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Toscana: recidività bassa con affidamento ai servizi sociali
Ansa, 11 maggio 2004
I condannati che scontano la pena con una misura alternativa alla detenzione quale l’affidamento in prova al servizio sociale hanno basse possibilità di diventare recidivi, cioè di reiterare il reato per cui erano stati condannati o di commetterne di altro tipo. Lo ha evidenziato la prima ricerca sulla recidiva svolta in Italia di cui sono stati resi noti i risultati durante un convegno a Firenze. La ricerca, che è preliminare ad un prossimo studio su scala nazionale, è stata compiuta in Toscana dal Provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero di Giustizia, in collaborazione con l’università di Firenze. Lo studio ha monitorato i comportamenti di 152 condannati, di cui la metà tossicodipendenti sottoposti a programmi terapeutici, nel periodo 1998 - 2003. Secondo gli esiti ottenuti, la percentuale di recidività è stata del 28.38% tra i tossicodipendenti, e del 18.84% fra gli altri soggetti. Rispetto ai reati per cui sono stati condannati, è risultato che i tossicodipendenti, se diventano recidivi durante l’affidamento in prova, tornano a commettere non solo reati contro il patrimonio (34%), cioè i reati per cui solitamente vengono arrestati, ma anche reati di altro genere (36.59%), tipo quelli contro la libertà personale e in violazione della legge sugli stupefacenti. Roma: gli negano il metadone, si impicca nell’androne del Ser.T.
Ansa, 9 maggio 2004
Un uomo aveva chiesto il metadone, ma gli operatori di un Ser.T. romano non glielo hanno potuto fornire. Allora è uscito e si è impiccato. Aveva detto: se non mi date il metadone, esco di qui e mi ammazzo, ma la quantità prevista era stata già data al tossicodipendente, 40 anni, il giorno prima e così gli operatori hanno proposto un farmaco diverso. L’uomo - secondo la polizia - si è ucciso nell’androne del palazzo del Ser.T., usando la cinghia dei suoi pantaloni. Sono in corso indagini. Il quarantenne - secondo quanto accertato dagli investigatori - non era la prima volta che tentava il suicidio e da diverso tempo veniva seguito dal Ser.T.. Il quarantenne aveva avuto - sempre in base alla ricostruzione - una accesa lite con il medico di turno, tanto che dal Ser.T., poco prima delle 13, era stato chiamato il 113 proprio perché il sanitario non poteva fornirgli altro metadone. Subito dopo la lite, avvenuta al secondo piano, il tossicodipendente è sceso al pianoterra e, secondo la ricostruzione della polizia, con la cintura dei pantaloni si è legato alla maniglia di una porta della stessa struttura e si è lasciato cadere. Una studentessa di medicina ha tentato di rianimare l’uomo, ma non c’è stato nulla da fare. Alle 13:03 al 113 è arrivata dal Ser.T. la seconda telefonata che segnalava un uomo impiccato.
Fondatore Villa Maraini: si poteva evitare sofferenza
"Provo una profonda pena, questo suicidio si poteva prevenire ed evitare": è questa la prima reazione di Massimo Barra, fondatore e direttore di Villa Maraini, alla notizia del suicidio di un tossicodipendente avvenuto oggi in un Ser.T. di Roma. "Nella maggior parte dei casi - ha detto Barra, che comunque preferisce non entrare nel merito del caso odierno - il metadone viene dato poco e male, i tossicodipendenti sono sotto-medicati di un farmaco che è fondamentale per la loro vita. Perchè i Ser.T. sono sotto-finanziati, operano in locali angusti e squallidi, sono discriminati e stigmatizzati in quanto portatori di interessi deboli, come sono quelli dei tossicodipendenti". Per Barra è scandaloso anche che Villa Maraini, "che, come centro antidroga del centro sud, sopperisce alle deficienze strutturali dei Ser.T. (è aperta 24 ore su 24 e assiste circa 3000 persone l’anno) non ha avuto riconosciuto un soldo di finanziamento e gli operatori lavorano senza stipendio". In particolare Barra si schiera contro i politici, che, secondo lui fanno "la politica dello struzzo". "In base alla nostra esperienza - ha detto il fondatore dell’associazione di volontariato - la sotto-medicazione dipende dalla inadeguatezza dei dosaggi e dei tempi che causano errori e provocano sofferenze ai tossicodipendenti. Anche quello di cui si parla oggi era un soggetto disperato, che richiama tutti alla propria responsabilità". I casi di disperazione di tossicodipendenti sotto-medicati - secondo il fondatore di Villa Maraini - non mancano. Barra ha ricordato in particolare quanto è avvenuto lo scorso anno all’ospedale di Tivoli, dove il mancato accesso alla terapia scatenò la reazione violenta di due tossicodipendenti. Vibo Valentia: detenuto s'impicca alla finestra con un lenzuolo
Ansa, 7 maggio 2004
Un detenuto nel carcere di Vibo Valentia, Carmine Notturno, di 37 anni, di Napoli, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo alla finestra. Il fatto è accaduto ieri, ma solo oggi se ne è avuta notizia. L’uomo, secondo quanto si è appreso, mercoledì era stato a Napoli per un processo ed in serata era stato nuovamente portato nel carcere vibonese. Nessuna informazione è stata fornita sui motivi della detenzione. Gli agenti della polizia penitenziaria si sono accorti quasi subito di quanto era accaduto e sono subito intervenuti chiamando anche il medico di guardia. Per l’uomo, però, non c’era più niente da fare. Notturno, secondo quanto riferito da chi lo ha frequentato all’interno dell’istituto per propri compiti istituzionali, ha sempre avuto un comportamento corretto, e frequentava a varie iniziative attuate all’interno del carcere, tra le quali quelle teatrali. Oggi è stata fatta l’autopsia, disposta dal sostituto procuratore della Repubblica di Vibo, Francesco Rotondo, che ha confermato la morte per asfissia. I suicidi tra i detenuti sono 17 volte più frequenti
Redattore sociale, 12 maggio 2004
I suicidi tra i detenuti sono 17 volte più frequenti rispetto alla media della popolazione italiana. Più a rischio i primi 6 mesi di detenzione. Ricerca dell’associazione "A buon diritto". La pena di morte è stata abolita da tempo, ma per alcuni detenuti varcare la soglia del carcere produce ancora lo stesso, tragico risultato. All’interno dei penitenziari, infatti, il tasso di suicidi nel 2003 è stato pari a 11,2 ogni 10mila detenuti, ovvero 17 volte più alto di quello registrato tra la popolazione italiana. Questo il dato principale emerso dalla seconda edizione della ricerca "Così si muore in galera", realizzata dall’associazione "A Buon Diritto" e illustrata oggi in Campidoglio nel corso della presentazione del nuovo ufficio del Garante delle persone private della libertà personale, istituito per la prima volta in Italia dal Comune di Roma, che ha nominato garante Luigi Manconi. La ricerca di "A Buon Diritto", curata dallo stesso Manconi insieme ad Andrea Boraschi ed Elina Lo Voi, indica nel primissimo periodo di detenzione la fase più a rischio suicidio. Nel 2002 e nel 2003, infatti, oltre il 60 per cento dei suicidi è avvenuto entro il primo anno di reclusione, e l’anno scorso il 51,6 per cento si è verificato addirittura entro i primi sei mesi. "L’ingresso e la prima permanenza nel carcere – ha spiegato a questo proposito Manconi – costituiscono la fase più delicata della detenzione. E’ lì che vanno concentrate le energie e le risorse. La sola via per ridurre il numero dei suicidi passa attraverso il funzionamento dei presidi nuovi giunti, e l’aumento del numero degli psicologi, dei medici, degli assistenti sociali e dei volontari". Considerando i casi di suicidio nelle varie fasce d’età, la ricerca evidenzia anche che a uccidersi spesso sono reclusi giovani o molto giovani. Più del 47 per cento dei casi, infatti, riguarda detenuti tra i 18 e i 34 anni. "Nelle carceri affollate – ha aggiunto Manconi – ci si uccide molto di più di quanto si faccia in quelle dove le presenze dei detenuti non eccedono il numero previsto. Nel 2002, infatti, il 93 per cento dei suicidi si sono verificati in carceri affollate, e nel 2003 questo dato viene sostanzialmente confermato, con il 92,1 per cento". Più precisamente, due anni fa il tasso di suicidio nelle carceri affollate risultava essere pari a 10,8 per 10mila reclusi, più alto di 4,6 punti di quello rilevato negli istituti di pena non affollati (6,2 per 10mila reclusi), mentre l’anno scorso lo stesso scarto è stato pari a 3,6 punti. Un dato, questo, aggravato dal fatto che circa tre quarti dei penitenziari sono affollati: 149 nel 2002 e 147 l’anno successivo, su un totale di 205. In termini assoluti, negli ultimi due anni si è registrata una lieve flessione nel numero complessivo dei suicidi dietro le sbarre. Dopo il picco del 2001, quando furono 72, nel 2002 e 2003 i morti per suicidio in carcere sono stati, rispettivamente, 57 e 65. La situazione, da questo punto di vista, sembra essersi stabilizzata, ma su valori molto alti, che corrispondono, in media, a un suicidio ogni 5-6 giorni. In termini geografici, invece, la maglia nera spetta alla Lombardia e alla Sardegna, con 17 morti negli ultimi due anni, seguite da Campania (12 suicidi), Emilia Romagna, Sicilia e Lazio (11 ciascuna) e Piemonte (8). Ma il dato che fa davvero scalpore, in questo contesto, è quello della Sardegna. I 17 suicidi del biennio, infatti, si sono verificati in una popolazione carceraria che conta solo 1.800 detenuti, a fronte degli 8.500 reclusi della Lombardia. Firenze: detenuto ottiene domiciliari per fare il "mammo"
Vita, 11 maggio 2004
Condannato
con sentenza definitiva a scontare un residuo pena di tre anni e dieci mesi di
reclusione per rapina, si costituisce in carcere e ottiene gli arresti
domiciliari perché deve fare il "mammo". È la vicenda capitata a
Carlo Tesseri, anarchico di 39 anni, che lo scorso 20 aprile si è visto
confermare dalla Cassazione la decisione presa dai giudici della corte d’assise
d’appello della Capitale a conclusione del processo sull’organizzazione
rivoluzionaria anarchica che ruotava intorno a un gruppo romano. Tesseri, infatti, è disoccupato, mentre la moglie, Cristina Lo Forte, 40 anni (coinvolta, ma assolta, nell’ambito della stessa vicenda giudiziaria), e’ impiegata dal 6 aprile presso una ditta a Montecatini Terme e, vista "la precaria situazione economica della famiglia Tesseri", non può "rinunciare al suo lavoro per dedicarsi alla bambina". Non solo, ma la famiglia Tesseri - si legge ancora nel documento - "non dispone di alcuna forma di sostegno, neanche da parte di parenti che possano occuparsi della bambina negli orari in cui la madre lavora". Il padre, dunque, "risulta essere l’unica persona" in grado di accudire la piccola. L’avvocato Petrucci ha fatto anche presente ai giudici che Tesseri aveva già usufruito in precedenza della misura alternativa della detenzione domiciliare, disposta dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna nel settembre del 2000, e "rispettato sempre gli obblighi imposti. E in questi anni ha tenuto una regolare condotta di vita occupandosi del lavoro e della famiglia". Padova: giornata di studi "Carcere: l’alternativa che non c’è"
Redattore sociale, 12 maggio 2004
Oggi più di 120mila persone in Italia stanno scontando una pena usufruendo di qualche misura alternativa alla detenzione, uno strumento importante per dare concretezza al principio costituzionale di risocializzazione dei condannati attraverso lo sviluppo della loro personalità in una situazione di vita "normale". Però le carceri sono comunque affollate di persone con pene brevi e brevissime, segno evidente che i meccanismi di accesso alle alternative spesso non funzionano. Sono ancora troppi gli ostacoli che impediscono l’avvio dei percorsi di reinserimento tramite l’ammissione ad una misura alternativa, oppure che portano al fallimento dei percorsi già avviati, problematiche che verranno discusse in occasione della Giornata di studi "Carcere: l’alternativa che non c’è", che si svolgerà il 14 maggio prossimo nella Casa di Reclusione di Padova. L’iniziativa è organizzata dal Centro di Documentazione Due Palazzi, dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e dalla direzione dell’Istituto Penitenziario. Più di 400 persone dall’esterno, magistrati, operatori sociali, avvocati, esperti di problemi carcerari come Franco Corleone, Alessandro Margara, Sergio Segio, si confronteranno con i detenuti sui temi che riguardano i percorsi di reinserimento sociale e le risorse che il territorio offre. Verrà anche costituito un tavolo di lavoro, con lo scopo di ricercare le soluzioni che consentano il superamento delle difficoltà legate alla concessione delle misure alternative e arrivare, così, alla stesura di un documento che impegni tutti i soggetti sociali coinvolti nell’amministrazione della giustizia ad incentivare l’utilizzo delle forme alternative di pena ed a promuoverne la conoscenza nell’opinione pubblica. "Risvegliato dai lupi": raccontata la storia di fra Beppe Prioli
Redattore sociale, 12 maggio 2004
"Risvegliato dai lupi": è il titolo del volume della giornalista Emanuela Zuccalà per le Paoline, che racconta la vicenda di Beppe Prioli, frate francescano uscito dal coma dopo aver ricevuto in pochi giorni centinaia di lettere dai detenuti conosciuti in decenni di volontariato dietro le sbarre. Si tratta dell’ideale continuazione del precedente volume scritto da Fabio Finazzi, "Fratello lupo" (Paoline, 1996), dove erano raccolte le testimonianze di 5 ex-ergastolani "guariti" dall’amicizia con il francescano. In questo libro vengono raccontate le storie drammatiche di diversi detenuti incontrati da fra Beppe, vicende che testimoniano comunque un cammino di riscatto: Elia che stermina la sua famiglia, Massimo che brucia il cadavere dell’amante, Angelo che fugge di fronte all’omicidio di una persona che ama, don Lorenzo condannato per pedofilia, Vincenzo Andraous che ripercorre la sua metamorfosi da "killer delle carceri" a educatore tra i ragazzi disagiati, oltre agli amori nati o cresciuti dietro le sbarre, compreso quello di donne e madri in cella. Una costante, che attraversa le testimonianze raccolte, è il dialogo instaurato da fra Beppe, "fratello" di tutti gli assassini, e chi ne è rimasto vittima: un confronto che esprime ricerca e sofferenza. Le storie raccontate si riferiscono soprattutto a fatti molto noti (i delitti della Uno bianca, la strage di Bologna, il pluriomicidio di Cadrezzate, la vicenda del "killer delle carceri"). Da dove parte il libro? L’idea di scriverlo è nata dopo una banale caduta in camera del frate, avvenuta nel ‘97: oltre alla ferita alla testa, Prioli cade in coma. Ma i suoi "lupi", uomini dipinti come mostri dalle cronache dei Tg e dei quotidiani, lo hanno risvegliato dalla zona grigia, scrivendogli in migliaia; hanno chiesto permessi speciali per stargli vicino, restituendo a Beppe l’amicizia che lui aveva donato in trent’anni di vagabondaggi dietro le sbarre. Aperto dalla prefazione di don Luigi Ciotti (amico di fra Beppe) e dall’introduzione di Fabio Finazzi (che passa idealmente il testimone a Zuccalà), il volume si conclude con un’antologia di lettere dei detenuti e la postfazione di Alfredo Bonazzi, ex ergastolano, poeta apprezzato da Eugenio Montale. Chiamato la "belva di viale Zara", fu graziato negli anni Settanta per meriti letterari e da anni affianca fra Beppe in convegni e incontri nelle scuole sul tema del carcere e della devianza.
Intervista ad Emanuela Zuccalà
Ha incontrato nelle carceri un’umanità ai margini, accompagnata da fra Beppe Prioli, il francescano che da 40 anni gira i penitenziari di tutta Italia. Dovendo fare una cernita, ha scelto alcune storie che testimoniano un cammino verso il riscatto e un’attenta riflessione sul male compiuto. Emanuela Zuccalà, laureata in filosofia e giornalista professionista, è l’autrice di "Risvegliato dai lupi", volume fresco di stampa edito dalle Paoline; vive a Milano e lavora come free-lance per varie testate fra cui "Avvenire", "Io donna" (allegato del "Corriere della sera") e "Anna".
Lupi: perché questa metafora per definire i detenuti, che nell’immaginario collettivo sono concepiti talvolta come mostri, meno spesso come fratelli? "La scelta della metafora viene dal lupo di Gubbio, presente in alcuni episodi della vita di san Francesco: non tanto perché il santo di Assisi lo abbia ammansito, ma perché si adoperò affinché la città lo accettasse. Fra Beppe ha sempre cercato di stabilire un ponte tra carcere e territorio, facendo capire che il penitenziario non è un contenitore di mostri: se 40 anni fa in carcere ci si trovava soprattutto chi aveva fatto della delinquenza una scelta di vita, da 15 anni a questa parte tutte le fasce sociali sono rappresentate. Quindi non si può dire che questa realtà non ci riguarda. In passato il codice della malavita prevedeva che le mogli non fossero coinvolte; ora dietro le sbarre ci sono 2.500 donne, su 56mila detenuti".
È difficile questo approccio in un clima di massima sicurezza e di crescente allarme sociale… "Il discorso è difficile, ma un equivoco va cancellato: non si tratta di giustificare i delitti, ma di comprendere, di andare a capire cosa c’è dietro, di parlare più diffusamente di prevenzione e di volontariato in carcere, che mette in pratica questo approccio".
L’intervista televisiva a Donato Bilancia ha riacceso il dibattito non tanto sul carcere, ma sulle ricadute mediatiche di una trasmissione. Come valuti la vicenda? "Bilancia è un serial killer che non ha mai dato cenni di consapevolezza di ciò che ha fatto, che racconta anche i particolari morbosi dei suoi delitti. Nel libro sono pubblicate interviste selezionate che hanno qualcosa da dire a chi è fuori, che testimoniano un cammino di riscatto, un cambiamento di ottica. Non si può raccontare soltanto come si sono uccise delle donne, né prescindere dalla coscienza del male fatto: occorre continuare a crescere, a vivere anche in carcere. Nel raccogliere le storie la mediazione di fra Beppe è stata molto forte, ad esempio nel caso di Angelo Lo Vallo di Potenza, condannato per concorso in omicidio, tossicodipendente senza prospettive che ha ricevuto la solidarietà dei concittadini; ora ha scoperto di essere un grande lavoratore, si è guardato dentro e ha detto: Devo pagare per quello che ho fatto. Se si sceglie di intervistare un serial killer che da pochi anni sta in carcere, la prospettiva è diversa: ci vuole tempo per tornare su queste vicende, ora mi sembra troppo prematuro".
Occorre puntare di più sulla prevenzione fuori dal carcere? "Il punto di partenza del libro è che nessuno è irrecuperabile, nessuno è un mostro. Le storie riguardano principalmente detenuti giovani, con maggiore speranza di recupero, anche per approfondire il tema della prevenzione del disagio giovanile. Un altro filo conduttore è la droga, eroina soprattutto, ma anche cocaina: un quarto dei detenuti è tossicodipendente. Raccontiamo anche le esperienze di alcuni stranieri: Arthur, albanese, ha vissuto in Italia sentendosi sempre un estraneo. Ha accoltellato il vicino di casa dopo una lite; anche se aveva un lavoro, una casa, era sposato con una figlia, era arrivato da clandestino dopo molte peripezie, sentendosi escluso in qualche modo nonostante l’accoglienza della città verso di lui e il suo tentativo di integrarsi. Una storia che racconta come sia difficile inserirsi. In futuro vorrebbe fare il mediatore culturale, perché la vede come una via per riscattarsi dopo aver fallito in questo percorso. Un’altra storia, raccolta dalle detenute dalla Giudecca, è quella di una donna venuta in Italia dalla Russia perché troppo povera: un uomo anziano, che aveva promesso di mantenerla, invece l’ha ridotta alla fame, e lei lo ha ucciso".
Nel libro i ruoli si capovolgono, in un certo senso: il frate, da sempre sostegno dei detenuti, diventa colui che ha bisogno del loro aiuto, della loro vicinanza… "Assolutamente sì. Sapeva di essere amato, ma non si era mai posto il problema di poter contare su queste persone. Fra Beppe ha la capacità di dialogare con chiunque, dal professore universitario alla persona priva di cultura; le fa sentire importanti per lui, gli racconta i suoi problemi, la sua vita quotidiana, tende a gratificare sinceramente, a stabilire un rapporto alla pari, che emerge dalle lettere. Mai con il tentativo di convertire o indagare sul reato. Ci vogliono anni prima che una persona gli parli di quello che ha fatto; lui instaura un dialogo sul registro che scelgono i detenuti stessi, riesce sempre a sintonizzarsi con la persona che ha davanti, cogliendo la sua sensibilità".
Del carcere e dei detenuti (anche di quelli in uscita) si parla raramente in termini di riscatto. Una sfida che il libro ha voluto raccogliere? "Non sappiamo quanti detenuti compiano un autentico percorso; non volevamo fare un discorso sociologico, ma testimoniare un’altra faccia dei fatti di cronaca, diverso da quello che ci propinano i giornali. Si parla pochissimo del volontariato, del lavoro dei detenuti fuori e dentro il carcere. Storie di sofferenza che non si sa come andranno a finire, però è importante che ci sia stato un percorso di lucidità e consapevolezza in vista di un riscatto sociale. Occorre andare a guardare dietro la cronaca, fare un lavoro approfondito, parlare con le persone più volte, scrivere delle lettere prima di un’intervista. È importante la comprensione di cui parla don Ciotti nell’introduzione: capire le ragioni del disagio e del male, per prevenire certi delitti. Fra Beppe possiede un bagaglio di anni di esperienza che ti trasmette; è prezioso appoggiarsi a chi ha le mani in pasta, avere la mediazione di qualcuno che capisce il mondo del carcere e di chi ha commesso delitti".
Hai incontrato tanti detenuti: quale storia ti ha colpito maggiormente? "Tutte le storie per vari aspetti. Se devo segnalarne una, quella del prete pedofilo, l’escluso, chiamato don Lorenzo (è un nome fittizio). È un reato di fronte al quale tutti siamo nauseati, senza eccezione, più dell’assassino, del terrorista. L’ho incontrato diverse volte in modo informale. La sua è una storia dolorosissima, con un’infanzia difficile vissuta con genitori adottivi. Senza giustificare quello che ha fatto, il suo discorso è stato lucido. Con la mediazione di fra Beppe sono riuscita a parlarci. Ha confuso il desiderio di affetto con il desiderio sessuale; è stato agli arresti domiciliari e in varie comunità protette per tossicodipendenti, per sieropositivi, in un convento di frati. Sente che la Chiesa insabbia il problema di preti pedofili: la mela marcia viene messa da parte, ma non esiste una struttura per chi ha questo problema, tenendo presente la doppia colpa dei preti che sono venuti meno a un ruolo, oltre che aver fatto del male a un bambino. Mi ha detto: Ho sentito il sacerdozio come la mia pelle, dopo la crisi e momenti bui di solitudine ho deciso di restare nella Chiesa".
Entrando nel pianeta carcere, quali sono secondo te le emergenze più impellenti? "Sovraffollamento, sanità. Ma innanzitutto il problema è che il carcere è considerato come qualcosa che non riguarda tutti: si vuole spostare san Vittore perché è al centro della città e dà fastidio, dimenticando che in galera ci sono anche le persone normali. Non è una realtà che non appartiene alla città".
E che ruolo giocano il volontariato, i cappellani, le associazioni al suo interno? "Al nord il volontariato è più sviluppato, ci sono molte cooperative sociali. Nel carcere di Potenza, invece, non entra mai una figura esterna, escluse 2 suore che aiutano i detenuti; non esiste un laboratorio e si vive nell’ozio. Così a Reggio Calabria. Allo stesso tempo il volontariato è sopravvalutato: si tende a delegargli quello che compete alle istituzioni, agli enti locali; delimitare bene i ruoli è difficile, ma il volontariato non può farsi carico di certi aspetti istituzionali: deve rappresentare soprattutto una spinta propulsiva, culturale".
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