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Sulmona: dietro le sbarre ma liberi… liberi anche di morire... Sabrina Deligia intervista Giacinto Siciliano, direttore della casa di reclusione di Sulmona
Liberazione, 10 gennaio 2005
Scatta l’allarme, arriva la barella, l’ambulanza che parte a sirene spiegate. Questi i segnali di un suicido intercettati da tutti, anche dai criminali più efferati sotto chiave ventiquattr’ore su ventiquattro. Eppure a sentire il direttore del supercarcere, ancor prima che si attenui in lontananza la sirena dell’ambulanza il silenzio ripiomba padrone sulla fabbrica delle pene. D’altra parte quella del suicidio, avverte il direttore della casa di reclusione di Sulmona, Giacinto Siciliano, è una delle libertà che i detenuti possono permettersi. Trentotto anni, dall’aspetto mite, fu lui ad assumere nel 2003 la difficile gestione di un istituto segnato dal suicidio della sua predecessora, Armida Miserere. L’ex direttora che si sparò un colpo di pistola alla testa. Fu il primo dei cinque suicidi avvenuti tra le mura del carcere. È come se Miserere avesse aperto le danze macabre dei suicidi. Nella breve gestione Siciliano sono quattro i detenuti che si sono tolti la vita: il sindaco di Roccaraso e tre boss. Quattro in poco meno di due anni. Ultimo Guido Cercola, boss condannato all’ergastolo per la strage del Rapido 904, braccio destro del cassiere della mafia Pippo Calò. Il giorno dopo quest’ultima tregedia, Siciliano ci ha invitato ad andarlo a trovare. Ed ecco l’intervista rilasciata a Liberazione.
Allora direttore è Sulmona che ha scelto lei? O è lei ad aver scelto Sulmona? Evidentemente hanno ritenuto che fossi adatto a gestire questo istituto.
Ha cominciato presto? Tredici anni fa. Il concorso l’ho fatto nel 1992.
Da quando è a Sulmona? Da luglio del 2003. Prima ero a Trani.
Che differenza c’è tra Trani e Sulmona? In parte sono due strutture accomunate dal fatto di essere ritenute carceri di massima sicurezza. Accolgono una tipologia di detenuti particolari. Ma sostanzialmente sono due strutture diverse, calate in realtà diverse. A Sulmona c’è un basso indice di criminalità esterna, per questo probabilmente si è ritenuto di concentrare qui un alto numero di criminali ad alta pericolosità.
Quando è arrivato che impressione ha avuto? Sicuramente sono arrivato in S un momento non facile.
Si era suicidata la direttrice del carcere? Un evento particolare. Mi sono trovato in un istituto estremamente impegnativo.
Impegnativo in che senso? Strutturalmente? Inquilini particolari? Ogni istituto è una realtà a sé. Appartiene ad una storia che si intreccia nel tempo. Così come il direttore. Non può essere lo stesso in ogni istituto. Non può usare la stessa mano in ogni istituto chiamato a dirigere. Deve riuscire ad adattarsi, ad adattare le proprie idee, i suoi obiettivi alle caratteristiche ambientali e strutturali che si trova a gestire. Ti devi adattare, cercando di costruire.
Lei a che punto è? Sto seguendo un percorso legato a degli obiettivi.
Quali? Diversi. Tenuto conto che questo è un istituto particolare. Per l’altissima concentrazione di detenuti di spicco, di detenuti diciamo di un certo spessore, speciali. Ovvio che qualsiasi obiettivo mi prefiggo devo tenere conto dei livelli necessari di sicurezza.
A proposito di profili criminali: in genere i suicidi in carcere sono prerogativa di detenuti - diciamo - a bassa criminalità. Che succede a Sulmona? Questo è un carcere che ha messo ko anche un direttore di "ferro" come Armida Miserere. Si sarà fatto un’idea? Non è facile trovare le parole per dirlo. È chiaro che normalmente si è tenuti a ritenere che questa tipologia di detenuti non si suicida. Come trovo chiaro il fatto che davanti a quattro suicidi ravvicinati si esprima curiosità e stupore. Ci si aspetta da queste persone atteggiamenti forti. Ma io penso solo che in carcere ci sono delle persone: persone che lavorano e persone detenute. Questo è il difficile del carcere. Il rapporto fra queste persone. Persone che rappresentano le istituzioni e persone che quanto meno in passato hanno combattuto le istituzioni. Per cui è chiaro che questo continuo dare e avere tra persone ha i suoi momenti di difficoltà. Il carcere è qualcosa che allontana un po’ da tutto, dalla famiglia, dagli amici, che inevitabilmente ti toglie ogni prospettiva diversa. Per questo non sono così convinto che esistano delle persone indistruttibili e il semplice fatto di essere stato nel passato una figura di spicco della criminalità non garantisce l’assenza di cedimento nel futuro.
Se li sarebbe mai aspettati quattro suicidi in casa? In così poco tempo? Coincidenze. Purtroppo è un dato statistico.
Un dato statistico? Probabilmente il discorso è diverso.
Diverso? Anche questa volta ci sarà un’inchiesta. Ben venga. Nell’ultimo anno abbiamo ricevuto talmente tante visite di onorevoli, parlamentari, commissioni comunali, provinciali, regionali, commissioni d’inchiesta. Ma alla fine, le persone che sono venute hanno girato, parlato con i detenuti, parlato con il personale e però tutte quante hanno potuto riscontrare una situazione sostanzialmente positiva: vivibile.
A Sulmona va tutto bene? Non ci possiamo lamentare. Non voglio dire che il carcere di Sulmona non abbia dei problemi. Non credo che esista un carcere senza problemi. A maggior ragione se si ha a che fare con una struttura che ospita persone particolari, speciali, rispetto alla maggior parte della popolazione detenuta. Persone che fanno parte della criminalità organizzata da sempre, da quando sono nate. Chiaramente è un carcere più difficile di altri.
Chiaramente anche i criminali si suicidano. Tutti hanno un momento di cedimento. Alcuni lo lasciano trapelare e chiedono aiuto e c’è chi invece erige un muro tale che nessuno se ne può accorgere. Di questo dobbiamo discutere: della libertà della persona. Noi non possiamo dare ad un detenuto una medicina, una terapia, se non è consenziente per il rispetto, appunto, della libertà della persona.
Mi scusi ma stiamo parlando di suicidi. Nessuno li può prevedere. Non possiamo impedirli. Dobbiamo cercare di capire, di prevenire, ma non abbiamo la sfera di cristallo. Per morire bastano trenta secondi e se uno è convinto di farlo, non lascia margini di manovra. Così i suicidi capitano. Si riesce a sventarli una volta su dieci.
Come dire che in carcere l’unica libertà consentita è quella di morire? Ci sono due tipi di suicidi: quelli che si consumano nonostante siano partiti come gesti dimostrativi, ma che purtroppo vanno a buon fine perché si arriva tardi e quelli che dicevamo prima: scientifici. Se vuoi fare un discorso di recupero, di responsabilizzazione, di autoderminazione, non puoi pensare che il carcere debba tradursi in un controllo ventiquattr’ore su ventiquattro.
Almeno tre si sono suicidati con i lacci delle scarpe. Si poteva evitare? I detenuti non possono essere espropriati della propria identità. I lacci delle scarpe sono consentiti, come lo è la cintura di pelle. Non li eviterebbe neanche la sorveglianza a vista. Lo dicono le statistiche. Comunque non sarebbe una soluzione perché non consentirebbe al detenuto di vivere. Perché tu qualsiasi cosa fai, la fai sotto il controllo visivo di un agente, anche quando vai in bagno. È chiaro che la qualità della vita è ridotta al minimo.
Qual è la qualità della vita qua dentro? Personalmente non ritengo che sia cattiva. Nel senso che le condizioni igieniche complessive sono abbastanza buone e questo già non è poco. Un problema sicuramente noi l’abbiamo - che da una parte è un grosso vantaggio e dall’altra uno svantaggio - ci sono molte celle singole.
Qual è il limite di avere a disposizione una cella tutta per sé? Che il detenuto è solo. È libero nella sua stanza di fare ciò che crede.
Ma ha presente che in alcune carceri c’è un livello di sovraffollamento tale che nelle celle ci si alza a turno per sgranchirsi le gambe? Ma mentre venti persone in una stanza si fanno compagnia ventiquattro ore su ventiquattro, in una cella singola si può soffrire di solitudine. Un compagno di cella può ad esempio accorgersi dei momenti di cedimento dell’altro.
Tolto il sindaco Valentini e tolta - per evidenti ragioni - la direttrice Miserere, i tre detenuti che si sono uccisi vivevano in clausura? L’ultimo era in cella singola, ma per ragioni ovvie, per esigenze di pena. Gli altri due che si sono suicidati erano invece in isolamento diurno: una sentenza del giudice aveva previsto per loro l’isolamento giorno e notte. Senza alcun contatto con altre persone.
Come si sopravvive all’isolamento ventiquattr’ore su ventiquattro? Si sopravvive. L’ergastolano per definizione deve stare da solo. C’è chi poi deve stare solo anche durante il giorno. E non può fare alcuna attività a contatto con gli altri detenuti.
Neanche un ora d’aria da dividere con qualcuno? No. C’è chi passa ventiquattr’ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni su trecentosessantacinque da solo. È una pena accessoria all’ergastolo. Una sorta di pena nella pena. E riesce difficile osservare segnali di cedimenti o volontà suicida in queste persone.
Aveva ravvisato segnali di cedimento nei detenuti che si sono suicidati a Sulmona? Si ricorda che tipo di persona erano? Erano persone assolutamente tranquille. Nessuna delle quali aveva mai dato segno di cedimento. L’avvocato di Cercola sostiene di essere a conoscenza di un tentato suicidio del suo assistito avvenuto ad aprile dello scoro anno, a me non risulta. L’unica cosa che mi risulta è che nel ‘99 ma in un altro carcere Cercola si procurò dei tagli. Tutto qua.
Mi scusi ma un direttore del carcere ha rapporti con i detenuti? Lei gira tra loro? Il direttore del carcere è il catalizzatore della struttura, imposta il lavoro, le regole che reggono l’istituto, fa da impulso alle attività dei vari settori e con i vari responsabili. Il comandante delle guardie per la sicurezza, il direttore pedagogico per le attività rieducative, il direttore medico per l’assistenza sanitaria e così via. È una piccola città.
Lei è il sindaco? Sono il primo cittadino. E come tale sono tenuto ad ascoltare tutti. Nonché sono obbligato a controllare che tutto vada per il meglio.
Il bilancio di quasi due anni di mandato? Ritengo che sia positivo.
Nonostante tutto? Le cose succedono perché le persone decidono che devono accadere. Devo dire che appena entrato lo scontro un po’ più duro è stato con i detenuti, probabilmente c’era una certa abitudine in tal senso. Sono partite delle protese, ma non c’erano secondo me motivi reali. Stupidaggini.
Stupidaggini? Il detenuto si appiglia alla cosa piccola proprio perché in carcere ti manca la libertà, tutto ciò che puoi tenti di prenderlo.
E i suicidi? E le proteste? Paradossalmente quando c’è tensione non accadono, ma come cala il livello dello scontro viene fuori la fragilità dell’uomo. Quando c’è protesta, c’è guerra, sale l’adrenalina e sono tutti concentrati sulla battaglia.
Ci sarà un modo per stimolare una adrenalina pacifica? Le persone devono essere stimolate. Debbono sentirsi utili e produttive. Se sono utili, produttive e impegnate pensano meno agli aspetti criminali. Ci sono delle persone disponibili a rieducarsi e se gli dai gli strumenti possono cambiare stile di vita anche in carcere.
Cosa offre Sulmona ai detenuti per stare meglio? Su quattrocento detenuti, duecentoquattro lavorano. E sono retribuiti.
Quanto prendono? Non sono certo stipendi da favola.
Una miseria? Quanto stabilisce il nostro dipartimento del ministero di grazia e giustizia.
Mi risulta che non sono ammesse associazioni di volontariato? Non è vero che non sono ammesse. Non ci sono.
Come non ci sono? In questo momento abbiamo un solo volontario, una signora che fa il corso d’inglese. Fare volontariato in carcere è una cosa seria. Non si possono mica aprire le porte a tutti.
Se i detenuti entrano in sciopero ci sarà qualcosa che non va? Non è un caso che il detenuti del carcere di Sulmona hanno ritenuto di non aderire alla protesta nazionale.
I detenuti non hanno ritenuto o non hanno potuto? Le assicuro che dal punto di vista mentale qua dentro le persone sono assolutamente libere.
Libere di morire? Libere di protestare e, purtroppo, anche libere di morire. È chiaro che noi cerchiamo di gestire al meglio queste libertà. Se così possiamo chiamarle. Pavia: uccide compagno di cella perché sospettato di pedofilia
Corriere della Sera, 10 gennaio 2005
"L’ho colpito con la caffettiera perché non sopportavo di dividere la cella con un uomo responsabile di abusi sui minori. Tra detenuti esiste un codice d’onore che va rispettato". Diego Cantone, napoletano di 26 anni, in carcere per reati contro il patrimonio, ha spiegato così ai magistrati le ragioni che il 3 gennaio lo hanno portato a picchiare selvaggiamente il suo compagno di cella, Ennio Bertoglio, di 57 anni, morto sabato sera al Policlinico San Matteo. Il detenuto napoletano adesso dovrà rispondere dell’accusa di omicidio colposo. I magistrati hanno disposto l’autopsia sul corpo di Bertoglio. Gli esami dovranno chiarire la dinamica della lite e far luce su ciò che è successo il pomeriggio del 3 gennaio, quando il capo turno della polizia penitenziaria di Torre del Gallo ha scoperto Bertoglio agonizzante sul pavimento della sua cella con la cintura legata al collo e la fronte fracassata a colpi di caffettiera. Diego Cantone, che inizialmente era stato indagato per tentato omicidio, sarà ascoltato nuovamente dai magistrati questa mattina. L’aggressore avrebbe ammesso le sue responsabilità richiamandosi a un "codice d’onore" che esiste fra le mura del carcere e che prevede vita dura ai condannati per pedofilia. Ennio Bertoglio doveva ancora scontare un anno e mezzo di carcere per reati comuni e in passato era stato coinvolto anche in indagini per abusi su minori. Un particolare che avrebbe innescato la rabbia del suo compagno di cella, come ha rilevato il suo legale, Pierluigi Vittadini. "Aspettiamo i risultati degli esami autoptici per chiarire la dinamica - ha sottolineato l’avvocato -. Il mio assistito ha risposto a una provocazione che lo ha portato a perdere la testa". Intanto i medici del San Matteo hanno provveduto all’espianto degli organi di Ennio Bertoglio come espressamente chiesto dai parenti. Sono state salvate le vite di quattro ammalati pavesi. Russo Spena: con Castelli parlamentari non più riescono a vigilare
Liberazione, 10 gennaio 2005
Anche quest’anno, nei giorni di natale e capodanno, abbiamo intensificato le visite negli istituti penitenziari. Non è un "rito"; anzi, è occasione di relazioni più distese e bilanci più attenti; spesso grazie anche ai momenti di riflessione organizzati da associazionismo e settori di movimento. Si vivono anche momenti emotivamente drammatici: come a Rebibbia e a Secondigliano dove abbiamo "scoperto" la morte, recentissima, di due detenuti e di una detenuta. Nemmeno più i parlamentari dell’osservatorio sugli istituti penitenziari riescono a vigilare su trasparenza e democrazia. Con la gestione cupa del ministero Castelli, ormai, non filtrano all’esterno nemmeno più i drammi; il carcere ripiomba nel cono d’ombra, nel buio della istituzione totale separata. Se dovessi esprimere l’impressione complessiva dei numerosi colloqui, affermerei che ci troviamo di fronte ad un universo carcerario giustamente inquieto, determinato, che ha saputo in alcuni istituti, sviluppare autorganizzazione non violenta su un progetto alternativo (sfuggendo alla tenaglia rivolta ed autolesionismo); ma anche di fronte ad una crescente delusione perché, di fronte alle domande di civiltà provenienti dal carcere, la politica è stata incredibilmente muta (ed il governo rancoroso ed ostile). Tre punti di fondo mi pare siano emersi dalle narrazioni e riflessioni dei detenuti. Il primo è, come sempre, la "condizione carceraria" stessa: parliamo della materialità della vita quotidiana, della salute, del lavoro, del sovraffollamento; rispetto a quest’ultimo vi è la recente beffarda invenzione di Castelli, che è riuscito a ridurre il sovraffollamento con una indecente operazione aritmetica; riducendo, cioè, lo spazio destinato per regolamento ad ogni detenuto da nove metri quadrati a sei e mezzo. È una dolorosa vergogna istituzionale, attraverso la quale Castelli pensa di poter continuare a gestire il "grande internamento" a cui l’induce la sua ossessione securitaria. Alla prima si collega la seconda osservazione. Vi è, ormai, un vero e proprio mutamento di paradigma: sempre più, quotidianamente, il carcere non è soluzione ultima ma strumento sostitutivo di risposte sociali che non sono state e non vengono date. Cresce, cioè, l’area della "detenzione sociale" (che ha, alle spalle, situazioni di partenza di disagio sociale). I territori diventano luoghi di controllo penale diffuso, nei quali si vive il passaggio dallo stato sociale allo stato penale. I detenuti parlano, con competenza anche giuridica, di alternativa alla pena detentiva, di riduzione (sia normativa che amministrativa) della penalità, della necessità di favorire processi di reinserimento. Cosa accadrebbe, ci siamo chiesti, se il Parlamento approvasse il disegno di legge Fini contro i tossicodipendenti? Quante migliaia di nuovi detenuti? E quante comunità-carcere del tipo San Patrignano? Arrivo al terzo punto, rispetto al quale massimo è l’allarme del tutto giustificato, dei detenuti. Essi hanno compreso benissimo (meglio di tanti parlamentari) che la proposta di legge Cirielli-Vitali, se fosse approvata anche dal Senato, diventando legge, sarebbe non solo la legge salva-Previti ma una legge gravissima ed odiosa contro i piccoli detenuti abituali, la criminalità cosiddetta minore. Essa uccide, infatti, definitivamente la legge Gozzini, aumenta le pene, limita il giudizio discrezionale dei giudici, vanifica, nella pratica, le misure alternative al carcere. È la legge della "tolleranza zero", del grande buio emergenzialista, che proietta sul terreno carcerario le campagne governative contro la micro criminalità diffusa, per costruire pulsioni di paura nelle viscere della società, in cambio della impunità dei Previti di turno e del sostanziale abbandono del contrasto alle mafie. I detenuti di Rebibbia in particolare ci hanno chiesto di portare questo messaggio in Parlamento: la legge Cirielli-Vitali è la peggiore in assoluto degli ultimi anni, perché sottrae al detenuto la speranza quotidiana del computo del tempo per i permessi o per le misure alternative. Si calcola che vi sarebbero, in pochissimi anni, ventimila detenuti in più. Continuo a pensare che la Gad dovrebbe incominciare a riconoscere e considerare la centralità strategica del carcere. Il mutismo cela l’ipocrisia. Emarginazione: quando la vita in campagna aiuta a rinascere
Green Planet, 10 gennaio 2005
L’agricoltura e la campagna come fattore di recupero sociale e reinserimento per minori difficili, disabili, detenuti, alcolisti e tossicodipendenti. Le esperienze già ci sono, l’università della Tuscia si è presa la briga di censirle. Minori in difficoltà, disabili fisici o psichici, detenuti, persone con problemi di droga o alcol. A loro la terra restituisce dignità e un’occasione di lavoro e impegno. Si chiamano fattorie sociali e sono una realtà ormai significativa: mettono insieme agricoltura e utilità sociale in un binomio che finora ha funzionato. E sono diventate l’oggetto di una ricerca specifica condotta dall’Università della Tuscia di Viterbo, dipartimento di Economia agroforestale e dell’Ambiente rurale, che da tre anni studia in uno specifico progetto il rapporto tra attività agricole e terapie. Un terreno che si è rivelato particolarmente fertile al punto che l’Università di Viterbo ha anche avviato un master in agricoltura etico-sociale: 1500 ore di didattica nell’arco di dieci mesi, stage, seminari rivolti a indagare il rapporto tra attività agricola e utilità sociale allo scopo di formare esperti del settore. Le iscrizioni per l’edizione 2005 del master sono aperte fino al prossimo 15 gennaio (per informazioni: 0761.357247). Ma cosa sono e quali sono le cosiddette "fattorie sociali"? A farle emergere ci ha pensato proprio l’Università di Viterbo, spulciando tra gli elenchi di cooperative, comunità di accoglienza, progetti di aziende sanitarie locali che avessero come comune denominatore l’agricoltura. Qualche esempio: la "Fattoria Verde Onlus" di Castel di Guido (Roma); la cooperativa sociale Capodarco di Grottaferrata, dove i soci, tra cui 6 persone con disagio, curano con i metodi dell’agricoltura biologica una superficie di 20 ettari, un uliveto e due vigneti. Ma altri esempi sono gli orti delle carceri: ce n’è uno nella sezione femminile di Rebibbia, a Roma, nel carcere della Gorgona, dove si allevano anche animali; a Velletri dove si produce il vino "Il Fuggiasco", o a Prato dove si produce il miele. E oltre ai detenuti, tanti progetti con i minori. Come quelli avviati da "Il Forteto" (in Toscana, nella zona del Mugello), dove minori in difficoltà lavorano alla produzione del pecorino. Tanti progetti e attività con carattere diverso, ma uniti dalla comune attenzione alla natura e dalla convinzione che la terra possa restituire dignità e capacità. Concetti alla base del lavoro che svolge l’Università di Viterbo, con il master in agricoltura etico-sociale, con il lavoro di censimento delle fattorie sociali in Italia e con un sito (http://www.agrietica.it/), nato per mettere in rete e in comunicazione tra loro le tante esperienze di successo di recupero e integrazione di soggetti svantaggiati attraverso l’attività agricola. Foggia: rappresentanti degli enti locali incontrano i detenuti
Gazzetta del Mezzogiorno, 10 gennaio 2005
Rappresentanti municipali ed istituzionali locali incontrano i detenuti del carcere di San Severo e s’impegnano ad attivare iniziative concrete per il loro recupero sociale. Le istituzioni hanno voluto ascoltare la voce dei detenuti, realizzando un’importante apertura del territorio nei confronti dei reclusi. L’obiettivo comune resta il reinserimento sociale degli ex reclusi. Un compito non facile, che presuppone una modifica sostanziale dell’aspetto culturale che condiziona l’opinione pubblica, nei confronti di chi è stato in carcere. I rappresentanti istituzionali presenti all’incontro hanno manifestato notevole interesse per le problematiche interne al carcere sanseverese ed anche per il "progetto futuro" di tanti giovani detenuti, i quali sperano di trovare spazio e considerazione al momento del rientro nella vita quotidiana. Il dialogo intrapreso si spera possa servire ad avviare idonei piani di recupero come alcuni progetti specifici già attivi come "Speranza", "Lavorare vale la pena" e "Sirio". All’incontro con i detenuti ed il dirigente della struttura carceraria Davide Di Florio hanno partecipato il sindaco Michele Santarelli; il vescovo della diocesi, Michele Seccia; Paola Marino, assessore alle politiche sociali; Maria Vittoria Valoti, responsabile municipale dei servizi sociali; don Dino D’Aloia, cappellano del carcere; Tonino d’Angelo, responsabile del Sert Asl Fg/1 e Dante Presutto, responsabile del corso scolastico Itc attirato presso la struttura. I reclusi presenti nella casa circondariale hanno manifestato il desiderio di potersi mettere alla prova nell’ambito lavorativo una volta scontata la pena, allo scopo di dimostrare alla collettività la reale volontà di cambiamento di vita. Latina: detenuti fanno una colletta per vittime maremoto
Il Tempo, 10 gennaio 2005
Solidarietà anche dai detenuti del carcere di Latina per le vittime dei terremoti. Non sarà una somma straordinaria "ma noi abbiamo comunque voluto partecipare". Mario Tecla, detenuto del carcere di Latina, ha parlato a nome di quanti hanno dato il loro contributo. Sono stati raccolti 329 euro versati sul conto corrente 5555/90 Abi 3069 della Banca Intesa. Bergamo: storia dell'ex detenuto Alfredo Bigiani a "Porta a porta"
L’Eco di Bergamo, 10 gennaio 2005
La storia di Alfredo Bigiani approda sugli schermi di Raiuno. Ma stavolta, in primo piano, non ci sarà solo il burrascoso passato del bergamasco che ha trascorso più della metà dei suoi 46 anni nelle carceri italiane per una serie di rapine. Alfredo Bigiani, martedì 11 gennaio a "Porta a porta" - il programma condotto da Bruno Vespa - parlerà del presente che lo ha visto mettersi in gioco in prima persona aprendo un locale a Pedrengo, in via don Agazzi. Un bar dalla denominazione alquanto singolare: "L’Ora d’Aria", arredato con grate di ferro, chiavi, un manichino vestito da detenuto e un biglietto da visita a strisce che ricorda le divise dei carcerati. Una troupe della Rai sarà a Pedrengo nel pomeriggio di martedì per la registrazione del programma. La puntata serve da lancio per la fiction "La caccia" ma è anche il pretesto per parlare dei problemi dei detenuti e degli ex. La storia di Bigiani è costellata di rapine per le quali ha pagato interamente il conto con duri anni in carcere (da Pianosa a Novara, Cuneo, Fossombrone, Nuoro e Roma). Ha trascorso un periodo di latitanza in Polonia, con la sua compagna dalla quale ha avuto una figlia, Cassandra, affetta dalla sindrome di Down. A lei ha voluto dedicare alcune poesie che gli anno fatto vincere un premio letterario. Ora Bigiani vuol scrivere un secondo libro, tutto sulla sua storia, per questo motivo è alla ricerca di un editore che creda nel suo progetto. Messico: omicidio carcere La Palma arrestati direttore e 5 agenti
Ansa, 10 gennaio 2005
Il direttore del carcere messicano di massima sicurezza La Palma, 70 chilometri a nord di Città del Messico, è stato arrestato oggi nell’ambito delle indagini per l’omicidio di un noto narcotrafficante detenuto nel penitenziario. Guillermo Montoya Salazar è stato arrestato assieme ad altre cinque guardie penitenziarie, ha rivelato Jorge Serrano Gutierrez, direttore dell’Unità contro la criminalità organizzata dal ministero della Giustizia. Montoya Salazar era stato destituito ieri sera dalla direzione del carcere di massima sicurezza, dove sono rinchiusi i più pericolosi criminali messicani. Il 31 dicembre scorso, il narcotrafficante messicano Arturo Guzman, fratello di Joaquin El Chapo Guzman, sul quale le autorità antidroga degli Stati Uniti hanno posto una taglia di cinque milioni di dollari, è stato ucciso nel carcere La Palma. Arturo Guzman, soprannominato El Pollo stava scontando una condanna per possesso e spaccio di cocaina. Il narcotrafficante è stato ucciso a colpi di pistola da un altro detenuto, Josè Ramirez Villanueva, condannato per vari omicidi, mentre era a colloquio con il suo legale. Carlos Tornero, direttore del servizio penitenziario, aveva denunciato lunedì scorso "complicità interne" nell’organizzazione dell’omicidio ed aveva parlato di "alto tradimento". Oltre a Guzman, nel 2004 sono stati assassinati a colpi d’arma da fuoco altri due narcotrafficanti all’interno del carcere. Emarginazione: Padova, a Natale tunisino muore di freddo e stenti
Agi, 10 gennaio 2005
Sconcerto a Padova per la morte di un extracomunitario, ucciso probabilmente dal freddo e dagli stenti mentre dormiva nel suo rifugio di fortuna sotto un ponte della città. Nemri Abdellatif Ben Lakhdar, 39 anni, era originario della Tunisia, aveva un regolare permesso di soggiorno per lavorare nel nostro paese. La "terra promessa" italiana non gli aveva riservato il destino che sperava. Lui, come tanti disperati, si era arrangiato con qualche lavoretto, poi aveva provveduto ad affrontare i rigori dell’inverno ricavando un rifugio di fortuna sotto il ponte che attraversa il fiume Piovego a pochi passi dal centro di Padova. Sotto la campata ci sono degli spazi vuoti, simili a cellette: il tunisino ne aveva trasformato uno in una mini abitazione fatta di poche misere cose, una coperta, un materasso, poco altro. Una vita di stenti, secondo quanto ricostruito dalla polizia, anche la droga che però, ad un primo esame, non è stata la causa della morte. Il decesso è avvenuto la notte di Natale probabilmente per il freddo, nemico micidiale per un fisico debole, malnutrito come quello dell’extracomunitario. Sull’accaduto è stata aperta un’inchiesta, il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, ha espresso parole di pietà per la morte del tunisino e ha chiesto al questore cittadino, Giuseppe Caruso, l’apertura notturna della stazione ferroviaria per accogliere i senzatetto. Roma: attori e cantanti si esibiscono per bambini detenuti
Roma One, 10 gennaio 2005
Il carcere di Rebibbia sarà il teatro per "Belli come il sole", lo straordinario evento di solidarietà in favore dei piccoli innocenti reclusi. Fra gli altri si esibiranno Valerio Mastandrea, Tiromancino, Ivan De Matteo, Stefano Fabrizi. Un luogo insolito per lo straordinario spettacolo di beneficenza e solidarietà a cui prenderanno parte diversi artisti romani, dall’attore Valerio Mastandrea, che interpreterà il monologo "Nonna Italia", al gruppo dei Tiromancino, che suoneranno i loro più grandi successi; dal cabarettista Stefano Fabrizi che si esibirà in un pezzo creato ad hoc per l’occasione, al regista-attore Ivan De Matteo che leggerà una sua poesia. Prevista anche una jam session di musicisti hip-hop e una mostra personale del pittore Massimo Di Clemente (Disegnello) per raccogliere fondi. Il teatro del nuovo complesso della casa circondariale romana di Rebibbia ospiterà oggi uno spettacolo riservato ai detenuti, nell’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica verso il grave problema dei bambini reclusi in carcere senza alcuna colpa. Infatti, dal 1975 la legge dispone che i figli delle detenute possano trascorrere la prima e primissima infanzia (dai 0 ai 3 anni) in appositi asili nido all’interno del carcere, per poter crescere vicino alle madri. Purtroppo questi piccoli, a tutti gli effetti, fanno la vita dei detenuti, con gravi conseguenze psico-fisiche sulla loro crescita. La legge Finocchiaro, approvata nel 2000, doveva portare a una parziale soluzione del problema, stabilendo il diritto delle detenute madri con figli a carico al di sotto dei 10 anni a scontare la pena in strutture alternative al carcere, ma la mancanza di strutture adeguate rende vana la legge Finocchiaro, che rimane ancora oggi senza applicazione. "Belli come il sole", iniziativa promossa dall’associazione culturale Il Pavone e la cooperativa sociale Blow-up (costituita da detenuti ed ex detenuti), nasce dalla voglia di far riflettere su questo grave problema, nella speranza di lavorare a progetti concreti per la sua soluzione. Un secondo appuntamento è il 21 febbraio, con un evento spettacolo nel carcere femminile di Rebibbia, per il quale hanno preannunciato la loro presenza Kim Rossi Stuart, Ricky Memphis, Simone Corrente e Maurizio Masi (batterista del Banco). 2004: 881 detenuti espulsi, i più verso Albania, Romania, Marocco
Redattore Sociale, 10 gennaio 2005
Sono 881 gli stranieri ristretti nelle carceri italiane che hanno subito un procedimento di espulsione da gennaio ad ottobre 2004. In base ai dati forniti dal Ministero della Giustizia, dall’entrata in vigore della legge Bossi-Fini (settembre 2002) i procedimenti di espulsione di detenuti stranieri sono stati 2200. In particolare, nel periodo gennaio-ottobre, nel 2002 si sono verificate 224 espulsioni, a fronte delle 975 del 2003 e delle 881 del 2004. Il monitoraggio, effettuato sulla base dei dati dell’archivio nazionale dei detenuti, è stato pensato per valutare l’impatto dell’articolo 15 della legge Bossi-Fini sul nostro sistema penitenziario. In base a questa norma la legge prevede la possibilità della misura dell’espulsione, decisa dal giudice o dal magistrato di sorveglianza, per gli stranieri condannati ad una pena detentiva non superiore a due anni. Il 98% degli 881 stranieri espulsi nei primi dieci mesi del 2004 rientra in questa categoria, mentre il rimanente 2% riguarda espulsioni eseguite a pena espiata, motivate da ragioni di sicurezza. I Paesi di destinazione con il maggior numero di rimpatriati sono Albania (159 persone), Romania (157), Marocco (142) e Tunisia (100), nazioni a cui corrisponde una più massiccia presenza di persone nelle carceri italiane. Seguono le nazioni del Sudamerica (108), gli Stati dell’ex Jugoslavia (53), il resto d’Europa (48) e altri Paesi africani (46). Il dato relativo al Vecchio continente va scorporato in 46 espulsioni verso nazioni non aderenti all’Unione (tra cui 13 rimpatriati in Bulgaria, 7 in Moldavia e 6 in Turchia) e 2 verso Stati dell’Unione (Austria e Spagna). "Questi dati mi sembrano freddi e poco significativi - commenta Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone-. In generale c’è da capire se sia un dato di cui vantarsi, visto che per queste espulsioni non serve più il consenso del detenuto, come avveniva quando era in vigore la legge Martelli". L’espulsione, secondo Gonnella, oltre a non essere "un provvedimento tendente alla rieducazione del detenuto", obiettivo che si pone la pena detentiva così com’è prevista nel nostro ordinamento giuridico, non aiuterebbe a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri: "Basti pensare che gli stranieri detenuti nelle carceri italiane sono circa 18mila", conclude Gonnella. Medio Oriente: Corte suprema nega voto a detenuti palestinesi
Ansa, 10 gennaio 2005
La corte suprema israeliana ha respinto la richiesta presentata dall’Anp di autorizzare i detenuti palestinesi in Israele a votare alle presidenziali di domenica Affari mediterranei Corte suprema nega il voto ai detenuti.La corte suprema israeliana ha respinto la richiesta presentata dall’Anp di autorizzare i detenuti palestinesi in Israele a votare alle presidenziali di domenica.Lo si apprende da fonti giudiziarie israeliane. La richiesta era stata presentata domenica a nome dell’Anp dall’avvocato israeliano Zvi Rish. Circa novemila palestinesi sono detenuti nelle carceri israeliani, per lo più per reati di terrorismo. I tre giudici della corte suprema israeliana hanno ritenuto che non ci fosse tempo a sufficienza prima delle presidenziali palestinesi per organizzare il voto nelle carceri israeliane delle migliaia di detenuti. La decisione di presentare un ricorso alla Corte suprema israeliana era stata presa all’inizio della settimana dal ministro palestinese per i prigionieri, Isham Abdel Razik, dopo che le autorità israeliane aveva fatto sapere che non avrebbero consentito il voto dei detenuti. Abdel Razik aveva affermato che il diritto di votare alle presidenziali è per i detenuti palestinesi un diritto umano fondamentale. Stati Uniti: Mumia Abu Jamal, da 24 anni nel braccio della morte
Silvia Baraldini per Liberazione, 10 gennaio 2005
Oggi Mumia Abu Jamal inizia il suo ventiquattresimo anno di detenzione nel braccio della morte dell’istituto penale statale SCI Greene nello stato della Pennsylvania. Oggi Mumia Abu Jamal inizia il suo ventiquattresimo anno di detenzione nel braccio della morte dell’istituto penale statale SCI Greene nello stato della Pennsylvania. Costruito nel 1996, SCI Greene è basato sul sistema dei pod, moduli che isolano totalmente i detenuti. Mumia vive in una cella di 8 piedi per 12 (2,5 metri per 3,7), ermeticamente sigillata, totalmente bianca ed asettica. Nessuna immagine, fotografia o ricordo può inquinare la asetticità dell’ambiente ed il letto, il tavolo ed il piccolo armadio di metallo sono fissati al muro. Il tutto ideato per comunicare a lui, o a qualsiasi altro individuo imprigionato nelle stesse condizioni, un senso di impotenza, la deprivazione della possibilità di poter determinare anche gli aspetti più insignificanti e banali della propria esistenza. Dal lunedì al venerdì gli è permesso un’ora d’aria in un piccolo cortile collegato alla sua cella, coperto da una rete metallica e circondato da quattro pareti di cemento. Questo non avviene il sabato e la domenica. Tre volte alla settimana gli è permesso di comunicare con il mondo esterno per quindici minuti. Tutte le comunicazioni sono controllate e registrate. I colloqui avvengono una volta a settimana attraverso un muro di plexiglas. Sono passati tre anni da quando il giudice federale William Yohn, in seguito ad un appello fondato sulla dottrina del’habeas corpus (petizione di terminare l’illegale detenzione del corpo stesso di un detenuto da parte delle autorità giudiziarie) ha ribaltato la sua condanna a morte. Yohn ha giudicato incostituzionali le istruzioni del giudice Sabo alla giuria e ha ordinato una nuova sentenza per Mumia. Purtroppo il giudice ha confermato la condanna originale. Immediatamente il procuratore ha presentato un appello alla decisione e la corte ha sostenuto la sua richiesta di continuare la detenzione di Mumia nel braccio della morte, mentre l’appello prosegue nel suo lento iter. La Corte d’appello del Terzo distretto federale ha due opzioni: confermare la sentenza del giudice Yohn o condannare Mumia nuovamente alla pena di morte. Nella prima istanza il procuratore ha già dichiarato la sua intenzione di chiedere l’ergastolo senza la possibilità di qualsiasi sconto. Purtroppo per via della legge contro il terrorismo del 1996 firmata dall’allora presidente Clinton, Mumia, come ogni condannato a morte negli Stati Uniti, ha diritto ad un solo appello. Come molti sostenitori di Mumia temevano, l’impatto della sentenza di Yohn, che non ha messo in discussione l’impianto accusatorio né ha preso in considerazione le divergenti testimonianze oculari emerse negli ultimi anni, ha influito negativamente sulla mobilitazione nazionale ed internazionale che si era formata in sua difesa. I giorni delle grandi mobilitazioni sono finiti ed oggi sono in pochi ad occuparsi ancora di questo caso. Anche la campagna diffamatoria da parte della famiglia di Daniel Faulkner e del sindacato della polizia ha avuto l’effetto di spostare il dibattito dal rapporto tra polizia e comunità afroamericana e le sue conseguenze sul caso stesso, sul fatto che Mumia debba provare la sua innocenza. Un’impostazione che favorisce l’accusa ma contraddice il principio basilare della giurisprudenza anglosassone: la colpevolezza deve essere stabilita beyond a reasonable doubt (oltre ogni dubbio) dall’accusa e non l’innocenza provata dall’imputato. Ma quali furono le circostanze che portarono all’arresto di Mumia? La notte del 9 dicembre 1981 Mumia intervenne in difesa di suo fratello che veniva malmenato dalla polizia di Philadelphia. Durante lo scontro sia Mumia che il poliziotto Daniel Faulkner furono feriti, in seguito Faulkner morì. Mumia fu immediatamente accusato di avergli sparato, anche se alla sua pistola calibro 38, per la quale possedeva il regolare porto d’armi, non sono mai stati attribuiti gli spari che hanno ferito ed ucciso il poliziotto. Inoltre le testimonianze oculari parlano della presenza di un altro individuo dileguatosi nella confusione e mai identificato. Non so se a distanza di ventitrè anni sarà mai possibile chiarire le circostanze di quell’avvenimento o dissipare tutti i dubbi sollevati dai colpevolisti. Ma rimane incontrovertibile che fin dalla sua gioventù Mumia Abu Jamal si è trovato nel mirino della polizia di Philadelphia, vittima di una campagna repressiva a causa del suo coinvolgimento nel movimento di liberazione degli afroamericani. In un primo momento per il suo attivismo come membro delle Pantere Nere, poi come giornalista indipendente e difensore mediatico della comunità afroamericana di Philadelphia e poi come sostenitore di Move, l’organizzazione fondata da John Africa, la cui ideologia sosteneva un totale rigetto del capitalismo e la costruzione di comunità alternative imperniate su uno stile di vita biologico. Mumia era stato licenziato dalla radio, dove lavorava, per aver duramente condannato gli sgomberi di Move dalle loro case da parte della polizia. In particolare aveva guadagnato l’odio del potente capo della polizia, successivamente anche sindaco di Philadelphia nel ‘81, Frank Rizzo, che aveva guidato la repressione contro le Pantere Nere. Nel suo ultimo libro, We Want Freedom (Vogliamo la nostra libertà), Mumia racconta come Rizzo dopo lo sgombero della sede principale del partito avesse costretto tutti i presenti a sfilare per le strade del quartiere a marcia indietro, completamente nudi e con le mani alzate. Bisogna ricordare che nel 1984 per "stanare" i ribelli di Move le autorità municipali avevano scelto di bombardare il quartiere dove si trovavano le abitazioni dell’organizzazione distruggendo ben 66 case e radendo al suolo interi isolati. Mumia non ha mai esitato a denunciare questi soprusi ed a utilizzare la sua professione per segnalare le violazioni dei diritti umani da parte del governo americano, da Philadelphia all’Iraq. Particolarmente efficace sono stati gli articoli scritti da Mumia dopo le foto di Abu Grahib nelle quali aveva riconosciuto una guardia carceraria di SCI Greene tra gli aguzzini. Il luogo era cambiato ma non il comportamento. Per quanto fisicamente isolato continua la sua denuncia da dietro le "sbarre". È la sua voce che deve essere messa a tacere a tutti i costi. Negli Stati Uniti del dopo 11 settembre il prezzo del dissenso e dell’opposizione si è elevato e non è impensabile che l’esecuzione di Mumia diventi di nuovo un obiettivo prioritario. Ma anche l’alternativa di lasciarlo languire nell’isolamento del suo pod non è accettabile. E non paga riporre speranza che il tanto screditato sistema di giustizia americano possa riconoscere che nel caso di Mumia Abu Jamal sono stati commessi errori di metodo e di sostanza. Questo anniversario deve essere l’occasione di riattivare in Italia la campagna a suo favore e di muoversi per ottenere una soluzione politica, quale la concessione della grazia da parte del presidente americano. Reggio Calabria: "Petali bianchi al di là del muro" poesie da carcere
Quotidiano di Calabria, 10 gennaio 2005
Liriche dietro le sbarre guardando al di là del muro della struttura carceraria che lo ospita. Pietro Lo Giudice, 33 anni, di Reggio Calabria, in carcere per un reato grave compiuto da giovane, ha scelto la poesia per lanciare il suo messaggio di libertà ma anche di riscatto. L’utopia della revisione e del recupero per il detenuto Lo Giudice, si è concretizzata all’interno dell’Istituto Sperimentale "Luigi Daga" di Laureana di Borrello, dove assieme ad una quarantina di altri giovani sta scontando la sua pena. Un carcere nel quale l’utopia diventa quotidianità e speranza di vita nuova. Pietro era un commerciante ed aiutava il padre nella conduzione di un negozio di frutta e verdura , poi l’errore nato all’interno di una società portata alla violenza gli ha spalancato le porte del carcere. Negli istituti di pena, Pietro sembrava diverso, quasi smarrito, senza spavalderia ed arroganza. Dentro il carcere ha cominciato a frequentare corsi di informatica, falegnameria, teatro e giornalismo. Ha iniziato a scrivere libri di favole all’interno nel carcere di Paola per i bambini delle scuole elementari. Il lungo peregrinare negli istituti di pena non ha cancellato la sua passione di comunicare emozioni, racconti. Dopo Paola, Rossano e Cosenza, è arrivato a Laureana di Borrello nel nuovo istituto voluto da un altro sognatore come lui, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Paolino Quattrone. I loro destini si sono incrociati sia pure attraverso strade diverse. Dentro l’Istituto di Laureana, Pietro comincia a fare il giardiniere. "I fiori ed il loro mutare danno sensazioni di tenerezza e ti fanno riscoprire la voglia di vivere" - dice con un filo di voce. Non trascura mai di affidare le sue emozioni alla carta. Dentro la sua cella su un piccolo tavolino vi è sempre un quaderno dove annota i suoi pensieri che diventano poesie. Lo scrigno viene scoperto dagli operatori volontari, dal personale della Polizia Penitenziaria e dalla Direttrice del carcere la dottoressa Angela Marcello. Dopo poco tempo, grazie all’aiuto dei volontari dell’Alleanza Guanelliana di Calabria, e del Comune di Laureana, quei pensieri diventano un libro il cui titolo: "Petali bianchi al di là del muro" che racchiude la sintesi interiore della vita del detenuto Pietro Lo Giudice, dalla consapevolezza dell’errore compiuto e soprattutto dalla sua voglia di ritornare ad essere un uomo normale dopo aver pagato il suo conto con la giustizia. "Non sono le manette la mia galera ma i cancelli che si chiudono" scrive in una delle sue poesie. I cancelli che ti isolano, di sconvolgono ma che ti costringono anche a pensare, riflettere, a rivedere in un attimo tutte le sere la tua intera vita facendoti scorrere volti, carezze, atrocità, violenze, emozioni. Fotogrammi che si ripetono quasi all’infinito e che ti fanno contare i giorni e gli attimi che ti separano dalla libertà. " E tu non puoi non immaginarti al di là del muro, rivederti insieme ai tuoi figli, sognare la tua città e soprattutto non puoi non rivederti diverso da prima". Frammenti di vita ha definito le poesie di Pietro Lo Giudice, Ferdinando Mamone, uno dei tanti volontari curando la presentazione del libro, che è stato distribuito prima di Natale in occasione di una significativa manifestazione alla presenza di tutti i detenuti, degli agenti di Polizia Penitenziaria dal comandante Schipilliti, all’educatrice Irene Venezia e dei volontari nel carcere di Laureana. Tra i pochi ospiti il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria Scordo, il capitano dei Carabinieri di Gioia Tauro Andrea Mommo, il cappellano del carcere don Luigi Ragione, gli amministratori di Laureana con il sindaco Domenico Rocco Ceravolo per il quale, Pietro, assieme a tanti altri giovani detenuti, "ha ritrovato il cammino del vivere civile, la voglia di riscatto, e l’ansia di dimostrare di sapere essere ancora uomo, figlio, padre ed amico." Bologna: Comune e Provincia discutono assieme del carcere
Sesto Potere, 10 gennaio 2005
Domani, alle ore 9.30, nella Sala del Consiglio della Provincia di Bologna, si riuniranno le commissioni consiliari "Sanità, Politiche sociali, Politiche abitative e della casa" del Comune e "Quinta" permanente della Provincia di Bologna per discutere il seguente ordine del giorno: approfondimento dei problemi connessi alla struttura della Casa Circondariale dal punto di vista dell’organico e dei carichi di lavoro, nonché le responsabilità e le funzioni degli agenti di Polizia Penitenziaria, degli operatori del trattamento, del personale addetto alla custodia, del personale amministrativo e dei rapporti che intercorrono tra la direzione del carcere e le amministrazioni degli enti locali. Firenze: a Solliccianino si può fumare solo in cella (singola)
Adnkronos, 10 gennaio 2005
In carcere si può fumare, ma solo nella propria cella. Questa, infatti, è considerata come una abitazione privata e quindi chi vuole può fumare. La decisione è stata presa a Solliccianino, l’istituto di pena fiorentino dove vengono reclusi detenuti per reati minori. "Da tempo ci siamo organizzati per rispettare la legge - spiega Maria Grazia Grazioso, direttrice di Solliccianino - chi è in una cella singola può fumare liberamente, per chi invece vive in celle a due posti da tempo abbiamo impostato le cose in modo da mettere i fumatori con i fumatori. Proibito invece, ma già da molto tempo, fumare negli spazi comuni come la mensa, la biblioteca, la sala cinema e nei laboratori. Chi vuole può andare a fumare nel cortile oppure in una sala riservata allo scopo". Brescia: "housing sociale", tre appartamenti per detenuti ed ex
Comunicato stampa, 10 gennaio 2005
L’Aler di Brescia (Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale) ha concesso tre appartamenti a canone concordato all’Associazione Carcere e Territorio ai sensi della D.G.R. n. 7000 del 23.11.2001, con finalità di housing sociale (per fornire un’opportunità a persone che, a causa di un provvedimento restrittivo della libertà, in corso al momento della richiesta o terminato da non più di 6 mesi, si trovino nella difficoltà di reperimento di un alloggio abitativo). Sono tre bilocali (un bagno, una camera e una cucina-soggiorno) adeguati per ospitare due persone ognuno situati in tre palazzi vicino al centro della città in un ambiente sociale cordiale. Sono arredati con sobrietà e con un pò di femminilità donata dal Corso di Cucito di Verziano. Ogni Ospite parteciperà alle spese reali, molto contenute perché anticipatamente concordate, e sottoscriverà il regolamento che prevede: l’accesso ed uso della casa; la conduzione e gestione della casa; la condivisione; l’abbandono dell’alloggio al termine del periodo concordato. L’ammissione degli Ospiti alla casa è decisa dal Presidente su proposta di un progetto da parte di: un’associazione e/o cooperativa che ne curi l’inserimento lavorativo; dell’Amministrazione Penitenziaria o del Centro Servizio sociale per Adulti del Ministero della Giustizia, dell’Autorità giudiziaria o di una Istituzione pubblica espressione del Territorio locale. Il Consiglio direttivo dopo l’esame del progetto decide il tempo di permanenza dei singoli Ospiti, i quali, (durante questo periodo, comunque non superiore ai 12 mesi), dovranno attivarsi per trovare un’abitazione stabile. Sappiamo che è una goccia d’acqua in un mare di bisogno ma è solo usando bene le poche occasioni che apriamo la possibilità a nuove e più grandi iniziative. Già nell’ambito dell’attuazione della D.G.R. n. 7000 del 23.11.2001, nell’opera di promozione della stessa, abbiamo cercato di incentivare l’intervento della Regione anche a favore di altre Associazioni della nostra provincia, fra le quali ricordiamo in primis il VolCA (nel Comune di Brescia), che, grazie a questo progetto, incrementerà la propria offerta di cinque unità abitative. Giustizia: padre di Paolo Dorigo si appella a presidente Ciampi
Ansa, 10 gennaio 2005
Un appello al presidente della Repubblica, Ciampi, perché interceda nella vicenda del figlio, detenuto da 10 anni nel carcere di Spoleto, è stato lanciato oggi da Vladimiro Dorigo, padre del giovane veneziano Paolo Dorigo. Dorigo, condannato nel 1994 a 13 anni di carcere con l’accusa di aver lanciato una bottiglia incendiaria contro la recinzione della base Nato di Aviano in provincia di Pordenone, sta facendo lo sciopero della fame da oltre 60 giorni. "Io - ha detto Vladimiro Dorigo, parlando ai microfoni del Tg1 - faccio un appello al presidente della Repubblica, da padre a padre. Vorrei sperare che con la sua altissima sensibilità egli possa indurre chi può è deve ad un provvedimento immediato di salvezza per Paolo".
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