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Sulmona: primi trasferimenti dei detenuti "a rischio"
Ansa, 30 aprile 2005
Alleggerire la pressione sull’istituto di pena, permettere agli operatori di lavorare in condizioni meno angoscianti, limitare il pericolo di ulteriori fenomeni emulativi da parte dei reclusi. Sono le parole d’ordine che hanno spinto l’amministrazione penitenziaria a decidere i primi trasferimenti di detenuti dal supercarcere di Sulmona, individuati tra quelli con difficili situazioni psicologiche, reagendo così alla catena di suicidi che ha funestato la struttura abruzzese. Già oggi sono partiti per altre destinazioni i primi due soggetti: nel pomeriggio due detenuti comuni, con alle spalle atti di autolesionismo, sono stati portati in altri due penitenziari abruzzesi, Teramo e L’Aquila. Nei prossimi giorni, probabilmente già domani, dovrebbero essere trasferiti circa 30 altri detenuti, sia comuni che in regime di alta sicurezza, con destinazioni in diverse carceri sparse su tutto il territorio. Il capo della direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Sebastiano Ardita, incaricato di condurre un’inchiesta straordinaria, sta continuando a valutare decine di situazioni a rischio, tra coloro che hanno problemi psicologici o che in passato sono stati protagonisti di episodi autolesionistici. Non hanno posto tempo in mezzo, dunque, il Ministero di Giustizia e il Dap nell’affrontare una situazione che, a detta del ministro Roberto Castelli, era diventata "intollerabile", dopo il sesto suicidio nell’arco di un anno e mezzo, il terzo dall’inizio del 2005. È stato accolto, in particolare, l’appello che proveniva dalla stessa direzione del carcere e dai vertici interni dell’area medica, sulla necessità di ridurre l’eccessivo numero di detenuti "difficili". D’altronde lo stesso Castelli, nella sua visita condotta ieri nel carcere, aveva rilevato il "grave paradosso" - così si era espresso - di un carcere gestito in maniera pressoché esemplare in confronto alla media nazionale, con poco sovraffollamento, attività per i detenuti, organico adeguato, nel quale però si è innescata una particolare situazione psicologica, tale da dare luogo a effetti difficilmente arginabili. E la preoccupazione, ora, è per il tanto temuto "effetto domino", dell’estendersi di una spirale emulativa alimentata anche dalla forte attenzione mediatica che si è concentrata sul carcere di Sulmona fin dal suicidio nel suo ufficio, nell’aprile di due anni fa, della direttrice Armida Miserere. "Forse dall’esterno - avverte l’attuale direttore, Giacinto Siciliano - si commette l’errore di enfatizzare troppo quello che avviene qui, e questo potrebbe scatenare meccanismi un pò perversi, difficilmente controllabili". Intanto questo pomeriggio l’autopsia sul corpo dell’ultimo detenuto suicida, Francesco Vedruccio, pugliese di 36 anni, ha confermato che la morte è stata dovuta a soffocamento da impiccagione. L’anatomopatologo Ildo Polidori ha rilevato intorno al collo del detenuto il segno netto lasciato dal laccio del giubbotto, con cui Vedruccio mercoledì sera si è impiccato alla finestra del bagno della cella. Ci vorranno 60 giorni per gli esiti degli esami tossicologici, per verificare se l’uomo aveva assunto droghe o psicofarmaci. I primi accertamenti condotti dalla Procura di Sulmona hanno anche confermato che poche ore prima del suo gesto, Vedruccio, detenuto con un quadro psicologico di particolare disagio e fortemente provato dalla separazione dalla moglie e dall’impossibilità di vedere il figlio, aveva ricevuto una telefonata dalla madre. Da quel momento, come ha riferito il compagno di cella, aveva visibilmente cambiato umore. In serata, poi, la decisione di farla finita. Sulmona: vietato indagare, di Patrizio Gonnella (Ass. Antigone)
Il Manifesto, 30 aprile 2005
E siamo a sette. Sette suicidi in due anni. Prima si ammazza la direttrice e poi in sequenza sei detenuti. Dal carcere di Sulmona è statisticamente più facile uscire morti che non per concessione di una misura alternativa. Non era mai accaduto nella storia delle galere del nostro paese che in un carcere ci fossero uno dopo l’altro sette persone che si togliessero la vita in un arco di tempo così ristretto. Vi è un ritardo colpevole di chi non si è curato di cosa stesse accadendo a Sulmona. Non si può aspettare la settima vittima per aprire un’inchiesta per istigazione al suicidio. Se un numero così alto di suicidi fosse accaduto in un qualsiasi altro contesto - condominio,scuola, ospedale, ufficio pubblico - si sarebbe mobilitata la magistratura, l’opinione pubblica si sarebbe impaurita, i media avrebbero organizzato dirette non stop, il solito criminologo sarebbe comparso nella veste di esperto da Bruno Vespa. Sette morti suicide in uno stesso luogo, anche se questo è un luogo di sofferenze per antonomasia, lasciano il forte dubbio che non si tratti di una coincidenza. Sarà il trattamento duro, sarà un clima interno insopportabile, sarà che a Sulmona non c’è spazio per la speranza, sarà quel che sarà, ma chi oggi indaga sull’ultimo morto per istigazione al suicidio deve riaprire gli altri sei fascicoli. Lo Stato ha l’obbligo di custodire i corpi delle persone detenute assicurando - così recita la Costituzione - che non vi siano trattamenti contrari al senso di umanità. Se una persona è entrata viva in prigione deve uscirne viva. Esiste un obbligo morale e giuridico di custodia che a Sulmona è stato disatteso. Per questo vanno messi i sigilli al carcere, per questo il carcere di Sulmona va chiuso. Va chiuso perché in quell’istituto la vita delle persone, per circostanze a noi ignote, non ha avuto fino ad oggi gran valore. A Sulmona, in diciotto mesi, hanno potuto ammazzarsi un sindaco, un mafioso, un pentito, tre detenuti comuni senza che alcuno si facesse carico dell’eventuale filo rosso tra i singoli episodi. E tutto ciò aveva inizio sei mesi dopo che si era ammazzata Armida Miserere, una direttrice che in un’intervista a Panorama si permetteva di assimilare i detenuti più o meno alle bestie. Quel carcere va temporaneamente chiuso per evitare che ci possa essere un ottavo morto. Siccome è probabile che Castelli non darà l’ordine di chiudere il carcere, allora il minimo che si possa fare è aprirlo alla società e alla stampa. Non si può avere paura di far vedere ai giornalisti e alle telecamere quello che accade dentro, di far sentire la voce diretta di operatori e detenuti. Sarebbe questo un primo segnale di apertura, di trasparenza, di disponibilità. Va rispolverata una vecchia proposta di legge che prevedeva il diritto di accesso dei giornalisti in carcere, al pari dei parlamentari. Negli ultimi tempi le galere sono ripiombate nella loro tradizionale opacità. I sette morti di Sulmona oggi suscitano curiosità. Speriamo che provochino in tutti anche un sentimento di rabbia e indignazione. Sulmona: il carcere dei suicidi provoca una bufera su Castelli
Il Manifesto, 30 aprile 2005
Un altro detenuto si toglie la vita nel supercarcere abruzzese. È il settimo in due anni. La procura apre un’inchiesta "per istigazione al suicidio". L’opposizione parlamentare chiede le dimissioni del ministro della giustizia. Il quale vola a Sulmona e annuncia "misure forti". Poi sdrammatizza: "Non merita sicuramente la nomea di carcere maledetto" La catena di morte non si interrompe. Il supercarcere di Sulmona sempre più scenario di drammi di vita. L’altro ieri, Francesco Vedruccio, 36enne di Squinzano, in provincia di Lecce, è stato trovato impiccato alla finestra del bagno. È il settimo suicidio nel penitenziario abruzzese in due anni. L’uomo stava scontando una condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, rapina, estorsione e spaccio. Ha stretto il cordone della tuta attorno al collo e poi all’inferriata, e si è lasciato andare penzoloni. Erano circa le 20.30. Potrebbe essere stata la telefonata di un parente, ricevuta nel pomeriggio, a spingerlo ad ammazzarsi. Dopo la chiamata era tornato in cella piuttosto scosso. Il compagno, vedendolo sconvolto e nel tentativo di tranquillizzarlo, gli ha proposto una partita a carte. Una mano di gioco, quattro chiacchiere e poi la fine. Sembra che il detenuto non riuscisse ad accettare il fatto che la moglie non volesse più saperne di lui, che considerasse chiusa la loro storia, e, soprattutto, che gli impedisse di vedere il figlio. Questioni di cuore, di cui aveva parlato più volte. Era considerato un "elemento a rischio" e per questo non gli era mai stato concesso il trasferimento in un cella singola, nonostante lo chiedesse ogni giorno. Questa situazione gli aveva consentito anche di frequentare un corso per geometri. Il suo decesso fa piombare sulla casa circondariale una valanga di accuse. In troppi si sono uccisi tra quelle celle. È un fiume di polemiche, anche politiche, che si abbattono sul sistema carcerario e sul ministro della giustizia Roberto Castelli di cui, da più parti, sono state chieste le dimissioni e che ieri pomeriggio si è precipitato a Sulmona. Sull’accaduto sono state avviate diverse inchieste. Nella struttura sono arrivati gli ispettori del ministero, inviati nell’ambito dell’indagine interna aperta dal Dipartimento amministrazione penitenziaria - la sesta negli ultimi mesi - che ha ordinato un’ispezione. Il capo del Dap, Giovanni Tinebra ha dato disposizione "di analizzare il problema a fondo e di ripensare la gestione del carcere dopo aver individuato le particolari criticità, così da intervenire anche attraverso il trasferimento di alcuni prigionieri. Non sa spiegarsi i motivi del gesto Giacinto Siciliano, direttore del carcere. "Questo è un istituto in cui si lavora - commenta -, dove si svolgono attività che portano a raccordarsi anche con il territorio e la città. Abbiamo potenziato i controlli. Bisogna cercare in tutti i modi di uscire da questa tremenda situazione". "Una sequenza di suicidi che va assolutamente fermata - dice Giulio Petrilli, di Rifondazione comunista dell’Aquila -. Se non si adottano misure di cambiamento, allora è opportuno chiudere la struttura". Proposta condivisa anche da Paolo Cento, deputato dei Verdi e vice presidente della commissione giustizia alla camera. "Il penitenziario di Sulmona - sottolinea il deputato del Sole che ride - è solo la punta di un iceberg che dimostra le condizioni drammatiche in cui si versa il sistema carcerario italiano e il fallimento della politica penitenziaria del Governo che ha prodotto sovraffollamento, riduzione della spesa sanitaria, e diminuzione del personale". "Questo carcere assomiglia ormai a un mattatoio. È semplicemente scandaloso che il direttore sia ancora al suo posto e che il ministro Castelli non abbia ancora dato le dimissioni: è il commento del deputato Verde Mauro Bulgarelli. "È evidente che nel supercarcere di Sulmona sta accadendo qualcosa di estremamente grave - afferma il responsabile giustizia dei Ds, Massimo Brutti -. Si tratta di una successione inquietante di morti che deve allarmarci tutti. È doveroso che ci sia un’indagine del Parlamento per conoscere la situazione di quel penitenziario,comprendere a fondo le condizioni di vita dei detenuti e le condizioni di lavoro degli operatori. Solo così sarà possibile capire quali interventi adottare per voltare pagina". "Serve un intervento all’altezza della situazione: l’immediata chiusura del carcere; tuona il deputato di Prc Elettra Deiana, che più volte ha visitato il carcere abruzzese -. C’è da fare i conti con l’esistenza di un gravissimo groviglio di problematiche fino ad oggi, evidentemente, non affrontate e che provocano drammi personali e gettando un’ombra inquietante sull’insieme del sistema carcerario già compromesso da contraddizioni e inadempienze". Si difende il responsabile dell’area sanitaria del carcere, Fabio Federico che afferma: "Siamo di fronte a gesti autolesionistici compiuti solo per avere un’eco sulla stampa. Una spirale perversa, un vero e proprio effetto domino. Siamo seriamente preoccupati - aggiunge - e a questo punto la speranza è che si attui l’allontanamento degli elementi più a rischio". Il Sappe, sindacato di polizia penitenziaria, rileva: "L’ennesimo suicidio non può offrire nessun pretesto per colpevolizzare gli agenti che lavorano nella struttura abruzzese. Il sovraffollamento delle carceri e la carenza di personale non da sempre temi senza soluzione". "Adesso - dichiara Giuliano Pisapia, capogruppo Prc in commissione giustizia - occorre l’approvazione di un provvedimento di clemenza. È un dovere morale e giuridico". "Il numero impressionante di suicidi - sostiene Ottaviano Del Turco, neopresidente della Regione Abruzzo - richiede l’assunzione di responsabilità precise". E il ministro Castelli, nell’occhio del ciclone, dice: "Non è un carcere maledetto. Siamo di fronte a una situazione paradossale, dove da un lato c’è un apparente stato ottimale del penitenziario, dall’altro evidentemente una profonda realtà di disagio, visti gli episodi che succedono. Verranno prese comunque sicuramente delle misure rapide". Sulmona: Cnca; i suicidi in carcere sono omicidi mascherati
Il Messaggero, 30 aprile 2005
I suicidi in carcere "sono omicidi mascherati". Lo afferma il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca) secondo il quale "le difficili condizioni di vita nei penitenziari e l’assenza di speranza nel futuro sono le vere cause di queste tragedie" ed è "inutile, come fa il ministro Castelli, promettere più istituti di pena". Esprimendo il proprio dolore per la morte di Francesco Vendruccio, il Cnca afferma che "definire "modello" un carcere dove le persone decidono di ammazzarsi risulta non solo assolutamente incomprensibile, ma decisamente insultante la dignità delle persone che in questa struttura abitano e abiteranno per anni". "Risulta particolarmente grave - sostiene il Coordinamento - che la quasi totalità degli istituti di pena italiani (all’incirca 235 su 250) non abbia attivato strumenti di accoglienza per coloro che entrano in carcere, e in particolare per i giovani detenuti per reati non gravi, i soggetti più a rischio di atti di autolesionismo e suicidio". "Finché perdura questa situazione - conclude il Cnca - saremo costretti a denunciare periodicamente il dramma del sistema carcere italiano, tomba di ogni possibile speranza di futuro, luogo di induzione istituzionale a valutare anche l’ipotesi del proprio suicidio". Sulmona: risultato autopsia; Vedruccio è morto per asfissia
Agi, 30 aprile 2005
È morto per asfissia da impiccagione Francesco Vedruccio, il detenuto di 37 anni nativo di Squinzano (Lecce) morto suicida nel carcere di Sulmona nella sera di mercoledì scorso. È questo il risultato dell’autopsia eseguita oggi pomeriggio all’obitorio dell’ospedale di Sulmona dall’anatomopatologo Ilio Polidoro. Ci vorrà invece qualche giorno per conoscere l’esito degli esami tossicologici. Il magistrato, intanto, ha concesso il nulla osta per la sepoltura. Vedruccio, in carcere per associazione per delinquere, avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2010. Il detenuto si era impiccato alla grata della finestra del bagno della sua cella con il cordone della tuta. L’ipotesi di accusa nel fascicolo aperto dalla Procura di Sulmona contro ignoti è quella di istigazione al suicidio. Roma: situazione-limite a Rebibbia, l’allarme del Garante
Redattore Sociale, 30 aprile 2005
Lanciare un grido di allarme sulla situazione di Rebibbia penale, una situazione non più tollerabile per un carcere considerato fino a poco tempo fa un modello e un punto di riferimento. Sono gli scopi che hanno spinto il Garante Regionale dei Detenuti Angiolo Marroni a segnalare quanto sta avvenendo. "Non possiamo più assistere a questa situazione", ha detto. Secondo quanto risulta all’Ufficio del Garante, infatti, da dicembre manca uno dei magistrati di sorveglianza (che dovrebbe occuparsi dei detenuti il cui cognome comincia con le lettere A - M) e viene sostituito a singhiozzo, il casellario giudiziario funziona male, sono frequenti trasferimenti di detenuti impegnati in attività di formazione che sono costretti a sospendere. A questo si aggiungono la mancata retribuzione dell’attività lavorativa e procedure lunghe per il riconoscimento degli assegni familiari, un regolamento interno emanato nel 1938 e mai aggiornato. Il garante denuncia che l’assistenza sanitaria è carente - nonostante che negli ultimi giorni si sia firmata la convenzione con la Asl Rm B per riattivare l’assistenza odontoiatrica - e l’attività culturale interna "vicina all’azzeramento". "La goccia, poi, che ha fatto traboccare il vaso - dichiara - è stata una disposizione della Direzione che stabilisce che, visto che nelle stanze detentive sono stipati generi ed oggetti che vanno ben oltre il limite consentito i generi in eccesso trovati nelle celle saranno ritirati e inviati ai rispettivi familiari con un pacco postale a spese del detenuto. In realtà, questa disposizione, se applicata, provocherebbe una estrema limitatezza dei generi per l’igiene personale, del vestiario e dei libri consentiti e l’inadeguatezza di avere un solo fornellino in cella per detenuto". Tale misura è "incongruente rispetto alle reali necessità della vita detentiva". "Tutto ciò indica una situazione al limite di sopportazione - ha detto Marroni -. Sono diverse le urgenze unite da un denominatore comune: la violazione di alcuni dei diritti fondamentali non solo dei detenuti ma degli esseri umani. Il diritto alla salute, a un lavoro retribuito, allo studio, a condizioni di vita civili e a credere a un futuro diverso. Stiamo lavorando con la direzione perché si valuti quanto denunciato e si avviino con celerità tutte le misure utili ad affrontare questa situazione, recuperando un dialogo con i detenuti interrotto da tempo". Nuoro: record di congedi, 30 agenti in pensione per stress
L’Unione Sarda, 30 aprile 2005
Alla commissione dell’ospedale militare alla fine bastava soltanto guardarli in faccia per capire che venivano da Badu ‘e Carros. Trenta agenti in tre anni sono stati congedati per inidoneità al servizio. Sintomi: insonnia, ansia, affaticamento, il tanto che bastava perché i medici firmassero il foglio di congedo. "Tutti con la stessa motivazione - sottolinea Sebastiano Poddighe, rappresentante Cgil degli agenti penitenziari -: inidoneità al servizio per stress psico-fisico". Turni massacranti, ferie saltate, riposi accumulati: da anni, per i poliziotti di Badu ‘e Carros, il servizio è diventato una pena. I problemi sono i soliti, ormai incancreniti, tutti denunciati in un documento durissimo: sovraffollamento, carenza di organico, struttura che sta cadendo a pezzi. Ieri mattina sit-in degli agenti, che adesso si preparano alla marcia su Cagliari, per farsi sentire anche dal provveditore Francesco Massidda. Nel viale d’ingresso al carcere ci sono le bandiere di tutte le sigle sindacali, protesta evidentemente più forte questa volta anche dopo la rottura delle trattative (in tema di organizzazione del lavoro) col direttore Paolo Sanna. Una cosa mai accaduta prima, e sì che le tensioni a Badu ‘e Carros - dove negli ultimi cinque anni sono passati ventuno direttori - non sono mai mancate. Oggi (nonostante la benedetta apertura verso l’esterno con concerti, incontri con gli scrittori) il carcere barbaricino ha numeri che farebbero preoccupare pure chi non ha una formazione progressista. Trecentodieci detenuti (70, per la maggior parte extracomunitari, sono arrivati nelle ultime settimane) e 195 agenti. "Con tanti di noi che - spiegano Giovanni Conteddu del Sinappe, Giovanni Musu e Graziano Falchi del Sappe - sono impegnati nelle traduzioni, mentre sedici colleghi sono distaccati in altre sedi". Turni massacranti, e non a caso le assenze per malattia sono, fisse, non meno di quindici. "Alla fine non si è mai più di novanta in turno effettivo - sottolinea Raimondo Atzeni, sindacalista Cisl -. Una situazione che non può andare avanti ancora per molto. Insostenibile non solo per noi, ma anche per i detenuti". Altro che rieducazione. "Il disagio non è soltanto nostro - puntualizza Mauro Porceddu della Uil -. A Badu ‘e carros c’è una sola educatrice. Sapete cosa significa? Che benefici, richieste e permessi alla fine vengono concessi con estremo ritardo e questo non aiuta a creare un clima di serenità". Senza contare le condizioni della struttura. Il penitenziario"Un carcere fatiscente, con le celle di cinque metri per tre dove sono costretti a stare ben sette detenuti. Infissi andati a male, turche a vista, impianto elettrico non a norma. Come si fa - sottolinea Sebastiano Poddighe - a parlare di reinserimento se poi i detenuti vengono costretti a scontare la pena in queste condizioni?". Arriva il direttore Paolo Sanna e anche questa, così come la rottura delle trattative, è una prima volta. "Mai prima d’ora - avvertono i rappresentanti dei poliziotti penitenziari - un direttore si è avvicinato a un nostro sit-in". Sanna saluta, ascolta, legge il documento di cinque pagine firmato dai sindacati, dà qualche risposta ("Le carenze in organico? Le assunzioni non le faccio io. L’organizzazione del lavoro? Quattro riunioni in tre mesi, l’abbiamo ampiamente discussa. Strutture fatiscenti? Diverse opere sono state avviate"), saluta ancora e se ne torna in ufficio. A dire il vero Paolo Sanna aveva cercato di risolvere il problema. Dichiarò inagibile lo spazio della terza sezione ma il Dipartimento penitenziario lo ha obbligato a riaprirla. E per fargli un doppio piacere gli hanno pure mandato decine di nuovi detenuti. Assieme agli agenti c’è Vincenzo Floris, consigliere diessino e componente della commissione Diritti civili del Consiglio regionale che due mesi fa ha concluso il giro nelle carceri sarde. "A Badu ‘e Carros la situazione è persino peggiore di quella di Buoncammino, e adesso - sottolinea - si è ulteriormente aggravata. È necessario che il carcere diventi una priorità del territorio, e che tutte le forze politiche se ne facciano carico. Il Comune sta facendo tanto, ma è chiaro che bisogna lavorarci tutti perché è un problema che riguarda la città e il circondario". Un problema che arriva anche sul tavolo di Giovanni Tinebra, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Piera Serusi
Lo sfogo di una guardia
"Sei ore di servizio al giorno, ma qui vale solo sulla carta. Siamo in pochi, ecco il problema. E con le ore di straordinario che facciamo, i riposi saltati, le ferie rimandate, a casa quasi non ci torniamo più. Sarà brutto dirlo, ma è come se anche noi fossimo dietro le sbarre". Niente nome, professione agente di polizia penitenziaria, età sotto i cinquanta ma ne dimostra dieci di più, stipendio 1200 euro. "Cambierei lavoro subito, ma dove vado con una famiglia? Qui si vive male, perché il carcere non è certo un bel posto, e un carcere come questo poi... Cosa credete che non la capiamo la sofferenza dei detenuti costretti a stare in tanti dentro una piccola cella? Non è bello vedere esseri umani che vivono in quelle condizioni, in uno spazio dove c’è un tavolo, i letti, e il gabinetto alla turca in mezzo alla stanza. E quando c’è freddo qui si gela davvero perché le finestre, dove ci sono, si spalancano al minimo alito di vento e non c’è riscaldamento. Adesso poi che arriva l’estate abbiamo paura: col caldo, che diventa insopportabile, la tensione sale e per noi agenti il terrore è non riuscire a controllare la situazione". In 195 - che tra malattia, permessi, servizio di traduzione - diventano 90, per 310 detenuti. "I più extracomunitari. Da un’altra parte magari il confronto tra culture è una bella cosa ma qui, vi garantisco, diventa solo uno scontro. La preghiera a una certa ora, le abitudini diverse... Sapete quante volte dobbiamo intervenire per sedare una lite tra marocchini e sardi o napoletani?". A Badu ‘e Carros poi, gli agenti di polizia penitenziaria devono stare più attenti dei colleghi che lavorano in qualunque altro carcere del mondo. L’ingresso non ha un dispositivo di video sorveglianza, il gabbiotto dove stanno i monitor di controllo con la bella stagione diventa un forno, le garitte per la guardia non hanno copertura e se piove l’agente si inzuppa, se fa caldo squaglia. "Volete voi che uno non si ammali se è costretto a lavorare in queste condizioni?". A parte quelli che cedono e marcano malattia, ci sono i trenta riconosciuti inabili al lavoro dalla commissione medica del tribunale militare di Cagliari. Trenta in tre anni. Tutti con l’ansia, l’insonnia cronica, la depressione. "E servisse almeno a qualcosa. Se i detenuti vengono costretti a vivere in questo modo, se non si sentono rispettati come uomini, cosa credete che faranno una volta fuori?". Iraq: abusi su detenuti Abu Ghraib, Lynndie si dichiara colpevole
Ansa, 30 aprile 2005
Lynndie England, la riservista americana divenuta il simbolo dello scandalo relativo alle torture inflitte a detenuti iracheni dai loro carcerieri statunitensi nel famigerato carcere di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad, ha deciso di riconoscere la propria responsabilità, almeno in gran parte, per le sevizie di cui si è resa co-protagonista. Lunedì la 22enne soldatessa, già in stato di gravidanza all’epoca dei fatti, comparirà davanti alla corte marziale di Fort Hood, in Texas, e si dichiarerà colpevole di sette tra i nove capi d’imputazione pendenti a suo carico per maltrattamenti nei confronti di subordinati, violazione degli obblighi di servizio e atti osceni. Lo riferisce il quotidiano The New York Times, citando due diverse fonti giudiziarie riservate. La notizia, risalente a ieri sera, è stata confermata anche dai legali della donna. England, passibile di una condanna fino a sedici anni e mezzo di prigione, rischia di vedersene comunque infliggere undici; una delle fonti della magistratura militare Usa ha comunque ipotizzato che, in virtù dell’ammissione di colpevolezza, dovrebbe cavarsela con non più di trenta mesi di reclusione. La soldatessa è divenuta tristemente famosa per le foto che la ritraevano, esaltata e ilare, intenta a umiliare e terrorizzare alcuni prigionieri insieme ai propri commilitoni: in una compariva mentre teneva un iracheno al guinzaglio. Gran Bretagna: nuovo record della popolazione carceraria
Agi, 30 aprile 2005
La popolazione carceraria in Inghilterra e nel Galles ha raggiunto un nuovo record. A quanto riferito dal ministero dell’Interno, i detenuti nelle 139 strutture delle due regioni sono attualmente 75.550, sei in più dell’aprile del 2004 quando era stato stabilito il precedente primato. Le donne in prigione sono circa 4.500. Negli ultimi dieci anni, il numero dei detenuti è cresciuto in modo esponenziale: più 25mila. Per fare fronte al sovraffollamento carcerario sono stati creati 16mila nuovi posti letto dal 1977 a oggi e si sta lavorando per portare la capienza delle prigioni a 80.400 posti entro il 2007. La commissione parlamentare che si occupa degli istituti penitenziari è però scettica sul fatto che, vista la tendenza, gli ampliamenti previsti saranno sufficienti. Alessandria: detenuto truffava i suoi corrispondenti
Secolo XIX, 30 aprile 2005
Alessandria In carcere per scontare condanne definitive per una serie di reati, aveva escogitato il modo per guadagnare un po’ di soldi. Scriveva a persone truffate o vittime di usurai, offriva prima comprensione e solidarietà, poi chiedeva qualche migliaio di euro per aiutarle. A metterlo nei guai l’eccessivo numero di lettere e vaglia postali che arrivavano alla casa di reclusione di San Michele, dove era detenuto. Gli agenti di polizia penitenziaria si sono insospettiti per la mole di corrispondenza e le somme che arrivavano per posta. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore della Repubblica Claudio Poma, hanno individuato sei vittime (ma solo una ha presentato querela) e altri reati perseguibili d’ufficio. Gianluca Di Giovanni, 35 anni, originario di Varese, è accusato di estorsione, due episodi di millantato credito e truffa, tutti tentati senza riuscire a portarli a compimento. Il Pm ha chiesto il rinvio a giudizio, il difensore il giudizio abbreviato condizionato alla perizia psichiatrica. Il gip ha affidato l’incarico allo specialista alessandrino Mario Muti. Per essere sottoposto all’accertamento, Di Giovanni, attualmente detenuto in un carcere sardo, sarà trasferito in un istituto di pena del Piemonte. Intanto, su richiesta del sostituto Poma, il giudice di sorveglianza ha dichiarato Di Giovanni "delinquente professionale". L’uomo, alle spalle una serie di procedimenti per truffa, ricettazione, calunnia e un’estorsione, due anni fa stava scontando la pena nella casa di reclusione di San Michele, da dove scriveva molte lettere, ricevendo altrettanta consistente corrispondenza e somme di denaro, qualche migliaio di euro per volta. È emerso dalle indagini che l’uomo, attento lettore di rotocalchi e ascoltatore di trasmissioni televisive, iniziava a scrivere a chi aveva subito truffe o usura. Si presentava come una persona che, avendo sbagliato ma essendo cambiato, poteva comprendere il loro stato d’animo. Alcuni gli rispondevano. Nasceva una corrispondenza che diventava sempre più amichevole e persino affettuosa: è il caso di una signora alla quale Di Giovanni si rivolgeva come ad una mamma. Il passo successivo era la richiesta di soldi per aiutarli a trovare finanziamenti. Il varesino cercava di "lavorare" anche tra i detenuti, vantando amicizie presso varie autorità giudiziarie e quindi in grado di "ungere le ruote" per ottenere dei benefici. Un esempio: 5 mila euro per gli arresti domiciliari, 20 mila per l’obbligo di firma. In un caso Di Giovanni ha oltrepassato il segno, minacciano il parente di un detenuto di "bruciargli il ristorante" e di fargli rapire la moglie e i figli. Ma l’imputato si proponeva anche come collaboratore con le forze di polizia, sostenendo di essere a conoscenza di reati molto gravi (traffico di organi per minori, sequestro di bambini), notizie risultate non vere. Sulmona: Ottaviano Del Turco incontra direttore del Dap
Il Messaggero, 30 aprile 2005
"Ho chiesto al Direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tinebra, un incontro urgente per evitare che passi un’idea diversa della natura della nostra terra. Sono stato a visitare il carcere di Sulmona - ha aggiunto il presidente Ottaviano Del Turco - all’epoca del suicidio del sindaco di Roccaraso. Sulmona e l’Abruzzo non possono diventare il ricovero, sia pure coatto, di tutto ciò che il sistema carcerario italiano non può controllare sia per il livello di pericolosità sociale dei detenuti, sia per le loro condizioni psicofisiche". Ottaviano Del Turco ha poi insistito sottolineando che "il numero impressionante di suicidi richiede l’assunzione di responsabilità precise da parte del Dap e del Ministero della Giustizia. Occorre bandire giudizi superficiali e valutazioni che nascono dalla mancata conoscenza della natura particolare dei detenuti di Sulmona. A noi abruzzesi - ha concluso - non piace stare sulle pagine dei giornali ogni sei mesi per un caso drammatico come quello che si è consumato in questi giorni". L’incontro tra il presidente della Regione e il Direttore del Dap Giovanni Tenebra è stato fissato per la prossima settimana. Ieri intanto sono fioccate iniziative di vario genere, il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria ha chiesto un trasferimento in massa dei detenuti al fine di dare vita ad un ricambio totale della popolazione carceraria per interrompere questo assurdo ripetersi di suicidi. A. Man. Erika: sogno un’altra famiglia, voglio ricostruirmi una vita normale
Repubblica, 30 aprile 2005
"Voglio ricostruirmi una vita. Ho solo 21 anni. Sono ancora giovane, posso farcela. Devo. Non mi lascerò abbattere anche se è dura. Studierò. E poi... poi chissà, vorrei una vita normale. Una famiglia, magari". Erika De Nardo si tormenta le mani. Tamburella con le dita sul tavolo della cella. A guardarla così sembra davvero una giovane come tante, una ragazza di 21 anni. Pare impossibile che proprio quelle stesse mani sottili, delicate, abbiano ucciso sua madre Susy, suo fratellino Gianluca, nella loro casa di Novi Ligure (era il febbraio 2001). Erika forse intuisce il pensiero e subito nasconde le mani nelle maniche del maglione scuro. Ha un paio di pantaloni che non nascondono la figura alta, slanciata. No, non sembra proprio una detenuta. E neanche il carcere di Brescia ha l’aspetto di una prigione come le altre. Appena entrati ci si trova davanti un corridoio lungo, le pareti chiare, come un ospedale. All’ora di cena si sentono voci che si chiamano e si rispondono, vengono dalle celle che si aprono ai lati del corridoio. Dietro una di quelle porte, da due giorni Erika De Nardo sconta la sua pena: giovedì ha compiuto ventuno anni e ha lasciato il carcere minorile Beccaria di Milano. Da ieri la sua abitazione è una cella di quattro metri per quattro, due letti ai lati, pareti bianche, finestra affacciata sui pioppi che crescono dentro la cinta del carcere. Sulla pianura da cui arriva un vento che sa di primavera: un minimo di sollievo, ma anche una ragione per soffrire di più, la libertà è lì, a un passo Erika qui non è sola. Ha una compagna di cella, anche se per adesso le due ragazze si conoscono appena. Si studiano. Si scambiano poche parole. Del resto per Erika non sarà facile cancellare la terribile reputazione che la accompagna. Ormai a sentire il suo nome subito vengono in mente i dettagli di quell’omicidio, le coltellate, il tentativo di ingannare gli investigatori e perfino il padre. "Ma io ci proverò", esordisce guardando negli occhi i suoi primi visitatori. Tra loro il consigliere regionale Mario Scotti (Udc), da sempre impegnato nella tutela dei diritti dei carcerati. Ecco il colloquio fra il consigliere regionale Scotti e la ragazza.
Erika, lei è stata anni in un carcere minorile. Adesso è con detenute adulte... "Ho paura, sì, sono spaventata".
È stata condannata per l’omicidio di sua madre e di suo fratello. Ha paura di subire maltrattamenti o rappresaglie dalle altre detenute? "No. Non è per questo che sono preoccupata. Ma il carcere minorile è diverso, è un ambiente più... ovattato. Ti senti in qualche modo protetto. Adesso invece so che le cose cambieranno. Sono entrata nel mondo dei grandi, bisogna sapersela cavare". Gli occhi della ragazza si spostano lungo le pareti, studiano gli oggetti, non sono ancora abituati alla nuova cella. Erika fa una pausa poi aggiunge: "Non sarà facile, ma adesso devo pensare al futuro".
Come può immaginare la sua vita adesso? "Non mi devo lasciare andare. Me lo ripeto spesso, continuamente. Non posso permettermi di essere debole. Il trucco è... avere obiettivi, impegni, pensare ad andare avanti".
Obiettivi, quali? "Io sono rimasta indietro, mentre le ragazze della mia età andavano avanti. Vivevano. Adesso voglio imparare. Ho deciso, mi voglio iscrivere all’università, voglio studiare qui in carcere e laurearmi. Voglio recuperare, ricostruirmi pezzo per pezzo una vita. Ci vorranno tempo e pazienza".
Già, qui non è facile per una ragazza di ventuno anni. Ma fuori, quando sarà libera, potrebbe essere ancora più difficile. "Lo so benissimo".
Che vita sogna Erika? "Una vita normale. Quando sei in prigione la cosa che ti manca di più è proprio la normalità".
Provi a immaginarsi di nuovo libera. "Vorrei una casa, magari una famiglia".
Sarà possibile? "Io devo guardare avanti".
A suo padre cosa vorrebbe dirgli? Erika non risponde. Fa cenno di no con la testa.
E Omar? Erika tace ancora. Si alza. Il tempo è finito: la ragazza saluta, la voce per niente intimorita. "Voglio ritornare a vivere. Ce la farò, vedrete", ripete prima di andarsene. Ravenna: socializzare il carcere con progetti d’integrazione
Corriere della Romagna, 30 aprile 2005
Lavorare per integrare il carcere nel sistema del welfare cittadino. È l’obiettivo che si pone il tavolo di lavoro costituito attraverso un protocollo d’intesa (non ancora siglato, ma di fatto già operante) che ha coinvolto il Comitato locale per l’esecuzione penale - formato dal Comune, dalla Provincia, dal Cssa e dal Consorzio per i servizi sociali - e i diversi soggetti impegnati a vario titolo all’interno della casa circondariale (dal Sert al Centro per l’impiego, dalla Uisp alle cooperative sociali, dal Comitato cittadino antidroga fino alla Caritas e all’Arci, solo per citarne alcuni). Lo sviluppo di un tavolo di lavoro è stato uno dei tanti punti toccati all’interno del convegno "Il fantasma del carcere. Il laboratorio sociale del cambiamento", organizzato dal Consorzio per i servizi sociali che si è svolto ieri alla sala D’Attorre. "Una prima cosa importante - ha spiegato l’assessore ai Servizi sociali, Ilario Farabegoli - è già stata fatta. Mi riferisco alla strada che abbiamo tracciato con la promozione della mostra itinerante delle opere dei carcerati, che ha toccato prima il Magazzino del sale di Cervia e poi il Mercato coperto di Ravenna, e con la rappresentazione "I pescecani" della Compagnia della Fortezza. Vogliamo rimarcare come, anche all’interno del carcere, vi siano possibilità di esprimersi e di acquisire conoscenze".All’interno del carcere di Ravenna sono detenute 108 persone. Altrettanti si trovano in stato di semilibertà oppure sono agli arresti domiciliari. Altri 118 sono affidati ai servizi sociali. I prossimi passi concreti da compiere per migliorare le condizioni di vita dei detenuti verranno discussi all’interno dei Piani di zona, ma un indirizzo è chiaro. "Si dovrà esaminare - ha affermato Farabegoli - la possibilità di mettere in moto progetti che tendano a portare più persone al di fuori del carcere. Per reintegrare nella società persone sottoposte a misure penali è fondamentale porsi il problema della loro accoglienza quando escono dal carcere". Roma: a Regina Coeli troppi detenuti problemi vivibilità e sicurezza
Garante dei detenuti del Lazio, 30 aprile 2005
In questi giorni la popolazione carceraria di Regina Coeli, lo storico carcere romano, ha toccato la cifra record di 990 unità. La segnalazione arriva dall’Ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti diretto da Angiolo Marroni. La struttura di via della Lungara potrebbe contenere al massimo 800 detenuti ma solo lo scorso fine settimana sono stati registrati 50 nuovi ingressi. "Dalla parte degli operatori della polizia penitenziaria - ha detto Marroni - questo sovraffollamento si traduce in difficoltà nel gestire traduzioni, trasferimenti e piantonamenti in ospedale e, in generale, a garantire la sicurezza interna. Dal lato dei detenuti, invece, tutto ciò è causa di condizioni di vita insopportabili, considerando che in molte celle, disposte per contenere 4 o al massimo 5 persone, ne vivono, o meglio ne sopravvivono, 9. La stessa attività di socializzazione, educativa e di reinserimento, in una situazione di questo genere, ovviamente, viene ad essere compromessa". "Contatterò nei prossimi giorni la Direzione di Regina Coeli, a cui bisogna dare atto della serietà e correttezza con cui tenta di gestire questa difficile realtà - ha aggiunto Marroni - per poter valutare insieme quali contributi il Garante possa dare per alleviare questa difficile situazione".
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