Rassegna stampa 2 gennaio

 

Roma: detenuto 46enne muore per crisi cardiaca a Rebibbia

 

Il Messaggero, 2 gennaio 2005

 

"Nel carcere di Rebibbia è in atto una vera e propria emergenza sanitaria: l’altro giorno un altro detenuto, di 46 anni, recluso nel G11, è morto probabilmente per insufficienza cardiaca".

È quanto ha dichiarato il deputato dei Verdi Paolo Cento, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, che ha visitato nella mattinata di venerdì il carcere romano di Rebibbia, nuovo complesso penale, insieme al deputato del Prc Giovanni Russo Spena e al consigliere regionale Salvatore Bonadonna.

"Presenteremo un’interpellanza urgente al ministro Castelli per denunciare le condizioni di sovraffollamento in cui si trova il carcere di Rebibbia, che ha raggiunto i 1.600 detenuti e dove è sempre più difficile garantire il diritto alla salute - dice Cento. Un’emergenza che, come ci hanno riferito i detenuti della biblioteca Papillon, diventerà esplosiva se le aggravanti per i recidivi, comprese nella legge cosiddetta Salva-Previti, saranno definitivamente approvate dal Parlamento".

Roma: Cento; a Rebibbia sovraffollamento ed emergenza sanitaria

 

Corriere della Sera, 2 gennaio 2005

 

"Nel carcere di Rebibbia è in atto una vera emergenza sanitaria". A lanciare l’allarme è il deputato dei Verdi Paolo Cento, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, dopo aver visitato l’istituto di pena romano insieme al deputato del Prc Giovanni Russo Spena.

I due parlamentari sottolineano che il sovraffollamento delle strutture carcerarie rende sempre più difficile garantire il diritto alla salute. "La situazione diventerà esplosiva se il Parlamento approverà la legge Salva-Previti, che prevede aggravanti per i recidivi".

Diario dal carcere: "La mia agonia", di Checchino Antonini

 

Liberazione, 2 gennaio 2005

 

"Al rientro dall’aria mattutina mi sono sentito male, senza fiato, sono andato all’infermeria e mi hanno dato un po’ d’ossigeno; ma la situazione non è cambiata. Mi hanno fatto un tracciato dicendo che era tutto a posto e questo mi succede spesso con forti dolori al cuore e loro tutto quello che fanno è un tracciato e per loro è sempre tutto a posto; se tutto è a posto perché tutto questo dolore? E loro dicono che è la mia patologia; e se gli rispondi ti fanno rapporto e non ti danno i giorni che ti spettano.

L’altro giorno mentre ero all’infermeria che non stavo bene ho sentito due dottori che si bisticciavano; uno diceva all’altro di scrivere, sicuramente al Giudice; secondo me volevano scrivere che io ero incompatibile al carcere; però si sono gridati tutti e due; però nessuno dei due si è preso la responsabilità di scrivere al Giudice per dirgli veramente la mia situazione; per farsi belli col Giudice, e così funzionano le cose in questo cesso.

Adesso ho le caviglie gonfie quanto uno zipangolo e le ho fatte vedere e dicono che è la mia patologia; io gli dico che se è la mia patologia che provoca tutti questi problemi: perché non mi mandate a casa che mi vado a controllare fuori? E loro ridono e dicono che questo lo decide il Giudice; invece sono i medici che gli scrivono al giudice che non siamo a posto. Logicamente il Giudice sente loro e non me. Questa è la situazione".

Erano le 10 e 40 del 12 luglio quando Francesco Racco ha scritto queste note sul diario segreto che conservava nella cella di Secondigliano dove scontava dieci anni. Ventitré ore dopo era morto.

Eppure uno malato come lui in galera non ci doveva proprio stare. Non così, almeno. Non dentro una cella sovraffollata del carcere nella cintura nord di Napoli. Racco aveva 58 anni, veniva da Siderno, in provincia di Reggio Calabria. Aveva chiesto e richiesto gli arresti domiciliari o gli arresti ospedalieri visto che l’amministrazione carceraria aveva riconosciuto la gravità di quel male ai reni che gli aveva intaccato il cuore.

Un atteggiamento contraddittorio quello del Dap, da un lato ammetteva che stava malissimo - Racco doveva sottoporsi a dialisi tre volte a settimana - dall’altro riteneva le sue condizioni compatibili con lo status carcerario normale. In compagnia di altri detenuti e non nel reparto ospedaliero interno alle mura della prigione. Che poi era stato il motivo del trasferimento di Racco dal carcere di Locri.

Gli "abitanti" di Secondigliano lo chiamano il "repartino". Solo poche settimane fa, durante lo sciopero dei detenuti di tutta Italia, alcuni di loro avevano scritto delle pessime condizioni dietro le sbarre napoletane e anche in quelle corsie dove loro ridevano in faccia a Racco. Doveva essere il fiore all’occhiello del Dap ma, già in passato ci sono state voci di infermieri maneschi come i secondini, di detenuti costretti a camminare faccia al muro per i corridoi della struttura sanitaria.

Quando è morto pesava 39 chili, sembrava molto più vecchio dei suoi anni. Chi lo conosceva dice che sentiva la fine vicina. Per questo aveva deciso di tenere un diario. Così ha annotato il suo calvario sul retro delle pagine centrali di un bloc notes col quale scriveva biglietti ai familiari. Le sue confessioni dolorose erano rimaste invisibili a un’ispezione frettolosa. Per questo il taccuino di Racco è stato consegnato alla famiglia con tutte le altre cose che arredavano la cella, sembrava vuoto quel quaderno. Invece c’era una disperazione scritta in dialetto e anche con la paura di essere scoperto. Probabilmente è per questo che non aveva pensato di spedire una lettera a casa.

Ora quelle righe disperate le ha messe in italiano il suo avvocato, Antonio Speziale di Siderno, perché servano alla famiglia per avere giustizia, sconvolta da una morte "simile a quella di una bestia". Ieri la notizia che il diario è su una scrivania della Procura di Napoli dove un’indagine è stata avviata già all’indomani della morte del detenuto.

Il 24 giugno Racco aveva la pressione a duecento. Scriverà che è salita alle stelle dopo essere stato in ambulanza sotto il sole per due ore. "Perché la macchina di scorta non arrivava; dietro le tante telefonate fatte dagli agenti di scorta che si trovavano con me nell’ambulanza; subito dopo la dottoressa di turno vedendo la mia pressione così elevata ordinava il ricovero al pronto soccorso dove sono stato fino a mezzanotte e mezza e sono rientrato al carcere e perché il giorno dopo e cioè il 25 giugno dovevo fare il colloquio con la mia famiglia".

Cinque giorni dopo, all’alba, Racco sta male ancora e chiede l’ossigeno. Scrive "respiro zero". L’ossigeno, però, non arriverà. Racco è sempre più disperato. Eppure, pochi giorni prima, l’istanza presentata dal suo legale perché la pena fosse sospesa per grave incompatibilità con la vita dietro le sbarre era stata respinta in base alle note presentate dai sanitari del carcere. Anche l’avvocato è incredulo: "Come si fa a dire che non ci sono responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria?".

Finora il perito del pubblico ministero insisteva a spiegare la morte come forma acuta di infarto sopravvenuta in un soggetto affetto da miocardiopatia dilatativa. Dopo il diario, però, difficile non restare perplessi sulla versione ufficiale. Soprattutto ripensando alle ultime ore della sua vita secondo quanto emerso dalle ricostruzioni. Il 13 luglio alle 7 Racco disse in infermeria che stava male, malissimo. Rantola, ha la pressione altissima e, alle 8 e 45 ancora dolori incommensurabili. Si decide solo allora per il ricovero. Un minuto dopo scatta la chiamata al 118 che in pochi istanti si muove dal vicino Cardarelli. Ma Racco muore mentre va in ospedale. Sono le 9 e mezza.

Lo avevano arrestato nel 2000 nel corso dell’operazione "Bluff" contro la famiglia Commisso di Siderno. Una storia di ‘ndrangheta e narcotraffico smantellata dalla narcotici della mobile di Reggio Calabria che, però, non riuscirà ad acciuffare Antonio Commisso "l’Avvocato", capo incontrastato della consorteria sidernese, a detta degli inquirenti. Dentro ci finiscono gli "sventurati". Secondo il suo difensore, Racco era uno sventurato, sarebbe andato in galera solo per intercettazioni telefoniche in cui veniva evocato il suo soprannome. "Uno Stato che sembra forte solo con i deboli", dice. Ma un malato grave è sicuramente un debole anche se è stato condannato per mafia.

E questa storia è "uno spaccato terribile della realtà carceraria italiana - racconta ancora Speziale - mica della Thailandia. Questa famiglia è distrutta anche dal tentativo di mistificare le cose".

Quella in cui è morto Racco è stata, nelle carceri italiane, una "calda estate". Con lui, a luglio sono morti altri 11 detenuti: 7 suicidi, 2 per malattia e 2 per cause non accertate. 13 ne erano morti un mese prima (9 suicidi, 2 per malattia e 2 per cause non accertate) e altri 21 moriranno tra il caldo e l’abbandono ad agosto e settembre: 12 suicidi, 7 decessi per malattia e due per overdose. Poi i numeri tenderanno a calare, anche se di poco. Ma il 18 novembre un ragazzo di 31 anni muore di overdose proprio a Secondigliano. La "roba" che gira è pessima perché è già scoppiata - a pochi metri da quelle mura - la guerra di camorra ancora in corso per il controllo del traffico di droga in quella porzione di città. Pochi giorni dopo verrà fermato un agente penitenziario accusato di aver introdotto in carcere la droga-killer.

Le cifre di questo bollettino di guerra sono tratte da un dossier messo in rete da "Ristretti. it", realizzato da detenuti e operatori di Padova e della Giudecca. Lo fanno perché il carcere sia "davvero trasparente e i diritti delle persone detenute siano rispettati, primi fra tutti il diritto alla salute e alla vita". In cambio chiedono solo collaborazione perché non si leggano più diari disperati di condannati a morte con sentenze capitali costruite ad arte dai partiti e dai governi che, con l’ossessione della sicurezza, cercano di imporre soluzioni autoritarie a insicurezze sociali di altra natura. Sentenze eseguite concedendo il minor numero possibile di misure di detenzione alternativa per venire incontro a una domanda di carcerazione inseguita da martellanti campagne di stampa sulla certezza della pena.

"Questa è la situazione", sono state le ultime parole scritte da Racco nel suo diario segreto. Invece, ai piani alti di Via Arenula, un ingegnere leghista che fa il Guardasigilli è convinto che le prigioni siano alberghi a cinque stelle e che le chiavi con cui chiudere le celle debbano essere costruite con la cioccolata.

Guantanamo: detenuti rischiano l’ergastolo senza processo

 

Centomovimenti News, 2 gennaio 2005

 

L’amministrazione americana di George W. Bush vuole rinchiudere per sempre i detenuti reclusi nel carcere cubano di Guantanamo. Secondo quanto si legge sul quotidiano statunitense Washington Post, che cita fonti anonime dell’intelligence Usa, il Pentagono e la Cia si apprestano infatti a chiedere al Congresso 25 milioni di dollari per costruire una nuova prigione nella quale saranno "ospitati" gli uomini catturati durante la guerra internazionale al terrorismo. Secondo il giornale una parte dei 500 prigionieri attualmente detenuti a Guantanamo (circa duecento) resteranno in questo carcere a vita, anche se non saranno presentate prove sufficienti a certificare la loro colpevolezza.

"Dato che la guerra globale al terrorismo è un problema a lungo termine - ha affermato il portavoce del Pentagono Bryan Whitman, dando così una sorta di conferma alle indiscrezioni del Washington Post - è sensato trovare soluzioni a lungo termine".

Nel frattempo proprio dal penitenziario cubano arrivano nuove denuncie di violazioni dei diritti umani. L’avvocato del britannico Moazzam Begg ha reso noto che il suo assistito ha ricevuto sistematici abusi e torture da parte dei militari statunitensi. Il detenuto ha infatti rivelato al proprio legale di aver subito violenze sessuali, torture e umiliazioni. In particolare i suoi carcerieri lo avrebbero picchiato brutalmente perché si era permesso di recitare ad alta voce alcuni versetti del Corano, nonostante gli fosse stato imposto di rimanere in silenzio.

Alcuni giorni fa Bush aveva assicurato che le critiche rivolte alla sua amministrazione in merito alle condizioni di vita dei prigionieri di Guantanamo sono infondate.

"Sono critiche ingiuste, la gente che dice che l’America non è più uno stato di diritto danneggia la nostra reputazione - aveva spiegato il presidente durante la consueta conferenza di fine anno - noi ci atteniamo alle decisioni delle nostre Corti che hanno permesso ai prigionieri di Guantanamo di avere la revisione del loro status, ma prima di rilasciarli voglio essere certo che non tornino ad uccidere".

Milano: centocinquanta rose a S. Vittore, iniziativa dei Radicali

 

Agenzia Radicale, 2 gennaio 2005

 

La sera del 31 dicembre un gruppo di militanti radicali consegnerà una rosa a tutte le donne che passano il Capodanno nel carcere di S. Vittore, siano detenute o agenti di custodia. All’iniziativa parteciperanno i consiglieri regionali radicali Alessandro Litta Modignani e Lucio Berté, accompagnati da Fabrizio Amadori e Daniele Nahum, della segreteria dell’associazione radicale "Enzo Tortora" di Milano, Joelle Haggiag e Marina Belloni.

"Con questa iniziativa, di valore simbolico - spiegano i protagonisti dell’iniziativa - intendiamo richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla situazione delle carceri italiane, che mantengono alti livelli di criticità a causa del noto sovraffollamento, delle precarie condizioni sanitarie, della mancanza di lavoro esterno, della scarsa applicazione dei benefici di legge, della irragionevolezza del codice di procedura penale e infine - ma soprattutto - del completo fallimento del regime proibizionista in materia di droghe.

"Oltre a offrire una rosa a tutte le detenute, abbiamo voluto fare altrettanto con il personale di custodia femminile, che pure patisce la situazione di crisi generale del carcere. Una rosa in particolare è destinata a Gloria Manzelli, la nuova direttrice da poco insediatasi a S. Vittore, alla quale formuliamo i migliori auguri di buon lavoro.

"La situazione nelle carceri italiane rimane difficilissima e noi torniamo a sollecitare l’intervento delle istituzioni, a Milano, in Lombardia e a Roma".

Terni: carcerati, alcolisti e handicappati trovano lavoro

 

Il Messaggero, 2 gennaio 2005

 

Dare possibilità di lavoro, per periodi diversi, alle persone che per vari motivi non ne hanno alcuno. E’ stato da sempre l’intento della cooperativa sociale So.L.Co. (Solidarietà, lavoro e collaborazione) nata a Terni nel 1995 sulle basi di una precedente cooperativa, sorta nel ‘93 per volere di don Gianni Sabatini parroco di S. Matteo a Campitelli, che svolgeva attività di raccolta d’indumenti, carta e vetro da rivendere per ottenere un guadagno da destinare a stipendio per i soci lavoratori. Servizi che hanno permesso di dare un lavoro a vari soggetti svantaggiati.

Il passo successivo ha coinvolto la Caritas diocesana di Terni, che ha preso in mano la gestione della cooperativa, fino a farne un servizio sociale. Dai primi 3 soci lavoratori si è passati ai 25 attuali, alcuni facenti parte del coordinamento, altri volontari e il 30% appartenenti alle categorie svantaggiate: persone con handicap fisici o psichici, carcerati, ex tossicodipendenti, alcolisti.

"La nostra attività nel sociale - spiega Nicola Cimadoro presidente della cooperativa - riguarda soprattutto i carcerati che possono usufruire di misure alternative alla pena, coloro che sono in semilibertà, in affido, agli arresti domiciliari e che svolgono, su autorizzazione del giudice di sorveglianza, attività lavorativa al di fuori del carcere. Attualmente lavorano con noi 6 detenuti, italiani e stranieri. Ci vengono segnalati dagli operatori del carcere di Terni, tra coloro che devono scontare pene residue inferiori ai tre anni".

La cooperativa So.L.Co. è impegnata su diversi fronti: dal recupero di indumenti, oggetti di arredamento e suppellettili da rivendere o per ricavarne materia prima, al restauro e vendita di mobili antici; dall’officina di carpenteria metallica leggera alle piccole manutenzioni edili; dal grande facchinaggio e traslochi alla manutenzione e gestione delle aree verdi.

Per venire incontro ai casi più difficili e bisognosi la cooperativa gestisce anche due case di accoglienza. La sede operativa della cooperativa sociale So.L.Co. si trova in via T. Pallotta, 14 zona industriale di Maratta Bassa, tel. 0744248160.

Pescara: esce dal carcere in permesso e compie una rapina

 

Il Messaggero, 2 gennaio 2005

 

Era uscito in permesso premio dal carcere di San Donato, dove dovrà rimanere fino al 2024 per scontare varie condanne, ma è tornato dietro le sbarre prima dello scadere della licenza per aver rapinato, il 31 dicembre a sera, un internet point.

Nello Bruno, 47 anni, campano, è stato arrestato in flagranza di reato dai carabinieri. In passato si è reso responsabile di due omicidi, per i quali è stato condannato a 22 e a 26 anni di reclusione.

Milano: iniziative sul carcere del centro culturale San Fedele

 

Corriere della Sera, 2 gennaio 2005

 

Il Centro culturale San Fedele, in via Hoepli 3/a, dedica il mese di gennaio al tema del carcere e della giustizia con una mostra, un seminario-convegno e un film. Il 15 gennaio (ore 16- 20) verrà inaugurata la mostra fotografica dei "Captivi", con le immagini scattate da alcuni fotografi nel carcere di Bollate.

Il 22 gennaio (ore 15.30) Alberto Pezzotta interverrà dopo la proiezione di "Confessioni di un Commissario di Polizia al Procuratore della Repubblica", il film di Damiano Damiani che vinse il Premio San Fedele nel 1971. Il 29 gennaio (9.30-18) il convegno "Con la paura nel cuore. Dal perdersi all’affidarsi", su carcere e minori, cui partecipano tra gli altri Livia Pomodoro e Paolo Vari.

Venezia: "Rio Terà dei Pensieri", dieci anni di cooperazione

 

Il Gazzettino, 2 gennaio 2005

 

"Lavori in corso. I primi dieci anni della Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri" introduzione di Gabriele Millino, Presidente della Cooperativa. Una Cooperativa fondata da Raffaele Levorato, nata dal suo forte senso dell’amicizia e dall’amore per il prossimo. Un gesto di grande generosità e solidarietà. Il volume è dedicato a Emilio Vesce condannato e, dopo cinque anni di carcere assolto "per non aver commesso il fatto".

Un libro che tutti dovrebbero leggere. "Vesce ha conosciuto la vita oltre il muro... noi volontari, pur frequentando quotidianamente il carcere, non riusciremo mai a comprendere appiano cosa voglia dire "essere detenuti". È una letture serie, coinvolgente e arricchente per quanto ci sottopone con i suo rendiconto, i grafici le sue testimonianze di dieci anni di attività.

È un libro che scuote le coscienze, che fa riflettere... l’impegno della Cooperativa "Rio Terà dei Pensieri" che organizza e sostiene il lavoro dentro il carcere aprendo squarci di umanità e di speranza, è degna di ogni apprezzamento ed è da incoraggiare perché continui, superando le inevitabili difficoltà, raccogliendo anzi consenso e la meritata fiducia" scrive il Cardinale Marco Cè, Patriarca Emerito.

 

 

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