Rassegna stampa 21 luglio

 

Margara: la detenzione è spesso un punto di non ritorno

 

L’Altracittà, 21 luglio 2004

 

Della vicenda di Salvatore ne hanno parlato in molti. Eppure non è così inconsueto che un senza fissa dimora venga messo in carcere per pene che di solito vengono scontate con misure alternative alla detenzione. Chi non ha una posizione sociale stabile, come un clandestino, o chiunque non abbia una residenza ufficiale, difficilmente ha accesso alle misure alternative alla carcerazione, che invece sono previste per legge.

E la legge, almeno così si dice, è uguale per tutti. Abbiamo deciso di affrontare la questione con Alessandro Margara, che durante la sua lunga carriera di magistrato ha partecipato alle attività preparatorie della riforma Simeone del 1998, che ampliava le agevolazioni per il lavoro dei detenuti in misura alternativa al carcere. È stato inoltre magistrato di sorveglianza al Tribunale e Ufficio di sorveglianza di Firenze, l’organo giurisdizionale che ha la facoltà di modificare le modalità di esecuzione della pena, quando si siano evidenziati progressi nel processo di risocializzazione.

 

Salvatore è un caso particolare, ha un carattere aperto, si è costruito una rete di relazioni nel quartiere, e anche grazie a questo è stato scarcerato dopo una settimana. Cosa succede invece a chi vive diversamente la marginalità?

È proprio questo il problema. Nel caso di Salvatore la questione si è risolta velocemente anche perché ha funzionato questo allarme diffuso nel quartiere e arrivato fino al magistrato, che tra l’altro abita nella zona ed era già al corrente della situazione. Gli strumenti hanno funzionato proprio perché lui era conosciuto, ma uno che è senza arte né parte, che non ha riferimenti esterni, è probabile che resti in carcere per tutti i mesi che gli hanno dato. La legge prevede in caso di condanna inferiore a tre anni l’obbligo di invitare l’interessato a scegliere se vuole scontare una pena alternativa al carcere. All’imputato arriva un foglio nel quale viene comunicata la pena e sono elencate le misure alternative. Per usufruire di queste misure, però, deve essere fatta richiesta esplicita al giudice entro trenta giorni. Poi è il tribunale di sorveglianza a decidere se concedere o meno la misura alternativa. Nel frattempo la pena è sospesa. Per le persone senza fissa dimora, senza casa né tetto, può succedere che non vengano trovate per la notifica e quindi che quel foglio non venga mai consegnato. Oppure, anche se riescono a chiedere una misura alternativa, il non avere riferimenti esterni pregiudica l’accoglimento dell’istanza da parte del magistrato. È il giudice a decidere se applicare la misura alternativa in base ad una reperibilità reale. Come è il caso di Salvatore, che può essere trovato lì, nel sottopassaggio. In alcuni casi, nomadi che non stanno in un campo ma in una roulotte tollerata in una certa zona, hanno avuto l’affidamento in prova o la residenza domiciliare con riferimento a questa sede, che ha avuto valore di domicilio effettivo ai fini dell’esecuzione della pena. Si possono trovare anche altre soluzioni: ci sono delle sedi di accoglienza, residenze gestite da suore per i detenuti che escono in permesso premio, oppure per quelli che hanno l’affidamento ma che non hanno domicilio. Insomma in qualche modo si rimedia, ma la cosa non è scontata, è il giudice che decide e che valuta le soluzioni che gli si prospettano.

 

Quindi tutto dipende dalla discrezionalità del singolo giudice?

Mi ricordo che alcuni miei colleghi napoletani, volendo applicare come misura alternativa il lavoro, consideravano accettabile la vendita di sigarette di contrabbando, constatando che per un settore notevole della popolazione quella era l’unica possibilità. Il paradosso è che per il 99% erano condanne per contrabbando!

 

La legge prevede quindi una serie di misure alternative al carcere. Però se un imputato è clandestino o senza fissa dimora, tutte queste misure sono difficilmente applicabili. Non è paradossale, visto che questi soggetti avranno sicuramente più difficoltà di reinserimento una volta usciti dal carcere?

È proprio così. Se una persona che vive in condizioni di sradicamento sociale sta in galera tre mesi, quei fili leggeri che iniziava ad agganciare possono spezzarsi, se poi i mesi invece di essere tre, sono un anno o più, è ancora più facile che la persona torni alla deriva e andando alla deriva può di nuovo cadere in situazioni in cui commettere reati. Esiste un sistema, che non è proprio ineccepibile, che andrebbe in qualche modo integrato, reso più funzionale. A Sollicciano ci sono 1000 detenuti, di cui circa la metà hanno processi in corso e quindi non possono usufruire di misure alternative. Ma gli altri 500 potrebbero ottenerle, solo che gli educatori che dovrebbero informarli di questo sono quattro! Gli strumenti giuridici insomma esistono ma non sono integrati da un’organizzazione funzionante.

 

E le misure alternative alla detenzione sono risultate utili nel processo di recupero sociale dei soggetti disagiati?

Una recente ricerca dimostra che chi ha scontato la pena fuori dal carcere, in misura alternativa, nei cinque anni successivi ha recidive nel reato in percentuali molto modeste. E la ricerca è stata fatta su persone che avevano già recidive alle spalle! Le misure alternative servono. È un periodo utile per ancorarsi alle strutture sociali, a capire che c’è un ufficio del lavoro, o che attraverso organismi di solidarietà si può trovare qualcosa da fare, che ci sono insomma altre strade rispetto al reato.

Maurizio che tiene su la Torre di Pisa, articolo di Adriano Sofri

 

Panorama, 21 luglio 2004

 

Ho sotto gli occhi la fotografia di un detenuto uscito per la prima volta in permesso dopo otto anni. È quello che prepara il miglior caffè del carcere, molto apprezzato da Marco Pannella.

Quando un detenuto va in permesso per qualche ora o per qualche giorno, e magari non vedeva la luce della libertà da anni, gli sembra che tutte le persone lo guardino come per dire: "Questo dev’essere un detenuto". C’è Maurizio. È un bravo ragazzo come ce ne sono pochi al mondo. Ha 32 anni, gli ultimi otto li ha passati qui dentro.

Non lo meritava affatto, ma non vi racconterò perché: sarebbe lungo e poi voi avrete i vostri pregiudizi, e teneteveli pure. Il punto è che Maurizio è uscito nel mondo, dopo tutti questi anni, in permesso. Come la colomba spedita fuori dall’arca. È tornato dentro e ha raccontato tutto. È andato al mare. Siccome non sa nuotare, e ha una specie di fobia per l’acqua fonda (gliela faremo passare, prima o poi), è restato dove si toccava. Ragazze ce n’erano? Sì, molte, e anche famiglie, coi bambini... E le ragazze, com’erano? Certe belle, certe brutte, così. Maurizio è cauto, e fa bene. Quando uno dopo tanti anni esce, e poi rientra, la gente fa a gara a chiedergli quella cosa sola. Ha visto la piazza dei Miracoli, questo lo racconta più volentieri. Due volte, una volta di sera, un’altra di mattina presto: di mattina presto è più bella, con il cielo di madreperla rosa. Di sera ci è andato con la famiglia.

La sua famiglia è toscana, ma non avevano mai visto la Torre pendente e il Duomo e il Battistero e tutto. Eppure, vengono a visitare Maurizio ogni settimana da anni. Va bene, ma quando si va a visitare un figlio o un fratello in galera non si ha voglia di andare a vedere niente. Invece questa volta sono andati a vedere tutto e Pisa gli è sembrata bellissima, benché sia tutta un po’ storta, e non solo la Torre. Sono saliti su un trenino che fa il giro della piazza e si sono fatti la fotografia con la mano che tiene su la Torre che pende. Al cognato di Maurizio è piaciuto specialmente l’intonaco del Museo delle sinopie, e ha proposto a sua moglie di intonacare così anche la facciata della casa che si stanno costruendo, vicino a Vinci: Vinci, sapete, il paese di Leonardo. A cena sono andati da Mc Donald’s, le nipotine erano contente. Maurizio era stato un promettente ciclista prima della dannata galera, e la nostra suora gli ha prestato la sua bicicletta per farsi un giro in città. Bicicletta da donna e troppo bassa per lui, ma si è divertito lo stesso a pedalare a tutta forza sul lungarno.

È andato a trovare una professoressa che lo aiuterà il prossimo autunno, quando Maurizio frequenterà l’ultimo anno dell’Istituto agrario fuori, insieme agli alunni normali. La signora abita al numero 24 di una via, dirimpetto alle belle mura medievali, e Maurizio non riusciva a raccapezzarsi. Aveva trovato il numero 23, poi il numero 25, e mancava proprio il numero 24. In questi anni si era dimenticato tante cose, compresa l’abitudine di mettere i numeri pari da un lato e i dispari dall’altro. Quando finalmente è riuscito ad acchiappare il 24, non aveva il coraggio di dire alla signora perché aveva fatto tardi. Per consolarlo, gli abbiamo spiegato come funziona la toponomastica a Tokyo.

La signora gli ha chiesto se gli piacesse leggere, e che libro avesse letto di recente. Maurizio aveva letto, posso testimoniarlo, Il segreto di Luca di Silone, Il Principe di Machiavelli, e una vita di San Francesco di Chiara Frugoni, ma lì per lì non gliene è venuto in mente neanche uno, così si è vergognato di nuovo. Quando è rientrato mi ha chiesto di dargli tre libri e ha dichiarato che li avrebbe letti entro la notte. Gli ho dato Le tigri di Mompracem, La storia di Elsa Morante e L’isola del tesoro. A quest’ora (scrivo di notte) deve aver finito Le tigri di Mompracem e starà menando sciabolate sulla branda. Sappiate però che Maurizio conosce la musica e sa suonare, e nella chiesa del carcere suona l’armonium e la fisarmonica e canta.

Quando uno va in permesso tutti gli danno qualche incarico: telefonare a casa, comprare una canottiera gialla, eccetera. Io gli avevo chiesto di mangiare un gelato enorme alla mia salute. Maurizio è stato sbalordito dalla quantità di sapori del gelato e, cercando di indovinare i miei gusti, ne ha mangiato di pompelmo rosa, ananas, noce, pistacchio e melone. È anche andato col nostro prete, il quale dirige il seminario pisano, a vedere la Biblioteca dell’arcivescovado, che a partire dall’autunno aiuterà a riordinare e ricatalogare. Era un po’ in soggezione per tutti quei libri, per giunta così antichi e voluminosi, ma poi si è accorto che alcuni erano addirittura infilati con la costola in dentro e il taglio in fuori, sicché non si poteva neanche leggerne il titolo, e si è rinfrancato (i nomi tecnici glieli insegnerò io, che ho nostalgia di libri vecchi e di cataloghi).

Le regole del permesso gli prescrivevano di restare in casa dalle 10 di sera alle 6 di mattina: alle 6 e un minuto era già fuori, dopo aver rifatto il letto, fatto le pulizie, preparato il caffè ed essersi guardato cento volte allo specchio. Il caffè di Maurizio, con la crema, come si fa in carcere, sapete, si mette in un bicchiere un po’ del primo caffè che viene fuori, si zucchera parecchio, si mescola con convinzione mentre esce il resto del caffè, e si versa. Ci sono file di parlamentari trasversali, a cominciare da Marco Pannella, che vengono in visita nella nostra galera per bere il caffè di Maurizio. A volte penso che dovrebbe aprire un bar fuori, "Che bello ‘o cafè".A Maurizio fuori è piaciuto andare a ordinarsi il caffè nei bar, e mangiare le brioche croccanti alle 6 e mezzo di mattina. Quando un detenuto in permesso entra in un bar e chiede: "Un caffè, per favore", gli sembra senz’altro che il barista lo guardi, e anche la cassiera e tutti gli avventori lo guardino, e anche i cani e i gatti, pensando: "Questo è un detenuto". In realtà il secondo pomeriggio Maurizio ha incontrato al bar un agente penitenziario napoletano, che è stato molto contento di vederlo fuori, e gli ha offerto un Campari Soda. Non è che l’inizio.

Busto Arsizio: nella Casa Circondariale pesanti illegalità

 

Varese News, 21 luglio 2004

 

"Una gestione troppo autoritaria e poco rispettosa dei diritti dei detenuti". È un’accusa precisa quella lanciata dai consiglieri regionali Giovanni Martina, Rifondazione Comunista e dal radicale Alessandro Litta Modigliani.

Bersaglio dell’accusa è la direttrice del carcere di Busto Arsizio, Caterina Ciampoli, già trasferita ad Aosta in dicembre in seguito alle proteste in coro di detenuti e secondini e reintegrata il 3 maggio scorso dalla magistratura del lavoro, cui aveva fatto ricorso. L’atteggiamento inflessibilmente duro della direttrice nei confronti dei detenuti e l’incompatibilità relazionale con chi lavora nel carcere, non ultime le guardie, contrastano, a detta dei due consiglieri, con la tranquillità dei cinque mesi in cui Salvatore Anastasia era stato chiamato a succederle, non come sostituto ma come direttore a pieno titolo. "Ora - denuncia Martina - oltre al danno, abbiamo la beffa di avere un carcere con due direttori titolari in una regione in cui su 18 carceri, 8 non hanno un direttore".

Un ritorno all’istituto di pena che sembra aver peggiorato la situazione precedente: "Da quando è stata reintegrata - spiega Martina - la direttrice Ciampoli ha mostrato spirito vendicativo, negando sistematicamente ai detenuti i colloqui premiali con i congiunti e quelli con terze persone, rispedendo indietro i libri che una casa editrice aveva inviato ad un detenuto, e peggio di tutto riducendo ai minimi termini l’assistenza medica".

Sembra infatti che la dirigente sanitaria del carcere si sia vista negare negli ultimi giorni ben 20 richieste per ricoveri, esami, visite specialistiche e farmaci, in particolare psicofarmaci per i tossicodipendenti. Un esposto, corredato da una testimonianza di una infermiera, è stato inoltrato alla magistratura e al Prap (Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria): la direttrice avrebbe ingiunto alla donna di mettere dell’acqua nelle boccette al posto dei farmaci.

Ma non finisce qui: la direttrice è stata anche denunciata alla magistratura del lavoro per atteggiamento antisindacale verso i lavoratori del carcere. "Con il sostegno trasversale di esponenti politici di vari partiti - continuano i due consiglieri - abbiamo dato mandato ad un legale di depositare entro sabato una denuncia contro la direttrice al Tribunale di Busto Arsizio". Una mossa, questa, sostenuta dai detenuti, che hanno raccolto più di duecento firme, cioè più del 50% dei presenti nella struttura, ed inviate al Ministro della Giustizia Castelli.

"A nostro parere - concludono - occorre intervenire al più presto rimuovendo questa direttrice, prima che i detenuti reagiscano in modo estremo ad una situazione degradante ed intollerabile".

Monza: aprire un manicomio in carcere, l’ultima follia

 

Il Giorno, 21 luglio 2004

 

"Una follia. Il progetto di realizzare qui, nel carcere di Monza, un reparto per osservazione psichiatrica è una vera e propria follia". Lo ripete con insistenza Domenico Benemia, segretario regionale della Uil penitenziari. La proposta del provveditore regionale, Luigi Pagano, gli è andata di traverso. A lui come agli altri sindacalisti della Cgil, della Cisl e del Sag-Unsa. Hanno scritto una lettera urgente al ministro Roberto Castelli, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tinebra, e allo stesso Pagano. Una lettera che suona tanto come un avvertimento: "Se la proposta dovesse andare in porto, ci mobiliteremo con forti segnali di protesta", annuncia Benemia.

Il progetto è impegnativo. In via Sanquirico verrebbe realizzato "un centro di osservazione clinica dove accogliere detenuti con problemi psichici in fase acuta per un periodo massimo di 30 giorni - ha spiegato Francesco Bertè, direttore sanitario del carcere monzese -.

Poi, lo psichiatra prepara una sorta di "cartella clinica" e il detenuto viene rimandato nell’istituto di provenienza". A Monza arriverebbero carcerati da istituti lombardi che non hanno un servizio di psichiatria giornaliero o celle attrezzate per contenere le crisi dei malati psichici. In compenso, di rinforzi ancora non se ne parla. Il direttore sanitario li ha chiesti, eccome. Interpellato dal provveditorato, prima ha bocciato la proposta del centro di osservazione psichiatrica, ben consapevole dei gravi problemi non soltanto sanitari del carcere di Monza: i soldi per le medicine scarseggiano e spesso i detenuti devono pagarsele di tasca propria, medici e infermieri sono ridotti all’osso, gli educatori sono pochi e gli agenti di polizia penitenziaria sono quattro gatti.

Poi, però, Bertè non ha potuto fare altro che accettare. Anche perché l’istituto di pena di Cremona, che in origine avrebbe dovuto ospitare il reparto, non ha spazi a disposizione. A Monza, invece, anche se le celle sono sovraffollate in tutte le sezioni (i detenuti sono oltre settecento, circa 250 in più rispetto alla capienza tollerabile), gli spazi li hanno trovati. Verrebbero dedicate 5 celle singole vicine all’infermeria. Una posizione ideale. Lunedì mattina funzionari del provveditorato di Milano hanno fatto un primo sopralluogo in via Sanquirico. Oggi torneranno per studiare gli ultimi dettagli.

Ma gli agenti non sono disposti a stare a guardare. "Abbiamo scritto quintali di lettere e fax denunciando la grave situazione in cui versa il carcere di Monza e l’unica risposta è stata aumentare il carico di lavoro - ha continuato Benemia -. Una situazione che già è stata oggetto di attenzione da parte del precedente provveditore regionale, Felice Bocchino, arrivando anche a commissariare la gestione del carcere".

"Qui siamo allo sbando, si vive alla giornata - conclude il sindacalista -, ancora non abbiamo un direttore stabile: Rosalba Casella, in missione da Forlì, dovrebbe restare fino a settembre. E poi? Intanto noi agenti siamo costretti a fare turni massacranti anche di 8-10 ore in barba a un contratto che ne prevederebbe 6".

Appello di D’Elia a Castelli e Tinebra per Francesco Pazienza

 

Radicali.it, 21 luglio 2004

 

Francesco Pazienza, detenuto nel carcere di Livorno, è ormai da sette giorni in sciopero della fame per chiedere che gli organi competenti del ministero della giustizia assumano una decisione sulla sua richiesta di declassificazione dal regime penitenziario Eiv (Alto Indice di Vigilanza).

Sul caso di Francesco Pazienza, il Segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D’Elia ha lanciato un appello al Ministro della Giustizia Roberto Castelli e al Direttore Generale del Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria Giovanni Tinebra.

"Con la sua iniziativa nonviolenta Francesco Pazienza non sta ricattando nessuno, sta solo chiedendo una risposta a una istanza di declassificazione dal carcere duro che il detenuto ha inoltrato da mesi. Faccio appello al Ministro della Giustizia e al Direttore dell’Amministrazione Penitenziaria perché affrontino con serenità e urgenza una questione che è stata posta in modo corretto, rispettoso delle prerogative del governo del carcere e del diritto penitenziario.

Francesco Pazienza non ha rivolto a chi di dovere l’inaccettabile aut-aut: o mi declassificate o mi faccio morire di fame. Ha avanzato una richiesta legittima: che venga seriamente riesaminata la sua condizione di detenuto speciale dopo quattro anni di carcere duro quale a tutti gli effetti è il regime cosiddetto di Elevato Indice di Vigilanza. Vale ricordare che tale regime è appena un girone sopra quello più infernale del 41 bis ma per certi aspetti è ancora più insopportabile. Per chi vi è sottoposto è praticamente impossibile godere dei benefici carcerari previsti per tutti gli altri detenuti, ma a differenza del 41 bis contro la sua applicazione non vi è alcuna possibilità di reclamo davanti a un tribunale di sorveglianza o di ricorso in Cassazione.

Da questo punto di vista, con la sua azione nonviolenta, Francesco Pazienza sta sollevando un problema che non riguarda solo lui, ma altre centinaia di detenuti in Italia che sono sottoposti a un dominio pieno e incontrollato dell’amministrazione penitenziaria."

Catania: incontro con le donne del carcere di Bicocca

 

La Sicilia, 21 luglio 2004

 

"Noi pure, lo facciamo il carcere. Noi siamo donne di Casa. Casa Circondariale di Bicocca". Ironizzano, ridono e piangono, stizzite, stanche, arrese, battagliere, le donne dei detenuti sedute nella sala d’aspetto, una accanto all’altra, vicinissime e sconosciute, alcune ben truccate altre col viso strapazzato, perché la sveglia ha gridato all’alba, storie diverse e tutte uguali, il marito o compagno in carcere e loro ad aspettare i colloqui settimanali, i processi, i giudizi, gli avvocati, le visite, ad aspettare che escano dal carcere prima o poi, che ci si sposi prima o poi.

È lunedi, sono le dieci e le donne - fidanzate mogli compagne ma anche madri e sorelle, a volte tutto insieme, nella stessa donna - aspettano il turno per il colloquio, mentre i bambini scalpitano e sudano e non sanno proprio che fare, perché nello spiazzo sulle giostre si crepa dal caldo ma qua dentro è stretto, e meno male che c’è la macchinetta per le bibite, ma dura poco, e poi torna la noia, e la sete.

Ada si è alzata alle cinque, stamattina, ad esempio. "Ma cosa interessa a lei, è un’assistente sociale?". Assicuro che userò nomi diversi, scrivendo adesso di loro, e allora a poco a poco parlano, la rabbia e la diffidenza cedono il posto a una confidenza liberatoria, all’abbandono, alla tregua. "Vivo fuori Catania, ho fatto l’alba perché dovevo friggere le triglie per lui, ogni volta gli porto qualcosa, lui preferisce il pesce, lo spado arrosto. Quattro fogli di stagnola, e tutto resta caldo".

Niente dolci, però. È proibito. Le regole sono regole, e questa sala d’attesa non è a caso chiamata "bollettario" (che sta per "ricevuta"). Per ogni mano una richiesta, a ogni richiesta un bollettario. Parlano chiaro, i cartelli appesi al muro. Quattro colloqui al mese, ciascuno di un’ora, più altri due colloqui "premiali", per molti di loro. A scelta, lunedì martedì mercoledì o venerdì. Dalle 8,30 alle 15. Due telefonate al mese di dieci minuti ciascuna. Quattro pacchi al mese per complessivi 20 chili.

I pacchi viaggiano andata e ritorno a segnare il ritmo di un’apparente quotidianità. Un possibile equilibrio fra il dentro e il fuori. Dentro i pacchi ci sono triglie, cotolette di carne, patate al forno, melanzane arrosto, ma anche verdure da cucinare in stanza, e poi c’è la biancheria pulita, pantaloni più leggeri, magliette nuove. E le riviste. Un mesto e convulso transito fra il dentro e il fuori. Poi i sacchi si svuotano e ritornano indietro diversi.

Il piccolo Carlo dice orgoglioso che porta al padre le ciabatte di gomma nuove, uguali alle sue, e intanto le mostra, "non sono belle?". Lidia invece porta soprattutto riviste e qualche quotidiano. "A mio marito piace leggere, qua c’è la biblioteca ma non è molto fornita, e se vuoi un quotidiano per te devi prenotarne sette per una settimana, e costa troppo...".

Tornano indietro, i pacchi, più ammaccati e sfatti, ogni volta. Biancheria da lavare, libri letti, cose usate, da sgombrare o dimenticare, per fare spazio nella stanza.

La più angosciata è la signora Francesca, sessantenne. Non riesce a stare nemmeno seduta, va avanti e indietro nella sala, si sente fuori posto, "chiusa a chiave dentro un incubo, dovunque sono". Parlare le dà sollievo. "Deve ascoltarmi, non ho niente da nascondere, scriva pure tutto, però mi aiuti".

Usciamo fuori dalla stanza, il sole infierisce sull’erba sfatta delle aiuole. "Mio figlio è dentro da 18 mesi, 37 anni, incensurato, sono sicura che hanno fatto uno sbaglio, noi siamo gente seria, per vent’anni avevamo un bar nel centro della città, lui ha sempre lavorato come banconista e anche come rappresentante di moda, ma il fatto grave è che è malato, ha una gravissima malattia all’intestino che lui si rifiuta di curare, non prende le pillole della terapia, non fa la dieta, non esce più nemmeno per la boccata d’aria, non si cambia e non si rade, non parla più con nessuno, sta impazzendo... E per giunta la moglie separata non gli fa vedere i figli, per non fargli sapere che il padre è in carcere, cosa può fare una madre come me, adesso, se non impazzire..."

In mano, il sacchetto. Magliette pulite inutili, "perché tanto non le usa", e melanzane e pomodori, formaggio. "Ha imparato a fare la parmigiana quando in cella c’era il suo amico Franco, e lui era felice di avere questo amico, che gli insegnava a cucinare. Franco gli voleva bene, tanto che a Pasqua non partecipò alla festa per non lasciarlo solo in cella, perché lui stava male. Franco se n’è andato due mesi dopo e gli ha lasciato in regalo una grattugia e un fornellino elettrico. Lui li usa sempre pensando a questo ricordo, ma poi è precipitato nella disperazione. Non riusciamo più a parlargli".

Perché fra il dentro e il fuori c’è uno spazio grigio di mezzo, ed è circa sei cancelli più in là, è la sala colloqui dove si parla otto alla volta, alle pareti i disegni con Paperino fatti dai detenuti, in mezzo alla stanza un muretto di cemento a separare reclusi e parenti, che solo i bambini e le mani possono scavalcare. Dove si scambiano parole, richieste, silenzi, rimproveri.

Hai pagato l’affitto? Non ci sono soldi. Com’è finita col frigorifero? L’ho riparato. Ma si è rotto lo scaldabagno. Storie di mutui, di bambini con l’appendicite, di lotte col condominio. Di giornate elementari e complicatissime.

Fra il dentro e il fuori c’è uno spazio infinito e oscuro, che visto da qui ha i bordi neri e riquadrati delle inferriate, visto e vissuto fuori, dalle donne, è invece "libero a metà". Una libertà condizionata da una pena, uno sbaglio, un torto, un destino sbagliato, azzardato o per alcune solo distratto, da una rabbia trattenuta ogni giorno, alimentata ogni giorno, scontata ogni giorno tra il silenzio fuori e le grida in casa. Con una specie di orgogliosa vergogna, o disperata e vitale resistenza.

Maria ad esempio è una di quelle che non ne può più. Da dieci anni. E ne ha trentatré.

"Come lo devo chiamare, convivente?, compagno?! Compagno di sventura, ecco. (Ride nervosamente, stringe la borsa). Non siamo nemmeno sposati, abbiamo vissuto insieme 13 anni, io ne avevo 16 quando l’ho conosciuto... siamo fuggiti a 19, poi è nata subito la bambina, poi è nato l’altro figlio...

Lui è qui dentro da sei anni e ne deve scontare altri otto, ma io gliel’ho detto, se quando esci non fai come ti dico, io ti spacco la testa, ti ammazzo, perché già mi ha rovinato la vita... Lo sa che vita faccio io?"

Sveglia all’alba, di corsa all’altra parte della città, dove Maria ha una bancarella e vende fiori. Ritorno a casa alle otto di sera, ogni giorno, e peggio ancora in quelli di festa. "Però mi piace vendere fiori, sono troppo brava a fare i cuscini dei morti. Almeno non è come vendere patate e cipolle".

Per la festa dei morti il bambino l’aiuta a vendere i lumini, e ora che è estate, e non va a scuola, lui aiuta un amico che vende coni gelato. "Mi piace quello al pistacchio", aggiunge sorridendo. Ha otto anni, è contento di partecipare alla conversazione.

Maria ha già pronto il vestito da sposa. "Mi deve sposare, adesso. Ho i miei diritti di madre, di moglie, e di sorella anche, perché io gli ho sempre fatto anche da madre e da sorella, e adesso mi ammazzo di lavoro per pagargli gli avvocati... E guardi che rido per non piangere e poi io ho sempre fatto tutto da sola, senza l’aiuto di nessuno, se lui non tira dritto ce la farò da sola... Sono forte, io".

A una a una vanno allo sportello, danno i documenti per l’autorizzazione, lasciano i soldi per il congiunto. A una a una poi vengono chiamate, l’agente le accompagna nella sala colloqui.

Non tocca ancora a lei. Agata guarda l’orologio e sbuffa, ha un bel viso tondo da bambina, ma uno sguardo pieno di risentimento. Ventiquattro anni che sembrano ancor meno, se non ti guarda negli occhi. Poi sbuffa. "Lui è dentro da dieci mesi, prima era a Potenza. Vivo a Ragusa coi miei suoceri e i bambini. Uno ha sei anni e l’altro un anno. Che altro vuole sapere?".

Lui le scrive lettere quasi tutti i giorni, lei un po’ meno. Lei ha la licenza media, le piaceva studiare. Lui ora ha fatto gli esami di ammissione al secondo anno di ragioneria. Anche lei vuole diventare ragioniera, e poi iscriversi anche all’Università, ma adesso ci sono i bambini. "Io non sapevo che frequentava brutta gente. Adesso non so niente di quello che succederà".

Cosa gli ha portato, a suo marito?

"Che gli devo portare - si fa cupa, gli occhi azzurri diventano neri - io stessa sono un regalo, per lui".

Lina ascolta, e ride con complicità. Lavorava alla giostra di piazza Nettuno quando l’ha incontrato, poi hanno messo su casa a San Giovanni Galermo, "poi l’hanno preso", poi ha cominciato la sua vita da "mezza-carcerata", da sei anni. "Lavoro a ore e pulisco le scale, e sono ogni lunedi qua, e mando avanti da sola la famiglia, i due figli, combattendo con la gente che ci guarda male... e una volta a scuola una maestra ha dato uno schiaffo a mio figlio, e qualche volta c’è una parola di troppo perché il padre è carcerato, allora devo difendermi, mi rimbocco le maniche, che devo fare... E oggi ho pure perso l’autobus, per venire qui".

Tutte sul fronte, in lotta, in trincea, capendo qualcosa e nascondendosi altro, gridando e tacendo, fra il dentro e il fuori. Con una mutua complicità, fra sconosciute, ogni settimana, che non può essere amicizia ma non è nemmeno estraneità, è un peso comune, una comune attesa senza fondo.

"Questo non è un carcere normale, come piazza Lanza - mi spiega il bimbo delle ciabatte - questo è speciale, di massima sicurezza. Qui ci stanno quelli più importanti", e lo dice con una specie di orgoglio, e di fermezza.

 

Verona: scoperti alcuni casi di tubercolosi in carcere

 

L’Arena, 21 luglio 2004

 

Sono in corso esami clinici sui detenuti della casa circondariale di Montorio dopo la scoperta di tre casi di tubercolosi. Uno solo è risultato infettivante, cioè il bacillo potenzialmente potrebbe essere trasferito ad altre persone, mentre per altri due pazienti si tratta di forma di malattia "chiusa". Queste ultime due segnalazioni sono state trasmesse dall’ospedale al dipartimento malattie infettive - ufficio di profilassi dell’Ulss 20 coordinato dalla dottoressa Giuseppina Napoletano. La struttura è stata invece solo informata del paziente affetto da tubercolosi infettivante ed è in attesa di ricevere la denuncia. Il responsabile medico della casa circondariale, la dottoressa Gabriella Trenchi, ha avviato la campagna di prevenzione facendo sottoporre tutti i detenuti ai raggi x. La malattia può diffondersi attraverso le vie aeree, pertanto potrebbe essere contratta anche solo respirando se il portatore ha diffuso il bacillo nell’ambiente.

La situazione non è allarmante ed è soprattutto sotto controllo. Ma la psicosi cresce non solo tra i detenuti, ma anche tra persone che frequentano il carcere per motivi di lavoro (avvocati o agenti di polizia penitenziaria). Richieste di rassicurazioni sono state avanzate anche da qualche magistrato visto che la sua categoria, in tribunale, interroga i detenuti.

La prima forma "chiusa" della tubercolosi è stata riscontrata nella colonna vertebrale di un detenuto. Il bacillo, pertanto, è nelle ossa, di conseguenza non è infettivante. Stesso discorso vale per il secondo paziente, affetto da tubercolosi annidata nei linfonodi. Si tratta di due casi che non potrebbero mai diffondere un’epidemia. Difficile anche che il terzo paziente (già trasferito in ospedale) abbia potuto diffondere un vasto contagio. Finora, su poco più di settecento detenuti, i tre casi accertati rappresentano soltanto lo 0,4 per cento della popolazione di un ambiente chiuso.

La scoperta della tubercolosi, invece, rappresenta in assoluto un campanello d’allarme per la situazione in cui versa la casa circondariale di Verona. Ufficialmente dovrebbe ospitare quattrocentosessanta detenuti, in realtà ce ne sono moltissimi in più. Questo comporta non solo disagi, ma anche rischi per le condizioni igieniche. E se si aggiunge che l’amministrazione ha tagliato drasticamente anche i fondi per le pulizie, il pericolo che la situazione peggiori non è infondato.

La tubercolosi si trasmette attraverso l’aria e si diffonde così: l’ammalato, anche solo tossendo, parlando o starnutendo, trasferisce i bacilli dai polmoni all’ambiente. Rarissimi sono i casi di trasmissione cutanea. La malattia è curabile con i medicinali e terapie molto rigide. Nel Veronese, l’anno scorso, i casi di tubercolosi accertati sono stati 61, la maggior parte riguardanti non stranieri. Nel 2002 sono stati registrati 67 casi contro i 50 dell’anno precedente.

 

Rovigo: Pegoraro (Cgil-Fp), "ancora meno soldi per il carcere"

 

Il Gazzettino, 21 luglio 2004

 

La manovra economica del Governo "sancisce ufficialmente l’irreversibilità della crisi del sistema carcerario italiano". Lo afferma il coordinatore regionale veneto del sindacato settore penitenziario della Cgil, il rodigino Gianpietro Pegoraro.

"I tagli - aggiunge il sindacalista - incideranno sulle missioni del personale della polizia penitenziaria e del personale civile dell’amministrazione penitenziaria, sulla manutenzione degli istituti, sui processi di informatizzazione, sui mezzi di trasporto, e sugli affitti dei locali in uso ai centri di servizio sociale per adulti".

Inoltre Pegoraro critica le riduzioni per i servizi di missione del personale (quasi il 10% dell’intero bilancio 2004), per la manutenzione ordinaria delle carceri (meno 15%). "Con queste riduzioni - afferma il segretario regionale - diventerà ormai impossibile mantenere a livelli dignitosi le condizioni strutturali carceri italiane, molte delle quali obsolete e fatiscenti, come quella di Rovigo". "Già le precedenti leggi finanziarie - conclude il coordinatore Cgil - hanno già irrimediabilmente messo in ginocchio le carceri Italiane e le sue prospettive di evoluzione.

Dopo aver per tre anni di seguito ridotto i capitoli di bilancio per l’assistenza sanitaria in carcere, per le spese di mantenimento in carcere dei detenuti, per le attività di rieducazione e reinserimento sociale e per il lavoro assistiamo adesso all’epilogo".

Sardegna: cambiano i direttori a Nuoro, Isili e Mamone

 

L’Unione Sarda, 21 luglio 2004

 

A quattro mesi dall’ultimo avvicendamento, stamani nel carcere di Badu ‘e carros arriverà un nuovo direttore. Si tratta di Paolo Sanna inviato in incarico di "missione continuativa" per sostituire Luigi Magri che, giunto a Nuoro l’8 marzo, è già ripartito per frequentare un corso per dirigente. Il cambio viene definito "una beffa" da Giorgio Mustaro, dirigente della Cisl. Anche perché, Paolo Sanna viene trasferito a Badu ‘e carros dal carcere di Isili dopo una dura vertenza nata dalla conflittualità fra direttore e comandante (da Isili l’ispettore Pier Mario Atzori è stato inviato alla scuola di Monastir).

La situazione nei penitenziari sardi è al collasso", dice Mustaro denunciando le "conseguenze perverse" degli avvicendamenti: a Isili viene mandato, per due giorni la settimana, il dottor Alastra "che bene stava facendo a Mamone", dove per tre giorni è stato incaricato il collaboratore d’istituto Marco Porcu, mentre Sanna conserva anche la missione continuativa a Lanusei.

Insomma non sono bastate le assicurazioni del prefetto e un documento approvato l’altro giorno dal Consiglio comunale di Nuoro. "Giovedì", annuncia Giorgio Mustaro, se ne discuterà in Provincia e, alla luce degli ultimi fatti, assume una valenza ancora più forte la manifestazione già indetta per lunedì 26 luglio".

Latina: carcere inadeguato, servono interventi immediati

 

Il Messaggero, 21 luglio 2004

 

Serve un nuovo carcere, quello di Latina è inadeguato e non ci sono le condizioni, gli spazi, per ristrutturarlo e ampliarlo. Un’ulteriore conferma è arrivata dall’incontro di mercoledì, voluto e richiesto dal presidente della commissione speciale Sicurezza e Lotta alla criminalità della Regione, Fabrizio Cirilli. Un incontro che si è svolto alla direzione della Casa circondariale di via Aspromonte dove sono intervenuti, oltre al consigliere, i dirigenti dell’azienda Usl con il personale medico responsabile del Sert e della struttura di assistenza sanitaria penitenziaria, inoltre i rappresentanti della direzione e il personale medico del ministero di Grazia e giustizia.

Già nel corso del sopralluogo avvenuto dieci giorni fa, l’onorevole Cirilli aveva rilevato la situazione di assoluta precarietà della struttura, l’insufficienza del personale e la sostanziale invivibilità per chi ci lavora e per i detenuti.

Cosa è emerso da questo secondo incontro? "Visti i grossi limiti strutturali, la collocazione in un’area altamente popolata, e visto che la tipologia della struttura e la sua assoluta mancanza di spazi non consente - nemmeno a fronte di investimenti - alcun margine di miglioramento, rimane da capire e verificare se la realizzazione di una nuova struttura è stata adeguatamente richiesta e presa in considerazione nelle sedi opportune".

Per quanto riguarda gli aspetti sanitari è emerso che l’organizzazione messa in campo dalla Asl per garantire l’assistenza ai detenuti viene spesso vanificata dalla carenza di personale in organico. In sostanza può succedere che visite specialistiche, a volte molto delicate, subiscano grossi ritardi perché manca il personale necessario ad accompagnare il detenuto, le cosidette "traduzioni". "Il personale penitenziario - aggiunge Cirilli - subisce carichi di lavoro così stressanti che si ritrova a volte a dover decidere tra la sicurezza dell’istituto e la garanzia dei servizi previsti". C’è poi il problema delle tossicodipendenze, che interessa oltre il 40% dei detenuti in media. Gli intervenuti alla riunione hanno convenuto che la mancanza assoluta di "spazi", che non consente nemmeno di effettuare colloqui, lede e il più delle volte vanifica tutto il lavoro impostato dal Sert in collaborazione con il personale dell’istituto. "La carenza strutturale - continua il consigliere - porta spesso il personale del carcere a dover sistemare a dormire detenuti per terra, una situazione di completa promiscuità e sovraffollamento: detenuti in crisi di astinenza, detenuti comuni, sieropositivi in crisi di astinenza e così via. Tutto questo in un contesto in cui, in alcune notti, a garantire un eventuale intervento immediato in una cella ci sono in tutto non più di tre guardie penitenziarie".

L’onorevole Cirilli ora andrà in visita al carcere di Rieti dove sono già iniziati i lavori per la realizzazione di un nuovo istituto. "Contestualmente - spiega - sono in attesa di un incontro con il nuovo presidente Tinebra, direttore del Dipartimento Amministrazione penitenziaria, e con il sottosegretario alla Giustizia Valentino, per poter capire se e in che misura verranno affrontate le problematiche di Latina".

Francia: più di 100 suicidi all’anno nelle prigioni francesi

 

Le Monde Diplomatique, 21 luglio 2004

 

Il marcio è uscito allo scoperto grazie a testimonianze, libri, rapporti di parlamentari. È un affare ormai conosciuto da tutti. Non c’è più bisogno di discuterne: giustamente. Il pragmatismo del primo ministro Jean Pierre Raffarin può quindi indurlo ad affidare a Pierre Bédier, sottosegretario all’amministrazione penitenziaria con delega alle costruzioni, la creazione di 13.200 posti prima del 2007 su 28 nuove prigioni e la ristrutturazione di altre per permettere una capienza maggiore e costringere quindi dietro le sbarre molte più persone.

Stesso tipo di risposta per quanto riguarda l’"insicurezza" e la detenzione: si recluta nuovo personale penitenziario. Il primo vero problema posto dalle statistiche, è che non solo "dimentica" il conto dei prigionieri che muoiono fuori dalle mura - all’ospedale, per esempio, - ma soprattutto che esse sono generali: l’Ap si guarda bene infatti dal comunicare i risultati del suo conteggio macabro prigione per prigione, e mantiene un fitto alone di mistero che rende spesso impossibile ottenere chiare e precise spiegazioni sulle modalità in cui muoiono quelle donne e quegli uomini.

Perché? Forse perché i risultati sarebbero ancora più imbarazzanti, e a quel punto difficili da giustificare con il solo deterioramento delle condizioni materiali di detenzione o con la suddetta disperazione.

Perché si vedrebbe una sorprendente differenza tra una prigione e l’altra. Perché ci si renderebbe conto che questo termine onnicomprensivo, si riferisce nella realtà a situazioni molto diverse tra di loro. Se è noto che spesso molti suicidi vengono evitati grazie all’intervento sollecito del personale penitenziario, la mancanza di reattività di quest’ultimo in situazioni e in luoghi diversi è ancora più sorprendente.

Trattandosi di suicidi conclamati, l’Ap non smette di sbandierare la mancanza di personale. Se dunque lo stato ammette di non avere o non riuscire ad ottenere i mezzi per prevenire i suicidi tra persone di cui si conosce la propensione a passare ai fatti, come si può giustificare il mantenimento di un regime di detenzione incompatibile con un servizio di sostegno psicologico? In più l’Ap invoca spesso la violenza tra i detenuti o il racket. Certo. Ma stranamente dimentica altri aspetti: i trasferimenti, che rompendo i legami tessuti dai detenuti li allontanano di più dalle loro famiglie; gli isolamenti, riconosciuti come una forma di tortura; il rigetto o le brutali sospensioni dei colloqui o dei regimi di libertà condizionata in cui un individuo concentra tutte le sue speranze; le pressioni di alcuni secondini; le angherie e le vessazioni quotidiane. Tutto ciò che viene fatto per sfiancare un individuo e renderlo docile.

Se il cinismo e la disinvoltura caratterizzano quindi la gestione da parte dell’Ap di questi suicidi, le famiglie devono in più, quando la morte è sospetta, portare avanti una vera e propria battaglia per ottenere il minimo di informazioni precise sul decesso del loro caro: "Mio fratello Belgacem, aveva 19 anni - confessa Nadia Soltani - Era stato incarcerato per oltraggio a pubblico ufficiale e doveva scontare una pena di sette mesi di prigione, tradotti in poco meno di cinque con la condizionale. Ma è morto in circostanze poco chiare un mese prima di uscire". Quando la famiglia di Belgacem entra nel penitenziario per riconoscere il corpo, trova quest’ultimo interamente ricoperto da segni di colpi: "Durante il suo ultimo trasferimento, appena arrivato a Tarbes, viene messo in isolamento e picchiato durante una lite con i secondini (...) Sarà ritrovato appeso ad una delle sbarre della sua cella l’indomani (...) L’uso della "forza strettamente necessaria" [per farlo entrare in prigione] può spiegare il naso e la mascella fratturati, il cranio sfondato, senza contare i bozzi, segni di tagli e colpi, alcuni fatti da tacchi di scarpe?" Dalla creazione dell’Osservatorio sui suicidi e morti sospette in prigione, si contano sempre più casi - supportati da foto, lettere, testimonianze di altri detenuti o delle stesse famiglie - che dovrebbero almeno spingere all’apertura di inchieste serie e indipendenti. Per la verità le inchieste non mancano, ma di solito le conclusioni a cui giungono non fanno altro che rinsaldare la versione ufficiale, anche quando le prove raccolte dagli inquirenti non combaciano affatto...

Così nella ricostruzione dell’impiccagione di Belgacem Soltani "un secondino per raggiungere a fatica la griglia [alla quale Belgacem si è impiccato] ha dovuto per ben tre volte salire sulle spalle del direttore a suo volta montato su una sedia". E dire che al momento dei fatti non c’era neanche una sedia nella cella... Ugualmente, "nessun segno del cordone intorno al collo (...) né quelli del nodo, indicativi dell’impiccagione", aggiunge la sorella. Solo segni di botte erano visibili sul corpo.

Non si tratta quindi di processare l’Ap e il suo personale, ma soltanto di testimoniare casi in cui le prove sono sufficientemente tangibili e orrende da non poter in nessun modo giustificare una tale leggerezza: "Per fare in modo che l’inchiesta venga condotta come si deve e ottenere risultati, rapporti interrogatori, c’è stato bisogno di appellarsi al tribunale e alla direzione del carcere. (...) Belgacem ha potuto essere sepolto soltanto cinque mesi dopo la sua morte". Queste famiglie, la cui voce trova raramente eco e sostegno presso il mondo dell’associazionismo e della stampa, si raggruppano e si organizzano, decise a battersi: "per noi l’essenziale era avere una documentazione completa per passare tutti i gradi di giudizio in Francia e presentarci davanti alla giurisdizione europea con un dossier il più possibile solido. Dobbiamo la verità a Belgacem, e giustizia gli sarà resa un giorno, perché se la Francia negherà la verità, altri la potranno svelare utilizzando questo dossier". È più che urgente che lo stato ponga quindi fine e nella trasparenza più assoluta a queste pratiche penitenziarie.

Immigrazione: Fini e Pisanu su sentenza Corte Costituzionale

 

Sito Ministero dell’Interno, 21 luglio 2004

 

Con riferimento al dibattito avviato oggi in Consiglio dei Ministri il Vicepresidente del Consiglio, on. Gianfranco Fini e il Ministro dell’Interno, on. Giuseppe Pisanu desiderano precisare quanto segue in ordine al problema delle procedure di espulsione amministrativa:

1) la legge Turco-Napolitano aveva disciplinato l’espulsione amministrativa con accompagnamento alla frontiera di immigrati irregolari senza prevedere alcun atto di convalida da parte del magistrato. L’espulsione, decisa dal Questore, avveniva automaticamente e a quel punto per l’immigrato già espulso rimaneva solamente la possibilità di impugnare dall’estero il provvedimento rivolgendosi al Pretore.

2) la legge Bossi-Fini è intervenuta su questo aspetto introducendo la garanzia della convalida dell’espulsione da parte del magistrato, ferma restando la possibilità, per l’immigrato, di impugnare poi il provvedimento di fronte al Tribunale. Si è così introdotta la possibilità di due interventi della Magistratura sullo stesso provvedimento nel giro di due mesi.

3) la Corte Costituzionale ha ora affermato che la convalida del magistrato deve avvenire prima dell’espulsione, mentre la legge Bossi-Fini consentiva che potesse avvenire anche dopo. Naturalmente l’intervento normativo ora all’esame del Consiglio dei Ministri prevede l’adeguamento del comma 5 dell’art. 13 della legge Bossi-Fini alla sentenza della Corte Costituzionale.

Ragusa: avviato percorso creativo per quaranta detenuti

 

La Sicilia, 21 luglio 2004

 

Da oggi 40 detenuti del carcere di Ragusa potranno sperimentare un percorso creativo per sviluppare le proprie potenzialità artistiche, partecipando al progetto "Onement. Il primo uomo era un’artista". Il progetto di ricreazione corporale e intellettuale in favore dei detenuti della casa circondariale è stato illustrato ieri nella sala riunioni del carcere dalla rappresentante dell’associazione culturale "Yes art" Milena Nicosia, dalla vice direttrice della casa circondariale Giovanna Maltese e dall’assessore provinciale alle Politiche sociali Concetta Vindigni.

Il progetto si concluderà a settembre. Alla fine del corso di "Esperienza artistica" gli artisti detenuti saranno premiati in base al loro impegno didattico e umano e i lavori migliori, risultato di questo sforzo creativo, guidato attraverso una didattica, verranno esposti in una mostra mercato. "In questo progetto l’arte, la cultura, la filosofia e la psicologia si mettono al servizio del benessere e della esigenza di espressione artistica di uomini che sono momentaneamente incarcerati - dice la Nicosia - tramite l’insegnamento di un linguaggio espressivo nuovo, creativo e benefico che li aiuterà a comunicare con il mondo esterno, a costruire la loro personale segnaletica interiore nell’oceano incomprensibile dell’esistenza".

La didattica del corso si svolge nell’arco di 72 ore e punta alla simbiosi fra la manualità artigianale, il sentimento e l’intelletto, attraverso la volontà di capire l’arte. "Il progetto mira a migliorare la vita all’interno della realtà carceraria - spiega la vice direttrice Maltese - perché serve a fornire ai detenuti un metodo di auto aiuto, a fare pulizia dentro se stessi imparando a capirsi e ad autogestirsi, cercando di inserirsi meglio nella società esterna, nel momento in cui torneranno ad essere "fuori". dal carcere.

Gli insegnanti del corso oltre alla Nicosia, sono la pianista e compositrice Giuseppina Torre, il clarinettista e direttore d’orchestra Gianluca Campagnolo, il pittore e scultore Franco Iacono e lo scultore Giovanni Scalambrieri. Il corso verte sullo studio delle tecniche e degli stili pittorici dal medioevo ad oggi, sulle tecniche di preparazione della tela, dalla costruzione del telaio alla tiratura e imprimatura, sulla percezione visiva. La particolarità di alcune lezioni è data dalla presenza della musica come tecnica sperimentale, cioè ascoltando la musica si darà un valore alla linea e al colore".

Treviso: piccoli detenuti scrivono, esce il giornale dell’Ipm

 

Il Manifesto, 21 luglio 2004

 

Tre figure di ragazzi che saltano fuori dal vortice in copertina, sotto la testata. Sono gli stessi che balzano liberi sopra l’ultima pagina. In mezzo c’è la carta di Innocenti evasioni: pagine scritte, pensate, impaginate dai giovani detenuti dell’Istituto penale per minori di Treviso. Il primo numero del loro giornalino è stato pubblicato a giugno come supplemento di Volontari insieme. Ma quest’originale esperienza di informazione è destinata presto alle pagine on line del Centro di servizio per il volontariato. Subito "in primo piano" il carcere, in Albania, con la sintesi dei rapporti Osce e Amnesty International.

Ragazzi dietro le sbarre di Treviso che leggono l’articolo di Indrit Maraku sui detenuti albanesi maltrattati e torturati, pubblicato dall’Osservatorio sui Balcani. Innocenti evasioni, del resto, ha una redazione per lo più di nordafricani e immigrati dall’Est. Sono gli stessi che hanno frequentato il corso di grafica computerizzata attivato nel carcere minorile dai professori dell’Istituto Turazza. Con gli educatori hanno accarezzato l’idea di cimentarsi con un giornale. E grazie allo staff dei mediatori culturali i singoli "pezzi" hanno finito con il dar vita ai primi menabò. Così una canzone, una poesia, un racconto si sono trasformati in altrettante Innocenti evasioni che ora informano, comunicano, dialogano con tutta Treviso.

Gli articoli sono tutti rigorosamente scritti in due lingue. Una scelta precisa: nessuno rinuncia alle radici, tutti scrivono perché l’eco delle parole non si spenga una volta di più dentro l’Istituto penale per minori. "Si tratta di un ulteriore passo in avanti nella direzione di una migliore relazione con l’esterno, come altre iniziative già intraprese dal carcere in collaborazione con lo Sportello giustizia del Centro di servizio per il volontariato: dal percorso formativo "Voci di fuori, voci di dentro" con gli istituti superiori della provincia, alla partita di calcio giocata con alcuni studenti della scuola media Coletti di Treviso.

Il giornalino assume un valore anche dal punto di vista della crescita professionale dei ragazzi e quindi di un futuro reinserimento sociale: alcuni di loro hanno potuto mettere in pratica le conoscenze acquisite durante il corso di grafica computerizzata, ma il prodotto finale è il frutto delle loro idee e della loro abilità" raccontano i protagonisti di quest’originale avventura giornalistica.

È la musica che si conferma capace di interpretare al meglio emozioni, sogni e delusioni delle nuove generazioni. I cantanti anche in Albania vanno dritti al cuore dei ragazzi. Come Andi Shkoza che racconta la storia della giovane che delude i genitori, s’imbarca con un gommone rapita dalle promesse del fidanzato che gioca con il suo futuro: un lavoro da prostituta sull’altra sponda dell’Adriatico. "È uno dei miei cantanti preferiti. Fa un genere melodico, soprattutto per innamorati. Poi c’è il gruppo Rino-Ritem. Lo conosco bene, perché è della mia città, Valona. Era composto da quattro ragazzi. Uno è morto in un incidente durante il servizio militare e gli altri gli hanno dedicato una bellissima canzone hip hop", scrive M.N. nel suo articolo a pagina 3.

 

Musica zingara

 

Innocenti evasioni anche sulla scia della musica zingara: "Mile Kitic è un cantante molto famoso. Tutti i rom lo chiamano per i matrimoni e i compleanni. Lui arriva dalla Croazia e può rimanere anche una settimana, tutto spesato. Lo stesso vale per Vida Pavlovic e Kemal Malovcic: cominciano a cantare dalle 11 fino alle cinque del giorno dopo, con pause per bere e mangiare al tavolo preparato solo per loro" assicura B., entusiasta recensore del genere.

Ma a Treviso il debuttante giornalismo "minorile" si rivela tutt’altro che balbettante. Nessun timore reverenziale per le vere firme e le testate prestigiose. Anzi, il rumeno M.M. replica (fonti ed esperienza diretta alla mano) senza paura a Roberto Pizzo che il 18 marzo dalle colonne di Sette aveva raccontato le notti milanesi al ritmo del proibito manele: "È comparso nel 1992-93, suonato dai gruppi rom. Ma non è vero che in Romania è musica proibita, e nemmeno che radio e televisione non la trasmettono. I ricchi si portano addirittura i cantanti a casa per le feste, anniversari e matrimoni. Temi del manele sono l’amore, la fortuna, la gelosia. E sono tutte canzoni basate sulle storie vere. I cantanti di manele lavorano molto. Arrivano a produrre fino a quattro-cinque cd all’anno. Questo tipo di musica non è per niente volgare e la si può ascoltare liberamente".

Conclusione della replica a ritmo di manele, che si dipana intorno alla copertina languida di Atomic Ro-Top: "È vero che gli intellettuali e l’alta società lo considerano un genere musicale minore. Ma consiglio al signor giornalista di fare un viaggio in Romania per vedere com’è la vera situazione, magari con un giro by night delle discoteche".

 

La colla dei boschettari

 

Innocenti evasioni pubblica poi una specie di sintetico reportage dedicato ai "boschettari", i bambini rumeni che vivono nei canali delle fogne e che "si fanno" respirando colla dentro un sacchetto di plastica. Innocenza perduta come nella storia delle prime bande di piccoli borseggiatori, che all’inizio degli anni Novanta espatriavano dalla Moldova verso la Polonia o la Germania.

Ma dalle pagine del giornalino autoprodotto dai ragazzi dell’Istituto penale per minori di Treviso si apparecchia perfino un vero e proprio pranzo colombiano. D.F. rivela le ricette, suggerisce il dettaglio giusto, non trascura l’elenco degli ingredienti. Così dalla Colombia può arrivare in tavola arroz atollado prima del pollo ai ferri con peperoni e pepe rosso. Finale dolce, con mantecada e crema d’arancia.

Sfogliando si arriva fino alla "rubrica evasiva". I ragazzi si cimentano con la poesia: versi liberi, sentimento senza mediazioni, messaggi in bottiglia. Insomma, la forma più diretta che questi ragazzi hanno per scrutarsi dentro e vedersi fuori. La libertà di evadere, appunto. Inseguendo il ricordo della fidanzata persa il giorno dell’ingresso nell’Istituto di Treviso. Spremendo la nostalgia della vita senza pena.

Poesie che possono chiamare direttamente in causa il pregiudizio: "Siamo umani / Siamo gente come voi / Abbiamo due occhi / Abbiamo due mani / Non siamo animali / Abbiamo un grande cuore / Venite a trovarci / Abbiamo voglia di parlare / Abbiamo voglia di pensare / Abbiamo voglia di sognare / Ma soprattutto di non stare dietro le sbarre".

Innocenti evasioni. Il giornale dei ragazzi di Treviso, la città che alterna il verde Benetton a quello padano del sindaco Gobbo. La testata "adottata" dal volontariato, trevigiani che ogni giorno si spendono diversamente. Anche perché l’Istituto penale per minori non sia davvero l’ultima spiaggia per una redazione giovane, che si è dimostrata capace di un’edizione straordinaria...

Gorgona: una lite tra sardi dietro il delitto Zoroddu

 

L’Unione Sarda, 21 luglio 2004

 

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Livorno ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Gianni Cabitta, il detenuto oristanese recluso a Gorgona e accusato di aver ucciso a colpi di roncola il 9 gennaio scorso nell’isola-carcere un altro detenuto sardo, Martino Vincenzo Zoroddu di Nule. Per lo stesso reato risulta indagato in concorso un altro sardo, Francesco Corrias, nuorese, anche lui recluso a Gorgona e poi trasferito in un altro carcere. Ad armare la mano di Cabitta, che secondo il sostituto procuratore livornese Roberto Pennisi è l’esecutore materiale del delitto, sarebbero stati i pessimi rapporti tra lui e la vittima. Corrias, anche lui in attrito con Zoroddu, avrebbe aiutato il complice a disfarsi degli abiti insanguinati e a depistare le indagini. L’inchiesta della procura livornese adesso è chiusa e ben presto si procederà alla richiesta di rinvio a giudizio per i due sardi.

Il detenuto di Nule, prima del suo trasferimento alla Gorgona, scontava nel carcere di Alghero un residuo di pena per due omicidi e la partecipazione ad un sequestro di persona. Aveva cominciato ad usufruire di brevi permessi speciali. Fino al Natale del 2002 quando aveva deciso di non rientrare in cella e di darsi alla latitanza. Il 7 giugno dello scorso anno aveva però deciso di costituirsi e su sua richiesta era stato trasferito alla Gorgona. Secondo gli investigatori Zoroddu aveva pessimi rapporti con i suoi aggressori per questioni legate alla gestione delle attività di pastorizia: Gorgona è una colonia penale agricola dove i reclusi hanno piena libertà di movimento durante il giorno. A Zoroddu fu addirittura trovato in tasca un coltello a serramanico che, hanno spiegato gli inquirenti, solitamente utilizzava nella sua attività di pastore.

L’omicidio di Zoroddu, dunque, per gli investigatori, è risolto e la procura livornese è fiduciosa di concludere positivamente le indagini per un altro delitto, verificatosi due mesi dopo e nel quale rimase ucciso Francesco Lo Presti, siciliano. Anche per quell’episodio esiste un indagato: si tratta di un altro detenuto sardo, Pietro Pischedda (38 anni, originario di Oristano, detenuto a Gorgona dal 1998 per scontare una condanna a 24 anni per omicidio), che prima ha ammesso le sue responsabilità, salvo ritrattare la confessione qualche settimana dopo, per poi ammettere nuovamente, durante un altro interrogatorio, di aver ucciso lui Lo Presti a colpi di spranga. I fatti di sangue alla Gorgona erano costati il posto al direttore Carlo Mazzerbo e al comandante Giovanni Fancellu, entrambi sospesi dall’incarico.

Martino Zoroddu era stato ucciso a colpi di roncola il dieci gennaio scorso. Fin dall’inizio i sospetti si erano stati focalizzati su Francesco Corrias, nuorese di trent’anni, e Gianni Cabitta, oristanese, di 27, anche loro reclusi nell’isola dell’arcipelago toscano. Corrias sconta una condanna a sedici anni per l’omicidio di Mario Massaiu, commesso sei anni fa a Ferragosto a Oliena. Cabitta invece è stato condannato a otto anni di reclusione per una violenza sessuale di gruppo su un giovane omosessuale.

Milano: PC usati o rotti, i detenuti di Bollate li riciclano

 

Redattore sociale, 21 luglio 2004

 

Hai dei P.C. che non usi più e non sai dove metterli? Vuoi comprare dei P.C. d’occasione? Nel carcere di Bollate i detenuti e la P.C. DET (società nata per dare concreta esecuzione all’iniziativa

"Progetto Lavoro Detenuti") hanno dato vita ad un’interessante iniziativa di lavoro, dove si riciclano i P.C. che non si usano più, o perché sono rotti oppure obsoleti. Il principio è che nulla va sprecato e tutto riutilizzato.

Il progetto parte inizialmente in Lombardia e coinvolge inizialmente 15 detenuti della Casa di Detenzione e Pena di Bollate. Stipulata la convenzione con l’istituto, verranno forniti le Attrezzature e Materiali necessari ad iniziare le prime attività di selezione, pulizia, cernita e test funzionale di base sulle PDL.

Individuato un primo gruppo di lavoro, affiancato da operatori esterni che nel periodo di circa 2 settimane formeranno il primo livello di figura professionale ed individueranno quattro soggetti, due da indirizzare a gestione del magazzino e due come trainer tecnici. Dopo circa due mesi il gruppo è produttivo per le operazioni di cernita, pulizia e test o stoccaggio e gestione smaltimento.

In accordo con i Costruttori, aderenti e non, e la Regione Lombardia, saranno progettati ed attuati corsi di formazione professionale per Tecnici Riparatori delle linee di prodotto maggiormente presenti nel Parco installato delle aziende aderenti; corsi finanziati con fondi europei e regionali. In itinere saranno così proposti servizi sempre più specializzati sino ad ipotizzare centri di pre - configurazione con l’utilizzo di figure professionali di secondo livello.

Se si vuole contribuire affinché i detenuti possano imparare un mestiere e prepararsi a rientrare nella società, è possibile visitare il sito www.pcdet.it oppure mettersi in contatto tramite l’indirizzo e-mail: info@pcdet.com.

Gli obiettivi operativi sono quelli di: progettare, definire e realizzare un centro per il trattamento delle apparecchiature elettroniche che giungono al loro fine di vita operativo, specificatamente nel settore informatico, quelle che in gergo si chiamano PDL (postazioni di lavoro); individuare le principali Aziende Italiane nei comparti Industriale – Bancario – Assicurativo – Telecomunicazioni – Commercio, che possono convenzionare le attività legate al trattamento delle PDL; sensibilizzare Costruttori e Società di servizi ad appaltare o subappaltare tutto o parte del ciclo citato in relazione al grado di specializzazione e qualità che il centro potrà raggiungere nel tempo; promuovere, progettare, definire, realizzare ed ottimizzare le modalità di intervento e di raccordo tra attori Istituzionali e non, in modo da arrivare alla partenza del centro; collegare la realtà e le esperienze tecniche conseguite alla realtà delle Aziende seguendone la loro distribuzione sul territorio nazionale attivando quindi altri centri di trattamento; integrare e coordinare infine il progetto con tutti gli aspetti della Direttiva Obiettivo 52. Tutti obiettivi che rientrano, quindi, come piano esecutivo, nel più generico piano di interventi di orientamento in favore di detenuti ed ex-detenuti, per facilitare il loro accesso al mercato del lavoro.

Roma: presentato il libro "L’attesa. Racconti dal carcere"

 

Roma One, 21 luglio 2004

 

L’attesa. Racconti dal carcere, a cura di Luciana Scarcia

Herald-Editore (coll. Quaderni dal Carcere)

 

All’interno della struttura scolastica del 2° Centro Territoriale Permanente (Istituto Comprensivo Statale "Tiburtina Antica") che opera nella Casa Circondariale di Rebibbia N. C., dall’ottobre 2003 al giugno 2004, è stato realizzato un Laboratorio di Scrittura Creativa (2 incontri settimanali, per un totale di 116 ore), tenuto dall’insegnante Luciana Scarcia. Il Laboratorio ha dato la possibilità a un gruppo di detenuti di sperimentare attraverso la scrittura la narrazione di sé, della propria storia e del proprio immaginario, e di condividere collettivamente un’esperienza di crescita personale.

Da questa esperienza è nato il volume L’attesa. Racconti dal carcere (134 pag.), curato dall’insegnante del Laboratorio, e edito dalla Collana editoriale Quaderni dal Carcere (creata da Roberto Boiardi per valorizzare le esperienze formative in carcere e contribuire al reinserimento lavorativo dei detenuti).

Gli autori dei racconti, il cui titolo di studio è prevalentemente la licenza elementare e media, stanno scontando pene di durata e tipo diversi. Tre di questi autori hanno scritto i loro testi durante il ricovero nel reparto Infermeria dell’Istituto di pena; due durante la detenzione nel reparto di Alta Sorveglianza (nel quale la scuola ha organizzato un altro corso di scrittura).

Il tema dell’attesa, su cui i racconti si confrontano, è stato scelto per dare l’occasione di riflettere sul tempo della vita in carcere: tempo sospeso, attesa di eventi determinati da altri, ma pur sempre tempo di vita, al quale dare senso e dignità anche grazie alla scrittura.

Il volume ha ottenuto il patrocinio dell’Assessore alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, Maria Coscia, e contiene una postfazione del critico letterario Filippo La Porta.

 

Gli Autori

 

Giosy, Su Luvulesu, Andreas, Angelo D. Verdoni, V.C., Mario Falasca, A.N.N., Tango, F.A., Bade Maio, Ranieri Piccolomini Adami, G.S., Il Toscano, Paride De Mauro, Aldo Saiella, S.D., Vincenzo Bilotta.

Palermo: Malaspina, un teatro per “ragazzi fuori”

 

Ansa, 21 luglio 2004

 

Uno spazio teatrale per mettere in scena i loro sogni, una piscina per cercare nello sport una chance di rivincita, una serie di progetti di formazione per imparare un lavoro ed ottenere un riscatto sociale. Tutto questo è oggi il “Malaspina” di Palermo, il carcere minorile reso famoso dai film “Meri per sempre” e “Ragazzi fuori”. Quel cliché di violenza e sopraffazione descritto nella fiction cinematografica appare distante anni luce dall’immagine reale dell’istituto, che da diversi anni ha ormai avviato una serie di iniziative per favorire il reinserimento dei minori.

Il ‘Malaspinà si presenta all’ospite che per la prima volta entra dentro questa antica villa non come un carcere, ma come un’ oasi di pace e di verde circondata dai palazzi residenziali della città. Tra le camerate dipinte con murales e colori sgargianti c’è però una novità: un teatro costruito dagli stessi ragazzi che hanno partecipato anche ad un laboratorio di scenotecnica. Adesso, dopo avere già realizzato un cortometraggio con il regista Claudio Collovà e l’attrice Martina Lo Cascio, la sorella di Luigi, protagonista emergente del cinema italiano, parteciperanno anche a un corso di recitazione. Il nuovo spazio è stato appena inaugurato con tanto di banda musicale, dalla compagnia teatrale degli ex detenuti del Pagliarelli diretta da Lollo Franco.

E proprio l’ex direttrice del carcere palermitano, Rita Barbera, dirige oggi l’istituto di osservazione per minori Malaspina. È stata lei a fare da anfitrione, presentando l’iniziativa nel corso di una tavola rotonda a cui ha anche partecipato l’assessore regionale al lavoro Raffaele Stancanelli. Il ‘Malaspina’ ha infatti avviato da tempo numerosi progetti di formazione per i giovani, finanziati con Fondi Europei, come ha ricordato Michele Di Martino, direttore del Centro per la giustizia minorile della Sicilia: “seguono corsi per fare gli imbianchini, i pizzaioli, i meccanici. Insomma imparano un mestiere per quando saranno fuori”.

Come Vincenzo, 15 anni, che sette mesi fa ha rapinato un supermercato con un cacciavite: “Ma da dietro il bancone - racconta - il commissario mi ha fatto la sorpresa...”. Oggi quel cacciavite lo usa per riparare le auto e per costruire le scenografie degli spettacoli che metterà in scena. Il nuovo teatro è stato realizzato dai ragazzi nell’ambito del progetto Polis, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. Altri progetti riguardano corsi di ristorazione, di giardinaggio, di musicoterapia e di pittura. Ma non basta: al Malaspina sono stati costruiti anche un campo di calcetto e una piscina, con l’obiettivo non solo di avviare allo sport i 40 ragazzi ospiti dell’istituto e i 600 in affidamento a case famiglia ma anche di aprire queste strutture sportive alla città. Per fare in modo che i “ragazzi fuori” si sentano sempre più dentro la società e non siano degli esclusi.

 

 

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