 21 aprile 2006

 

Decapitazione in Arabia Saudita e Iraq, fucilazione in Bielorussia, Cina, Somalia, Taiwan, Uzbekistan, Vietnam e altri paesi, impiccagione in Egitto, Giappone, Giordania, Iran, Pakistan, Singapore, iniezione letale per Cina, Filippine, Guatemala, Thailandia e Usa, lapidazione in Afghanistan e Iran e sedia elettrica negli States. Questa triste lista riporta i metodi utilizzati per applicare la pena di morte nel mondo dal 2000.

A denunciarlo è Amnesty International, l’associazione per i diritti umani che ormai da tempo si batte contro la pena di morte. Nel rapporto sulla situazione delle esecuzioni capitali le cifre parlano chiaro, 20.000 mila sono i condannati nel mondo, in attesa di essere giustiziati. Nel 2005 sono state uccise almeno 2.148 persone in 22 paesi e condannate 5.186 in 53 paesi. Il 94% delle esecuzioni ha avuto luogo in Cina, Iran, Arabia Saudita e Usa.

Per Amnesty International in Cina vi sarebbero state circa 1.770 esecuzioni. Ma il numero effettivo potrebbe essere molto più alto: secondo un esperto legale cinese, sarebbero circa 8.000 i prigionieri messi a morte nel paese ogni anno. Nel corso del 2005 in Iran sono stati messi a morte almeno 94 prigionieri, in Arabia Saudita almeno 86. In entrambi i paesi, i dati reali potrebbero essere più alti. Sono invece 60 le esecuzioni registrate in Usa.

I dati resi pubblici dall’associazione umanitaria sono approssimativi a causa del segreto che circonda l’applicazione della pena di morte. Molti governi, come quello cinese, rifiutano di pubblicare statistiche ufficiali sulle esecuzioni. In paesi come il Vietnam le informazioni su questo argomento sono considerate segreto di stato.

Il rapporto denuncia anche come l’uso della pena capitale può essere pericolosamente legato a interessi economici. Sono in molti, infatti, a temere che, gli alti profitti derivanti dall’espianto degli organi delle persone messe a morte possano essere un incentivo a mantenere la pena.

Ma le accuse di Amnesty mirano anche a denunciare le misure disumane che aggravano la già crudele permanenza dei detenuti nel braccio della morte. In Bielorussia e in Uzbekistan, le autorità non informano i prigionieri né i loro familiari sulla data di esecuzione, negando così la possibilità di un ultimo saluto. I corpi dei prigionieri non vengono restituiti ai parenti e a quest’ ultimi viene persino tenuto nascosto il luogo di sepoltura. Il tutto accade con un sistema penale pieno di falle e minato dalla corruzione che crea terreno fertile per errori giudiziari.

Stessa situazione anche per altri Paesi dove alcuni detenuti stranieri o appartenenti a minoranze etniche sono stati giudicati colpevoli e condannati al termine di processi celebrati in una lingua sconosciuta senza che fosse stato fornito loro un interprete.

E se si tratta di Bambini? La situazione non cambia, la pena di morte non si arresta. Amnesty dichiara che dal 1990 sono otto i paesi nei quali sono stati messi a morte imputati minorenni: Arabia Saudita, Cina, Iran, Nigeria, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Usa e Yemen. In seguito, Cina, Pakistan e Yemen hanno emesso leggi per aumentare a 18 anni l’età minima per essere condannati a morte. L’Iran nel 2005 ha messo a morte minorenni all’epoca del reato, almeno otto, due dei quali avevano meno di 18 anni anche al momento dell’esecuzione.

Eppure la legge parla chiaro. I trattati internazionali sui diritti umani proibiscono l’applicazione della pena di morte nei confronti di imputati minorenni, ma le leggi non sempre vengono rispettate. Lo sa bene Amnesty che nella sua denuncia non risparmia di citare i paesi che ancora si macchiano di questa atrocità.

Filippine: i vescovi per migliorare la situazione nelle carceri

 

Asia News, 21 aprile 2006

 

Inizia oggi al seminario san Pablo di Baguio City una conferenza di tre giorni organizzata dalla Commissione per la cura dei prigionieri (Ecppc), organo della Conferenza episcopale filippina (Cbcp). Il tema della conferenza è "Condividere la nostra vita nuova con te". Il congresso vuole promuovere una evoluzione del sistema carcerario per renderlo più umano, ed esaminerà i problemi che riguardano la giustizia, il ministero dei religiosi nelle carceri, il sistema giudiziario giovanile ed altre tematiche. Parteciperanno 100 persone, fra cappellani e volontari che operano nelle carceri provenienti da diverse diocesi.

Il sistema carcerario delle Filippine soffre di sovrappopolazione: a Manila in un carcere costruito per ospitare 800 detenuti si sono superate le 5 mila presenze. La prigione di Quezon City è una struttura per 815 persone, ma è arrivata ad ospitare quasi 3500 carcerati. Questo significa che ogni detenuto ha uno spazio vitale inferiore a 0,3 metri quadrati a fronte dai tre metri quadrati a detenuto richiesti dalle Nazioni Unite. Le carceri hanno pochi fondi e mancano di personale. I detenuti muoiono per tubercolosi, varicella e altre semplici malattie che si diffondono con rapidità. Inoltre molti prigionieri muoiono prima del processo.

La Cbcp ritiene che i detenuti sono i più poveri fra i poveri, e quindi meritano l’attenzione della chiesa. La Ecppc opera già nelle prigioni con un servizio di volontari che lavorano per la riabilitazione del settore. Il 23 aprile, ultimo giorno del congresso, i partecipanti visiteranno il carcere di Baguio City, il carcere del distretto di Benguet e il carcere provinciale.

 

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