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Nils Christie, autore di saggi sulle politiche e il sistema penitenziario Intervista a Nils Christie a cura di Maurizio Giambalvo, febbraio 2004
Nils Christie è autore di molti saggi sulle politiche e il sistema penitenziario fra cui Il business penitenziario (Eleutera, 1996). M. Giambalvo, in Norvegia con una borsa di ricerca, ha intervistato Christie sul suo nuovo libro A suitable amount of crime. Città meno sicure, microcriminalità e devianza giovanile sempre più feroci, immigrati clandestini pronti ad ingrossare le fila del terrorismo internazionale. È noto come questo mix confuso di pseudo-categorie scientifiche, credenze popolari, statistiche lette al contrario e sensazioni a pelle, si sia trasformato da almeno un decennio in un "luogo comune" nel quale si ritrovano -indifferentemente, o con differenze quasi invisibili ad occhio nudo - schieramenti politici conservatori, sinistre più o meno liberal, destre più o meno estreme. Attraverso un gioco perverso di scambi (e di favori) reciproci, il senso comune, i media e l’agenda politica dei partiti e governi delle società occidentali (con qualche rarissima eccezione), hanno alacremente costruito un clima di allarme sociale generalizzato che ha finito con il legittimare tra l’altro la criminalizzazione dei migranti e più in generale l’attuazione di politiche sempre più aspre e repressive in ambito penale. Ciò che colpisce in questo processo non è l’inversione di tendenza delle politiche penali in sé, bensì il fatto che questa sorta di economia della paura si sia potuta sviluppare, di norma, in assenza di un documentabile incremento degli atti criminosi registrati e, in alcuni casi, grazie alla trasformazione di azioni e comportamenti in reati perseguibili penalmente. Un’occasione di riflessione su questi temi è data da A suitable amount of crime, titolo dell’ultimo libro di Nils Christie, criminologo norvegese che ha dedicato gran parte del suo impegno accademico e politico ad illuminare gli aspetti più oscuri dell’ossessione penitenziaria.
Circa dieci anni fa, in Il business penitenziario rivolgevi ai tuoi lettori un "avvertimento contro i recenti sviluppi nel campo del controllo del crimine" e, grazie ad un’analisi dei sistemi penali in Europa e negli Stati Uniti, mostravi che il carcere non è soltanto una struttura progettata per infliggere legalmente sofferenza ed uno strumento di controllo sociale, ma anche un vero e proprio business in continua espansione. Ora sta per uscire, contemporaneamente in edizione inglese e norvegese, il tuo "A suitable amount of crime", un libro che in italiano potrebbe essere intitolato "Una modica quantità di crimine", alludendo alla terminologia utilizzata nella legislazione sul consumo di droghe. In attesa di una traduzione italiana, puoi riassumerne l’idea di fondo? Molti autori girano intorno ad uno stesso tema per gran parte delle loro vite. Si può dire che, da quando ho cominciato a fare ricerca, e parliamo ormai di diversi decenni, alcune domande hanno assunto per me un ruolo centrale: qual è il significato del crimine? Che tipo di fenomeno è? Certamente esistono degli "atti deplorevoli", ma il "crimine" esiste? Che cosa intendiamo quando usiamo questo termine, e in quali condizioni lo usiamo? Questo fu il tema, già negli anni ‘50 della mia prima ricerca, uno studio sulle guardie dei campi di concentramento norvegesi. Come percepivano, quelle guardie, le loro azioni? Quei norvegesi che alla fine dell’occupazione nazista furono condannati per maltrattamenti e uccisioni nei campi, come consideravano i propri atti mentre li compivano? Erano crimini, secondo loro? No. Ed io tentai di descrivere il perché del loro punto di vista. Successivamente mi occupai di persone condannate ai lavori forzati perché ripetutamente avevano consumato grandi quantità di alcool in luoghi pubblici. Quando non fu più possibile considerarli criminali, si passò a considerarli malati e bisognosi di trattamento. Fenomeni paralleli nel campo delle droghe. Qui la questione divenne: quando una sostanza è una droga? E perché la vendita di alcune droghe è considerata un crimine mentre vendendone altre si diviene onorati membri della Camera di Commercio?
Ma se il crimine è così difficile da definire come spiegare il fatto che la popolazione penitenziaria è in aumento un po’ dovunque? Il numero delle persone detenute è spesso considerato come un riflesso della situazione del crimine in un dato paese, ma così non possiamo spiegare perché ci siano grandi variazioni nel numero dei detenuti tra paese e paese e persino nello stesso paese nel corso del tempo. Forse il problema si può trasformare in una spiegazione: dal momento che il crimine non esiste come entità stabile, come concetto esso si presta bene ad un uso flessibile: è come una spugna. Il termine può assorbire molti atti – e molta gente, ovviamente – quando le circostanze lo rendono utile. Ma può anche essere portato a ridurre il suo contenuto, quando ciò sia suitable, cioè opportuno per quelli che hanno la spugna tra le mani. Rendersene conto apre la strada a nuove domande ed a una discussione su quando abbastanza è abbastanza. Apre la strada per una discussione su quale sia una giusta quantità di crimine.
Nel libro tu chiarisci ancora una volta che le norme non sono, bensì diventano e che il crimine, in fondo, non esiste ... Esatto, credo che possiamo affermare che il crimine non esista: solo gli atti esistono, atti cui spesso si attribuiscono diversi significati in diversi contesti. Quando discutiamo, i nostri "dati" sono gli atti ed gli effetti che attribuiamo loro. Per fare un esempio, un limitato tasso di conoscenza reciproca entro un sistema sociale favorisce la possibilità che un atto venga considerato un crimine. Questo ovviamente ha conseguenze sulla percezione di cosa è un crimine e chi sono i criminali. In sistemi sociali con molta comunicazione interna, tu hai molte informazioni riguardo alla gente intorno a te. Invece, tra persone completamente sconosciute l’una all’altra, funzionari ufficiali deputati al controllo diventano l’unica alternativa. Ma alcune categorie di funzionari tendono a produrre crimine per il fatto stesso di esistere. Il crimine non esiste fino a quando un atto non sia passato attraverso un processo altamente specializzato di creazione di significato. L’istituzione penale si trova in una situazione analoga a quella di Re Mida. Questi, per quanto ne sappiamo, trasformava in oro tutto ciò che toccava e perciò finì col morire di fame. Molto di quello che la polizia tocca e tutto quello che le prigioni toccano, si trasforma in crimini e criminali; e possibili interpretazioni alternative degli atti commessi svaniscono.
Tu invece discuti alcuni casi in cui determinati atti e comportamenti deplorevoli non vengono considerati reati ma, letti in relazione al contesto, assumono un significato più complesso. Quando dico che gli atti non sono, bensì diventano, intendo anche che nemmeno le persone sono, esse diventano. Quando qualcuno compie un atto deplorevole, un’ampia rete di relazioni sociali, crea almeno incertezza su cosa sia crimine e anche chi siano i criminali. "Crimine" è solo uno dei modi possibili di classificare atti deplorevoli. Alcune ricerche riportano casi di maltrattamenti fisici su infermieri da parte degli anziani di cui si occupano, molti dei nostri figli talvolta hanno rubato qualche soldo dai nostri portafogli, ma nessuno si sognerebbe di definire crimini queste azioni e criminali chi le compie ...
D’accordo, però alcuni potrebbero rispondere che le statistiche sul crimine registrano atti molto più gravi… Io non ritengo particolarmente utile chiedersi quale sia lo sviluppo della situazione del crimine. Ciò non significa che le statistiche sul crimine siano prive d’interesse. Tali statistiche ci informano su fenomeni visti e registrati da una particolare società come crimini ed anche su ciò che accade a quelli considerati come i principali attori di questi crimini. Ti dicono che cosa il sistema, in un dato momento, definisce crimine e che ritiene opportuno occuparsene, o ha la capacità di occuparsene. Di conseguenza, le statistiche sono in sé un fenomeno sociale e come tale richiedono una interpretazione.. Questo modo di vedere le cose implica che non è molto utile chiedersi se il crimine è in aumento, stabile, o in diminuzione. Il crimine non esiste come entità data. Misurare le variazioni dell’occorrenza di un fenomeno che cambia il suo contenuto nel tempo, non mi sembra la più intrigante delle occupazioni!
Nel libro, tu preferisci spostare il fuoco del discorso su altri piani, ad esempio quello della tendenza, sempre più diffusa nelle nostre società, alla trasformazione in una sorta di universo monodimensionale in cui tutto assume senso e viene valutato in base alla sfera della razionalità economica. Tu lo definisci una sorta di imperialismo istituzionale per cui una delle "istituzioni" quella preposta alla produzione, al commercio ed allo scambio di denaro, finisce con l’invadere le altre sfere: quella della cura, quella della produzione di simboli e significati, e infine quella del potere e della politica. Questo tra l’altro spiegherebbe il ruolo assunto dalla politica criminale e dai discorsi su crimine, nel dibattito politico istituzionale. Prendiamo il caso della Norvegia, della Svezia e della Danimarca. Il crimine è arrivato al centro dell’attenzione politica. È arrivato, nel senso che non è stato sempre così. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, la "Kriminalpolitikk" - come si dice nelle lingue scandinave - era un termine del tutto inappropriato a descrivere ciò che accadeva. Non era la politica, o i politici che decidevano. Le decisioni venivano prese da "esperti" e poi, obbedientemente, messe in atto dai politici. Gli studiosi di legge avevano una incredibile influenza. I ministri della giustizia, fino al 1973, provenivano sempre dalla facoltà di giurisprudenza. Come avrebbero potuto avere delle opinioni in materia, se non fossero stati giudici o avvocati? Lo stesso valeva per i presidenti delle commissioni per gli affari legali. In Norvegia abbiamo avuto per venti anni la stessa persona come presidente di tale commissione. Non apparteneva al partito di governo. Le ragioni per cui sopravvisse tanto a lungo erano sostanzialmente due: in primo luogo le attività nel comitato legale non erano viste come parte centrale nella politica, ma piuttosto considerate come lavori tecnici; non c’era grande competizione per tale posizione. In secondo luogo, pur non avendo un educazione in campo legale, il suo modo di ragionare era molto vicino a quello dei giudici e col tempo fu quasi considerato uno di loro. E così per venti anni, quest’uomo tenne il crimine fuori dalla politica e la politica fuori dal crimine. Ma oggi è tutta un’altra storia. In un stato suitably (opportunamente) indebolito, è il sogno di molti politici essere coinvolti nelle questioni della giustizia, in particolare la giustizia penale. La spiegazione è ovvia: sono rimaste così poche arene per l’esposizione dei politici come figure politiche, e per le linee di partito. Dove l’obiettivo principale è il denaro e l’idea dominante è che un’economia di mercato senza regole è la strada per raggiungerlo, in un tale sistema, il crimine diventa il campo più vasto per quello che rimane della politica. Qui diviene possibile presentarsi come persone meritevoli del voto, con valori comuni ad una popolazione di ricchi consumatori. Il crimine, o piuttosto la lotta contro il crimine, diviene indispensabile per creare legittimazione in, e per, uno stato opportunamente indebolito.
Il tuo ragionamento conduce a considerare il sistema penale, e i discorsi intorno ad esso, come una sorta di ‘termometro’ della democrazia; in questo caso, dovremmo domandarci se non rischiamo di prendere definitivamente l’influenza… In effetti, i sistemi penali hanno un significato profondo: ci danno molte informazioni sugli elementi fondamentali degli stati che rappresentano. Per capire la Germania nazista, l’Unione Sovietica o la Cina maoista niente è più utile dei loro apparati penali. Se io avessi il potere di un dittatore e avessi l’urgenza di costruire una situazione di crescita del crimine, probabilmente darei alle nostre società una forma molto vicina a quella che troviamo di già in molti stati moderni. Abbiamo costruito società in cui è facile, ed è anche l’interesse di molti, definire i "comportamenti non voluti" come atti criminali, piuttosto che come esempi di azioni cattive, folli, eccentriche, indecenti o semplicemente indesiderate. Abbiamo anche costruito le nostre società in modi che incoraggiano forme di comportamento indesiderate e al tempo stesso abbiamo ridotto le possibilità del controllo informale ...
Intendi il controllo sociale dal basso, da parte dei familiari, delle reti amicali e dei vicini, quello che ognuno di noi esercita quotidianamente sugli altri, semplicemente attraverso l’uso dei propri sensi? Esattamente. Questa situazione influenza ovviamente il sistema penitenziario nel mondo industrializzato e creerà certamente una situazione di accresciuta pressione all’interno di molte delle nostre società.
Possiamo quindi interpretare l’incremento della popolazione penitenziaria contemporaneamente come sintomo della crisi delle democrazie postindustriali e come elemento di accelerazione dell’ulteriore disgregazione del loro tessuto sociale… In pratica, possiamo valutare lo stato di salute di una democrazia in relazione al suo sistema penale e prendendo in considerazione almeno quattro elementi: il tipo di crimini contro cui lo stato agisce; le modalità con cui si decide quando bisogna imporre una pena, le caratteristiche dei soggetti che la subiscono (e in particolare quanto sono rappresentativi della popolazione in generale); il volume e le forme della punizione. La crescita marcata delle istituzioni penali rappresenta una seria minaccia alla coesione ed alla inclusione sociale. Finché i cosiddetti "devianti" e quelli il cui comportamento è visto come "criminale" rimangono pochi e lontani, la punizione potrebbe accrescere la coesione sociale di una data comunità. Ma, con una grande popolazione penitenziaria, la metafora che usiamo non è più quella della "devianza" ma piuttosto quella della "guerra". Una tale società tende a frammentarsi in ampi segmenti di popolazione, alcuni dei quali visti come potenzialmente pericolosi per l’ordine sociale. Allo stesso tempo, per i gruppi che vengono colpiti dalla punizione, le prigioni si trasformano da luoghi della vergogna in parti ordinarie della vita sociale e, come mostra l’esperienza statunitense, un’ampia popolazione detenuta significa anche un grande drenaggio di giovani maschi dai centri urbani e particolarmente dalle minoranze etniche che vi abitano.
Hai citato gli Usa, patria di una famigerata politica di "tolleranza zero" nei confronti del "crimine" e di un incremento senza precedenti del numero di persone detenute, provenienti in maggioranza dai gruppi sociali più poveri e di origine "afroamericana" e "latina". Il caso degli Stati Uniti, come d’altra parte quello della Russia, è emblematico. Nel mio libro discuto affinità e differenze tra i sistemi di questi due paesi che definisco "big incarcerators" (grandi imprigionatori). Qui vorrei richiamare solo un aspetto, e cioè il rischio che l’ipertrofia dei loro penitenziari conduca alla fondazione di un nuovo sistema di lavoro forzato. Il lavoro dei detenuti, che in passato veniva giustificato alla luce delle esigenze del trattamento e di riduzione delle spese di mantenimento delle carceri, assume sempre più i contorni di un vero e proprio business. Certamente è meglio che i detenuti mangino invece di morire di fame, ed è meglio che lavorino invece di dibattersi nella noia. Ma tra questi aspetti positivi si annida anche un pericolo: le autorità potrebbero trovare molto conveniente combinare il bisogno di controllo delle classi più povere con l’esigenza di manodopera poco costosa. E non si tratta di scenari fantascientifici: recentemente, alcune prigioni all’interno degli Usa hanno dimostrato di poter competere con i paesi del Sud del mondo nell’offerta di manodopera a basso costo all’industria statunitense. Se generalizzata, una tendenza di questo tipo potrebbe indurre gli stati nella tentazione di riproporre una sorta di revival dell’istituzione della schiavitù. E dal momento che la tendenza all’incremento dei detenuti è comune a molti paesi europei, si può pensare che gli Stati Uniti si trovino soltanto un po’ più avanti in questa evoluzione.
Il quadro che abbiamo fin qui delineato non è dei più incoraggianti, ti chiedo allora se è realistico immaginare un’inversione di tendenza e quali potrebbero essere i soggetti promotori di questa inversione e quali gli strumenti… Come ho già detto, le cifre riguardanti le prigioni non sono il prodotto del ‘crimine’ ma il risultato della cultura generale di un paese, frutto a sua volta delle interazioni, mai statiche, tra opinione pubblica, media e ceto politico. Le idee e le tendenze di cui ho parlato prima non rappresentano necessariamente un fronte compatto e diverse alternative si profilano all’orizzonte. Non credo che una posizione abolizionista nella sua forma pura, sia un obiettivo realistico, ma quello che potremmo definire ‘minimalismo’, mi pare invece una prospettiva concreta. A livello nazionale, paesi come il Canada riescono a tenere molto basso il numero dei detenuti grazie ad un forte sistema di welfare, dimostrando così che è possibile limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece di costruire uno stato penale. In molti altri paesi, USA compresi, si fanno spazio, anche se a fatica, discorsi e modalità alternative di risoluzione dei conflitti. Da qualche tempo dedico molta attenzione, e nel libro ne do conto, alle pratiche di giustizia restaurativa e di mediazione utilizzate da individui e organizzazioni in molte parti del mondo, sia per comporre micro-contrasti nati da singoli reati che nei casi molto più gravi e odiosi di conflitti etnici. Se adeguatamente sviluppate, queste forme di risoluzione dei conflitti sono strumenti utili per partire dall’analisi degli atti indesiderati e della loro storia, piuttosto che dal "crimine". In questa prospettiva, la soluzione penale diventa una delle possibilità in gioco, non più la sola.
Un’ultima questione. Se il crimine non esiste, che ce ne facciamo dei criminologi? Potenzialmente, i criminologi possono essere molto pericolosi. E non mi meraviglio del fatto che Foucault fosse molto scettico nei confronti della categoria. Paradossalmente, la criminologia oggi è intrappolata, oserei dire, dal proprio successo e dall’espandersi di un’industria del controllo che le richiede sempre più "servizi" e le offre sempre più finanziamenti per ricerca, formazione, conferenze. Alcuni di noi lavorano così vicini al potere ed alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della "erogazione della pena". D’altra parte la contiguità può diventare un’opportunità per capire meglio come vanno le cose e per svelare la natura del sistema. Il contatto ed alcune forme di cooperazione sono in certa misura inevitabili e funzionano in maniera biunivoca: col nostro lavoro, noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Ci avviciniamo reciprocamente. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Io stesso mi chiedo se questa cooperazione è giusta ma credo che non possa essere altrimenti: il sistema penale è il nostro maggiore oggetto di studio. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi. Può sembrare strano ma credo che, in alcuni casi, sarebbe necessario tornare ad un ideale di università come torre d’avorio, indipendente delle pressioni del mercato. Il problema è infatti quello dell’indipendenza, della presa di distanza: le voci di dissenso, sebbene molto diffuse anche in paesi come gli USA, non si fanno sentire abbastanza. Quello che diciamo suona così poco pratico, rispetto alla situazione attuale, che molti finiscono con l’imporsi una sorta di auto-censura rinunciando a dire, ad esempio, che costruire nuove prigioni non ha alcuna influenza non aumenta la sicurezza nelle nostre città. Ma non c’è solo questo. Ci sono crepe nel muro e l’egemonia del mercato non è totale. Nemmeno le istituzioni totali lo sono al cento per cento. Non dobbiamo dimenticare l’importanza delle azioni individuali nel ricostituire gli spazi di resistenza e le reti sociali. Ci sono sempre individui e piccole comunità che trovano forme creative di resistenza. A questi ostinati individui è dedicato il mio libro.
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