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Il vetro maledetto del 41 bis di Graziella Mascia
Liberazione, 22 ottobre 2002
Non hanno certo lo sguardo smarrito del detenuto straniero; non hanno sulle braccia i segni delle ferite che gli immigrati si procurano per attrarre l’attenzione, per dire a qualcuno che sono mesi che attendono di telefonare a casa, in terra africana, o che necessitano di un avvocato che non hanno mai visto, Loro, i detenuti del41 bis, sono in carcere da anni, non sono degli sprovveduti, ti guardano in modo deciso e consapevole, ma lo stesso chiedono aiuto, E la richiesta è una sola: "Non vogliamo che le nostre famiglie paghino per noi, non estendete a loro il nostro 41 bis, fate togliere quel vetro maledetto". Il carcere di Marino del Tronto di Ascoli Piceno, che visito con Lucio Manisco, presenta qualche caratteristica migliore di altre realtà. A Viterbo, ad esempio, chi sta in regime 41 bis sta sempre con la luce accesa: alle finestre delle celle, oltre le sbarre e le grate, ci sono delle fasce di lamiera o di vetro antiscasso attaccate una sopra all’altra, tipo tapparella (a Milano si chiamano "gelosie"). Qui ci sono solo le sbarre e una fitta rete e almeno i raggi del sole possono filtrare. Ma è l’unica differenza positiva, tutto il resto è stabilito per legge. Possono andare all’aria due ore al giorno, mentre l’ordinamento penitenziario prevede, per i detenuti "normali ", che ciò deve avvenire "almeno due ore al giorno"; in alternativa al passeggio nel cortile di cemento possono utilizzare una palestra in cui ci stanno una cyclette, un vogatore e dei pesi. È consentito loro di studiare, ma non possono frequentare corsi di formazione, e i libri che vengono loro inviati vengono conteggiati nei pacchi che mensilmente le famiglie possono inviare loro, per un peso massimo di 10 kg, mentre peri "normali" possono raggiungere i 20 kg. Di tutte queste restrizioni non si capisce il senso, visto che non sono motivabili con ragioni di sicurezza: la posta è tutta censurata, i pacchi scrupolosamente controllati e quindi non si vede la differenza tra i 10 e i 20 kg, come non si può spiegare il limite alle ore d’aria se non in una logica punitiva fine a se stessa. Non troviamo situazioni particolari di "malasanità", se non il caso di una persona che dovrebbe chiaramente stare fuori di lì e sottoposta a cure mediche psichiatriche, ma basterebbe leggere il rapporto dei radicali, Maurizio Turco e Sergio D’Elia, sul loro giro in tutte le sezioni a 41 bis, per sapere che il diritto alla salute per questi detenuti è optional. Ma, a loro dire, il dramma vero è rappresentato dai colloqui. Anziché uno a settimana, che è la regola generale, per il regime 41 bis ne è consentito uno al mese, di un’ora, sostituibile con una telefonata di 10 minuti (naturalmente registrata). I colloqui si svolgono in una stanza attraversata da un vetro divisorio fino al soffitto, telecamera, citofono per parlare con i familiari. Negli ultimi dieci minuti è consentito aprire una porta che accede a un’altra stanza in cui il vetro non arriva più fino al soffitto, e attraverso un bancone che consente il contatto fisico il detenuto può toccare i figli fino ai 12 anni. Dai 12 e un giorno, anche loro, si devono limitare alla sala colloqui tipo acquario. Normalmente questi colloqui con i figli piccoli finiscono in tragedia, perché i bambini devono andarci soli, hanno paura, piangono e sono numerosi i casi di bambini che denunciano vere e proprie crisi di nervi e devono ricorrere a cure mediche, a psichiatri: la maggior parte dei detenuti dichiara di rinunciare a vedere i figli piccoli. Se qualcuno poi diventa nonno il nipotino può essere visto in sostituzione ai familiari stretti, e quindi finisce che nessuno li incontra mai. Un paese civile dovrebbe chiedersi quale sia la finalità di queste torture, perché di torture si tratta. La Corte ha già avuto modo di dichiarare l’incompatibilità di questo regime con i principi fondamentali della Costituzione, sottolineando il carattere disumano di questo trattamento, ma nulla è successo da allora. Solo qualche tribunale di sorveglianza coraggioso ha imposto, in qualche realtà, che i colloqui fossero 4, ma questo è tutto. Anzi, questo regime, da sempre considerato eccezionale e provvisorio per combattere il fenomeno mafioso, con la legge appena votata al Senato viene reso definitivo ed esteso a scafisti e terroristi. Probabilmente l’opinione pubblica in generale considera necessario mantenere questa situazione per impedire che i mafiosi comunichino con gli esterni. Ma intanto ci si dovrebbe chiedere se, in questa logica, ha senso proporsi lo stesso obiettivo per gli scafisti: anche se il reato indicato dal codice è quello di tratta di esseri umani, riusciamo a immaginare che, nella maggior parte dei casi, chi organizza a pagamento i gommoni per gli immigrati (per quanto deprecabile) non è parte di organizzazioni criminali? Davvero vi sarebbe il problema di impedire loro di comunicare con altri all’esterno del carcere? E per quanto riguarda il reato di terrorismo, di quali terroristi parliamo? Finora nelle nostre galere non ci sono Bin Laden, ci stanno i terroristi di 20 anni fa, quelli per cui chiediamo provvedimenti di indulto, perché comunque appartenenti a una storia chiusa da tempo. Dove sarebbero i pericolosi terroristi cui bisogna impedire il collegamento esterno, visto che le indagini per gli assassini di Biagi e D’Antona brancolano nel buio? Ma voglio rischiare fino in fondo l’impopolarità ponendo il problema anche dei detenuti per mafia: la maggior parte di loro sta in 41 bis da anni, il provvedimento viene confermato di 6 mesi in 6 mesi sulla base delle motivazioni precedenti, senza che i ricorsi possano mai essere discussi. Chi ha mai verificato se la situazione è cambiata, se le ragioni che hanno giustificato il provvedimento sopravvivono? Il problema di fondo è allora tornare a discutere dei principi. Qualsiasi condanna, anche quella per il crimine più efferato, deve rivolgersi al detenuto per un suo recupero e reinserimento sociale: questo è il motivo per cui i paesi civili hanno cancellato la pena di morte e persino l’ergastolo viene considerato in contrasto con la necessità di offrire a tutti la possibilità di riscattarsi, secondo gli insegnamenti e i principi di Cesare Beccaria, su cui si è costruita la nostra civiltà giuridica. Ciò non cancella l’indignazione della società per determinati reati, soprattutto non può cancellare il dolore dei parenti delle vittime. Ma per questo vi è e vi deve essere una differenza tra i sentimenti umani e il dovere di uno Stato che deve fare giustizia. E la giustizia è la condanna morale e materiale, è la pena, ma mai questa deve assumere il carattere di vendetta. Per questo, dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ai trattati tra Stati, si sono estesi e fissati principi che dovrebbero costituire uno Stato di diritto valido per tutti i paesi e per tutte le persone. Per questo si chiede un Tribunale penale internazionale che giudichi la violazione di tali principi, per questo esiste la Corte europea di Strasburgo, per questo condanniamo quei regimi che ancora praticano la tortura o la pena di morte. Per questo sentiamo un profondo senso di impotenza e di vergogna per l’intero mondo cosiddetto civile al pensiero delle galere di Guantanamo, una base militare degli Stati Uniti, considerata dal governo americano esterna alla giurisdizione degli Usa e perciò territorio in cui le regole universalmente riconosciute non valgono più. Guantanamo è una vergogna dell’umanità, ma fa parte di quelle vergogne che si tende a digerire e giustificare dopo l’11 settembre. La lotta al terrorismo ormai è l’alibi che tutto consente, dalle guerre preventive alla violazione dei diritti umani. Capisco bene che il 41 bis non è Guantanamo, ma quando si abbandona la strada delle garanzie fondamentali, quando si accede alle logiche emergenziali, quando si chiude un occhio per una situazione eccezionale, quando si entra nella logica che il fine giustifica i mezzi, anche il fine è già cambiato. Così, si può non commuoversi visitando 66 persone in regime di 41 bis ad Ascoli Piceno, si può mettere una distanza razionale pensando alle responsabilità pesanti che si portano addosso, ai crimini insopportabili per cui sono condannati. Ma mai si deve ritenerli irrecuperabili, mai si deve accettare una logica vendicativa, altrimenti anche noi siamo già un’altra cosa e le istituzioni non sono più democratiche. La nostra visita si conclude nel settore giudiziario: ritroviamo gli sguardi smarriti degli immigrati, torniamo ai "normali" problemi dei detenuti, qui non ci chiedono di abbattere vetri divisori. Ma anche per loro c’è un doppio binario della giustizia: dopo la galera li aspetta l’espulsione e comunque non hanno una residenza, non hanno una famiglia, non hanno un lavoro all’esterno. Anche per loro i benefici della legge Gozzini non valgono. Paolo Persichetti ci accoglie con un sorriso: gli annunciamo la visita di una delegazione di parlamentari europei che seguono il suo caso, che considerano la sua estradizione un’operazione politica ingiustificata. Ci ringrazia per l’abbonamento a Liberazione, che ora riceve regolarmente: "È un bel giornale, dice, salutatemi Sandro Curzi e ringraziate Bertinotti e tutti i compagni per quello che fate per tutti noi". Purtroppo, quello che stiamo facendo per lui e tanti altri, comprese le proposte di indulto, potrebbero non servire a molto, se passerà alla Camera la legge sul 41 bis così com’è. Forse Paolo e tanti altri non saranno sottoposti a quel regime, ma per tutti loro, automaticamente, verranno aboliti gli attuali benefici di legge. D’altra parte, si sa, la legge è uguale per tutti, ma per qualcuno è più uguale!
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