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Lo strano "caso" di Francesco Romeo di Andrea Boraschi e Luigi Manconi
A Buon Diritto, 27 luglio 2005
La "scena del crimine" è questa: un ragazzone di 28 anni, alto un metro e ottantacinque, pesante oltre cento chili, che giace al suolo gravemente ferito, in un cortile, accanto a un muro alto quattro metri. Ha perso conoscenza, è sporco di sangue e sta per esalare il suo ultimo respiro. Ma perché si trova lì? E perché versa in quelle condizioni? Come nel più dozzinale dei gialli, si parte dalle risposte più elementari e dagli indizi più evidenti. Quel ragazzone, Francesco Romeo, è un detenuto; e se è riuscito a raggiungere quel cortile vuol dire che è evaso dalla sua cella; e se adesso giace al suolo in fin di vita è perché davanti a lui c’è un muro: bisogna scavalcarlo, quel muro, se si vuole andare via. Dunque, Romeo deve aver perso l’equilibrio, dev’essere rovinato a terra, con quel suo corpo pesante e impacciato, e ora giace lì. Morirà qualche giorno dopo, in un ospedale, senza riprendere più conoscenza. Ma anche nel più dozzinale dei gialli, la facilità delle prime risposte e l’evidenza suggerita dal contesto e dalla circostanze possono rivelarsi ingannevoli. E non c’è bisogno di Hercule Poirot o di Jane Marple, di Lincoln Rhyme o di Harry Bosch per svelare la fallacia delle ricostruzioni di comodo. Basta una semplice perizia medico legale. Nessun detenuto che cada da un muro di cinta riesce a massacrarsi i testicoli nell’impatto col suolo e a procurarsi traumi tanto estesi su tutto il corpo; nessuna caduta può causare le lesioni craniche ("da corpo contundente") e le lesioni cervicali, per cui Romeo è morto. Lividi ed ecchimosi ovunque, ematomi e lesioni varie allo scroto e al coccige, le braccia spezzate (forse mentre "si proteggeva il volto"): la perizia medico legale ipotizza che quel giovane è stato oggetto di violenze a opera di cinque o sei persone e per un periodo non breve. E perché ora si trova in quel cortile, anziché nella sua cella? Semplice: perché chi l’ha colpito, l’ha trasportato fin lì. E ha inscenato la rappresentazione della sua evasione. Ma chi, in un carcere, può aprirsi la strada per l’uscita, superando quattro cancelli, per trascinare quel corpo fino a quel cortile? Qualcuno che ha le chiavi, si direbbe; qualcuno che può muoversi liberamente all’interno e che può agire in gruppo contro un individuo isolato e che può allestire quella falsa scena del delitto. Dalle 9 alle 10 del 29 settembre 1997, nel carcere di Reggio Calabria, nessuno si accorge di nulla. Non viene azionato alcun allarme, le 19 telecamere sono spente e chi dovrebbe essere di guardia è "al bagno", "al bar" (che, però, aprirà un’ora più tardi) o si è spostato per cambiare servizio per "asseriti ordini superiori". E, quella stessa mattina, cinque uomini vengono trasferiti dai loro posti di sorveglianza per sostituire un solo agente in malattia, mentre le mansioni vengono modificate in corso d’opera, alle 9, quando la conferenza di servizio si era tenuta appena un’ora prima. Non solo: al quarto cancello e sulla garitta è di guardia un solo agente, e chi è preposto a sorvegliare i monitor della sala regia nulla vede e nulla sente. Strano, non trovate? Se oggi parliamo di una storia tanto lontana nel tempo è perché "stranezze" del genere, nella carceri italiane, si ripetono periodicamente e perché la vicenda processuale, cominciata allora, ha trovato soluzione. Una soluzione assai meschina. Ce ne offre un’attenta ricostruzione l’avvocato dei familiari di Romeo, Ugo Giannangeli. Nel 2003 furono condannati Giuliano Cardamone, comandante della polizia penitenziaria, e Sebastiano Morabito, agente: il primo per "agevolazione colposa" nell’omicidio di Romeo (la sentenza riconosceva, cioè, che l’imputato non era al corrente di quanto accadeva, ma organizzava il servizio in maniera tale da aiutare, inconsapevolmente, gli autori dell’omicidio); il secondo per false dichiarazioni (era imputato di favoreggiamento). Condanne lievi, che pure accertarono, sin da allora, che si era trattato di omicidio. Ma se questi sono stati gli "agevolatori", dove sono gli autori materiali del delitto? Il pubblico ministero aveva iscritto nel registro degli indagati 21 persone, che - contro ogni logica e procedura - vennero ascoltate, il giorno seguente alla loro iscrizione (nel settembre del ‘97), come "persone informate dei fatti": e rilasciarono una serie di dichiarazioni ampiamente lacunose e contraddittorie. Ognuno cercava di salvare se stesso, scaricando la responsabilità sugli altri, mentendo, tacendo, fornendo versioni grottesche e inverosimili. Quelle testimonianze, tuttavia, non potranno mai essere impiegate nel processo per un vizio di forma macroscopico. Gli imputati saranno ascoltati come tali solo nel 1999 e tutti, tranne uno, si avvarranno della facoltà di non rispondere. Il 5 luglio scorso, la Corte d’Appello di Messina ha chiuso definitivamente il caso, assolvendo anche Cardamone. Dunque, in relazione a quella vicenda, resta una sola condanna definitiva: quella di Morabito, riconosciuto colpevole di aver mentito al pubblico ministero. Quello stesso pm, che aveva promesso la riapertura delle indagini, nulla ha fatto; la Procura generale, sollecitata ad intervenire con una formale istanza di avocazione delle indagini, non ha mai proceduto. I compagni di cella di Romeo mai sono stati ascoltati. Questo è quanto. È stato accertato, inequivocabilmente, un delitto: che, per dinamica e prove acquisite, può essere stato commesso solo dal personale in servizio in quel carcere. Come in ogni giallo dozzinale che si rispetti, vorremmo che - almeno nell’ultima pagina, o in una nuova edizione integrale - venisse fuori il nome dell’assassino. Convegno Seac: ridurre la presenza dei detenuti nelle carceri
Redattore Sociale, 27 luglio 2005
"Ridurre la presenza dei detenuti nelle carceri è la finalità più importante: la sfida per il futuro. Un’adeguata campagna di sensibilizzazione può far esportare anche tra gli adulti quei trattamenti alternativi alla carcerazione, che già nel settore minorile hanno prodotto esiti positivi". È quanto affermato dal magistrato Federico Palomba, nell’ambito dell’incontro "26 luglio 2005, trent’anni della riforma dell’ordinamento penitenziario, l. 354", tenutosi oggi nella Sala dell’ex Hotel Bologna del Senato e promosso dal Seac. "La giustizia minorile ha dato un forte impulso alla tutela dei diritti fondamentali e alla cura della personalità del minore - ha aggiunto Palomba -, attraverso misure alternative alla detenzione, come la messa in prova, che hanno evitato il più possibile la permanenza nelle carceri". Oggi invece, l’area dell’esecuzione penale relativa agli adulti interessa un numero di persone (180.000) che sono addirittura il quadruplo di 15 anni fa; perché "la risposta penale - ha riferito Alessandro Margara - è divenuta il modo principale di governare problemi sociali. Nonostante si predichi l’estrema ratio della pena infatti, alla fine si arriva sempre ad infliggere la pena carceraria". "Il 50% dei tossicodipendenti ed immigrati oggi in carcere, potrebbe uscire già da ora, ed invece non accade - ha denunciato Celso Coppola, del servizio sociale del Dap -. Questo perché l’Amministrazione penitenziaria si è trovata sola, tra contrasti politici, e ha reagito riducendo al minimo la sua attività: aumentando cioè la custodia e diminuendo le misure trattamentali. Non si tratta propriamente di un problema di leggi quindi - ha aggiunto -, quanto piuttosto di funzionamento della struttura". Lo stesso Emilio Di Somma, vicedirettore del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha dichiarato: "L’ordinamento penitenziario è una delle poche leggi scritte in modo decente che abbiamo qui in Italia, ed è servita a strutturare un servizio sociale. Se attuata compiutamente è in grado di funzionare bene, come in alcuni casi è stato dimostrato; ciò che si riuscirebbe a fare con una certa immediatezza sarebbe proprio la riduzione delle pene carcerarie. Il vero problema è che occorrerebbe migliorare il personale a cui spetta il compito di metterla in pratica". (Laura Pagnini) Margara: si è passati dallo stato sociale allo stato penale
Redattore Sociale, 27 luglio 2005
"Nel 1990 c’erano circa 30mila detenuti e 6.300 misure alternative: in tutto l’area dell’esecuzione penale comprendeva 36.300 persone. Oggi invece i detenuti sono 59.000 e le misure alternative più di 50.000; ma non basta, perché sono 70.000 le esecuzioni penali sospese, in attesa di ammissione alle misure alternative". Questo è quanto affermato dal magistrato Alessandro Margara, nell’incontro "26 luglio 2005, trent’anni della riforma dell’ordinamento penitenziario, l. 354", tenutosi oggi nella Sala dell’ex Hotel Bologna del Senato. In totale l’area dell’esecuzione penale interessa oggi 180.000 persone: il quadruplo di 15 anni fa. Due terzi dei detenuti sono tossicodipendenti (27%), stranieri (30%) e persone in situazioni di precarietà, che avrebbero dovuto avere risposte sociali ai loro problemi e che invece si sono ritrovati in carcere. L’area della penalità è diventata enorme perché è cambiata la funzione della pena e il concetto stesso di reato: "si considera non più tale l’aggressione ai beni e agli interessi più significativi in una società - afferma Alessandro Margara - , ma semplicemente il disturbo della quiete sociale, che a sua volta è espressione di situazioni di disagio". In altre parole si è passati dallo "stato sociale allo stato penale", in cui la pena è divenuta la principale risposta di uno Stato che rinuncia ad affrontare i problemi nel modo giusto. Occorre invece invertire la rotta e tornare dal "penale al sociale". E ciò può essere fatto con alcuni interventi, come la riduzione dell’area della penalità, attraverso la revisione delle legislazioni sui tossicodipendenti e stranieri; la scarcerazione più larga possibile, servendosi delle misure alternative e del lavoro esterno, e infine il ritorno a dimensioni fisiologiche del carcere e a risposte politiche sociali, al posto di quelle esclusivamente repressive e negative che hanno preso la mano. " Si tratta insomma - conclude Alessandro Margara - di ritrovare il bandolo della matassa, che sembra esserci completamente sfuggito". Giustizia: Violante; la legge di riforma resta incostituzionale
Ansa, 27 luglio 2005
"Berlusconi ha travolto la linea di confine tra politica e giustizia: spetterà all’Unione di centrosinistra determinarla con nettezza". Comincia così un’intervista di Luciano Violante a Il Mattino. "La riforma della giustizia è incostituzionale e sbagliata per diversi aspetti - denuncia il capogruppo dei Ds alla Camera - (...) Questa maggioranza ci ha abituato a tutto. Alle leggi pro qualcuno e ora anche a quelle contro. E solo contro Giancarlo Caselli. Sono stati travolti circa seicento magistrati in attesa di incarichi direttivi compresi cinque presidenti di sezione della Cassazione. (...) Il primo danneggiato è il cittadino. Nella cultura costituzionale di questo centrodestra la garanzia per il cittadino viene nell’aderire alla maggioranza di governo per il cittadino viene dall’aderire alla maggioranza di governo che lo protegge". Giustizia: la "ex-Cirielli", approvata al Senato, ora torna alla Camera
Reuters, 27 luglio 2005
È stato approvato oggi in Senato il disegno di legge 3247 sulla recidiva, la cosiddetta legge "ex Cirielli", ribattezzata "salva-Previti" dall’opposizione. La nuova legge è stata approvata con 151 voti a favore, 113 voti contrari e 2 astenuti, si legge sul sito di Palazzo Madama. La normativa sulla recidiva, che prende il nome dall’ultimo relatore alla Camera Edmondo Cirielli (An), che ha poi ritirato la firma, prevede modifiche al codice penale, inasprendo le pene di chi torna a commettere uno o più reati dopo aver subito una condanna, e contemplando una netta riduzione dei tempi di prescrizione dei reati. La legge è stata approvata da Montecitorio il 16 dicembre dello scorso anno. Il testo tornerà ora all’esame della Camera per il terzo passaggio parlamentare. Secondo il centrosinistra il provvedimento favorirebbe il deputato di Forza Italia Cesare Previti - condannato in primo grado nei processi Imi-Sir (11 anni per corruzione) e Sme (cinque anni per lo stesso reato). Il ddl è stato criticato anche dal Consiglio superiore della magistratura, in quella che per la maggioranza di centrodestra è stata una indebita interferenza nell’attività legislativa. Sicurezza: penalisti; alcune norme del decreto non tutelano persona
Agi, 27 luglio 2005
Il pacchetto antiterrorismo studiato dal governo non convince l’Unione delle camere penali italiani. "Non tutte le norme proposte nell’ultimo Consiglio dei Ministri rispondono alle esigenze di custodire i principi costituzionali a tutela della persona", è la giustificazione espressa in una lunga nota dalla giunta degli avvocati penalisti che auspicano un intervento del Parlamento affinchè, in sede di conversione in legge del decreto, "apporti i correttivi necessari per ribadire la prevalenza su qualsiasi aggressione criminale della nostra civiltà costituzionale". In particolare, a suscitare allarme sono i cosiddetti "colloqui a fini investigativi", legalizzati purché finalizzati ad "acquisire dai detenuti... informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti commessi per finalità di terrorismo", ma "sostanzialmente veri e propri interrogatori "liberi" e non documentati, nei confronti di indagati in assenza del difensore, la cui legittimità è aleatoriamente affidata alla incontrollabile e incontestabile intenzione degli investigatori". Scarso entusiasmo ha determinato anche "la previsione di una espulsione degli stranieri la cui motivazione ("fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali") è esposta ai più ampi arbitri applicativi. L’esecuzione immediata della misura, da parte del prefetto che la emette, può, inoltre, essere sospesa o revocata, insieme al provvedimento di espulsione "quando sussistono le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno", ossia l’assunzione di meriti da pentito. In altri termini - spiegano le camere penali - solo se collabora, magari confermando quel che gli inquirenti si aspettano dalla collaborazione, l’espellendo evita un così grave sconvolgimento della sua vita. Con quel che ne deriva in ordine all’attendibilità delle sue dichiarazioni". Padova: condannato a 24 anni evade durante permesso premio
Il Gazzettino, 27 luglio 2005
Le forze dell’ordine del Veneto stanno cercando un evaso: si tratta di Emanuele Canducci, 49 anni originario di Cesena. L’uomo, detenuto da anni al carcere di via Due Palazzi di Padova, non si è presentato ieri alle porte della casa di reclusione ed è quindi partita automaticamente la nota di ricerca ai posti di polizia e ai comandi dei carabinieri. Canducci usufruiva di un permesso premio dopo due anni e mezzo di carcere. Il permesso in passato gli era stato più volte negato dal giudice di sorveglianza del tribunale di Padova Antonino Cappelleri, ma alla fine gli era stato accordato sabato scorso, con l’impegno di ripresentarsi lunedì mattina, cosa che non è avvenuta. La fine della pena per Emanuele Canducci è fissata al 9 gennaio 2013 per un cumulo che arriva a 24 anni e nove mesi, frutto di numerosi reati. Canducci infatti deve scontare condanne per furto, ricettazione, rapina, possesso di armi, una serie di truffe, una serie di falsi, una violenza privata, molestie, possesso di arnesi atti allo scasso, calunnia, reati legati a stupefacenti, sequestro di persona, violenza carnale e tentato omicidio, commessi fino al 1995, quando, il 4 gennaio, l’uomo è stato arrestato dai carabinieri al valico del Brennero (Bolzano). Il 3 gennaio del 1995, Canducci si era reso responsabile di una evasione al termine di un permesso premio: in quella occasione, anziché rientrare al carcere di Montecarlo, nel Principato di Monaco, dove si trovava in quel momento, si era allontanato in compagnia della cognata. Per cause ancora non del tutto spiegate aveva aggredito la cognata e dopo averne abusato sessualmente, l’aveva legata e gettata in un torrente in località Fosso Ghiaia (Ravenna). Giustizia: Ciampi firma la riforma, adesso è scontro politico
Il Campanile, 27 luglio 2005
Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, promulga la riforma dell’ordinamento giudiziario. Licenziata a Montecitorio mercoledì scorso, la legge delega è stata esaminata per due giorni dall’Ufficio giuridico del Quirinale. Quindi, nella serata di lunedì, la firma di Ciampi. Soddisfatta la maggioranza, delusa l’opposizione. "La promulgazione da parte del Capo dello Stato pone fine a una partita sofferta e controversa - commenta il Guardasigilli Roberto Castelli, che finalmente può tirare un sospiro di sollievo - ora rivolgo il mio auspicio e la mia esortazione al Csm e a tutta la magistratura, affinché collaborino all’attuazione della riforma senza cedere a tentazioni di ostruzionismo che qualcuno potrebbe essere tentato di mettere in atto per cercare di dimostrare che la legge non funziona". Un auspicio che difficilmente sarà esaudito. Il Consiglio superiore della magistratura, infatti, ha apertamente bocciato il provvedimento. E le toghe hanno incrociato le braccia quattro volte in tre anni per protestare contro quella che hanno ribattezzato "la controriforma". Non è che ora che Ciampi ha firmato il provvedimento, la situazione sia cambiata. "Rimangono intatte le questioni di costituzionalità già sollevate", spiega il presidente dell’Anm, Ciro Riviezzo, chiedendo "formalmente che la delega non sia attuata nella parte in cui è incostituzionale, in caso contrario la parola passerà alla Consulta". Nessuna tregua, quindi, da parte delle toghe. E neppure dell’opposizione, pronta a cancellare, una volta al governo, "l’ennesima legge-vergogna". Prima conseguenza dell’attuazione della riforma Castelli sarà l’esclusione dalla corsa alla Procura nazionale antimafia del procuratore generale di Torino, Giancarlo Caselli. In base all’emendamento Bobbio, infatti, non possono essere affidati incarichi direttivi ai magistrati che abbiano compiuto 66 anni. Prosegue, intanto, a Palazzo Madama l’esame di un altro provvedimento fortemente contestato, la pdl ex Cirielli. La norma, meglio nota come "salva-Previti", aggrava le pene per i recidivi e taglia i termini di prescrizione dei reati. Con 136 sì, 54 no e due astenuti, l’Aula ieri approva proprio l’articolo 6, relativo alla prescrizione. L’articolo, però, è stato riscritto. Passano, infatti, alcune modifiche. L’emendamento di An che limita il tempo per la sospensione del processo, la proposta di modifica di FI sull’imprescrittibilità per l’ergastolo e sul raddoppio dei termini di prescrizione per i reati di terrorismo e mafia. Ma, tra i reclami dell’opposizione, An ritira l’emendamento che avrebbe alzato il tetto massimo del calcolo della prescrizione. Emendamento che avrebbe ridisegnato quella parte del testo che, agli occhi del centro-sinistra, è pensata su misura per i reati del forzista Cesare Previti. Il teatro in carcere, da Shakespeare alla sperimentazione
Nove da Firenze, 27 luglio 2005
È Masolino d’Amico su La Stampa ad analizzare il rapporto stretto e importante tra il carcere e lo spettacolo teatrale, ma in particolare la sua attenzione si sofferma sulla Compagnia della Fortezza di Volterra, con "una marcia in più" rispetto ai gruppi di altri penitenziari "primo perché, giunta al diciottesimo anno di attività, è la più antica, secondo perché il carcere di Volterra non è una galera qualunque, bensì un penitenziario di massima sicurezza, i cui ospiti scontano di regola condanne dai dieci anni in più". L’articolo prosegue con la descrizione dell’ultimo spettacolo messo in scena nel carcere sotto la direzione di Armando Punzo (esponente del teatro sperimentale) e intitolato Appunti per un film, di cui D’Amico fa una vera e propria critica, ma anche ricordando altri momenti importanti del rapporto tra il testo e il carcere: Eduardo De Filippo che negli anni Ottanta "dedicò molte energie ai ragazzi detenuti nella casa correzionale Filangeri", Samuel Beckett che "concesse a un gruppo di ergastolani del penitenziario americano di St. Quentin il permesso di interpretare Aspettando Godot" e Antonello Aglioti che "nel 1994, a capo di una compagnia di detenuti del carcere di Orvieto mise in scena un Cyrano di Bergerac". Casini, le carceri e la soluzione che non c’è, di Valerio Fioravanti
L’Opinione, 27 luglio 2005
Periodicamente qualche personalità entra in un carcere femminile, scopre che vi sono detenuti dei bambini, e annuncia qualche iniziativa. Stavolta è andato il Pierferdinando Casini, che ha promesso di sollecitare la Camera a trovare una soluzione. Ma la soluzione non c’è. Una legge del 2001 prevede che qualsiasi detenuta con uno figlio al di sotto dai 10 anni possa uscire, a patto che non sia "socialmente non pericolosa". Quindi, regolarmente, le nomadi non escono, perché nessuno può escludere che, appena uscite, non tornino a rubare. Difficile immaginare una soluzione estemporanea che riguardi solo le rom detenute. Forse la politica dovrebbe farsi coraggio e affrontare in generale il problema di centinaia di migliaia di persone che vivono di espedienti, e non sembrano intenzionate a cambiare. Sassari: protocollo tra il Centro per la Giustizia Minorile e l'Asl
Redattore Sociale, 27 luglio 2005
Un protocollo d’intesa di integrazione interistituzionale che permette di erogare prestazioni sanitarie a supporto dei minori colpiti da provvedimenti giudiziari e che consente di assicurare loro interventi di sostegno terapeutico. Lo hanno siglato l'Azienda Sanitaria Locale n. 1 di Sassari e il Centro Regionale per la Giustizia minorile della Sardegna del Ministero di Giustizia. Il protocollo si pone tre obiettivi: garantire continuità degli interventi già instaurati; definire formalmente procedure di integrazione e collaborazione operativa tra i due servizi; monitorare il bisogno specifico ed elaborare proposte e progetti di adeguamento finalizzate al superamento di fattori critici. La direzione del Centro per la Giustizia Minorile si impegna a fornire i dati relativi a tutte le situazioni rientranti nell’ambito delle proprie competenze, a collaborare all’individuazione degli strumenti e alla definizione dei criteri per il monitoraggio delle attività e, infine, a collaborare alla realizzazione degli interventi ed in particolare con la rete dei servizi. L’Asl di Sassari da parte sua si impegna a garantire la continuità diagnostico clinica a tutela dei minori interessati dal protocollo attraverso le risorse professionali disponibili presso l’Uompia. Alla base della firma dell’atto vi sono alcuni elementi importanti, quali ad esempio il fenomeno della devianza minorile e della criminalità conclamata in età adolescenziale. Queste, associate a problematiche psicopatologiche, impongono di integrare l?esigenza di giustizia con la programmazione di interventi di aiuto e di sostegno educativo che partano da una precoce definizione diagnostica. (Diana Popescu) Firenze: misure contro sovraffollamento, proposta di Falciani (Sdi)
Nove da Firenze, 27 luglio 2005
Per risolvere i problemi al carcere Sollicciano si cominci con il favorire l’applicazione delle misure alternative alla detenzione. È la richiesta avanzata dal capogruppo dello SDI Alessandro Falciani. "L’ amministrazione comunale, d’intesa con la Regione Toscana e insieme ai nostri parlamentari si potrebbero fare promotori di questa iniziativa - ha spiegato Falciani - ridurre la presenza dei detenuti nelle carceri è la finalità più importante, la sfida del futuro. La giustizia minorile ha dato un forte impulso alla tutela dei diritti fondamentali e alla cura della personalità del minore attraverso misure alternative alla detenzione, come "la messa in prova", che hanno evitato il più possibile la permanenza nelle carceri, misure che hanno prodotto esiti positivi. Oggi, invece, i detenuti adulti nelle carceri in tutta Italia sono addirittura il quadruplo di 15 anni fa, perché la risposta penale è divenuta il modo principale di governare i problemi sociali. In Toscana ci sono 19 istituti di pena - ha ricordato il capogruppo dello SDI - ospitano 3878 detenuti mentre ne potrebbero accogliere al massimo 2.941. La situazione a Sollicciano è nota, se non altro per avervi tenuto anche un consiglio comunale straordinario lo scorso dicembre. Qui non vi è la garanzia neppure dell’elementare diritto alla salute. È un tema scomodo, ma al quale non possiamo sottrarci, in nome dei diritti della persona, della convenienza e della convivenza civile. Gli stessi magistrati e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria hanno denunciato questo stato di cose ieri a Roma, nell’ambito di un convegno sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Il problema è molto delicato e solo il centrosinistra ha la cultura e l’equilibrio per risolverlo". Padova: diciassette detenuti diventano mediatori culturali
Il Gazzettino, 27 luglio 2005
Il 40 per cento dei 750 reclusi è rappresentato da stranieri. Il direttore Pirruccio: "Era necessario comunicare con loro". I carcerati diventano mediatori culturali. Esattamente diciassette detenuti stranieri (Paesi dell’Est e Nord Africa) della casa di reclusione di strada Due Palazzi (che ospita ristretti che devono scontare pene superiori ai cinque anni), hanno partecipato ad un corso di cinquanta ore promosso dalla Provincia in collaborazione con la Regione Veneto. Insegnati, cinque mediatori culturali della pubblica amministrazione: Anani Adel, Lusha Klodiana, Maria Stropkovicova, Soledad Andrade e Gordana Stojanov. Il costo del progetto che ammonta a 13 mila euro, è stato suddiviso tra Regione Veneto (70 per cento) e Provincia (30 per cento). I diciassette prigionieri hanno ricevuto l’attestato di partecipazione al corso, ieri mattina, nel carcere Due Palazzi alla presenza di Roberto Tosetto, assessore provinciale al Lavoro e alla Formazione, al dirigente regionale per i Flussi Migratori, Egidio Pistore, e al direttore della casa di reclusione Salvatore Pirruccio. Il corso per mediatori culturali rivolto ai detenuti - spiega l’assessore Tosetto - fa parte di un progetto triennale voluto dalla Provincia, con la collaborazione della Regione, rivolto alla formazione e al recupero dei carcerati. Queste cinquanta ore di lezione sono iniziate alla fine del 2004 e lo scopo è quello di creare delle figure, precisamente dei mediatori culturali, all’interno della prigione che possano fare da tramite tra la polizia penitenziaria e i detenuti stranieri, che ormai sono diventati una realtà importante delle nostre carceri. Non si tratta solo di insegnare a questi detenuti la lingua italiana, ma anche di promuovere processi di integrazione tra i vari soggetti, di aiutarli, una volta scontata la pena, a reinserirsi in società, di gestire le situazioni conflittuali in modo costruttivo e di fare capire ai prigionieri stranieri le regole e il funzionamento della struttura carceraria". Quanti sono i detenuti stranieri presenti al Due Palazzi? Alla domanda risponde il direttore Salvatore Pirruccio: "Attualmente su una popolazione di 750 detenuti, circa il 40 per cento sono di nazionalità straniera e non solo extracomunitari. Era necessario, dunque, trovare un sistema per comunicare con questi carcerati. Il progetto della Provincia, con l’aiuto della Regione Veneto, mi è sembrato subito valido e l’ho accettato piuttosto volentieri. Speriamo si possa ripetere anche nei prossimi anni. Credo che la casa di reclusione di Padova sia stata tra le prime in Italia ad ospitare un corso per mediatori culturali rivolto ai detenuti. Mi sembra che sia stato fatto un esperimento di questo tipo, solamente in qualche città dell’Emilia Romagna". Perché la Provincia ha ricevuto dei finanziamenti regionali per tale progetto, lo spiega Egidio Pistore. "La Regione - commenta il dirigente regionale - ad ogni provincia del Veneto ha erogato, per tre anni, 180 mila euro per progetti mirati all’integrazione degli extracomunitari". Padova: Zanon (An) chiede lo smantellamento dei campi nomadi
Il Gazzettino, 27 luglio 2005
Anche il consigliere regionale di Alleanza Nazionale Raffaele Zanon ha partecipato ieri mattina ai funerali di Gianfranco Piras, insieme ad una delegazione di An composta dal presidente del circolo locale Alfonso Carrieri e dal sindaco di Montegrotto Terme Luca Claudio. Alla luce di quanto apparso in merito ai funerali di Emanuele Crovi, uno dei banditi autori della rapina, Zanon ha dichiarato che "è evidente che vi è una cultura della illegalità e dell’antistato che risiede nelle aree dei campi nomadi, basti ricordare anche i casi di pedofilia e di mercato dei minori scoperti di recente a Verona". "Per questo motivo - ha detto - Alleanza Nazionale chiede con forza lo smantellamento di quei campi nomadi che rischiano di diventare ricettacoli per la criminalità e che sono divenuti delle basi di partenza per la malavita organizzata. La nostra proposta va anche verso una più rigorosa regolamentazione dei campi Rom, istituendo per i nomadi l’obbligo del permesso di soggiorno, per arginare l’invasione proveniente dall’Est europeo". "Non si può pensare che un pluri-pregiudicato che si è reso protagonista di un delitto così efferato - ha affermato il consigliere veneto - venga addirittura osannato, come è accaduto ieri durante i suoi funerali. Per chi si è macchiato di reati gravi come Crovi, pur tossicodipendente, la disintossicazione doveva avvenire all’interno del carcere e non con la libertà incondizionata concessa dal giudice". "Alleanza Nazionale - ha concluso Zanon - chiede pertanto il potenziamento, all’interno delle carceri, delle sezioni a custodia attenuata che consentano la disintossicazione dei detenuti senza che essi vengano lasciati in libertà".
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