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Un gol a San Vittore: in uscita un libro sorprendente
Candido Cannavò, ex direttore della Gazzetta dello Sport, ha trascorso otto mesi con i detenuti del carcere milanese. A febbraio le loro storie saranno in libreria
Vita, 30 gennaio 2004
Il drappo rosa legato al bracciolo destro della poltrona del suo studio nel cuore di Milano testimonia che il cordone ombelicale con la Gazzetta dello Sport non è stato ancora tagliato. Ma Candido Cannavò dal marzo del 2002, quando dopo 21 anni abbandonò la direzione della Rosea, è un "uomo di 73 anni in cerca di senso", come lui stesso si definisce. Una missione che negli ultimi otto mesi ha avuto come palcoscenico il carcere di San Vittore. Dal chiuso di quelle mura Cannavò ha tirato fuori un libro: "Libertà dietro le sbarre - Cronache da un carcere. La vita, la pena, la speranza" (ed. Rizzoli, 15 euro). Il giornalista presenterà al pubblico la sua seconda fatica letteraria all’inizio di febbraio. Lo affiancheranno Ferruccio de Bortoli, autore della prefazione, e l’arcivescovo Dionigi Tettamanzi, che ha voluto impreziosire il libro con una sua testimonianza.
Vita: Cosa ci fa un giornalista Sportivo a San Vittore? Candido Cannavò: È la stessa domanda che mi ha fatto Calisto Tanzi. Lui era lì per il crack Parmalat, io per assistere all’inaugurazione di una sala di registrazione televisiva. Un altro dei successi del direttore Pagano. In ogni modo, sono almeno 15 anni che frequento San Vittore. Vi portavo i campioni sportivi a parlare coi detenuti. Vita: Questa volta però lo sport non c’entra. Cannavò: All’inizio della mia carriera, quando ero alla Sicilia, ho condotto diverse inchieste sui manicomi e ho firmato un libro bianco sugli ospedali siciliani. Si intitolava: "I lazzaretti di Sicilia", la prima inchiesta sulla malasanità della mia regione. Non c’è quindi da stupirsi se uno che ha questa attitudine sia entrato in carcere. Vita: Per scoprire che cosa? Cannavò: Per un brivido. Vita: Un brivido? Cannavò: Vedere un bambino di appena 7 giorni in carcere ti fa un’impressione estrema. Poi però ti rendi conto che lì ha la sua mamma, le colleghe di cella sono affettuose, le agenti penitenziarie si preoccupano per lui. E poi c’è la sala giochi con l’altalena e un’assistenza sanitaria di tutto rispetto. Certo il suo panorama restano le sbarre, un mondo che non esiste. Ma il dramma vero arriva dopo. Vita: Quando? Cannavò: Dopo i tre anni il bambino non può stare dentro. Il suo approdo naturale sono i parenti, quando ci sono, o gli istituti. Per le madri sono autentiche tragedie. Per il bambino, uno smarrimento totale. Vita: In questi casi, però, la legge Finocchiaro prevede misure alternative al carcere… Cannavò: Sulla carta. In realtà sono norme inapplicabili. Di queste questioni non si occupa nessuno. Vita: L’indultino? Cannavò: Una presa per il culo. Che cosa vuole che gliene importi ai politici dei problemi del carcere! Non rendono. Lì non si raccolgono voti. Vita: Il ministro Castelli? Cannavò: Non mi pare che ne sappia granché di queste cose. Vita: Lei ha intervistato detenuti uomini e donne. Che differenze ci sono nel modo di affrontare la reclusione? Cannavò: Le donne si organizzano meglio. Si costruiscono il loro guscio, hanno innato il senso di fare comunità. Gli uomini sono imbranati. Vita: Di che cosa parlano i detenuti? Provano risentimento nei confronti della società? Cannavò: Si discute un po’ di tutto, dal loro passato al calcio. Quanto al risentimento non si può generalizzare. C’è chi dice di esser nato criminale, chi invece assicura che "dopo 25 anni non sono più la stessa persona" e implora: "dovete credermi!", fino al povero extracomunitario pescato in una retata che giura di essere innocente. Vita: Che sentimenti le hanno suscitato queste storie? Cannavò: Nella mia vita ho avuto esperienze diverse: a Catania ho fondato un gruppo di donatori del sangue per bimbi talassemici e un club per disabili. Ma considero il carcere come una delle esperienze umanamente più straordinarie. In certi minuti ho provato una sorta di sinistra ammirazione per certe intelligenze che sopravvivono lì dentro. A San Vittore c’è un ragazzo che si sta laureando in Scienze politiche con la media del 28,5. E ancora: un vero genio dei computer che dirige il call center. Deve scontare due ergastoli. Non uscirà mai. Vita: Come si vive il trascorrere del tempo? Cannavò: È impressionante. Parlano del 2020 come fosse domani. Il grande privilegio è il lavoro. La povertà invece è una cosa straziante: c’è chi non ha i soldi nemmeno per un francobollo. Vita: In questo senso giocano un ruolo decisivo i volontari. Cannavò: Il carcere è importante anche per loro. Ho incontrato avvocati, professori, medici che lì dentro hanno risolto i problemi della loro vita. Il rischio è di innamorarsi del carcere. Vita: Addirittura? Cannavò: Lì capisci quanto è stupido il mondo fuori. Vita: Tanto stupido che nello sport sembra non ci siano limiti all’uso del doping farmacologico e amministrativo. Cannavò: Sono dieci anni che parlo di economia da manicomio. Altro che business del calcio, questo è un business del cazzo. Come altro definire un mercato dove tutti sono indebitati fino al collo? Quanto ai medicinali, mi dicono che in America hanno invitato il farmaco per il doping sportivo. Un miscuglio di nandrolone, testosterone ed epo impossibile da rintracciare. Vita: Siamo alla vigilia della presentazione del libro. La sua frequentazione di San Vittore continuerà o siamo al capolinea? Cannavò: Il mio rapporto col carcere è irreversibile. Sono un condannato.
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