Rassegna stampa 19 gennaio

 

Cagliari: muore detenuto tunisino, rifiutava cure per motivi religiosi

 

L’Unione Sarda, 19 gennaio 2005

 

Lo hanno trovato i compagni di cella, avant’ieri mattina, ormai non respirava più: Nabil Jlassi soffriva di cuore, ma rifiutava le medicine offerte dai sanitari del carcere di Buoncammino, per motivi religiosi. La morte del 32enne tunisino mette fine all’inchiesta sull’omicidio di Luciano Zucca, il muratore assassinato il 20 maggio nel suo appartamento di via Nebida, al termine di un rapporto sessuale a pagamento.

Questa mattina, al Policlinico universitario di Monserrato, sarà effettuata l’autopsia ordinata dal sostituto procuratore Danilo Tronci, che coordinava le indagini sul delitto e che era di turno quando la direzione del carcere di Iglesias ha comunicato la morte dell’algerino.

La notizia, avanti ieri pomeriggio, è stata data anche alla ex compagna di Nabil Jlassi, una donna cagliaritana che dal tunisino ha avuto tre figli e che si era riavvicinata al giovane dopo l’arresto, avvenuto due giorni dopo la scoperta del delitto. Il tunisino, difeso dall’avvocato Sandro Mereu, aveva subito confessato di essere l’autore di quel delitto.

In sostanza, aveva ucciso Zucca, col quale aveva concordato un rapporto sessuale a pagamento, perché quest’ultimo si sarebbe rifiutato di pagargli il compenso pattuito: neanche un euro. "L’ho placcato sul letto, gli ho stretto il braccio attorno al collo, poi col cavo del ferro da stiro ho stretto ancora. Non lo volevo uccidere, ma soltanto stordirlo per poter frugare in casa e mettere insieme quanto mi spettava": il tunisino aveva risposto così davanti al Gip Luisanna Melis, nell’udienza di convalida del fermo nel carcere di Buoncammino. Era la prima volta, il 20 maggio 2003, che Nabil vedeva il muratore di Is Mirrionis: "L’ho incontrato in piazza Matteotti, dove andavo spesso: sono padre di tre figli e non ho un lavoro, lo facevo per raccogliere i soldi necessari alla mia famiglia.

Mi ha dato appuntamento per il pomeriggio in via Is Mirrionis, erano le 16.30, siamo andati a casa sua. Non gli ho chiesto una cifra precisa, ho lasciato che decidesse lui, invece: eravamo ancora a letto quando mi ha comunicato che non mi avrebbe dato nulla. Non sono riuscito a contenere la rabbia, l’ho bloccato sul letto e soffocato col braccio, non poteva reagire. Poi ho preso il ferro da stiro e ho stretto il cavo al collo.

Non lo volevo uccidere ma stordire, per poter poi frugare in casa. Non mi sono accorto che fosse morto: ho preso due cellulari, li ho rivenduti per 20 euro". Il racconto collimava con l’autopsia effettuata dal medico legale Francesco Paribello: morte per strangolamento. L’improvviso decesso - le cui cause sono da chiarire - del tunisino arriva quando il pm si accingeva a chiudere l’indagine. Molto probabilmente l’avvocato Mereu avrebbe suggerito l’abbreviato, il rito che, in caso di condanna, assicura lo sconto di un terzo sulla pena. Ora invece il caso è definitivamente chiuso. A Nabil Jlassi si era arrivati attraverso un’indagine negli ambienti omosessuali, poi l’acquirente di uno dei due cellulari aveva riconosciuto Nabil attraverso le foto segnaletiche: il tunisino aveva precedenti per traffico di droga. Quanto alla vittima del delitto, Luciano Zucca, soffriva di una grave insufficienza renale e ogni settimana si sottoponeva alla dialisi. La mattina del 21 maggio, però, aveva saltato l’appuntamento, i medici si erano insospettiti e avevano cercato di rintracciarlo al cellulare prima di telefonare alla nipote. La donna era andata a casa e aveva trovato il corpo senza vita dello zio sul letto, la pancia in giù, le braccia rivolte verso l’alto, maglietta bianca, slip, calzini. Attorno al collo, il cavo del ferro da stiro.

Iglesias (Ca): detenuto si cuce occhi e bocca per protesta

 

Repubblica, 19 gennaio 2005

 

Si è cucito occhi e bocca per denunciare le drammatiche condizioni del carcere. L’estrema protesta di un detenuto del penitenziario di Iglesias è stata riferita oggi durante una serie di audizioni davanti alla seconda commissione "Diritti civili" del Consiglio regionale, presieduta da Paolo Pisu (Prc), determinata ad avviare un cambiamento nella drammatica situazione degli istituti di pena della Sardegna, tutti vecchi e fatiscenti tranne quello di Alghero.

L’affollamento e la mancanza di spazi comuni fanno aumentare l’aggressività e l’autolesionismo dei detenuti, ha spiegato il magistrato di sorveglianza di Cagliari, Leonardo Bonsignore, che ha illustrato la composizione della popolazione carceraria. Su 1.661 detenuti, più 48 donne, censiti dal provveditore regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Massidda, il 30% è rappresentato da extracomunitari. Un’altra fetta consistente è costituita da tossicodipendenti. Solo nel carcere di Buoncammino, il 60% dei reclusi ha problemi di droga e di questi il 90% è affetto da malattie psichiatriche. Nell’ottobre del 2004 su 400 detenuti presenti nel carcere cagliaritano 250 avevano problemi mentali causati anche dallo stato in cui vivono i detenuti.

Il sovraffollamento - negato da Massidda, in base ai dati ufficiali che parlano di una capienza regolamentare di 1.724 detenuti e di una tollerabile di 2.372 - è invece denunciato dal magistrato. I parametri previsti dalla legge (9 metri quadri a detenuto se in camera singola, 15 se in camera doppia) non sono quasi mai rispettati. La mancanza di spazi comuni dove svolgere qualsiasi tipo di attività costringe i detenuti a passare circa 20 ore al giorno su 24 in una cella affollata. Secondo Bonsignore, in attesa delle nuove carceri è necessario creare, dove possibile, spazi comuni che rendano la vita del detenuto più sopportabile.

Il magistrato ha suggerito di utilizzare, per la detenzione attenuata, l’istituto di Quartucciu, finora destinato ai minorenni. Nella struttura ci sono in media 20/25 ragazzi e la capacità è di 120/130 posti, dopo aver individuato dove trasferire i detenuti più giovani. Bonsignore ha auspicato anche un intervento urgente in materia di psichiatria penitenziaria.

Cagliari: carceri fuorilegge, aids e bambini in celle sovraffollate

 

L’Unione Sarda, 19 gennaio 2005

 

Spazi ridotti, sovraffollamento, reclusi che soffrono anche di gravi patologie, da qualche giorno, anche il problema del fumo. La commissione consiliare sta proseguendo l’indagine sulla situazione carceraria. Ieri sono stati sentiti il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Francesco Massidda, i rappresentanti sindacali della Polizia penitenziaria, Padre Salvatore Morittu, il Comitato V novembre e Francesco Bonsignore, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Cagliari (che ha anche competenza sul 60% degli istituti di pena della Sardegna).

È arrivata la conferma di quanto già sentito, e visto nella visita che la commissione ha effettuato nei mesi scorsi nel carcere di Buoncammino. Nessun istituto è a norma di sicurezza, per le donne recluse, e con bimbi sotto i tre anni, non ci sono spazi adatti, i familiari sono spesso costretti a lunghe attese in ambienti angusti.

L’emergenza sanitaria è al di sopra del livello di guardia. La popolazione carceraria è composta soprattutto da tossicodipendenti, malati di Aids, sieropositivi e detenuti con gravi disturbi psichiatrici. In particolare, Leonardo Bonsignore ha chiesto maggiore coordinamento tra tutti i soggetti che si occupano di carceri. In 20 istituti su 24 si vive in celle sovraffollate. Bonsignore ha rilanciato la proposta di utilizzo dell’istituto minorile di Quartucciu: di 130 posti - ha detto - solo 20 sono occupati.

Cassazione: una pacca sul sedere costa 14 mesi di reclusione

 

Adnkronos, 19 gennaio 2005

 

Una pacca sul sedere vale 14 mesi di reclusione. Lo ha deciso oggi la Corte di Cassazione che ha ritenuto il gesto "un atto sessuale indirizzato verso zone erogene, idoneo a compromettere la libera determinazione del soggetto passivo in ordine alla sua sessualità".

La pronuncia, prima nel suo genere, ribalta una sentenza precedente, datata 24 gennaio 2001, che ammetteva la "palpatina" a patto che si trattasse di qualche "isolata e repentina pacca" e che mancasse l’"intento propriamente libidinoso".

A farne le spese sarà un uomo di origine friulana, condannato per violenza sessuale. Ivan, di 40 anni, nel 2000 aveva colpito il fondo schiena di una giovane che stava telefonando da una cabina. La donna, irritata, decise prontamente di ricorrere al giudice. Ma Ivan fu assolto in primo grado, perché la Corte non riteneva che quel gesto, seppur offensivo, potesse costituire reato. La Corte d’Appello di Trieste non fu però dello stesso avviso.

La condanna fu di 14 mesi per violenza sessuale. Contro la pronuncia l’uomo ha invano fatto appello alla Cassazione, che con la sentenza 876 - gli ha dato torto. La pena verrà sospesa con la condizionale. "Finché non vedo non credo. Se fosse vero avremmo le carceri pieni di gente".

Così Alessandra Mussolini, leader di Alternativa sociale, commenta la sentenza all’Adnkronos. "Non ce la faccio più - continua la Mussolini - a sentire parlare di pacche sui posti di lavoro e di ammiccamenti vari. Le donne sono sicuramente penalizzate", sottolinea l’esponente politica, che però poi ammette: "Ma nel 2005 vale anche la situazione opposta", anche il gentil sesso sia diventato oggi più "disinvolto e spigliato".

Novi Ligure: Omar presto al volontariato, poi toccherà a Erika

 

La Provincia di Lecco, 19 gennaio 2005

 

Si riaprono le ferite del 2001, quando una ragazzina con l’aiuto del fidanzatino massacrò la madre e il fratellino. A sollevare nuove polemiche è la possibilità che avrà Omar Favaro, oggi 21 anni, di uscire in permesso premio dal carcere purché presenti un progetto di attività di volontariato.

La decisione è stata assunta la scorsa settimana dal tribunale di sorveglianza dei minori di Torino, che ha accolto il ricorso contro il provvedimento del giudice il quale aveva negato al ragazzo la possibilità di trascorrere il Natale a casa. Impugnando il provvedimento i difensori Lorenzo Repetti e Vittorio Gatti hanno sostenuto che il 4 bis (che concede il beneficio soltanto a chi ha già scontato un terzo della pena) non è applicabile ai detenuti minorenni e Omar era minorenne all’epoca dei fatti. Il giovane, arrestato il 23 febbraio 2001 insieme con Erika De Nardo per il massacro di Susy Cassini e Gianluca De Nardo, è stato condannato a 14 anni ed ha già scontato oltre un quarto di pena. Anche gli educatori e le assistenti sociali del carcere di Asti, dove Omar è stato trasferito al compimento del ventunesimo anno d’età, nelle loro relazioni sono dette favorevoli al permesso-premio. Il tribunale di sorveglianza non l’ha concesso, ma ha invitato Omar a ripresentare la richiesta dopo avere individuato un percorso di risocializzazione, che è la finalità del beneficio. Omar potrebbe chiedere di svolgere attività di volontariato in una parrocchia o in un ospedale.

Del resto lo stesso Omar aveva chiesto di essere impegnato in questo tipo di attività: "Voglio rendermi utile" aveva detto. Ma anche Erika potrebbe ben presto godere di permessi premio. Non ora e non c’è alcuna richiesta in questo senso, come ha spiegato nei giorni scorsi il difensore. La ragazza di Novi, condannata a 16 anni, è in carcere dal 23 febbraio 2001, due giorni dopo il duplice omicidio. In base all’ordinamento giudiziario può accedere al beneficio del permesso-premio, sulla scorta delle relazioni favorevoli degli educatori e avendo già scontato un quarto di pena.

Il magistrato di sorveglianza del tribunale dei minori lo scorso anno aveva accolto la richiesta di liberazione anticipata, che prevede ogni sei mesi trascorsi in carcere o ai domiciliari uno "sconto" di 45 giorni. Erika il prossimo 28 aprile compirà 21 anni e sarà trasferita dalla struttura di pena minorile ad un carcere per adulti.

Gran Bretagna: un bracciale elettronico per l’ex coniuge…

 

Corriere della Sera, 19 gennaio 2005

 

Un braccialetto elettronico, proprio come quello studiato per controllare chi si trova agli arresti domiciliari. E se l’idea faceva discutere quando doveva servire a vigilare su chi era stato giudicato colpevole, figuriamoci ora che quell’affare dovrebbero indossarlo mamma o papà. Insomma, il genitore separato che vuole impedire all’ex coniuge di vedere i figli avuti in affidamento. Il braccialetto "segnala spostamenti dell’ex coniuge" è una delle trovate contenute nella - serissima - proposta avanzata da Lord Falconer, ministro per gli Affari costituzionali britannico, per riformare la legge sulla custodia dei figli in caso di separazione.

Un problema che in Inghilterra riguarda 60.000 genitori ogni anno. Per garantire al coniuge "visitante" - il genitore al quale la prole non è stata affidata - il diritto di vedere i figli, Falconer medita di introdurre un’ampia gamma di deterrenti: da multe a lavori comunitari, dal braccialetto elettronico agli arresti domiciliari. Ma se a centinaia di genitori risulterà gradita la possibilità di limitare gli spostamenti dell’ex quando vengono violate le disposizioni del giudice, per Fathers 4 Justice, l’organizzazione per la difesa dei diritti dei padri, le modifiche prospettate ancora non bastano.

L’obiettivo della legge, ha detto il portavoce dell’associazione, John Ison, avrebbe dovuto essere quello di verificare il riconoscimento ai due genitori dello stesso status legale, sociale e culturale. "Qui invece è stata cinicamente riciclata la legge esistente. Siamo delusi". Simile la reazione di Families need Fathers, organizzazione con gli stessi obiettivi. "Ci piacerebbe che i genitori fossero obbligati a trovare un accordo sulla frequenza delle visite, da sottoporre poi al giudice. Così tutti saprebbero qual è l’accesso minimo garantito".Ancora mancano i dettagli della proposta di Falconer, caldeggiata non solo dalla sottosegretaria per l’Infanzia, Margaret Hodge, ma pare anche dal premier Tony Blair: il progetto sarà presentato per intero tra "un paio di settimane", ha precisato Falconer. In ogni caso il ministro è convinto che le modifiche servano, e nega che a portarlo a rivedere le normative sia stata la campagna degli attivisti di Fathers 4 Justice, che di recente hanno scalato il cornicione di Buckingham Palace, lanciato un profilattico contro il primo ministro nella Camera dei Comuni e fatto l’irruzione nella casa blindata del Grande Fratello.

"È chiaro che c’è qualcosa che non funziona", ha spiegato ai microfoni della Bbc, parlando della necessità di trovare un sistema migliore. E allora ecco la sua idea per garantire ai figli di separati l’affetto e la presenza di mamma e papà e, ai genitori, la possibilità di arrivare a una soluzione che vada bene a entrambi, preferibilmente senza ricorrere ai tribunali. "Non è lì che andrebbe deciso il futuro di una famiglia", ha spiegato Falconer, sottolineando che le coppie saranno incoraggiate alla mediazione (che non sarà obbligatoria: "Quando è forzata - ha detto Falconer - manca la buona volontà, può essere inutile").

Oltre a multe e braccialetti, la sua proposta prevede più assistenza legale - e morale - per telefono e su Internet e, nel caso di grandi contrasti, più udienze informali prima dell’arrivo davanti al giudice. Per quanto riguarda le pene per gli inadempienti, infine, la priorità era trovare un’alternativa al carcere, che sinora è la sola arma a disposizione del giudice. "Mandare in prigione la persona che si occupa di un bambino - ha detto il ministro - vuol dire danneggiarlo ulteriormente". Poi, all’ennesima domanda sul braccialetto, Falconer ha ammesso di non essere certo che sia la scelta giusta. "Magari è un po’ eccessivo, ma è giusto parlarne e prenderlo in considerazione".

Roma: la vita dentro Rebibbia in onda domani su Sat 2000

 

Adnkronos, 19 gennaio 2005

 

Si parla di detenuti nella puntata di "Formato Famiglia", il talk show curato da Brando Giordani e condotto da Monica Mondo, in onda domani alle ore 12.00 e in replica alle 18.00 e alle 22.30 su Sat 2000.

Le telecamere di Sat 2000 sono entrate nel carcere romano di Rebibbia per dare voce ai detenuti e documentare la loro quotidianità, i pasti, le attività di lavoro, il rapporto tra le donne recluse della sezione femminile e i loro bambini cresciuti nel nido.

Ne parlano in studio il direttore del carcere Carmelo Cantone, Stefania Tallei della comunità di Sant’Egidio, la presidente dell’associazione di volontariato "A Roma insieme" Leda Colombini, il pugile Vincenzo Cantatore che insegna boxe ai detenuti.

Il sito del ministero della giustizia diventerà giornale on-line

 

Prima Comunicazione, 19 gennaio 2005

 

Diventare un vero e proprio giornale on line: questo è l’ambizioso progetto di Giustizia.it, il sito web del ministero della Giustizia, guidato dal leghista Roberto Castelli, il cui restyling è stato realizzato dall’ufficio stampa del ministero di via Arenula.

Il sito non è più una semplice vetrina istituzionale, ma propone anche notizie, commenti e inchieste, oltre a rubriche di informazione e di servizio al cittadino, resi graficamente più appetibili da una titolazione efficace e da un supporto fotografico e audiovisivo.

"Abbiamo fatto tutto in casa, mettendo in campo le nostre professionalità. Il nostro obiettivo è quello di consentire l’accesso all’universo giustizia, in tutte le sue articolazioni, attraverso la cronaca e l’attualità, e per questo abbiamo organizzato il nostro ufficio come una vera redazione", spiega Aldo Papa che, dopo una lunga esperienza professionale in quotidiani e alla Rai, da due anni è a capo dell’ufficio stampa - del ministero, composto da 12 persone.

Il nuovo sito, partito ufficialmente il 5 gennaio, ha avuto il suo battesimo all’apertura dell’anno giudiziario con la trasmissione della cerimonia inaugurale, in modalità streaming web. A breve, la nuova home page offrirà anche l’accesso a un archivio audiovisivo contenente immagini dei telegiornali, trasmissioni di approfondimento, speciali televisivi e anche (in collaborazione con l’Istituto Luce) vecchi filmati per raccontare fatti e accadimenti della giustizia italiana a partire dai primi del Novecento.

C.E.I.: il ruolo dei cappellani nelle carceri, non solo sostegno sociale

 

Avvenire, 19 gennaio 2005

 

"Non esistono due Chiese, una fuori e una dentro il carcere; ma un’unica Chiesa che si fa presente accanto ai suoi figli e a tutti gli uomini nelle diverse condizioni dell’esistenza". Compresa "la condizione del detenuto". Perciò la pastorale carceraria "è espressione della presenza della Chiesa locale nell’ambiente del carcere" e non missione impossibile di pochi solitari. Il cappellano vi svolge un ruolo che "è parte integrante del progetto pastorale" della diocesi in cui opera.

A parlare con passione di uno degli ambiti di impegno missionario più difficili e problematici nella vita delle comunità ecclesiali italiane è stato ieri monsignor Giancarlo Bregantini. È toccato, infatti, al vescovo di Locri-Gerace, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, illustrare agli altri membri del Consiglio permanente della Cei la situazione e le prospettive della pastorale carceraria.

I problemi delle carceri italiane, ha ricordato il presule, sono noti a tutti. "Sovraffollamento, diminuzione dei fondi per l’assistenza sanitaria e per le attività lavorative da svolgere in carcere, problemi di carattere sanitario originati dalla promiscuità obbligata, presenza di un buon 30 per cento dei detenuti che essendo extracomunitari hanno difficoltà maggiori sotto il profilo della convivenza, a motivo delle differenze di etnia e di religione". Problemi che costituiscono anche l’orizzonte entro cui si colloca l’opera dei cappellani carcerari italiani. E Bregantini ha messo in guardia da un rischio.

"Pur vicina alle miserie dell’uomo, la Chiesa non è l’infermiera della storia, né dei popoli né dei singoli. La sua missione, infatti, è trasmettere il Vangelo". Allo stesso modo, anche il cappellano di una struttura di detenzione non deve perdere di mira questo obiettivo. Altrimenti la sua figura si ridurrebbe a "quella di assistente psicologico o sociale". Questo non significa, ha proseguito il vescovo, che egli non debba "esprimere ttenzione alla condizione di vita dei detenuti e delle loro famiglie, ai problemi degli agenti di polizia penitenziaria e di quanti, per il loro lavoro, sono legati alla condizione dei detenuti". Fondamentale, però, rimane "la chiarezza sul contenuto del messaggio evangelico da annunciare e testimoniare, avendo cura di evitare anche una lettura puramente consolatoria - ha sottolineato ancora Bregantini - o falsamente eversiva dell’ordinata convivenza delle persone, sposando le cause di ribellione in quanto tali".

Qual è, dunque, la Buona Novella da annunciare in carcere? Il vescovo ha ricordato che "il Vangelo è messaggio di verità, di autentica liberazione, di misericordia, invito alla lode, alla contemplazione, alla riscoperta di un mondo d’interiorità che dà la vera misura delle cose, frutto di quella carità che, prima ancora di fare opere, stabilisce le condizioni di vera fraternità e di vera compagnia umana". Dunque il cappellano dei detenuti non deve essere visto come figura isolata, pioniere solitario, ma come un inviato della Chiesa locale.

Perciò monsignor Bregantini ha invitato da un lato diocesi e parrocchie a non lasciar soli questi sacerdoti nella loro missione. Dall’altro, però, ha sottolineato che rientra tra i loro compiti anche "il dovere di sensibilizzare la comunità cristiana ai problemi della pastorale carceraria". In sostanza, ha esemplificato, ciò significa "donare alla comunità una lettura di fede della realtà penitenziaria che superi i pregiudizi e i vari giustizialismi", "sensibilizzare seminari, studentati degli istituti di vita consacrata e centri di formazione dei laici alla pastorale carceraria", individuare modi sempre più adeguati per favorire il reinserimento nella società di coloro che escono dal carcere (come succede, ad esempio, l’esperienza di Bari di cui riferiamo a parte) e cercare di "suscitare vocazioni al volontariato anche in questo ambito".

Vicenza: due incontri per conoscere meglio il carcere

 

Il Giornale di Vicenza, 19 gennaio 2005

 

Due incontri dedicati alla realtà carceraria, per conoscere più a fondo il carcere, luogo di cui spesso non si sa nulla, di cui molti parlano affidandosi al "sentito dire", senza in realtà sapere che mondo si apra dietro alle sbarre.

Domani alle 20.30 don Giovanni Sandonà, direttore della Caritas vicentina, interverrà sul tema del carcere minorile, confrontandosi con una realtà che dovrebbe sempre avere di mira l’interesse del minore aiutandolo ad elaborare e superare le dinamiche che l’hanno indotto ad avere comportamenti devianti, e consentirgli in questo modo, una volta scontata la pena, di inserirsi nella società.

Mercoledì 26 gennaio alle 20.30 Claudio Stella, presidente dell’Associazione di volontariato Utopie Fattibili, racconterà al pubblico presente la sua esperienza personale come volontario, facendo luce sulle diverse manifestazioni del volontariato all’interno di un carcere.

Gli incontri, organizzati dalla biblioteca civica e l’assessorato alla cultura del comune di Carrè, si terranno nella sala consiliare di via Roma.

"Per l’attualità degli argomenti auspico una buona partecipazione di pubblico, soprattutto quello più giovane - spiega Igor Brunello, presidente del comitato di biblioteca -. La costituzione italiana vorrebbe che il carcere fosse il luogo della rieducazione, della crescita e presa di coscienza del reo, il luogo in cui si lavora per il suo reinserimento nella società.

L’incontro con due persone che frequentano abitualmente la realtà carceraria, soprattutto quella vicentina, sarà un’occasione per capire se il carcere sia davvero il luogo della rieducazione o se esso non sia piuttosto il luogo della espiazione, dell’isolamento, del pregiudizio. La voce di chi ha del carcere un’esperienza quotidiana e diretta, può rappresentare uno stimolo a superare certi astratti pregiudizi, per entrare in contatto con le persone, le storie, la sofferenza, la noia, la quotidianità di chi, nelle carceri, ci vive".

Brescia: il sindaco risponde alla lettera dei detenuti...

 

Il Giornale di Brescia, 19 gennaio 2005

 

In relazione alla lettera dei detenuti del carcere di Canton Mombello ("I detenuti al sindaco Corsini"), lettera pubblicata lo scorso 11 gennaio, mi preme precisare quanto segue. La mia visita al carcere cittadino, visita nella quale fui accompagnato dalla presidente del Consiglio comunale signora Laura Castelletti, venne effettuata agli inizi del dicembre 2003: un periodo, pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dai miei interlocutori, non precedente, ma successivo di alcuni mesi alla campagna elettorale delle elezioni amministrative nelle quali venni riconfermato nell’incarico di sindaco.

Vero è che delle problematiche del carcere cittadino - tanto sotto l’aspetto delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari e di vita dei detenuti (e con esse il problema del caro-prezzi per i prodotti alimentari venduti all’interno della struttura), quanto sotto il profilo urbanistico - mi sono ripetutamente occupato in questi anni. In più di un’occasione, infatti, ho interpellato e sollecitato gli organi competenti, in primis il ministro di Giustizia Roberto Castelli, affinché si assumessero concreti interventi finalizzati non solo ad incrementare gli organici degli agenti e a migliorare la grave situazione complessiva in cui versa la struttura di Canton Mombello, ma anche a prefigurare una sua possibile dismissione strettamente collegata ad un ampliamento del carcere di Verziano. Purtroppo, ad oggi, ogni mia sollecitazione è caduta nel vuoto e le condizioni del carcere di Canton Mombello - ripeto: tanto per gli agenti penitenziari quanto per i detenuti - rimangono fortemente precarie se non addirittura insostenibili.

Il tema, lo riconosco, è annoso e - purtroppo - appare ancora lontana una definitiva soluzione dei problemi che affliggono il nostro carcere cittadino. Quanto al tema del caro-prezzi, nell’occasione già richiamata, la direttrice del tempo dr. Gloria Manzelli così rispose alle sollecitazioni mie e della presidente del Consiglio comunale Castelletti: "Bisogna tener presente che il controllo è demandato al direttore del carcere (od a un suo incaricato), al magistrato di sorveglianza e ad una commissione composta da tre detenuti. I prezzi praticati dall’azienda appaltatrice non devono superare i prezzi praticati negli esercizi di vendita in un raggio di 400 metri dal carcere.

Nel listino ci sono all’incirca 300 prodotti di cui vengono controllati i prezzi. I controlli vengono ratificati anche dalla Polizia municipale. Se sono inseriti nel listino prodotti che non si trovano nei supermercati della zona li eliminiamo, proprio per evitare speculazioni sui prezzi". Il mio, personale, impegno rimane comunque immutato: continuerò con forza a richiedere interventi concreti affinché anche Canton Mombello torni ad essere un luogo dove la dignità umana viene pienamente rispettata e dove alla pena comminata non si aggiunga una vera e propria sanzione supplettiva dovuta alle condizioni di quanti vi lavorano e vi sono reclusi.

Brescia: le note di Liszt e Chopin tra le mura del carcere

 

Giornale di Brescia, 19 gennaio 2005

 

Il carcere e la musica. Difficile pensare a qualcosa che possa unire due cose così diverse. Il carcere, luogo dell’assoluta mancanza di libertà, e la musica, che apre invece inaspettati spazi di liberazione. E invece oggi, ancora una volta, carcere e musica saranno uniti dall’intervento di Daniele Alberti, che torna nel teatro della Casa circondariale di Canton Mombello per un altro appuntamento della rassegna "La musica e il disagio". Diciamo torna, perché Alberti l’esperienza di portare la musica in carcere l’ha già sperimentata, e con successo, altre volte.

Oggi alle 13.30, nel carcere cittadino, il programma scelto da Alberti per il suo concerto-lettura prevede "Funérailles" di Franz Liszt e la "Mazurka in fa minore op. 68 n. 4" di Fryderyk Chopin.

"Funérailles" di Liszt, il settimo brano delle "Harmonies poétiques et religieuses", è una pagina drammatica di grande effetto, che trae ispirazione dal fallimento della rivoluzione ungherese.

La "Mazurka in fa minore op. 68 n. 4" fu scritta da Chopin pochi giorni prima di morire, estremo omaggio alla tradizione musicale della sua amata Polonia.

Dopo l’appuntamento odierno al carcere di Canton Mombello, la rassegna "La musica e il disagio" - che, ricordiamo, è promossa dallo stesso Daniele Alberti con il contributo del Comune di Brescia e della Fondazione Asm - riserva altri tre concerti: sabato 29 gennaio nella Comunità Mamrè di Villa Carcina (protagoniste le pianiste Fiammetta Corvi e Sara Costa), mercoledì 2 febbraio nel teatro della Casa circondariale di Verziano (con Fiammetta Corvi, Sara Costa e Stefano Donatelli al pianoforte, Paolo Bonomini al violoncello e Lino Megni al violino), e infine domenica 13 febbraio al Teatro Santa Giulia del Villaggio Prealpino, per l’Associazione Solidarietà Viva (interpreti Ljuba Pastorino Moiz al pianoforte e Paolo Bonomini al violoncello).

Rimini: l’ex direttore del carcere rischia la prigione

 

Corriere Adriatico, 19 gennaio 2005

 

Nuovi guai per l’ex direttore del carcere di Rimini Gian Paolo De Mari, di 56 anni. L’altra mattina i giudici del Tribunale di Rovigo l’hanno condannato a un anno e quattro mesi di reclusione per peculato e abuso d’ufficio. De Mari rischia di scontare la pena, dopo le eventuali conferme nei successivi gradi di giudizio, in carcere: i giudici veneti hanno disposto infatti la revoca della sospensione condizionale della pena concessa in precedenza nei confronti dello stesso imputato dal Tribunale di Rimini (l’ultimo patteggiamento di sei mesi in continuazione rispetto a una analoga condanna a un anno e 4 mesi risale al maggio 2001).

A Rovigo dove aveva diretto il carcere, De Mari, era accusato di essersi assegnato delle indennità nonostante non ne avesse più diritto.Nel 1997, a Rimini, De Mari aveva patteggiato una pena a un anno e quattro mesi per abuso d’ufficio e truffa: quattro anni dopo aveva patteggiato sei mesi in continuazione per molestie sessuali e altre dodici accuse minori subordinati però alla sospensione condizionale della pena. De Mari ha prestato servizio all’istituto penitenziario di Chiavari e ha avuto tra i suoi detenuti anche il serial killer Donato Bilancia.

California: eseguita prima condanna a morte dopo tre anni

 

Reuters, 19 gennaio 2005

 

Funzionari di una prigione della California hanno eseguito la condanna a morte oggi del pluri-omicida Donald Beardslee, nella prima esecuzione della pena capitale in tre anni. Poche ore dopo che il governatore dello Stato, il repubblicano Arnold Schwarzenegger, ha respinto una richiesta di clemenza, l’ordine di eseguire la condanna definitiva è arrivato a San Quintino, prigione a Nord di San Francisco.

Funzionari del penitenziario hanno legato Beardslee su un tavolo e gli hanno somministrato per via endovenosa tre diversi agenti chimici, tra cui il potassio cloridrico che causa arresta cardiaco. Beardslee, 61 anni, è apparso passivo, non ha proferito parola.

Poco prima, aveva rifiutato di scegliere "l’ultimo pasto" ed aveva dunque ricevuto lo stesso degli altri detenuti, chili, pasta, verdure miste, insalata e torta. È spirato alle 12.29 ora locale (le 9.29 in Italia) per aver ucciso due donne nell’81.

Quattro parenti delle vittime hanno assistito all’esecuzione, nessun congiunto di Beardslee era presente. Il suo avvocato ha detto che era malato di mente - aveva anche danni celebrali - quando uccise con un colpo di pistola la 19enne Stacey Benjamin e tagliò la gola alla 23enne Patty Geddling. Veterano dell’aeronautica, e imputato di un altro assassinio, confessò i due omicidi e fu condannato a morte nell’84.

La California, stato Usa più popoloso, è forse il paese nel mondo dove più persone aspettano di essere "giustiziate" ma raramente esegue le condanne a morte. Beardslee è l’undicesima persona ad essere condannata alla pena capitale da quando quest’ultima è stata ristabilita in California nel 1978. Era uno dei 640 detenuti in attesa di essere ucciso. In Texas attendono il boia 455 persone.

Padova: due immigrati trovati morti nell’ex stadio Appiani

 

Il Gazzettino, 19 gennaio 2005

 

I clandestini si erano rifugiati nel magazzino delle gradinate per sfuggire al gelo. Non avevano segni di violenza. Erano distesi uno accanto all’altro, senza scarpe, con addosso i vestiti e avvolti nelle coperte. Sono stati trovati così all’interno di un magazzino abbandonato del vecchio stadio Appiani, in via 58. Fanteria, dietro la gradinata, due immigrati clandestini, Sai Lamjed, trentasettenne, tunisino, e Matiri Bujama, ventiseienne, marocchino. Il primo aveva alcuni precedenti per un paio di furti e una rapina, l’altro era stato fermato una sola volta, un paio di mesi fa. Overdose la causa del decesso secondo i primi accertamenti compiuti dal medico legale, ma forse ha inciso anche il grande freddo che può aver infierito su due fisici già debilitati dalla droga e dalla denutrizione.

La macabra scoperta è avvenuta ieri mattina alle 3 quando due tunisini, un regolare ventenne e un clandestino venticinquenne, sono tornati in quella stanza dove avevano già dormito la notte precedente. Quando erano usciti, intorno a mezzogiorno, gli altri magrebini stavano dormendo e loro non li avevano svegliati. Ma appena sono entrati e hanno illuminato con una candela il magazzino hanno capito che c’era qualcosa che non andava: Matiri e Sai erano nella stessa identica posizione in cui li avevano visti quindici ore prima. Così si sono avvicinati, hanno notato il rivolo di sangue uscire dalle bocche e hanno dato l’allarme al 118. Quando il medico del Suem è arrivato sul posto non ha però potuto fare nulla. La morte, secondo quanto accertato dal dottor Raffaele Giorgetti, risaliva almeno a dodici ore prima.

Sul posto sono intervenute le Volanti della questura e gli investigatori della Squadra mobile. Sui due cadaveri non c’erano segni di violenza e a terra non sono state trovate siringhe. Gli agenti hanno ispezionato la stanza ritrovando alcuni documenti che attestavano che i due erano in cura al Sert. Non avendo documenti, l’identificazione dei corpi è stata laboriosa. Sai Lamjed era nato a Tunisi il 6 marzo del 1968 ed era in Italia da diversi anni. Nel 1994, a Napoli, per la prima volta era finito in una retata ed era stato fotosegnalato. In Campania era stato anche arrestato per due furti. Poi era stato espulso. Da allora era diventato un invisibile ed era ricomparso il 7 novembre del 2002 quando assieme ad altri immigrati era finito negli uffici di via Santa Chiara. Anche allora gli era stato ordinato di lasciare il nostro Paese. Il tunisino aveva nuovamente cambiato città e si era trasferito a Gorizia. Lì, nel maggio scorso, era finito in carcere per rapina. Appena uscito, aveva raggiunto subito Padova e ad agosto era stato per l’ennesima volta fermato durante un pattuglione. Di lui non si era più saputo nulla, se non che aveva deciso di uscire dal tunnel della droga e che per questo si era rivolto al Sert. Matiri Bujama, invece, non aveva mai avuto problemi con la giustizia. Lo scorso 2 novembre era stato fermato dalla polizia municipale per un controllo. In quella occasione aveva fornito quelle generalità che ieri sono venute fuori dall’esame delle impronte digitali.

La polizia ha avviato le indagini per cercare di risalire a chi ha eventualmente venduto la dose mortale ai due magrebini. Un terzo extracomunitario che sembra vivesse in quello stesso magazzino è sparito. Quando ha visto che gli amici erano deceduti deve aver capito che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno e così ha preferito andarsene.

 

Nell’alloggio degli "invisibili"

 

Invisibili. Dentro un magazzino abbandonato del vecchio stadio Appiani, a due passi da Prato della Valle, hanno vissuto e sono morti senza che nessuno se ne accorgesse. Sai Lamjed, 37 anni, tunisino, e Matiri Bujama, 26 anni, marocchino, erano in Italia clandestinamente. Il primo aveva alcuni precedenti per un paio di furti e una rapina, l’altro era stato fermato una sola volta, un paio di mesi fa. Overdose la causa del decesso secondo i primi accertamenti compiuti dal medico legale. Ma forse ha inciso anche il grande freddo che può aver infierito su due fisici già debilitati dalla droga e dalla denutrizione. A ritrovarli sono stati, ieri notte alle 3, altri due immigrati che cercavano riparo dal gelo in quella stanza di dieci metri per dieci piena di stracci sudici e di vecchi materassi.

L’emarginazione non fa distinguo. Non tutti i clandestini si guadagnano da vivere spacciando o sfruttando la prostituzione. C’è chi non riesce a inserirsi nemmeno nel mondo del lavoro illegale e così resta in quel limbo fatto di miseria e disperazione. Un tempo accadeva per gli italiani, oggi anche per gli immigrati che rappresentano l’ultima generazione dei clochard. La macabra scoperta è avvenuta ieri mattina quando due tunisini, un regolare ventenne e un clandestino venticinquenne, sono tornati in quella stanza dove avevano già dormito la notte precedente. Quando erano usciti, intorno a mezzogiorno, gli altri maghrebini stavano dormendo e loro non li avevano svegliati. Ma appena sono entrati e hanno illuminato con una candela il magazzino hanno capito che c’era qualcosa che non andava: Matiri e Sai erano nella stessa identica posizione in cui li avevano visti quindici ore prima, senza scarpe ma con i vestiti addosso, avvolti in due coperte e distesi su un vecchio materasso sistemato sul pavimento. Così si sono avvicinati, hanno notato il rivolo di sangue uscire dalle bocche e hanno dato l’allarme al 118. Quando il medico del Suem è arrivato sul posto non ha però potuto fare nulla. La morte, secondo quanto accertato dal dottor Raffaele Giorgetti, risaliva almeno a dodici ore prima.

Sul posto sono intervenute le Volanti della questura e gli investigatori della Squadra mobile. Sui due cadaveri non c’erano segni di violenza e nemmeno siringhe. Gli agenti hanno ispezionato la stanza ritrovando alcuni documenti che attestavano che i due erano in cura al Servizio per le tossicodipendenze. Non avendo documenti, l’identificazione dei corpi è stata laboriosa.

Sai Lamjed era nato a Tunisi il 6 marzo del 1968 ed era in Italia da diversi anni. Nel 1994, a Napoli, per la prima volta era finito in una retata ed era stato fotosegnalato. In Campania era stato anche arrestato per due furti. Poi era stato espulso. Da allora era diventato un invisibile ed era ricomparso il 7 novembre del 2002 quando assieme ad altri immigrati era finito negli uffici di via Santa Chiara. Anche allora gli era stato ordinato di lasciare il nostro Paese. Il tunisino aveva nuovamente cambiato città e si era trasferito a Gorizia. Lì, nel maggio scorso, era finito in carcere per rapina. Appena uscito, aveva raggiunto Padova e ad agosto era stato per l’ennesima volta fermato. Di lui non si era più saputo nulla, se non che aveva deciso di disintossicarsi e che per questo si era rivolto al Sert.

Matiri Bujama, invece, non aveva mai avuto problemi con la giustizia. Lo scorso 2 novembre era stato fermato dalla polizia municipale per un controllo. In quella occasione aveva fornito quelle generalità che ieri sono venute fuori durante la verifica delle impronte digitali. Ma che questo sia realmente il suo nome non è ancora stato accertato.

Il pubblico ministero Bruno Cherchi non ha disposto l’autopsia. Si baserà sulla relazione del medico legale Raffaele Giorgetti che ha compiuto la ricognizione esterna sui cadaveri. Intanto la polizia ha avviato le indagini per cercare di risalire a chi ha eventualmente venduto la dose mortale ai due maghrebini. Un terzo extracomunitario che sembra vivesse in quello stesso magazzino è sparito. Quando ha visto che gli amici erano deceduti deve aver capito che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno. Così ha preferito sparire. Per continuare ad essere invisibile.

Dirigenti del Sindacato Infermieri Penitenziari in sciopero della fame

 

Redattore Sociale, 19 gennaio 2005

 

Comincia oggi pomeriggio alle 15, davanti al Dipartimento amministrazione penitenziaria, lo sciopero della fame di Marco Poggi e Sandro Quaglia, segretario e vicesegretario nazionale del Sindacato infermieri penitenziari (Sai), che affermano: "È una battaglia non sindacale, ma per rivendicare i diritti civili nostri e dei detenuti". L’iniziativa è stata annunciata durante una conferenza stampa indetta questa mattina alla sala stampa di Montecitorio dall’onorevole Paolo Cento, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio, deputato Verde, sul tema "Emergenza sanitaria nelle carceri".

"Riceviamo solo dinieghi e dileggi – ha denunciato Poggi -, firmiamo protocolli d’intesa che vengono puntualmente disattesi. E gli infermieri in carcere – pochi rispetto al fabbisogno dei detenuti - hanno nella maggioranza dei casi contratti di collaborazione".

Lo sciopero della fame indetto dal segretario nazionale insieme al vicesegretario è una via scelta "per renderci visibile e farci sentire; andremo avanti fino a venerdì e se non verremo ascoltati lo sciopero andrà avanti". "Non viviamo di sindacato - ha proseguito Poggi - e abbiamo pagato di tasca nostra il biglietto per venire a Roma. Ma dei problemi penitenziari si disinteressano quasi tutti i partiti, anche quelli del centro-sinistra; qualche deputato si limita a fare qualche visita nei penitenziari, ma nient’altro".

Cagliari: il Consiglio regionale esamina lo stato delle carceri sarde

 

Redattore Sociale, 19 gennaio 2005

 

Si è cucito occhi e bocca per protestare contro le condizioni del carcere. L’estrema protesta di un detenuto del carcere di Iglesias è stata riferita durante una serie di audizioni davanti alla seconda commissione "Diritti civili" del Consiglio regionale della Sardegna, presieduta da Paolo Pisu (Prc), determinata ad avviare un cambiamento nella drammatica situazione degli istituti di pena della Sardegna. A rivelarlo è stato il magistrato di sorveglianza del Tribunale Cagliari, Leonardo Bonsignore, che però non ha voluto rivelare altri particolari.

Lo stesso magistrato ha sottolineato come l’affollamento e la mancanza di spazi comuni faccia aumentare l’aggressività e l’autolesionismo dei detenuti. Su 1.661 detenuti, più 48 donne, censiti dal provveditore regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Massidda, il 30% è rappresentato da extracomunitari. Un’altra fetta consistente è costituita da tossicodipendenti. Solo nel carcere di Buoncammino, il 60% dei reclusi ha problemi di droga e di questi il 90% è affetto da malattie psichiatriche.

Nell’ottobre del 2004 su 400 detenuti presenti nel carcere cagliaritano 250 avevano problemi mentali causati anche dallo stato in cui vivono i detenuti. Il sovraffollamento - negato da Massidda, in base ai dati ufficiali che parlano di una capienza regolamentare di 1.724 detenuti e di una tollerabile di 2.372 - è invece stato denunciato dal magistrato cagliaritano. I parametri previsti dalla legge (9 metri quadri a detenuto se in camera singola, 15 se in camera doppia) non sono quasi mai rispettati. La mancanza di spazi comuni dove svolgere qualsiasi tipo di attività costringe i detenuti a passare circa 20 ore al giorno su 24 in una cella affollata.

Secondo Bonsignore, in attesa delle nuove carceri è necessario creare, dove possibile, spazi comuni che rendano la vita del detenuto più sopportabile. Il magistrato ha suggerito di utilizzare, per la detenzione attenuata, l’istituto di Quartucciu, finora destinato ai minorenni. Nella struttura ci sono in media 20/25 ragazzi e la capacità è di 120/130 posti, dopo aver individuato dove trasferire i detenuti più giovani. Bonsignore ha auspicato anche un intervento urgente in materia di psichiatria penitenziaria. "Nonostante la difficili condizioni di detenzione, nel 2004 –ha assicurato - il provveditore Massidda - non si registrano suicidi, anche grazie a una maggiore attenzione verso i carcerati a rischio".

I dati sul personale in servizio sono sconfortanti. Attualmente lavorano nelle carceri sarde 1.374 operatori di polizia penitenziaria. Un numero che, secondo il decreto ministeriale, è eccedente rispetto al fabbisogno di 1.324 posti (più 54). Ma la normativa - ha ammesso Massidda - non tiene conto nelle peculiarità delle carceri sarde, che hanno necessità di più personale rispetto a quello presente, fortemente decurtato dalle malattie e dai congedi prematuri. A questa carenza si somma quella del personale amministrativo e degli educatori: il 20 dicembre sono stati assunti a tempo determinato 7 ragionieri e 7 educatori, ma non bastano.

Il problema più grave è quello sanitario. Il provveditore regionale ha chiesto alla commissione consiliare di vigilare affinché non vi siano tagli nelle somme da destinare all’acquisto dei farmaci per i detenuti. Dal 2002, infatti, l’assessorato regionale alla Sanità fornisce gratuitamente l’assistenza farmaceutica.

"Ora la situazione potrebbe cambiare perché sembra - ha sottolineato Massidda - che alcuni direttori generali vogliano sospendere questo tipo di fornitura". Il provveditore ha sollecitato l’apertura di reparti penitenziari negli ospedali, per non lasciare detenuti malati, magari in manette, nelle corsie. L’unico reparto destinato a questo uso si trovava al Santissima Trinità di Cagliari, ma al momento ospita i malati dei reparti in ristrutturazione. L’unica nota positiva riguarda Badu e Carros a Nuoro, che sarà il primo carcere italiano con l’acqua calda all’interno delle stanze così come prevede una norma del 2000 totalmente disapplicata.

Firenze: associazione Pantagruel raccoglie libri per carcere Biella

 

Redattore Sociale, 19 gennaio 2005

 

Un libro in più per i detenuti del carcere di Biella. L’associazione fiorentina Pantagruel ha manifestato - attraverso un numero speciale dell’Agenzia di informazione "Liberarsi, dalla necessità del carcere" - la propria adesione alla campagna "Un libro in più", organizzata nei giorni scorsi dai familiari dei detenuti della casa circondariale piemontese in seguito alla denuncia di un episodio del 20 dicembre scorso. Secondo quanto riporta un articolo de "Il Manifesto" in data 5 gennaio, (richiamato da Pantagruel), il 20 dicembre la polizia penitenziaria ha effettuato una perquisizione nella sezione speciale del carcere che ospita 14 detenuti, politici e comuni.

La polizia, oltre a oggetti e documenti di vario genere (posta, musica, atti giudiziari, foto), ha sequestrato libri e riviste lasciandone quattro ad ogni detenuto. Il nuovo regolamento interno del carcere - la cui necessità ha di per sé sollevato perplessità al di là del contenuto - varato da un’apposita commissione, prevede infatti che i detenuti possano disporre di un massimo di quattro pubblicazioni per volta - tra libri e riviste - e che sia possibile richiederne altre previa richiesta motivata scritta. La perquisizione, che sembra avvenuta senza sia stato notificato né un provvedimento né un verbale, ha suscitato le proteste dei detenuti e ha stimolato un’interpellanza di consiglieri radicali per fare luce sul reale svolgimento dei fatti e sulle motivazioni di fondo.

La direzione del carcere ha intanto respinto ogni accusa di censura e violazione dei diritti dei detenuti, facendo riferimento all’applicazione del nuovo regolamento. I familiari dei carcerati hanno dunque avviato una campagna di protesta per denunciare l’episodio e sensibilizzare l’opinione pubblica, invitando singoli e associazioni a inviare libri e riviste al penitenziario piemontese (Via dei Tigli, 14, 13900 Biella). Sono già numerose le adesioni all’iniziativa da parte di singoli cittadini, biblioteche, centri sociali. Alcuni librai di Biella hanno anche organizzato dei punti di raccolta del materiale. Per avere maggiori informazioni sulla campagna e sull’invio del materiale scrivere a unlibroinpiù@libero.it.

Droghe: "Cristallina", nuova sostanza particolarmente pericolosa

 

Redattore Sociale, 19 gennaio 2005

 

Francia, Italia, Olanda, Belgio: segnalata una nuova droga particolarmente pericolosa denominata sul mercato "Cristallina". Oltralpe l’allarme per i casi di intossicazione localizzati in alcune Regioni del Nord in particolare Pas-de-Calais, Lorena e Ile de France; 18 i casi di intossicazione grave di persone tossicomani registrati nel solo mese di dicembre; il primo caso risale all’8 dicembre. Casi di intossicazione sono stati segnalati anche in Olanda (20 casi), Belgio (21 casi in 6 differenti città).

In Italia il numero di casi a metà gennaio ammonta a 16 di cui un paziente deceduto. Attivato In Italia il sistema d’allerta sulle nuove droghe. Riccardo Gatti, responsabile Sert Asl di Milano: "Registriamo anche noi questo problema dell’atropina mista a cocaina, registriamo un decesso forse direttamente legato all’assunzione di questa sostanza. I casi in Lombardia circoscritti all’area di Milano e Cinisello e poi di Bergamo dove alcune persone sono finite in rianimazione. Non sappiamo se sia un errore nella preparazione della sostanza o sia una nuova richiesta dal mercato. Sono già in allerta tutti i servizi sanitari".

Anche il ministero francese per la Salute ha attivato il dispositivo d’allerta nazionale per fronteggiare l’emergenza da intossicazioni legate al consumo di una mistura di sostanze stupefacenti potenzialmente mortali. La sostanza è composta dal 60 per cento di cocaina e dal 30 per cento da Atropina. "Ignoriamo la provenienza del prodotto. Ipotizziamo che provenga dal Nord Europa", dichiarano dall’Osservatorio francese sulle Tossicodipendenze.

L’atropina è un prodotto che, ad alte dosi, induce un’accelerazione del ritmo cardiaco, confusione mentale e allucinazioni, induce stato comatoso per deficit respiratorio. La molecola è utilizzata in medicina per curare alcune sintomatologie cardiache o come antidoto per alcune intossicazioni (oltre ad essere il farmaco che instillato nell’occhio induce la dilatazione della pupilla).

Teodora Macchia dell’Istituto Superiore di sanità: "Sulla Cristallina è stata diffusa all’inizio di dicembre un’allerta rapida da parte dell’Osservatorio sulle droghe di Lisbona. Nelle stesso periodo delle segnalazioni ai referenti dei 25 Paesi dell’Unione hanno iniziato ad essere segnalati problemi di persone nelle cui urine è stata rilevata la presenza di cocaina e atropina. Sono 19 i casi segnalati sul territorio nazionale e tutti al momento solo in Lombardia dove si registra il decesso di un ragazzo nelle cui urine sono state identificate le sostanze; noi sappiamo che le due sostanze insieme possono portare ai sintomi registrati".

Dietro le sbarre: l’educatore questo sconosciuto, di Ornella Favero

 

Vita, 19 gennaio 2005

 

Sono coloro che dovrebbero accompagnare i detenuti nel reinserimento sociale. Ma oggi sono talmente pochi, che sono costretti a fare intrattenimento. "Il numero delle figure specializzate oggi in servizio è talmente esiguo rispetto alle effettive necessità, che ci fa guardare all’educatore come a un panda, una specie da proteggere": a ritenere che gli educatori siano ormai una specie in via di estinzione è Alessandro Margara, uno dei padri di quella riforma penitenziaria che nel 1975 introdusse questa nuova figura.

I primi educatori in carne ed ossa entrarono però in servizio nel 1979, guardati con sospetto dai detenuti e caricati del compito improbo di "rieducare" persone di 30, 40, 50 anni, che andavano prima "osservate scientificamente" e poi "trattate" in vista di un reinserimento nella società. A distanza di tre decenni, viene voglia non di fare bilanci, di fatto impossibili perché se si pensa che il rapporto educatori-detenuti è di uno a cento, non si può pretendere quasi nulla, ma di vedere se sono ancora adeguati i compiti degli educatori di fronte agli enormi cambiamenti che si sono verificati nella composizione della popolazione detenuta.

Già fa pensare il fatto che oggi la vita di una persona detenuta sia appesa al filo sottile della "sintesi", che è il documento nel quale "vengono tracciate le linee essenziali del programma di intervento rieducativo", stilato da una équipe che ha al centro gli educatori: nove mesi dovrebbero bastare per "partorire" questo documento, che è in molti casi anche una specie di "lasciapassare" per avviare un percorso con i primi permessi, i primi passi della scalata alla libertà, e invece i tempi di attesa sono molto più lunghi, e più pesante la sofferenza di chi aspetta ansiosamente quel pezzo di carta per poter finalmente cominciare a respirare un po’ di aria libera. La prima considerazione che voglio fare è allora che è lodevole la presa di posizione dei magistrati di sorveglianza di Padova, secondo la quale i detenuti non possono pagare anche per la mancanza di personale, e quindi loro prendono in considerazione la possibilità di concedere permessi anche se non c’è ancora la "sintesi".

Il secondo spunto che si potrebbe dare a una discussione sul ruolo e i compiti degli educatori è che il colloquio individuale tra educatore e detenuto, visti anche i numeri del sovraffollamento, è uno strumento del tutto inadeguato, così come pare inadeguato il concetto di rieducazione (è già un po’ meglio, per esempio, risocializzazione) che ha bisogno di contenuti nuovi, che puntino meno a entrare nelle coscienze della gente per rieducare e di più a proporre percorsi di crescita anche culturale, che non siano semplici "riempitivi" del tempo vuoto del carcere.

L’ultima circolare sulle "Aree educative" del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parla non a caso di presenza nelle carceri di attività che spesso "assumono il senso di un intrattenimento" più che puntare alla "adesione consapevole e responsabile del condannato" a un programma di risocializzazione. E qui entrano in campo anche il volontariato e il non profit, che dovrebbero impegnarsi di meno su interventi "spot" di intrattenimento che durano il tempo di un finanziamento o su un supporto "assistenziale" alle persone detenute, e investire invece di più su attività che coinvolgano i detenuti, li impegnino ad assumersi delle responsabilità e a prendersi in mano, in qualche modo, il proprio destino.

Il richiamo alla responsabilizzazione delle persone detenute, fatto nella circolare citata, è importante anche perché dovrebbe mettere in guardia da quello che è un rischio sempre presente nelle carceri: la deresponsabilizzazione, l’infantilizzazione delle persone, il vizio delle punizioni collettive, della politica del "puniscine cento per non rieducarne nessuno", come l’ha saggiamente definita un detenuto.

Da ultimo, bisogna sottolineare che oggi il disagio psichico è sempre più presente negli istituti, e richiede forse che gli operatori penitenziari, primi fra tutti gli educatori, ma anche i volontari ripensino alla propria presenza in carcere e si diano degli strumenti più adeguati per far fronte al fatto che oggi viviamo in una società che il disagio, e tanto più quello mentale, non lo vuole vedere, e preferisce spesso cacciarlo in galera.

Erika e Omar, vite da volontari?, di Stefano Arduini

 

Vita, 19 gennaio 2005

 

Anche il futuro di Omar Favaro, il giovane di Novi Ligure condannato a 14 anni di carcere per aver ucciso, nel febbraio del 2001, insieme all’ex fidanzatina Erika De Nardo, la madre e il fratellino di quest’ultima, dipenderà dalla relazione (la cosiddetta sintesi) degli educatori del carcere di Asti. Prigione dove è stato trasferito, nel maggio del 2004, proveniente dall’istituto per minori Ferrante Aporti di Torino.

Il Tribunale di sorveglianza del capoluogo piemontese concederà infatti a Omar il beneficio dei permessi-premio a patto che dimostri la volontà di impegnarsi nel volontariato. "Il suo desiderio è definito. Spetta ora all’équipe trattamentale l’indicazione dell’attività che faccia al caso del mio assistito", conferma il suo avvocato Lorenzo Repetti, interpellato da Vita. La palla passa quindi al direttore dell’istituto astigiano, Domenico Minervini: "Per sua fortuna adesso possiamo contare su 4 educatori per 40 detenuti, fino a qualche tempo fa ce n’era solo uno". Questo permetterà al ragazzo di incominciare la sua vita da volontario in un tempo relativamente breve. "In due mesi sarà pronto il documento di sintesi, ma già da ora posso anticipare che il parere sarà favorevole: presto quindi potrà uscire in permesso".

Il sentiero intrapreso da Omar segnerà il cammino anche di Erika. La ragazza in questo momento si trova nel carcere minorile milanese Beccaria. Ad aprile compirà 21 anni e sarà trasferita in un carcere per adulti. Per bocca del suo avvocato Mario Bocassi, la giovane ha espresso la volontà di rendersi utile agli altri. Fra lei e il volontariato l’unico ostacolo è ancora una volta la sintesi. C’è da augurarsi che la magrezza degli organici non costituisca un ostacolo tanto ingiusto quanto insormontabile per il futuro della ragazza.

Firenze: presto una legge regionale sulla sanità penitenziaria

 

Ecquologia, 19 gennaio 2005

 

I tempi stringono e il consiglio regionale deve approvare al più presto la legge che permetterà di estendere ai detenuti nelle carceri toscane il servizio sanitario regionale. Lo chiedono Fabio Roggionali (verdi), Franco Corleone, garante dei carcerati per il Comune di Firenze, e Alessandro Margara, ex direttore del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria.

Il disegno di legge è stato elaborato dalla giunta regionale e, se il consiglio non lo approverà entro la fine della legislatura, con il rinnovo dell’aula l’iter del provvedimento legislativo dovrebbe ripartire da capo. Con l’approvazione della legge, invece, il sistema sanitario regionale si farebbe carico anche dei detenuti delle carceri.

"È una richiesta avanzata dai detenuti e dagli addetti ai lavori - ha spiegato Corleone - per garantire alti livelli di cura nelle carceri, anche per le malattie più gravi. Però c’è il timore che il consiglio non riesca ad approvare la legge in tempo. L’invito è di farla diventare una priorità". Per accorciare i tempi hanno proposto, intanto, l’inizio delle trattative fra giunta regionale e ministero per la stesura del protocollo che renderebbe la legge operativa. Roggiolani ha proposto, almeno, di inserire alcuni elementi della legge nel piano regionale sanitario, che sarà discusso di sicuro entro la fine della legislatura. "Per ora ringrazio la giunta regionale per il lavoro svolto - ha concluso Eros Cruccolini, presidente del consiglio comunale di Firenze - e spero di poter estendere il grazie anche al consiglio, ma lo farò a legge approvata".

 

 

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