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Il super procuratore Vigna: per l’amor di Dio, non parliamo di scandali
GAZZETTA DEL SUD, 14 marzo 2002
Per Vigna, «la politica criminale è una cosa che ha scarsamente a che fare con l’etica. Il magistrato – spiega – deve verificare che il collaboratore abbia detto cose esatte, attraverso la ricerca degli elementi che ne confermano l’attendibilità e sottoponendolo ad interrogatori incrociati, come vuole la nostra Costituzione e la nostra legge processuale. Tutto finisce li. La loro utilità, lo ripeto, è non solo nella ricostruzione dei fatti passati commessi dalla mafia, ma anche quella di prevenire fatti criminali futuri». Gli fa eco Guido Lo Forte, procuratore aggiunto di Palermo e uno dei massimi esperti della lotta a Cosa Nostra.«C’è da considerare che senza il contributo determinanti di questi pentiti, noi, a distanza di 10 anni rischieremmo di trovarci di fronte ad uno degli ennesimi misteri insoluti della storia italiana». Anzi, il magistrato, «a fronte di valutazioni o riflessioni di carattere morale che sono proprie della coscienza di ciascuno», ha ricordato come «proprio i colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si proposero di individuare una strategia organica di attacco all’organizzazione mafiosa. Fecero prevalere, su ogni altra considerazione, una nitida razionalità e, fino a pochi giorni prima della loro morte, si batterono perché venisse varata una legge sui pentiti che loro stessi consideravano uno strumento risolutivo nella lotta alla mafia». Non solo, Guido Lo Forte sottolinea inoltre che «la legge italiana in vigore è una delle più rigorose nei confronti dei collaboratori di giustizia e che le decisioni adottate nelle corti di assise di Caltanissetta riguardano soltanto la custodia cautelare; ossia che le sentenze non sono ancora passate in giudicato e che la legge prevede che i collaboratori scontino una parte non indifferente delle condanne in carcere. Su questo punto la legge italiana e molto più rigida di quanto non siano altre leggi di altri Paesi. Faccio un solo esempio: negli Stati Uniti d’America ai pentiti viene riconosciuta l’immunità e non vengono perseguiti per i delitti commessi». Per Lo Forte, infine, se non ci fossero stati i pentiti di mafia in Italia «rischieremmo di trovarci di fronte ad una struttura di vertici di Cosa Nostra, ispirata ad una strategia terroristico-mafiosa saldamente in sella; rischieremmo di aver dovuto vedere passare sotto i nostri occhi altri innumerevoli omicidi e altre gravi stragi. Bisogna sempre considerare che i collaboratori di giustizia, sono fondamentali non solo per gli scenari passati, che rivelano, ma anche perché prevengono innumerevoli delitti futuri, consentendo l’arresto dei quadri intermedi e direttivi dell’associazione mafiosa, il sequestro di arsenali di armi ed esplosivi e la scoperta di vere e proprie centrali del crimine». «Con la nuova legge sui collaboratori di giustizia, in vigore dal settembre scorso, i killer di Giovanni Falcone sarebbero in carcere perché dovrebbero scontare almeno un quarto della pena», sottolinea Francesco Paolo Giordano, procuratore aggiunto di Caltanissetta, che ha coordinato l’ inchiesta sulla strage di Capaci. Il magistrato si stupisce per il clamore suscitato dalla notizia sulla «scarcerazione» di alcuni imputati, ex collaboratori di giustizia: «Sono in libertà da anni. Alcuni di loro, come Di Matteo e La Barbera, hanno cominciato a collaborare fin dal ‘93, un anno prima dell’ approvazione della legge sui collaboratori e sono stati scarcerati, in base ai benefici previsti dal legislatore, alla vigilia dell’ apertura del dibattimento. Altri, come Calogero Ganci e Giovambattista Ferrante, sono tornati in libertà nel novembre del ‘97. Per quanto riguarda infine Salvatore Cancemi, che si consegnò ai carabinieri nel ‘93, non mi risulta che sia mai stato in carcere: ha sempre usufruito delle misure alternative previste dalla legge, compreso l’ affidamento ai servizi sociali»
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