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Alessandro Margara: adesso è ora di ripensare il concetto di pena
Intervista di Stefano Arduini per "Vita", 5 novembre 2005
È ora di ripensare il concetto di pena e di sganciare la pena dalla detenzione. Anche perché, dice Alessandro Margara, il carcere a tutti i costi trasforma i rei in vittime. Meglio puntare sulla riparazione. A farci capire che bisognava riflettere sull’evoluzione della parola pena è stata una constatazione numerica. Fra detenzioni, misure alternative e pratiche pendenti presso i tribunali di sorveglianza, in Italia l’area penale è arrivata a coinvolgere 190mila persone. Nel 1990 erano 36.300. Una moltiplicazione tale da suggerire il conio della formula "Stato penale", che ormai nel vocabolario dei maggiori esperti di questioni giudiziarie ha sostituito quella di "Stato sociale". Come spiegare questi dati? E questa nuova formula?
Pena, s.f. 1. Punizione stabilita dall’autorità giudiziaria competente comminata a chi si sia reso colpevole di una violazione della legge. 2. Stato di sofferenza fisica e, soprattutto, morale. 3. Cura, sollecitudine, fastidio
(dal Dizionario italiano Sabatini Colletti)
Il significato culturale della pena è lo stesso di 15 anni fa oppure ha subito un’evoluzione rimasta ancora sottotraccia che esploderà nell’immediato futuro? Ci abbiamo ragionato con Alessandro Margara, padre del regolamento penitenziario attualmente in vigore ed ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Queste problematiche hanno costituito il suo terreno di lavoro per oltre 50 anni.
Che cos’è la pena oggi e che cos’era 15 anni fa? La parola in se stessa non ha subìto alcuna modificazione. La sanzione penale era e rimane la risposta sociale alla commissione di un reato previsto dalla legge. Ciò che è profondamente cambiato è la sfera di competenza della pena, che oggi è molto più allargata di allora.
In termini concreti, questo che cosa vuol dire? Il furto, la rapina, il sequestro, la violenza sessuale e in generale ogni reato contro la persona sono condotte che impediscono le relazioni fra le persone. Da qui si è passati a punire i comportamenti che disturbano la vita sociale. Così l’estensione della pena ha cominciato a comprendere l’area del disagio, l’immigrazione e le dipendenze prima di tutto. E infatti oggi nelle carceri ci sono soprattutto stranieri e tossicodipendenti.
Da dove nasce questa trasformazione? Il passaggio dallo Stato sociale a quello penale è un effetto di azioni e reazioni. L’aumento dell’intolleranza sociale senza alcun dubbio è stata la miccia che ha accesso questo processo. Quindici anni fa, gli immigrati, forse anche perché erano meno, non generavano un fastidio così acuto. Lo stesso l’ubriacone. In questi anni la società è diventata più severa di quanto non lo fosse in passato. A questa azione è corrisposta una reazione, che è stata allo stesso tempo mediatica e politica. Gli organi di informazione hanno offerto all’intolleranza sociale un palcoscenico sempre più ampio.
E la politica? Sul binario parallelo la politica ha riconosciuto nell’intolleranza sociale un formidabile trampolino di lancio per aumentare la propria raccolta di consenso. In altre parole il potere politico ha rifiutato il compito di indirizzare lo sviluppo della società e ha incominciato a subire in modo irrazionale le angosce dei cittadini. Molte di queste paure discendono direttamente dal timore verso l’ignoto, verso chi non è come te, come non lo sono i senegalesi o i tossici.
Ritiene che la commissione di una pena sia necessaria alla giustizia? Un sistema giudiziario si deve necessariamente interessare delle trasgressioni e quindi le deve sanzionare. La pena però non è la bacchetta magica che abbatte ogni ostacolo sociale. In questo caso, infatti, la giustizia si imballa, come è avvenuto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e come sta avvenendo qui da noi.
Questo meccanismo quali effetti produce? Il risultato finale è che la giustizia genera ingiustizia. Mi spiego. Abbiamo detto che la pena ormai è concepita come barriera alle turbative sociali. Bisogna allora chiedersi chi sono i "turbatori" sociali. La risposta a questo interrogativo può essere desunta dalle ricerche di mercato delle assicurazioni: le aree sociali più a rischio sono quelle non garantite. La giustizia oggi sovrappone l’area della punizione con l’area della precarietà. Questo è di fatto un corto circuito: se la società ghettizza gli emarginati, questi saranno sempre più emarginati e sempre più precari.
Pena e detenzione sono sinonimi? Tutti i tecnici concordano sul fatto che la pena detentiva deve costituire l’estremo rimedio, l’estrema ratio. Un principio che, d’altra parte, sta scritto nell’ordinamento penale. La detenzione infatti comporta il massimo grado di esclusione sociale, tarpa ogni possibilità di relazione. Credo che per i reati di piccola gravità, che sono i più frequenti, bisognerebbe fare meno ricorso a questa modalità di pena e affidarsi maggiormente a sanzioni di carattere inibitorio e a contenuto riparatorio. Come accade in ambito sportivo, con l’allontanamento dagli stadi dei tifosi più facinorosi.
Nell’immaginario comune però se non c’è reclusione, non c’è pena… Margara: è vero. La richiesta sociale è la pena detentiva, l’emarginazione e l’esclusione. Proprio qui si rivela il pericolo di approcciare in modo strumentale le pulsioni sociali che vogliono l’allontanamento del diverso e del rompiscatole. In realtà la cosiddetta criminalità di strada manca di fondamenta organizzative ed è solamente un modo per tirare a campare. Un modo che dà noia, a cui quindi si risponde con l’emarginazione della persona. Così la semilibertà sembra che non sia pena.
Lei è stato magistrato. Quanto è eccitante condannare una persona? L’ebbrezza da onnipotenza è un rischio professionale. Non dovrebbe accadere, ma esiste il pericolo di godere nell’incidere pesantemente sulle vite individuali.
Com’è vissuta la pena da chi la subisce? La produzione di una riflessione sul reato commesso è l’unica via, non dico per il pentimento, ma almeno per la razionalizzazione della reazione che la società ha nei confronti delle condotte criminali. In Italia questo non accade. Anche se il nostro ordinamento prevede il trattamento del detenuto, nei fatti il carcere tende a troncare il dialogo con le persone. Chi si trova a subire una pena non riesce a comprenderne il senso. Tant’è che uno degli effetti ordinari che produce la detenzione è il vittimismo. Da provocatore del danno, la persona si concepisce come vittima della società.
Non è un po’ troppo facile? È ovvio che quando i detenuti dicono "io non c’entro" mentono, ma dietro questa bugia si cela il reale auto convincimento di essere innocenti. è un guaio: la pena produce innocenza e quindi il detenuto non riconosce la necessità di un percorso di reinserimento.
In italiano pena significa sia punizione che dolore. Lei ritiene che il dolore debba essere parte della pena? La pena per definizione è penosa. Ma la penosità non deve essere il fine della pena. Molti miei colleghi purtroppo non lo capiscono. L’obiettivo è mettere il detenuto nelle condizioni di non nuocere alla collettività. Si ritorna al punto di partenza: la cruciale importanza del trattamento e del reinserimento. È su questo versante che si misura l’efficacia di un sistema penale.
Dalla prospettiva delle vittime, non le sembra che la pena debba avere anche un valore risarcitorio? Vale la pena precisare che non tutti i reati produco danni, e quando lo fanno l’ordinamento già di per sé prevede il risarcimento, almeno fin dove è possibile. L’obiettivo finale della pena resta comunque la riabilitazione della persona, e invece si sta facendo sempre più largo una concezione riparativa della pena e si è sempre più indifferenti alla qualità della persona che esce dal carcere. Il risultato è conseguente e paradossale allo stesso tempo: diminuisce il grado di sicurezza della società.
In questa ottica che senso ha il "fine pena mai"? La Corte costituzionale ha ormai definitivamente riconosciuto la costituzionalità dell’ergastolo. Lo ha fatto, però, in modo contraddittorio. Da una parte, infatti, si sostiene che per reati di estrema gravità è necessaria una pena altrettanto grave. Dall’altra però si favoriscono le pratiche di revisione del "fine pena mai" attraverso le liberazioni anticipate. Di fatto, quindi, l’ergastolo, sempre secondo la Consulta, deve costituire più una minaccia sulla carta che non una pena reale.
Chi è Alessandro Margara, magistrato anti-sbarre
Alessandro Margara è nato a Massa nel 1930. È magistrato dal 1958 e da trent’anni lavora in maniera specifica sul carcere e le sue problematiche. è stato presidente del tribunale di sorveglianza e magistrato di sorveglianza a Firenze dal 1986 al 1997, quando è stato nominato capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Alla fine degli anni 80 ha partecipato alla commissione per i rapporti fra il ministero di Grazia e giustizia e le Regioni, e fra il ministero e il Csm. Dal 2002 presiede la Fondazione Michelucci di Fiesole. Ex Cirielli: Berlusconi va al Quirinale ma i dubbi di Ciampi rimangono
Il Campanile, 5 novembre 2005
Il premier Berlusconi ieri è salito al Colle. E ha messo in atto il piano studiato con gli alleati nel corso del vertice di giovedì. Così, terminate le celebrazioni per la festa delle Forze armate, il Cavaliere, accompagnato dal sottosegretario Gianni Letta, si è intrattenuto con il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Un’ora e quaranta minuti per discutere, secondo quanto stabilito alla vigilia, di ex Cirielli, legge elettorale e par condicio. I tre nodi che gli stanno più a cuore e che teme di non riuscire a sciogliere proprio per i dubbi del Quirinale. Berlusconi, infatti, è consapevole che se con i "coinquilini" della Casa delle libertà può ricorrere alla solita moral suasion, per assicurarsi la firma del capo dello Stato serve ben altro. Ciampi in mattinata, nel corso delle commemorazioni del 4 novembre, ha ribadito le sue priorità: "L’unità d’Italia, l’indipendenza e la libertà sono conquiste straordinarie che vanno difese ogni giorno". Ha ulteriormente lodato, poi, l’unità nazionale, citando Giuseppe Mazzini: "Dove non è patria regna solo l’egoismo degli interessi". E guidato probabilmente dalla preoccupazione di impedire che nel Paese gli interessi personali abbiano la meglio sugli interessi comuni, Ciampi nei giorni scorsi non ha nascosto le proprie perplessità sui provvedimenti messi a punto dall’attuale maggioranza. In particolare, in materia di prescrizione e recidiva, i dubbi del Quirinale si sarebbero rafforzati in seguito alla presentazione dei dati relativi all’impatto che l’approvazione della pdl avrebbe sui processi in corso. Ciampi sembra aver dato maggior credito alle statistiche elaborate da Anm e Cassazione piuttosto che ai dati diffusi dal ministero di Giustizia. La denuncia delle toghe è preoccupante: se la legge entrasse in vigore, cancellerebbe quasi la metà dei procedimenti. Ecco perché il Capo dello Stato auspicherebbe che l’ex Cirielli non fosse applicata ai processi in corso, ma solo ai procedimenti avviati dopo il via libera definitivo. In questo modo, non solo non si manderebbero in fumo migliaia di processi, ma la legge si libererebbe dell’etichetta di "salva-Previti" affibbiatagli dall’opposizione. Non è questa, però, la carta che il premier avrebbe intenzione di giocare. Ma quella messa in tavola dall’Udc, che ha chiesto di modificare la norma transitoria, allungando di un anno i termini di prescrizione non solo per i processi pendenti in Cassazione, come prevede il testo approvato a Palazzo Madama, ma per tutti i dibattimenti. Il Cavaliere alla fine ha deciso di accettare le richieste dello scudo crociato, che aveva riscontrato dei profili di incostituzionalità nella stesura. Così, sebbene la pdl dovrà tornare al Senato e si allungheranno i tempi, Berlusconi si è assicurato l’appoggio compatto degli alleati. Ma basterà questo a vincere le resistenze del Colle? Per ora, l’emendamento centrista ha già incassato la bocciatura dei magistrati, che lo ritengono "inutile". La correzione della norma transitoria, infatti, non riduce "gli effetti gravissimi" dell’ex Cirielli. Il giudizio delle toghe, quindi, resta negativo. Giustizia: studio Istat; aumentano i detenuti e i procedimenti
Agi, 5 novembre 2005
Le carceri italiane continuano a far registrare un aumento dei detenuti che si caratterizza sempre più per la presenza di cittadini stranieri. È il quadro che l’Istat fa sul settore della Giustizia in cui analizza anche l’andamento della giustizia penale e civile sempre in aumento) e la riforma del giudice unico. La riforma del giudice unico di primo grado (a partire dal 1999 nel settore civile, dal 2000 per il penale) rappresenta un importante cambiamento ordinamentale e organizzativo, concentrando in un unico ufficio di primo grado le competenze in precedenza divise tra tribunale (organo di prevalente composizione collegiale) e pretura (organo di prevalente composizione monocratica). Giustizia penale: alla fine del 2003 i procedimenti pendenti presso i tribunali ordinari erano 3 milioni e 412mila, mentre quelli pendenti presso i tribunali per i minorenni erano 19.351. I delitti denunciati per i quali l’autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale sono stati 2 milioni e 890mila, l’1,7% in più rispetto al 2002. Giustizia civile: nel 2003 i procedimenti civili sopravvenuti in primo grado sono aumentati del 10,8 per cento rispetto all’anno precedente (1.462.921 nel 2003 contro 1.320.195 nel 2002). Gli esauriti invece sono diminuiti del 3,2 per cento, passando da 1.543.584 nel 2002 a 1.493.612 nel 2003; i pendenti diminuiscono dello 0,3 per cento. Giustizia: 16.000 detenuti con disturbi mentali; è un record...
Agi, 5 novembre 2005
Sono circa 16mila su 61mila i detenuti con disturbi psichiatrici in Italia, una cifra mai raggiunta prima. A rivelarlo, una recente ricerca epidemiologica condotta da Vincenzo de Donatis, membro del Direttivo Nazionale dei Medici penitenziari italiani (Amapi). Se ne parlerà domani al convegno in S. Croce in Fossabanda a Pisa: "Carcere e disturbi mentali, obiettivo reintegrazione". Strettamente legato al tema dei disturbi mentali nelle carceri, quello dei suicidi: il Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria (Dap) denuncia, al 31 dicembre 2004, 52 suicidi e 85 tentati suicidi (su 59mila detenuti) e 42 suicidi e 620 tentati suicidi al 31 ottobre 2005 (61mila detenuti). Il suicidio è la terza causa di morte in stato di carcerazione ed è circa nove volte più frequente che in libertà. Per l’associazione dei medici penitenziari, la riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari, che oggi ospitano circa 1.200 malati, è indispensabile e urgente. Per il presidente dell’Amapi, Francesco Ceraudo, l’emergenza psichiatrica è dovuta all’"esperienza altamente traumatizzante che vivono i detenuti già nelle prime fasi della reclusione". "È curioso - ha commentato Adriano Sofri, che interverrà al convegno - come tra le autorità penitenziarie sopravviva una concezione della malattia mentale come meno malattia delle altre". E aggiunge: "Regna l’onnipresente sospetto che i detenuti si fingano pazzi per definizione. Chi conosca appena il carcere, sa che è fatto apposta per far ammattire la gente". Usa: pena di morte, conto alla rovescia verso "quota 1.000"
Gazzetta del Sud, 5 novembre 2005
Il numero 990, Melvin White, è spirato in Texas chiedendo scusa per l’omicidio di una bambina. Il numero 991, Brian Steckel, in Delaware ha impiegato più tempo del solito a morire e il 992, Arthur Wise, ha atteso in una cella della Carolina del Sud l’appuntamento serale con il boia, al quale è andato incontro da volontario. L’America ha accelerato di colpo il conto alla rovescia verso l’esecuzione numero 1.000 da quando, nel 1976, è stata reintrodotta la pena di morte: se non ci saranno decisioni dell’ultima ora, sempre possibili nel sistema giudiziario americano, il triste primato dovrebbe toccare a John Hicks, il 29 novembre in Ohio. Dopo alcuni mesi di rallentamento, il ritmo delle esecuzioni negli Usa ha ripreso a farsi intenso. Fino ad ora sono 47 le persone uccise legalmente negli Stati Uniti nel 2005, ma ci sono 15 condanne che possono arrivare al traguardo prima di Capodanno, la maggior parte delle quali a novembre. Nel giorno in cui ha giustiziato Melvin White, il Texas si è lasciato anche beffare da un detenuto protagonista di un’evasione che sembra uscita da un film. Charles Thompson, 35 anni, si trovava nel carcere di Houston invece che nel braccio della morte di Huntsville, perché nei giorni scorsi era stato processato per la seconda volta e di nuovo condannato a morte per aver ucciso nel 1998 l’ex fidanzata e il suo nuovo compagno. Il detenuto ha chiesto e ottenuto di essere condotto nella saletta per i colloqui con gli avvocati, dove non è prevista la presenza di agenti o di telecamere. Qui però ad attenderlo non c’era alcun avvocato e Thompson, stando alla versione ufficiale, ha indossato abiti civili (non è chiaro da chi li ha ottenuti) e sfoggiato un tesserino dall’ aspetto ufficiale. Il detenuto è quindi uscito dalla saletta, ha finto di essere un assistente del procuratore generale e ha recitato la parte così bene da convincere gli agenti ad aprirgli le porte del carcere. La polizia del Texas, furiosa e umiliata, ha dato il via a una gigantesca caccia all’uomo in tutto lo stato.
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