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Finalmente si è ricominciato a parlare di carcere
Ma ancora troppo poco. A denti stretti. E
tutti pronti a tacere di nuovo, quando si spegneranno
di Paola Soligon e Ornella Favero
E’ dall’anno del Giubileo che la stampa nazionale e locale se ne occupava solo per darci i numeri: 56.000 – 58.000 detenuti, e poi le statistiche, le proporzioni: quanti i tossicodipendenti, quanti gli immigrati…; o tragicamente per annunciare il suicidio di chi non ce l’aveva fatta. Notizie allarmanti per chi si occupa di carcere e per tutte le persone coinvolte: i detenuti, i loro familiari, gli amici. Notizie che "fuori" per lo più interessavano ben pochi o pressoché nessuno.
Per noi che ci occupiamo da anni di informazione dal carcere il problema di sollevare l’attenzione esterna è un problema quotidiano. Come interessare la sociètà e i politici? Come accendere i riflettori su questo serbatoio umano di miseria e disagi che un muro di indifferenza tiene separato dal "resto del mondo"? Partecipare a dibattiti, organizzare occasioni di incontro dentro e fuori, incontrarsi con gli altri che da anni hanno gli stessi scopi. Scambiarsi informazioni, riflessioni, progetti. Invitare e sollecitare sulle questioni legate al carcere i politici, gli amministratori locali e nazionali, i giornalisti, gli scrittori. Collegarci dove e quando possibile con il resto del territorio. Cercare di trovare un varco per far arrivare le notizie . Farci sentire, vedere… far parlare di noi. E poi ancora la frustrazione, ma al tempo stesso la tenacia di continuare a sperimentare. Ora, grazie a una serie di occasioni contemporanee, e soprattutto alla pacifica protesta dei detenuti, anche se con poche, pochissime casse di risonanza, e grazie anche, perché non dirlo?, alle dichiarazioni del Ministro di Giustizia sulla sinistra fomentatrice di rivolte, qualche riflettore si è acceso, ahimè per spegnersi sempre troppo rapidamente. Ma è proprio in questa occasione, con le carceri "in movimento" e un po’ di attenzione da parte dei giornali e delle televisioni, che dovremmo trovare un terreno comune di discussione evitando i particolarismi del nostro agire. Senz’altro la piattaforma proposta dall’associazione Papillon, che ha avuto la capacità di dare ai detenuti la voglia e la forza di farsi sentire, ha molti punti sui quali siamo d’accordo e non pensiamo sia interesse di nessuno, in questo momento, fare le pulci punto per punto per suggerire piccoli cambiamenti o criticare le scelte non condivise. Ci interessa di più essere coesi e mantenere viva l’attenzione di chi agisce politicamente e della sociètà. Per cui ben vengano gli onorevoli che visitano le carceri, e altrettanto benaccetti sono i, purtroppo pochi, interventi di chi da anni fa informazione sul carcere. E ben venga chi ha cercato di far capire, a tutti quelli che in questi giorni parlano di Giustizia, che la soluzione non è più carcere per i potenti, ma più giustizia e meno carcere per tutti. Abbiamo sempre apprezzato e sollecitato l’auto-organizzazione di chi soffre di una condizione di disagio, ma se essa sconfina nell’isolamento e nell’auto-referenzialità, rischia di essere abbandonata a se stessa. Per cui ben vengano tutte le proposte e le iniziative comuni, senza particolarismi e auto-promozione. Noi da parte nostra dobbiamo cercare di interagire con tutti coloro che sul territorio si occupano dei temi del disagio in ogni sua forma: tossicodipendenze, stranieri, povertà sociale e culturale…e dobbiamo trovare luoghi di incontro, terreni di confronto per sollecitare iniziative comuni. La proposta è quella di aprire virtualmente le porte del carcere a chi da anni si muove sul terreno dei diritti universali e di cercare assieme quali possono essere gli obiettivi comuni. E’ per questo che, da quando siamo nati come giornale, e poi con il sito che ha allargato la nostra capacità di raggiungere il mondo esterno, ci muoviamo per uscire dall’isolamento, che caratterizza un po’ tutte le realtà che operano in carcere. Lo facciamo con i mezzi che abbiamo, consci dei nostri limiti, che sono un po’ quelli che richiama, ancora una volta, Adriano Sofri su Repubblica del 25 settembre a proposito dei giornali del carcere, che pure fanno apprezzabili sforzi per informare e far uscire le voci dei detenuti: l’autocensura, della quale cerchiamo da sempre di "liberarci", l’intempestività, perché non abbiamo la forza di essere presenti con la regolarità e la frequenza che sarebbero necessarie, e aggiungiamo la precarietà, perché molti giornali "escono" dalle carceri circondariali, dove c’è grande ricambio di detenuti e pochissima stabilità nelle attività che si possono organizzare. E’ per questo che, là dove la voce dei detenuti è più debole, dovrebbe essere più forte l’azione del volontariato per rendere il carcere più visibile all’esterno. Ma non succede sempre così, perché il volontariato penitenziario sconta forti ritardi su questo terreno: l’abitudine ad occuparsi dei problemi del singolo detenuto, più che dei "problemi dei detenuti"; la sottovalutazione del ruolo che può avere l’informazione in una realtà chiusa e isolata come il carcere; la difficoltà a lavorare insieme. Ma se non si vuole avere solo il ruolo di alleviare il disagio, "puntellando" così in qualche modo l’istituzione, bisogna darsi gli strumenti per unire le forze e contare di più, noi esterni che entriamo in carcere, per far contare di più chi il carcere lo vive, anzi lo subisce da detenuto. Dice Alessandro Margara, uno dei padri della Legge Gozzini: "Se l’area del carcere si identifica con l’area della precarietà sociale, non siamo più davanti a un carcere, ma a un campo di concentramento. Non siamo più davanti alla espiazione di una pena, ma ad una operazione di pulizia sociale". E’ per questo, per ostacolare questa tendenza a gettare in carcere tutto quello che dà fastidio fuori, che è fondamentale uscire dall’isolamento e accettare di collaborare con chiunque abbia voglia di impegnarsi perché il carcere sia più aperto e trasparente, e perché la città, che dovrebbe accoglierlo e invece lo respinge e lo nasconde, diventi invece un po’ meno ostile. Ci sembra allora fondamentale l’idea, sempre di Alessandro Margara, di lavorare a una Carta dei diritti degli esclusi e, per noi che ci occupiamo di carcere, dei diritti di una "categoria", quella dei detenuti, nella quale confluiscono un po’ tutti gli esclusi, i tossicodipendenti, gli immigrati, le persone che soffrono di un disagio psichico.
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